Il Rigoletto, trasmesso ier sera dal canale Arté dal Teatro di Dresda ed atteso dalla folla degli ammiratori di Flórez, quale ulteriore epifania dell’arte sempre in ascesa del divino Diego, è assolutamente imperdibile. Non per Flórez, ma per comprendere quale sinistro vento spiri da un grande teatro straniero che proponga una nuova edizione di un titolo italiano, con la presunzione che nuova produzione sia produzione grande e storica. E non solo per la compagnia di canto.
L’aspetto deleterio e più censurabile è proprio la arte visiva affidata ai signori Lehnhoff, Bauer e Walter. La corte è nera, la casetta di Rigoletto evoca luoghi di cura per malati mentali, la tavernaccia di Sparafucile un equivoco piano bar, tutti indossano capotti da Brecht, Gilda al terzo atto richiama Notorius fra nebbie da Fronte del porto, il Duca, al primo atto, imita maldestramente John Travolta, Rigoletto, nel corso del breve preludio, si trucca come Canio ( e allora tanto valeva interpolare, anche alla luce del gusto del title role “Vesti la giubba”) E per proseguire nell’autentica antologia di brutture mettiamoci le maschere zoomorfe alla festa, occhi cerchiati da eroinomani per spiegare che la corte è laida e, naturalmente Ceprano con maschera munita di protuberanze cheratinose, Giovanna con aria da Kapo, Gilda, dapprima bamboleggiante ed ingenua (con sospetto di ritardo mentale) e, dopo la conoscenza con il Duca, trasformata in ninfomane, tanto ninfomane da sognare l’ultimo amplesso con il Duca, nel corso del quartetto, sino a diventare una sorta di apparizione nel finale.
Il tutto a provare che fra romanticismo italiano e attuale cultura tedesca i rapporti sono improntati alla assoluta incomunicabilità. E siccome Brecht e l’espressionismo sono di un secolo successivi al nostro romanticismo, è semplice attribuire lo svarione.
Quanto all’esecuzione musicale certo l’attacco del preludio ci fa sentire la qualità del suono della Staatskapelle di Dresda, poi i semplici accompagnamenti al canto ispirano suoni e sonorità da organetto. Per giunta con alcuni tempi lentissimi alle riprese o tagli riaperti come “padre non più parole”, che, impietosi, esibiscono le difficoltà della compagnia di canto prescelta.
Quanto al protagonista, il signor Zeljco Lucic, siamo al solito erede della tradizione becera dei Gobbi e Bastianini, senza i loro mezzi in natura privilegiati, e i loro strascicamenti, portamenti, mezze voci abortite, acuti strozzati. E’ tempo perso armarsi di spartito e segnare i luoghi dove i difetti enunciati per sommi capi, compaiono. Possiamo solo sperare che i responsabili della programmazione dei nostri teatri, sempre molto sensibili ai venti germanici, non ci offrano in Verdi siffatto paradigma di malcanto e cattivo gusto.
Tale il padre, tale la figlia, Diana Damrau, che si vorrebbe accreditare quale erede della Gruberova e che, in primo luogo, scentra completamente la definizione del personaggio che non è un’oca e neppure una ninfomane. Si potrebbe anche passare sopra alla definizione sfalsata del personaggio se cantasse professionalmente. Purtroppo il sostegno e la proiezione del suono sono precari, staccati e picchettati imprecisi (esecuzione parziale nel senso che Verdi ne scrive quattro e ne sentiamo due o tre), la dinamica limitata (nei piani e pianissimi il suono va indietro) e l’unico sovracuto interpolato, ovvero il mi bemolle al duo della Vendetta, è uno strillo. E si che parliamo di una cantante che nel canto strumentale in zona acuta e sovracuta si dice abbia la propria parte migliore.
Quanto al sovracuto stridulo e teso il Duca è pari all’amata, con un suono bianchiccio, piccolo e stimbrato, che Flórez interpola alla fine della cabaletta Possente amor mi chiama. Il che non è affatto un problema. Il problema è ben altro, ossia l’inadeguatezza naturale dei tenori di mezzo carattere come gli Alva, i Benelli, i Giménez al canto verdiano. Non si tratta di note, che a Flórez non mancherebbero, ma della mancanza di cavata e ampiezza, accompagnati da un vibrato insistente e pronunciato, che impediscono la dinamica essenziale al canto d’amore del Duca, alla soddisfazione di un rapporto soddisfacente fra palcoscenico ed orchestra. Flórez risulta piatto, affaticato ed in debito di ossigeno nelle frasi lunghe richieste all’amoroso verdiano, sia sinceramente innamorato come Riccardo ed Ernani o perverso come il Duca. Amoroso verdiano che, scusate la ripetizione, non è il protagonista di un lavoro di mezzo carattere di Cimarosa e Paisiello o di un opéra comique di Adam o Boieldieu. Anche la sua “maniera” scenica è poco pertinente.
I due fratelli che lavorano al piano bar, salvo poi agire come tutti gli Sparafucile e Maddalena (Georg Zeppenfeld e Christa Mayer), che abitano la stamberga lungo il Mincio, sono un falso basso ed un falso mezzo soprano, oltre che i falsi ospiti, indispensabili al compimento della maledizione di Monterone.
L’aspetto deleterio e più censurabile è proprio la arte visiva affidata ai signori Lehnhoff, Bauer e Walter. La corte è nera, la casetta di Rigoletto evoca luoghi di cura per malati mentali, la tavernaccia di Sparafucile un equivoco piano bar, tutti indossano capotti da Brecht, Gilda al terzo atto richiama Notorius fra nebbie da Fronte del porto, il Duca, al primo atto, imita maldestramente John Travolta, Rigoletto, nel corso del breve preludio, si trucca come Canio ( e allora tanto valeva interpolare, anche alla luce del gusto del title role “Vesti la giubba”) E per proseguire nell’autentica antologia di brutture mettiamoci le maschere zoomorfe alla festa, occhi cerchiati da eroinomani per spiegare che la corte è laida e, naturalmente Ceprano con maschera munita di protuberanze cheratinose, Giovanna con aria da Kapo, Gilda, dapprima bamboleggiante ed ingenua (con sospetto di ritardo mentale) e, dopo la conoscenza con il Duca, trasformata in ninfomane, tanto ninfomane da sognare l’ultimo amplesso con il Duca, nel corso del quartetto, sino a diventare una sorta di apparizione nel finale.
Il tutto a provare che fra romanticismo italiano e attuale cultura tedesca i rapporti sono improntati alla assoluta incomunicabilità. E siccome Brecht e l’espressionismo sono di un secolo successivi al nostro romanticismo, è semplice attribuire lo svarione.
Quanto all’esecuzione musicale certo l’attacco del preludio ci fa sentire la qualità del suono della Staatskapelle di Dresda, poi i semplici accompagnamenti al canto ispirano suoni e sonorità da organetto. Per giunta con alcuni tempi lentissimi alle riprese o tagli riaperti come “padre non più parole”, che, impietosi, esibiscono le difficoltà della compagnia di canto prescelta.
Quanto al protagonista, il signor Zeljco Lucic, siamo al solito erede della tradizione becera dei Gobbi e Bastianini, senza i loro mezzi in natura privilegiati, e i loro strascicamenti, portamenti, mezze voci abortite, acuti strozzati. E’ tempo perso armarsi di spartito e segnare i luoghi dove i difetti enunciati per sommi capi, compaiono. Possiamo solo sperare che i responsabili della programmazione dei nostri teatri, sempre molto sensibili ai venti germanici, non ci offrano in Verdi siffatto paradigma di malcanto e cattivo gusto.
Tale il padre, tale la figlia, Diana Damrau, che si vorrebbe accreditare quale erede della Gruberova e che, in primo luogo, scentra completamente la definizione del personaggio che non è un’oca e neppure una ninfomane. Si potrebbe anche passare sopra alla definizione sfalsata del personaggio se cantasse professionalmente. Purtroppo il sostegno e la proiezione del suono sono precari, staccati e picchettati imprecisi (esecuzione parziale nel senso che Verdi ne scrive quattro e ne sentiamo due o tre), la dinamica limitata (nei piani e pianissimi il suono va indietro) e l’unico sovracuto interpolato, ovvero il mi bemolle al duo della Vendetta, è uno strillo. E si che parliamo di una cantante che nel canto strumentale in zona acuta e sovracuta si dice abbia la propria parte migliore.
Quanto al sovracuto stridulo e teso il Duca è pari all’amata, con un suono bianchiccio, piccolo e stimbrato, che Flórez interpola alla fine della cabaletta Possente amor mi chiama. Il che non è affatto un problema. Il problema è ben altro, ossia l’inadeguatezza naturale dei tenori di mezzo carattere come gli Alva, i Benelli, i Giménez al canto verdiano. Non si tratta di note, che a Flórez non mancherebbero, ma della mancanza di cavata e ampiezza, accompagnati da un vibrato insistente e pronunciato, che impediscono la dinamica essenziale al canto d’amore del Duca, alla soddisfazione di un rapporto soddisfacente fra palcoscenico ed orchestra. Flórez risulta piatto, affaticato ed in debito di ossigeno nelle frasi lunghe richieste all’amoroso verdiano, sia sinceramente innamorato come Riccardo ed Ernani o perverso come il Duca. Amoroso verdiano che, scusate la ripetizione, non è il protagonista di un lavoro di mezzo carattere di Cimarosa e Paisiello o di un opéra comique di Adam o Boieldieu. Anche la sua “maniera” scenica è poco pertinente.
I due fratelli che lavorano al piano bar, salvo poi agire come tutti gli Sparafucile e Maddalena (Georg Zeppenfeld e Christa Mayer), che abitano la stamberga lungo il Mincio, sono un falso basso ed un falso mezzo soprano, oltre che i falsi ospiti, indispensabili al compimento della maledizione di Monterone.
9 commenti:
C'è, ad opinione della Grisi, un cast vivente che sia oggi all'altezza del Rigoletto?
Credo ci siano possibili Gilde e Duchi ma non Rigoletti ( mi piaceva tantissimo Bruson per il gusto, ma anche la bella qualità vocale di Nucci.....ma oggi sono due signori OVER...).Nei giovani mipare ci siano problemi di voce ma anche, quando c'è la materia prima, di gusto.
Il signor Lucic mi è parso veramente ....barbaro nella concezione del canto di Rigoletto, e questo è il fatto gravissimo del nostro presente, ossia che pare abbiamo perso chiarezza su come si devono cantare questi ruoli.
Lei non pensa?
saluti
La barbara concezione del personaggio, e di conseguenza la resa musicale, vengono determinate in Germania dal regista, con il quale i cantanti provano almeno 5 settimane. Per questo non accuserei troppo il Lucic di non avere gusto: ha dimostrato di averne a sufficienza in altre produzioni meno tormentate (per esempio il Macbeth al MET). Se poi, oltre al regista, ci si mette anche un direttore che non aiuta (ma il più delle volte ostacola), allora più che di musica si parla di sopravvivenza.
Le assicuro che molte nuove leve hanno le idee piuttosto chiare, oltre a notevoli mezzi tecnici...ma poi lo scontro con le regie bislacche e gli pseudo-direttori d'opera rendono la vita molto più difficile di quello che si potrebbe evincere dall'ascolto.
Saluti
più passatista di donna giulia grisi credo che rigoletto in quanto ruolo protagonistico possa essere espresso solo dai 78 giri, ossia sino a Tagliabue. A tratti Protti, Mac Neil, Zanasi. poi.....
Domenico, so che non sarai d'accordo ma a tratti anche Warren ...e senza che tu pensi che l'età mi rincretinisce ....a tratti (pochi) anche Cappuccilli..
Felice2 ha detto delle cose sensatissime che io,vivendo in Germania,non posso che sottoscrivere.
In quanto alle intepretazioni di Rigoletto,io personalmente adoro Fischer Dieskau nella registrazione DG diretta da Kubelik.
Tra quelli da me ascoltati in teatro,oltre ai nomi citati,aggiungerei Ingwar Wixell.
Comunque,sono d´accordo con Domenico sul fatto che nessuno degli interpreti moderni del ruolo puó essere paragonato agli assi dell´epoca del 78 giri.
Ciao da Stoccarda
Beh... Addirittura dire che con Tagliabue finisce l'intrepretazione di Rigoletto mi sembra troppo. Bastianini ha CANTATO Rigoletto come nessun'altro; certo l'interpretazione non è raffinatissima, ma una voce come quella non credo si sia mai sentita, nè si sentirà più (acuti strabilianti, gravi sonori, centro rigoglioso e saldo, canto nobile e altero, forse a tratti un po' troppo riservato). Per non parlare della lettura che del personaggio fornisce il mio amato Gobbi, nonostante la voce stretta e spinta; potrà essere, a tratti, "da birignao", ma ci sono momenti grandissimi nel suo Rigoletto (l'alternanza di mezze voci e voce piena nella scena antecedente al Cortigiani, oppure i duetti con Gilda). Istruttivo può essere anche il Rigoletto di Cappuccilli, voce benedetta dal cielo. Mi piace meno Nucci (mi piace poco in generale), baritono che sembra eccedere troppo nella "maniera alla Cappuccilli" e non mi piace affatto Juan Pons, abbastanza retroboccale nell'emissione. Capisco che citare il nome di Tagliabue fa tanto "esperto dell'opera", ma resta che la sua prova nella Forza di Serafin-Callas, complice anche un Tucker abbastanza "imbambolato", è veramente deludente, improponibile qualsiasi confronto con l'immenso Cappuccilli della gloriosa produzione della Scala diretta da Patanè (uno spettacolo storico a dir poco! Una leggenda, nonostante il declino vocale della Caballè!!!!).
http://www.elpais.com/articulo/Revista/Verano/Juan/Diego/Florez/planta/Rigoletto/Real/elpepucul/20080802elprdv_4/Tes
Finalmente Flórez cancella il "Rigoletto" della prossima stagione a Madrid, ché ne diranno i panegiristi?
Aggiungo alla conversazione che MacNeil mi pare il migliore Rigoletto della storia del disco (la edizione di Danise non è completa e Stracciari gigiona troppo) e il più grande e autentico (di gran lunga) interprete della parte nel dopoguerra.
Celletti stesso parlò della edizione Decca come interpretazione "eccellentissima"
Saluti
Caro Gino,
è in arrivo il commento che tu chiedi.
a presto
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