Dopo aver ampiamente discusso della assai deludente stagione 2008/09 del nostro sedicente maggior teatro lirico, e fatte le debite considerazioni sui cartelloni e sulle proposte di altri importanti istituzioni teatrali della penisola (a cui presto si aggiungeranno i commenti agli appuntamenti estivi di Pesaro e alla stagione autunnale bergamasca), è ora il momento di allargare lo sguardo ad altre realtà europee ed internazionali, a partire da Parigi (Opéra National, Theatre des Champs-Elysées e Opéra-Comique) e da Londra (Royal Opera House).
E’ opportuna una premessa: dando solo una rapida lettura ai diversi cartelloni, non si può che rimanere favorevolmente colpiti dalla quantità e varietà dei titoli proposti. Certo il confronto con l’amara realtà italiana (di cui abbiamo dato altrove contezza) è sconsolante e ci mostra impietosamente come il nostro sia un problema ormai strutturale di incapacità non solo di scelta meramente musicale, ma anche di imbastire una qualsiasi politica culturale sensata, logica e concludente. Detto questo – e dopo essere passati ad una più approfondita lettura dei cast dichiarati – vien da dire “non è tutto oro quello che luccica”. Infatti, pur dando atto della grande ricchezza della proposta musicale, non si può che rilevare come l’impiego di certi cantanti, il continuo ricorrere di certi titoli e autori (che pare siano divenuti di moda), il confermarsi di certe scelte registiche (ormai rispondenti ad un esclusivo ed univoco approccio), mostrino i segni evidenti di un’omologazione di idee e contenuti meritevole di destare (o di acclarare) una concreta preoccupazione per il futuro prossimo del teatro lirico.
Prima di entrare nello specifico delle diverse stagioni però, è bene chiarire quali siano questi segni diffusi di evidente decadenza (comuni, pur con connotazioni differenti, a tutte le realtà teatrali italiane ed estere, non solo a quelle qui commentate). La questione può essere riassunta in pochi punti:
a) l’ormai preponderante importanza data all’allestimento scenico e alla firma del regista (tanto da essere, spesso, il primo nome che si incontra sulla locandina, appena dopo il titolo dell’opera e l’autore) a discapito di cantanti e direttore d’orchestra – fatto, questo, assai curioso, dal momento che pur sempre di opera lirica si tratta ed in cui i valori musicali dovrebbero essere preminenti;
b) l’utilizzo di cantanti inadeguati al ruolo (per carenze tecniche, per caratteristiche naturali o per sopravvenuti limiti d’età) che già hanno abbondantemente dimostrato come certi personaggi gli stiano o troppo stretti o troppo larghi, ma che si ostinano comunque a perpetuare scelte dissennate di repertorio – da un teatro all’altro, da un continente all’altro – che alla lunga non potranno che risolversi in un prematuro sfascio vocale;
c) la presenza sempre più ingombrante di una specie di marketing pubblicitario che – complici media e case di produzione – tende ad imporre il proprio prodotto a prescindere dalle reali attinenze vocali, sfruttando anche elementi extra musicali e costruendo successi a tavolino attraverso campagne stampa e uscite discografiche mirate;
d) l’imposizione da parte delle agenzie più potenti, non solo del divo o della diva di punta, ma dell’intero entourage (direttori d’orchestra, registi, partner, comprimari) quasi si trattasse di un unico pacchetto promozionale: se vuoi Tizio devi prendere pure Caio, Sempronio e Filano;
e) infine la diffusione ormai incontrollabile delle compagini di specialisti del barocco e delle prassi esecutive d’epoca, con i loro strumenti pseudo originali e i loro dogmi para filologici (di cui spesso ho parlato e su cui non mi soffermo). Con l’aggravante dell’invasione di repertori non propriamente attinenti all’oggetto della loro specializzazione, ma di cui ormai si sono già forzatamente, e quasi stabilmente, appropriati (Mozart) o di cui si stanno impunemente appropriando (Rossini, Beethoven, Donizetti, ma si può arrivare fino a Weber, Berlioz, Wagner, Bizet, Rimskij-Korsakov).
L’Opéra National di Parigi apre la stagione con l’Eugenio Onegin, ospitando i complessi del Bolshoi di Mosca (che passeranno pure, nel luglio del prossimo anno, alla Scala di Milano), e prosegue con un assai poco invitante Rigoletto affidato a Oren e ad un cast di scarso interesse (Juan Pons è il gobbo, Secco è il Duca e Syurina è Gilda). Dopo La Sposa Venduta di Smetana pure l’Opéra paga pegno alla “moda” di Janaceck: La Piccola Volpe Astuta e L’Affare Makropulos. C’è da dire che, perlomeno, la scelta del compositore ceco non è spalmata in un decennio come a Milano. Certo resta curioso il fatto della improvvisa diffusione di certe opere che spuntano identiche in diverse città europee. E se la circostanza sarebbe in qualche modo comprensibile qualora si utilizzassero gli stessi allestimenti o se si trattasse di coproduzioni internazionali (che avrebbero almeno il vantaggio di un abbattimento dei costi), diviene del tutto inspiegabile se si considera che ogni teatro presenta un suo proprio allestimento. A seguire Tristano e Isotta, affidato alla alterna bacchetta di Bychkov e all’ormai veterana Waltraud Meier (che nonostante gli evidenti problemi vocali replicherà pure alla Scala – in tal senso mi riferivo a scelte artistiche fatte senza tener conto della realtà e dei precedenti). Poi Il Flauto Magico (la cui unica ragion d’essere pare sia la messinscena curata dalla circense Fura dels Baus, che tanto piace all’intelligencija europea…e nostrana naturalmente), Fidelio con la Leonore della Denoke (cadendo come al solito nell’equivoco che vede nell’opera di Beethoven quasi un prototipo del dramma musicale, con una specie di valchiria ante litteram in un ruolo essenzialmente vocalistico – con l’aggravante che la Denoke “bazzica” principalmente ruoli la cui vocalità resta agli antipodi di quella di Leonore: oltre a Wagner e Janaceck penso a Wozzeck) e il Florestan di Kaufmann (con i soliti ed insormontabili problemi nell’aria), e La Lady Macbeth del Distretto di Mzensk. Dopo la parentesi contemporanea di Yvonne, di Philippe Boesmans, si passa alla Madama Butterfly con un cast di serie C (ma la star è ovviamente il regista – ormai divenuto il motivo essenziale dello spettacolo lirico – in questo caso il “geniale” Robert Wilson), un Idomeneo di pari livello e Werther: star della serata è Rolando Villazòn. E non credo vi sia da aggiungere altro. Dopo i “trionfi” scaligeri l’Opéra ha il “coraggio” – o meglio, la faccia tosta – di riproporre la Lady Macbeth della Urmana, ad ennesima dimostrazione di quanto la preparazione di un cantante e la sua inidoneità al ruolo (in questo caso conclamata) siano circostanze del tutto superflue nella scelta del medesimo. Auguro a Violeta che il pubblico parigino sia più indulgente o più distratto di quello milanese. Segue a cotanto Macbeth, un altro importante titolo verdiano che, a giudicare dal cast, potrebbe essere lo spettacolo più sballato della stagione parigina: Un Ballo in Maschera per le cure letali di Palumbo, con il Riccardo di Ramon Vargas (ruolo che nella sua sconsiderata conversione da interessante tenore adatto a certi ruoli di Rossini, Bellini e Donizetti a mediocre tenore verdiano, affrontò già, con risultati censurabili, a Firenze, e che ripeterà, imperturbabile, dopo Parigi, a Londra) e l’Amelia della Voigt: chi ha scelto gli interpreti probabilmente non ha la più pallida idea di cosa sia il canto verdiano. Ennesima conferma che le opere si allestiscono senza curarsi dei cantanti. Si torna a Puccini, con una Tosca degna da recita in piazza organizzata dalla pro loco di una qualsiasi cittadina della provincia lombarda. Fa sorridere leggere tra gli interpreti lo Scarpia di James Morris. A seguire Demofoonte di Jommelli, con l’Orchestra Cherubini diretta da Muti, che qui ritorna al suo repertorio più congeniale. Titolo indubbiamente interessante (anche se non ci è dato conoscere il cast) e che appartiene ad un’importantissima stagione dell’opera italiana (Jommelli fu uno dei più celebrati compositori della sua epoca) che proprio in Italia si vorrebbe venisse più degnamente celebrata, magari inserendo in cartellone qualcuno di quei tanti capolavori, in allestimenti ben studiati e preparati, piuttosto di relegarli – come avviene quasi sempre – in festival e rassegne estive, con cast più o meno volenterosi e orchestre raffazzonate all’ultimo momento. Ma ora in Italia si preferisce, all’opera italiana e napoletana, Britten o Janacek. Si chiude con Re Ruggero di Szymanowski.
Parigi però, non è solo l’Opéra. Il Theatre des Champs-Elysées presenta una stagione ricca di titoli, di per sé assai interessanti, incentrata sul repertorio settecentesco, sia in forma scenica che in veste concertante. Scorrendo il cartellone, però, si rileva come il teatro sia una sorta di “tempio” degli specialisti del barocco, più o meno integralisti e itransigenti. Inaugura l’Armide di Lully con i complessi de Les Arts Florissants diretti dal William Christie. Niente da dire. Più discutibile il secondo titolo: Così Fan Tutte, diretta dal barocchista Spinosi (che ha inciso diversi lavori vivaldiani). Il problema è il solito: l’assurda, ma ormai ineluttabile, barocchizzazione di Mozart. Spinosi si caratterizza per un approccio fatto di tempi veloci, contrasti esasperati, sovrabbondanza di ornamentazioni, evita certe asprezze sonore e l’aridità di molti suoi colleghi, ma resta comunque mortificante per il teatro mozartiano. Il cast poi, tra cui il Ferrando di Meli (che già ci ha lasciato non poco perplessi a Vienna e a Parma) è la diretta conseguenza di queste scelte estetiche. Stesso discorso per Le Nozze di Figaro: ancora un Mozart barocchizzato, questa volta per opera di Marc Minkowski e i suoi Musiciens du Louvre. Accanto a questi lavori, che vengono allestiti scenicamente e che presentano un buon numero di repliche, vi è un altro e parallelo cartellone di opere e musica vocale presentati in forma oratoriale: molti titoli e poche repliche. E direi anche scarsa fantasia se si inizia ancora con Mozart e nuovamente con Le Nozze di Figaro, ovviamente barocchizzate, anzi strabarocchizzate: se ne occupa Emmanuelle Haim con Le Concert d’Astrée, compagine di rara aridità musicale, perfettamente congeniale, peraltro, al livello della direzione (un mistero, per me, il successo di cui gode). A seguire il Gluck di Orphée et Eurydice e Anna Bolena. La curiosità è molta per quest’ultimo titolo: sia per le difficoltà della partitura (se eseguita integralmente, come sarebbe doveroso, anche se dopo la Norma bolognese – tagliata come usavasi negli anni ’50 – temo che anche qui Pidò opti per un lavoro di sartoria) sia per l’ombra ineluttabile di certi interpreti storici. A vestire i panni della regina (ritagliati dall’autore su misura per la Pasta) troviamo Ermonela Jaho, avvenente soprano albanese, che ha all’attivo diverse Violette e Mimì (tutte o quasi in secondo cast), poco altro (che spazia senza alcun criterio intelleggibile da Haendel a Rimskij-Korsakov, da Bellini a Mascagni) e un solo ruolo donizettiano serio, la Stuarda, che poco o nulla ha da spartire con Bolena. Resto perplesso. Addirittura esterrefatto, invece, mi lascia Percy: scritto per le siderali altezze della voce di Rubini, qui è affidato a quel Dario Schmunk che in Scala ha annaspato nel ruolo secondario di Leicester nella Maria Stuarda. C’è il forte sospetto di aggiustamenti radicali e di omissioni nelle (o delle) due arie. La stagione prosegue con oratori e musica vocale: Elias, La Creazione, due differenti edizioni del Messiah (entrambe baroccare), la Messa in Si minore e in Sol minore di Bach, le due Passioni (di cui quella secondo Matteo condotta – e immagino massacrata – da Malgoire), il Requiem di Mozart, lo Stabat Mater di Pergolesi (che schiera, ahimè, il controtenore Scholl come contralto), La Resurrezione (ancora la Haim…), Jephta, Athalia (diretta dal pesantissimo Bolton), Le Stagioni (Rousset), Laelio (Muti/Depardieu), Il Martirio di San Sebastiano (col sopravvalutatissimo Gatti) e Juditha Triumphans. Ma vi sono altri appuntamenti operistici. Alessandro e Tolomeo di Scarlatti, con i complessi di Curtis (in vista di una probabile uscita discografica), Ercole sul Termodonte (Fabio Biondi) e King Arthur. Infine alcuni titoli non barocchi o barocchizzati (almeno per ora, ma…mai dire mai): Il Cavaliere della Rosa con la Fleming (dirige Thielemann), Beatrice et Benedict diretto dal solito Davis ed infine L’Opera da Tre Soldi: Ian Bostridge è Macheath (e sicuramente il ruolo è molto più alla sua portata di Idomeneo).
Vale la pena infine, soffermarsi sulla stagione dell’Opéra-comique. Innanzitutto appare poco comprensibile la scelta di presentare accanto a titoli appartenenti al genere per cui quel teatro è stato fondato, lavori riconducibili ad altri mondi musicali e ad altre culture nazionali: che senso ha allestire lì due opere inglesi come Dido and Aeneas e Albert Herring di Britten o Zoroastre di Rameau (scritta per l’Académie royale de musique, istituzione la cui classica seriosità stride con le finalità proprie dell’Opéra-comique, nata proprio in contrasto e per reazione alla prima)? Più giusto, dunque, occuparsi degli altri titoli, rilevando, fin da subito, che purtroppo anche qui soffia irresistibile il vento baroccaro. Ben cinque, infatti, degli otto lavori presentati, si avvalgono di compagini di specialisti con strumenti pseudo originali. E se la circostanza può essere comprensibile per i già citati Zoroastre e Dido and Aeneas, non lo è più per Zampa di Herold e Fra Diavolo di Auber. Ma è addirittura una autentica sciocchezza l’utilizzo di orchestre di tal fatta per la Carmen. Zampa, che ha avuto la sua prima rappresentazione il 31 maggio del 1831, è diretta da William Christie con i suoi Les Arts Florissants: orchestra decisamente barocca che suona solitamente su copie di strumenti del ‘600 e ‘700, con organici ridotti e diapason abbassato. E magari pure con un bel fortepiano come continuo. Cosa c’entri tutto questo con la musica di Herold (che coniuga opera italiana, Rossini, alla leggerezza spumeggiante della musica francese) qualcuno dovrà pur spiegarlo! Peggio ancora per Fra Diavolo (datato 1830), eseguito dal Giardino Armonico, complesso italiano avvezzo soprattutto a suonare Vivaldi (ma anche Albinoni, Marcello, Bach, Fux e pure Monteverdi). Mi chiedo se utilizzeranno gli stessi strumenti che impiegano per eseguire L’Estro Armonico. Auber fu tra i fondatori del grand-opéra francese, aprendo la strada a certo romanticismo musicale, il suo Fra Diavolo fu una delle opere più rappresentate dell’800, soprattutto nella revisione che ne fece l’autore nel 1857 (in italiano e con i recitativi a sostituire i dialoghi parlati). Qui è affidata ad esecutori che hanno più familiarità con il barocco veneziano che con l’opera italiana e francese tra Rossini, Donizetti e Meyerbeer (ed è questione di approccio e sensibilità, prima ancora che di filologia o prassi esecutiva). Semplicemente assurdo. Ma al peggio non c’è fine: dopo la contemporanea Lady Sarashina e Le Roi malgré lui di Chabrier, si arriva all’opera che chiude la stagione, Carmen di Bizet. Titolo tra i più popolari dell’intero teatro lirico, ebbe la sua prima – e travagliata – rappresentazione il 3 marzo del 1875, proprio sul palcoscenico della stessa Opéra-comique. Nel 1875 Wagner aveva già quasi esaurito la sua carriera musicale (Parsifal, già in lavorazione, sarebbe stato rappresentato solo 7 anni dopo), Verdi era reduce dal successo di Aida, Brahms e Bruckner erano in piena attività, Richard Strauss aveva 11 anni e Schoenberg era appena nato. Eppure, l’Opéra-comique affida una partitura nata nell’ultimo quarto del XIX secolo a Sir John Eliot Gardiner (che nella stagione in corso si è occupato dell’Etoile di Chabrier, anno 1887, con i medesimi complessi) e alla sua Orchestre Révolutionnaire et Romantique, con tutto quel che comporta in termini di diapason, strumenti impiegati, organico, tempi etc.. e soprattutto, ribadisco, di approccio interpretativo. Appare chiaro a chiunque come un’opera come Carmen non possa assolutamente essere ricondotta né al romanticismo né, tanto meno, al classicismo post Rivoluzione Francese (da complessi, poi, che hanno costruito la propria carriera – e quindi il proprio modus di rapportarsi alla partitura – sulle esecuzioni filologiche di Monteverdi, Haendel, Bach: con nome differente, English Baroque Soloists e con un ricambio di strumenti, certo, ma le mani che li suonano restano le stesse). Ma tant’è! Del pari censurabile è la scelta della protagonista: Anna Caterina Antonacci. Comunque molti di questi eventi (soprattutto quelli del Theatre des Champs-Elysées e dell’Opera-comique) verranno trasmessi radiofonicamente (e alcuni – credo, almeno guardando le composizioni dei cast – verranno prodotti discograficamente). Così da non correre il rischio di perderli. Se si oltrepassa la Manica i problemi rimangono gli stessi, anzi si aggravano. Se Atene piange, Sparta non ride. La stagione della Royal Opera House presenta ben 27 titoli (di cui due abbinati in un solo spettacolo, un recital vocale e due concerti di musica sacra). Anche qui, come per l’Opéra, c’è molta varietà e ricchezza, tuttavia, dopo l’iniziale entusiasmo nel leggere l’elenco delle opere rappresentate, subentra la delusione (e in taluni casi lo sconforto) per le discutibilissime scelte di cast. Si apre con Don Giovanni: sul podio si alternano Mackerras e l’onnipresente Pappano (una sorta di Muti del Covent Garden), per il resto nulla di sconvolgente: il seduttore dell’algido Keenlyside, il Leporello di Regazzo e poi la Ciofi/Donn’Anna e la Di Donato/Donna Elvira, il linfatico Bostridge, che contribuirà nella tradizione anglosassone dei Don Ottavio femminei ed evanescenti, il Masetto dell’inudibile Esposito e la Zerlina di una debuttante. A seguire quello che sarà sicuramente uno spettacolo “indimenticabile”: La Fanciulla del West. Opera molto difficile (soprattutto per l’orchestra e il direttore – Mitropoulos ne eseguiva l’atto I, senza cantanti, nei concerti sinfonici) affidata alla bacchetta di Pappano (of course) e con un cast da “brividi”: la semi debuttante Eva-Maria Westbroek (il cui sito internet si apre su di un’immagine di lei nell’atto di sbraitare: speriamo che ciò non voglia essere un’esemplificazione del suo stile di canto...), Josè Cura (sul quale, invece, non si nutre alcun dubbio circa le urla che molti si ostinano a considerare tecnica vocale) e, dulcis (?) in fundo, Silvano Carroli. Null’altro da aggiungere. Si prosegue con La Calisto (diretta da Bolton con cast baroccaro e vasto assortimento di controtenori), una Boheme in salsa coreana (visti i protagonisti), e Matilde di Shabran (ennesimo trionfo annunciato per il divo Florez). E poi Elektra, War Requiem e Les Contes d’Hoffmann: ancora Pappano. Star della serata Villazòn. Anche qui, niente da aggiungere: basta la parola. Dopo Hansel und Gretel è il turno di Turandot, probabile palcoscenico del duello all’ultimo strillo tra Cura e Botha, che si alterneranno nel ruolo di Calaf. “Arricchisce” il cast un redivivo Paata Burchuladze. A seguire: The Beggar’s Opera, Die Tote Stadt e Rigoletto: con Nucci, Syurina e Francesco Meli (il cui continuo saltare da un repertorio all’altro, senza cognizione di causa e con risultati sempre deludenti, dal Rossini serio a Mozart e Donizetti, fa sorgere più di un dubbio sulla lungimiranza delle sue scelte, lanciando un’ombra inquietante sul prosieguo della sua carriera, visti i notevoli problemi vocali, che paiono acuirsi e aggravarsi opera dopo opera). Dopo L’Olandese Volante è il turno di Capuleti e Montecchi: Netrebko, Garanca e Schmunk, ovvero “il belcanto, questo sconosciuto”. Ma il successo è comunque garantito. Segue il Requiem verdiano condotto da Pappano (davvero un uomo per tutte le stagioni) e il dittico barocc(ar)o Dido & Aeneas/Acis & Galatea: dirige Christopher Hogwood. Verdi ritorna con Trovatore, con il metronomico Rizzi e Roberto Alagna (ci si augura sia in condizioni più decenti rispetto all’Orfeo bolognese), Sondra Radvanovsky e Dmitri Hvorostovsky. Ancora Wagner con Lohengrin (protagonista Botha) e poi L’Elisir d’Amore diretta dal vetero baroccaro Hickox. Dopo Donizetti, Lulu, dirige ancora Pappano. Nome di cartello Jennifer Larmore: non male per chi si ritiene cantante rossiniana, sbarcare nella dodecafonia. Per lo meno in Berg non ci sono agilità da pasticciare con la gola... Di nuovo Verdi con Traviata (protagonista la Fleming e il solito Pappano) e Un Ballo in Maschera (ancora Vargas nel ruolo di Riccardo). Il 24 giugno serata di gala: Rolando Villazòn in concerto, accompagnato da Pappano, programma da definire. Pappano ancora con Il Barbiere di Siviglia (Florez, Di Donato e l’improbabile Figaro di Keenlyside) e si chiude con Tosca. God save the Queen...
Gli ascolti
V. Bellini - I Capuleti e i Montecchi
Atto I: Eccomi in lieta vesta... O quante volte - Renata Scotto
G. Donizetti - Anna Bolena
Atto II: Coppia iniqua - Joan Sutherland
G. Bizet - Carmen
Atto III: Mêlons! Coupons! - Teresa Berganza, Nan Christie & Alicia Nafé
Atto IV: Entr'acte - Dimitri Mitropoulos
R. Strauss - Elektra
Atto unico: Ich kann nicht sitzen und ins Dunkel starren - Ljuba Welitsch (direttore: Sir Thomas Beecham)
R. Strauss - Der Rosenkavalier
Atto III: Marie Theres'! ... Hab' mir's gelobt - Marilyn Horne, Frederica Von Stade & Reri Grist
G. Puccini - Turandot
Atto III: Tu che di gel sei cinta - Leontyne Price
E’ opportuna una premessa: dando solo una rapida lettura ai diversi cartelloni, non si può che rimanere favorevolmente colpiti dalla quantità e varietà dei titoli proposti. Certo il confronto con l’amara realtà italiana (di cui abbiamo dato altrove contezza) è sconsolante e ci mostra impietosamente come il nostro sia un problema ormai strutturale di incapacità non solo di scelta meramente musicale, ma anche di imbastire una qualsiasi politica culturale sensata, logica e concludente. Detto questo – e dopo essere passati ad una più approfondita lettura dei cast dichiarati – vien da dire “non è tutto oro quello che luccica”. Infatti, pur dando atto della grande ricchezza della proposta musicale, non si può che rilevare come l’impiego di certi cantanti, il continuo ricorrere di certi titoli e autori (che pare siano divenuti di moda), il confermarsi di certe scelte registiche (ormai rispondenti ad un esclusivo ed univoco approccio), mostrino i segni evidenti di un’omologazione di idee e contenuti meritevole di destare (o di acclarare) una concreta preoccupazione per il futuro prossimo del teatro lirico.
Prima di entrare nello specifico delle diverse stagioni però, è bene chiarire quali siano questi segni diffusi di evidente decadenza (comuni, pur con connotazioni differenti, a tutte le realtà teatrali italiane ed estere, non solo a quelle qui commentate). La questione può essere riassunta in pochi punti:
a) l’ormai preponderante importanza data all’allestimento scenico e alla firma del regista (tanto da essere, spesso, il primo nome che si incontra sulla locandina, appena dopo il titolo dell’opera e l’autore) a discapito di cantanti e direttore d’orchestra – fatto, questo, assai curioso, dal momento che pur sempre di opera lirica si tratta ed in cui i valori musicali dovrebbero essere preminenti;
b) l’utilizzo di cantanti inadeguati al ruolo (per carenze tecniche, per caratteristiche naturali o per sopravvenuti limiti d’età) che già hanno abbondantemente dimostrato come certi personaggi gli stiano o troppo stretti o troppo larghi, ma che si ostinano comunque a perpetuare scelte dissennate di repertorio – da un teatro all’altro, da un continente all’altro – che alla lunga non potranno che risolversi in un prematuro sfascio vocale;
c) la presenza sempre più ingombrante di una specie di marketing pubblicitario che – complici media e case di produzione – tende ad imporre il proprio prodotto a prescindere dalle reali attinenze vocali, sfruttando anche elementi extra musicali e costruendo successi a tavolino attraverso campagne stampa e uscite discografiche mirate;
d) l’imposizione da parte delle agenzie più potenti, non solo del divo o della diva di punta, ma dell’intero entourage (direttori d’orchestra, registi, partner, comprimari) quasi si trattasse di un unico pacchetto promozionale: se vuoi Tizio devi prendere pure Caio, Sempronio e Filano;
e) infine la diffusione ormai incontrollabile delle compagini di specialisti del barocco e delle prassi esecutive d’epoca, con i loro strumenti pseudo originali e i loro dogmi para filologici (di cui spesso ho parlato e su cui non mi soffermo). Con l’aggravante dell’invasione di repertori non propriamente attinenti all’oggetto della loro specializzazione, ma di cui ormai si sono già forzatamente, e quasi stabilmente, appropriati (Mozart) o di cui si stanno impunemente appropriando (Rossini, Beethoven, Donizetti, ma si può arrivare fino a Weber, Berlioz, Wagner, Bizet, Rimskij-Korsakov).
L’Opéra National di Parigi apre la stagione con l’Eugenio Onegin, ospitando i complessi del Bolshoi di Mosca (che passeranno pure, nel luglio del prossimo anno, alla Scala di Milano), e prosegue con un assai poco invitante Rigoletto affidato a Oren e ad un cast di scarso interesse (Juan Pons è il gobbo, Secco è il Duca e Syurina è Gilda). Dopo La Sposa Venduta di Smetana pure l’Opéra paga pegno alla “moda” di Janaceck: La Piccola Volpe Astuta e L’Affare Makropulos. C’è da dire che, perlomeno, la scelta del compositore ceco non è spalmata in un decennio come a Milano. Certo resta curioso il fatto della improvvisa diffusione di certe opere che spuntano identiche in diverse città europee. E se la circostanza sarebbe in qualche modo comprensibile qualora si utilizzassero gli stessi allestimenti o se si trattasse di coproduzioni internazionali (che avrebbero almeno il vantaggio di un abbattimento dei costi), diviene del tutto inspiegabile se si considera che ogni teatro presenta un suo proprio allestimento. A seguire Tristano e Isotta, affidato alla alterna bacchetta di Bychkov e all’ormai veterana Waltraud Meier (che nonostante gli evidenti problemi vocali replicherà pure alla Scala – in tal senso mi riferivo a scelte artistiche fatte senza tener conto della realtà e dei precedenti). Poi Il Flauto Magico (la cui unica ragion d’essere pare sia la messinscena curata dalla circense Fura dels Baus, che tanto piace all’intelligencija europea…e nostrana naturalmente), Fidelio con la Leonore della Denoke (cadendo come al solito nell’equivoco che vede nell’opera di Beethoven quasi un prototipo del dramma musicale, con una specie di valchiria ante litteram in un ruolo essenzialmente vocalistico – con l’aggravante che la Denoke “bazzica” principalmente ruoli la cui vocalità resta agli antipodi di quella di Leonore: oltre a Wagner e Janaceck penso a Wozzeck) e il Florestan di Kaufmann (con i soliti ed insormontabili problemi nell’aria), e La Lady Macbeth del Distretto di Mzensk. Dopo la parentesi contemporanea di Yvonne, di Philippe Boesmans, si passa alla Madama Butterfly con un cast di serie C (ma la star è ovviamente il regista – ormai divenuto il motivo essenziale dello spettacolo lirico – in questo caso il “geniale” Robert Wilson), un Idomeneo di pari livello e Werther: star della serata è Rolando Villazòn. E non credo vi sia da aggiungere altro. Dopo i “trionfi” scaligeri l’Opéra ha il “coraggio” – o meglio, la faccia tosta – di riproporre la Lady Macbeth della Urmana, ad ennesima dimostrazione di quanto la preparazione di un cantante e la sua inidoneità al ruolo (in questo caso conclamata) siano circostanze del tutto superflue nella scelta del medesimo. Auguro a Violeta che il pubblico parigino sia più indulgente o più distratto di quello milanese. Segue a cotanto Macbeth, un altro importante titolo verdiano che, a giudicare dal cast, potrebbe essere lo spettacolo più sballato della stagione parigina: Un Ballo in Maschera per le cure letali di Palumbo, con il Riccardo di Ramon Vargas (ruolo che nella sua sconsiderata conversione da interessante tenore adatto a certi ruoli di Rossini, Bellini e Donizetti a mediocre tenore verdiano, affrontò già, con risultati censurabili, a Firenze, e che ripeterà, imperturbabile, dopo Parigi, a Londra) e l’Amelia della Voigt: chi ha scelto gli interpreti probabilmente non ha la più pallida idea di cosa sia il canto verdiano. Ennesima conferma che le opere si allestiscono senza curarsi dei cantanti. Si torna a Puccini, con una Tosca degna da recita in piazza organizzata dalla pro loco di una qualsiasi cittadina della provincia lombarda. Fa sorridere leggere tra gli interpreti lo Scarpia di James Morris. A seguire Demofoonte di Jommelli, con l’Orchestra Cherubini diretta da Muti, che qui ritorna al suo repertorio più congeniale. Titolo indubbiamente interessante (anche se non ci è dato conoscere il cast) e che appartiene ad un’importantissima stagione dell’opera italiana (Jommelli fu uno dei più celebrati compositori della sua epoca) che proprio in Italia si vorrebbe venisse più degnamente celebrata, magari inserendo in cartellone qualcuno di quei tanti capolavori, in allestimenti ben studiati e preparati, piuttosto di relegarli – come avviene quasi sempre – in festival e rassegne estive, con cast più o meno volenterosi e orchestre raffazzonate all’ultimo momento. Ma ora in Italia si preferisce, all’opera italiana e napoletana, Britten o Janacek. Si chiude con Re Ruggero di Szymanowski.
Parigi però, non è solo l’Opéra. Il Theatre des Champs-Elysées presenta una stagione ricca di titoli, di per sé assai interessanti, incentrata sul repertorio settecentesco, sia in forma scenica che in veste concertante. Scorrendo il cartellone, però, si rileva come il teatro sia una sorta di “tempio” degli specialisti del barocco, più o meno integralisti e itransigenti. Inaugura l’Armide di Lully con i complessi de Les Arts Florissants diretti dal William Christie. Niente da dire. Più discutibile il secondo titolo: Così Fan Tutte, diretta dal barocchista Spinosi (che ha inciso diversi lavori vivaldiani). Il problema è il solito: l’assurda, ma ormai ineluttabile, barocchizzazione di Mozart. Spinosi si caratterizza per un approccio fatto di tempi veloci, contrasti esasperati, sovrabbondanza di ornamentazioni, evita certe asprezze sonore e l’aridità di molti suoi colleghi, ma resta comunque mortificante per il teatro mozartiano. Il cast poi, tra cui il Ferrando di Meli (che già ci ha lasciato non poco perplessi a Vienna e a Parma) è la diretta conseguenza di queste scelte estetiche. Stesso discorso per Le Nozze di Figaro: ancora un Mozart barocchizzato, questa volta per opera di Marc Minkowski e i suoi Musiciens du Louvre. Accanto a questi lavori, che vengono allestiti scenicamente e che presentano un buon numero di repliche, vi è un altro e parallelo cartellone di opere e musica vocale presentati in forma oratoriale: molti titoli e poche repliche. E direi anche scarsa fantasia se si inizia ancora con Mozart e nuovamente con Le Nozze di Figaro, ovviamente barocchizzate, anzi strabarocchizzate: se ne occupa Emmanuelle Haim con Le Concert d’Astrée, compagine di rara aridità musicale, perfettamente congeniale, peraltro, al livello della direzione (un mistero, per me, il successo di cui gode). A seguire il Gluck di Orphée et Eurydice e Anna Bolena. La curiosità è molta per quest’ultimo titolo: sia per le difficoltà della partitura (se eseguita integralmente, come sarebbe doveroso, anche se dopo la Norma bolognese – tagliata come usavasi negli anni ’50 – temo che anche qui Pidò opti per un lavoro di sartoria) sia per l’ombra ineluttabile di certi interpreti storici. A vestire i panni della regina (ritagliati dall’autore su misura per la Pasta) troviamo Ermonela Jaho, avvenente soprano albanese, che ha all’attivo diverse Violette e Mimì (tutte o quasi in secondo cast), poco altro (che spazia senza alcun criterio intelleggibile da Haendel a Rimskij-Korsakov, da Bellini a Mascagni) e un solo ruolo donizettiano serio, la Stuarda, che poco o nulla ha da spartire con Bolena. Resto perplesso. Addirittura esterrefatto, invece, mi lascia Percy: scritto per le siderali altezze della voce di Rubini, qui è affidato a quel Dario Schmunk che in Scala ha annaspato nel ruolo secondario di Leicester nella Maria Stuarda. C’è il forte sospetto di aggiustamenti radicali e di omissioni nelle (o delle) due arie. La stagione prosegue con oratori e musica vocale: Elias, La Creazione, due differenti edizioni del Messiah (entrambe baroccare), la Messa in Si minore e in Sol minore di Bach, le due Passioni (di cui quella secondo Matteo condotta – e immagino massacrata – da Malgoire), il Requiem di Mozart, lo Stabat Mater di Pergolesi (che schiera, ahimè, il controtenore Scholl come contralto), La Resurrezione (ancora la Haim…), Jephta, Athalia (diretta dal pesantissimo Bolton), Le Stagioni (Rousset), Laelio (Muti/Depardieu), Il Martirio di San Sebastiano (col sopravvalutatissimo Gatti) e Juditha Triumphans. Ma vi sono altri appuntamenti operistici. Alessandro e Tolomeo di Scarlatti, con i complessi di Curtis (in vista di una probabile uscita discografica), Ercole sul Termodonte (Fabio Biondi) e King Arthur. Infine alcuni titoli non barocchi o barocchizzati (almeno per ora, ma…mai dire mai): Il Cavaliere della Rosa con la Fleming (dirige Thielemann), Beatrice et Benedict diretto dal solito Davis ed infine L’Opera da Tre Soldi: Ian Bostridge è Macheath (e sicuramente il ruolo è molto più alla sua portata di Idomeneo).
Vale la pena infine, soffermarsi sulla stagione dell’Opéra-comique. Innanzitutto appare poco comprensibile la scelta di presentare accanto a titoli appartenenti al genere per cui quel teatro è stato fondato, lavori riconducibili ad altri mondi musicali e ad altre culture nazionali: che senso ha allestire lì due opere inglesi come Dido and Aeneas e Albert Herring di Britten o Zoroastre di Rameau (scritta per l’Académie royale de musique, istituzione la cui classica seriosità stride con le finalità proprie dell’Opéra-comique, nata proprio in contrasto e per reazione alla prima)? Più giusto, dunque, occuparsi degli altri titoli, rilevando, fin da subito, che purtroppo anche qui soffia irresistibile il vento baroccaro. Ben cinque, infatti, degli otto lavori presentati, si avvalgono di compagini di specialisti con strumenti pseudo originali. E se la circostanza può essere comprensibile per i già citati Zoroastre e Dido and Aeneas, non lo è più per Zampa di Herold e Fra Diavolo di Auber. Ma è addirittura una autentica sciocchezza l’utilizzo di orchestre di tal fatta per la Carmen. Zampa, che ha avuto la sua prima rappresentazione il 31 maggio del 1831, è diretta da William Christie con i suoi Les Arts Florissants: orchestra decisamente barocca che suona solitamente su copie di strumenti del ‘600 e ‘700, con organici ridotti e diapason abbassato. E magari pure con un bel fortepiano come continuo. Cosa c’entri tutto questo con la musica di Herold (che coniuga opera italiana, Rossini, alla leggerezza spumeggiante della musica francese) qualcuno dovrà pur spiegarlo! Peggio ancora per Fra Diavolo (datato 1830), eseguito dal Giardino Armonico, complesso italiano avvezzo soprattutto a suonare Vivaldi (ma anche Albinoni, Marcello, Bach, Fux e pure Monteverdi). Mi chiedo se utilizzeranno gli stessi strumenti che impiegano per eseguire L’Estro Armonico. Auber fu tra i fondatori del grand-opéra francese, aprendo la strada a certo romanticismo musicale, il suo Fra Diavolo fu una delle opere più rappresentate dell’800, soprattutto nella revisione che ne fece l’autore nel 1857 (in italiano e con i recitativi a sostituire i dialoghi parlati). Qui è affidata ad esecutori che hanno più familiarità con il barocco veneziano che con l’opera italiana e francese tra Rossini, Donizetti e Meyerbeer (ed è questione di approccio e sensibilità, prima ancora che di filologia o prassi esecutiva). Semplicemente assurdo. Ma al peggio non c’è fine: dopo la contemporanea Lady Sarashina e Le Roi malgré lui di Chabrier, si arriva all’opera che chiude la stagione, Carmen di Bizet. Titolo tra i più popolari dell’intero teatro lirico, ebbe la sua prima – e travagliata – rappresentazione il 3 marzo del 1875, proprio sul palcoscenico della stessa Opéra-comique. Nel 1875 Wagner aveva già quasi esaurito la sua carriera musicale (Parsifal, già in lavorazione, sarebbe stato rappresentato solo 7 anni dopo), Verdi era reduce dal successo di Aida, Brahms e Bruckner erano in piena attività, Richard Strauss aveva 11 anni e Schoenberg era appena nato. Eppure, l’Opéra-comique affida una partitura nata nell’ultimo quarto del XIX secolo a Sir John Eliot Gardiner (che nella stagione in corso si è occupato dell’Etoile di Chabrier, anno 1887, con i medesimi complessi) e alla sua Orchestre Révolutionnaire et Romantique, con tutto quel che comporta in termini di diapason, strumenti impiegati, organico, tempi etc.. e soprattutto, ribadisco, di approccio interpretativo. Appare chiaro a chiunque come un’opera come Carmen non possa assolutamente essere ricondotta né al romanticismo né, tanto meno, al classicismo post Rivoluzione Francese (da complessi, poi, che hanno costruito la propria carriera – e quindi il proprio modus di rapportarsi alla partitura – sulle esecuzioni filologiche di Monteverdi, Haendel, Bach: con nome differente, English Baroque Soloists e con un ricambio di strumenti, certo, ma le mani che li suonano restano le stesse). Ma tant’è! Del pari censurabile è la scelta della protagonista: Anna Caterina Antonacci. Comunque molti di questi eventi (soprattutto quelli del Theatre des Champs-Elysées e dell’Opera-comique) verranno trasmessi radiofonicamente (e alcuni – credo, almeno guardando le composizioni dei cast – verranno prodotti discograficamente). Così da non correre il rischio di perderli. Se si oltrepassa la Manica i problemi rimangono gli stessi, anzi si aggravano. Se Atene piange, Sparta non ride. La stagione della Royal Opera House presenta ben 27 titoli (di cui due abbinati in un solo spettacolo, un recital vocale e due concerti di musica sacra). Anche qui, come per l’Opéra, c’è molta varietà e ricchezza, tuttavia, dopo l’iniziale entusiasmo nel leggere l’elenco delle opere rappresentate, subentra la delusione (e in taluni casi lo sconforto) per le discutibilissime scelte di cast. Si apre con Don Giovanni: sul podio si alternano Mackerras e l’onnipresente Pappano (una sorta di Muti del Covent Garden), per il resto nulla di sconvolgente: il seduttore dell’algido Keenlyside, il Leporello di Regazzo e poi la Ciofi/Donn’Anna e la Di Donato/Donna Elvira, il linfatico Bostridge, che contribuirà nella tradizione anglosassone dei Don Ottavio femminei ed evanescenti, il Masetto dell’inudibile Esposito e la Zerlina di una debuttante. A seguire quello che sarà sicuramente uno spettacolo “indimenticabile”: La Fanciulla del West. Opera molto difficile (soprattutto per l’orchestra e il direttore – Mitropoulos ne eseguiva l’atto I, senza cantanti, nei concerti sinfonici) affidata alla bacchetta di Pappano (of course) e con un cast da “brividi”: la semi debuttante Eva-Maria Westbroek (il cui sito internet si apre su di un’immagine di lei nell’atto di sbraitare: speriamo che ciò non voglia essere un’esemplificazione del suo stile di canto...), Josè Cura (sul quale, invece, non si nutre alcun dubbio circa le urla che molti si ostinano a considerare tecnica vocale) e, dulcis (?) in fundo, Silvano Carroli. Null’altro da aggiungere. Si prosegue con La Calisto (diretta da Bolton con cast baroccaro e vasto assortimento di controtenori), una Boheme in salsa coreana (visti i protagonisti), e Matilde di Shabran (ennesimo trionfo annunciato per il divo Florez). E poi Elektra, War Requiem e Les Contes d’Hoffmann: ancora Pappano. Star della serata Villazòn. Anche qui, niente da aggiungere: basta la parola. Dopo Hansel und Gretel è il turno di Turandot, probabile palcoscenico del duello all’ultimo strillo tra Cura e Botha, che si alterneranno nel ruolo di Calaf. “Arricchisce” il cast un redivivo Paata Burchuladze. A seguire: The Beggar’s Opera, Die Tote Stadt e Rigoletto: con Nucci, Syurina e Francesco Meli (il cui continuo saltare da un repertorio all’altro, senza cognizione di causa e con risultati sempre deludenti, dal Rossini serio a Mozart e Donizetti, fa sorgere più di un dubbio sulla lungimiranza delle sue scelte, lanciando un’ombra inquietante sul prosieguo della sua carriera, visti i notevoli problemi vocali, che paiono acuirsi e aggravarsi opera dopo opera). Dopo L’Olandese Volante è il turno di Capuleti e Montecchi: Netrebko, Garanca e Schmunk, ovvero “il belcanto, questo sconosciuto”. Ma il successo è comunque garantito. Segue il Requiem verdiano condotto da Pappano (davvero un uomo per tutte le stagioni) e il dittico barocc(ar)o Dido & Aeneas/Acis & Galatea: dirige Christopher Hogwood. Verdi ritorna con Trovatore, con il metronomico Rizzi e Roberto Alagna (ci si augura sia in condizioni più decenti rispetto all’Orfeo bolognese), Sondra Radvanovsky e Dmitri Hvorostovsky. Ancora Wagner con Lohengrin (protagonista Botha) e poi L’Elisir d’Amore diretta dal vetero baroccaro Hickox. Dopo Donizetti, Lulu, dirige ancora Pappano. Nome di cartello Jennifer Larmore: non male per chi si ritiene cantante rossiniana, sbarcare nella dodecafonia. Per lo meno in Berg non ci sono agilità da pasticciare con la gola... Di nuovo Verdi con Traviata (protagonista la Fleming e il solito Pappano) e Un Ballo in Maschera (ancora Vargas nel ruolo di Riccardo). Il 24 giugno serata di gala: Rolando Villazòn in concerto, accompagnato da Pappano, programma da definire. Pappano ancora con Il Barbiere di Siviglia (Florez, Di Donato e l’improbabile Figaro di Keenlyside) e si chiude con Tosca. God save the Queen...
Gli ascolti
V. Bellini - I Capuleti e i Montecchi
Atto I: Eccomi in lieta vesta... O quante volte - Renata Scotto
G. Donizetti - Anna Bolena
Atto II: Coppia iniqua - Joan Sutherland
G. Bizet - Carmen
Atto III: Mêlons! Coupons! - Teresa Berganza, Nan Christie & Alicia Nafé
Atto IV: Entr'acte - Dimitri Mitropoulos
R. Strauss - Elektra
Atto unico: Ich kann nicht sitzen und ins Dunkel starren - Ljuba Welitsch (direttore: Sir Thomas Beecham)
R. Strauss - Der Rosenkavalier
Atto III: Marie Theres'! ... Hab' mir's gelobt - Marilyn Horne, Frederica Von Stade & Reri Grist
G. Puccini - Turandot
Atto III: Tu che di gel sei cinta - Leontyne Price
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