Come anticipato, abbiamo assistito a due delle repliche dei Puritani bolognesi, principalmente, lo confessiamo, per ascoltare i due tenori che, con Florez, hanno sostenuto in questi giorni la parte di Arturo. Complimenti alla dirigenza del Comunale, che è riuscita a scritturare contemporaneamente ben tre artisti disposti ad affrontare questo ruolo mitico e da molti ritenuto alle soglie dell’inaffrontabile. Ciò detto, va rilevato che nessuno dei tre convocati si è dimostrato all’altezza dell’arduo compito.
Di Florez, corretto ma di limitato volume e peso specifico inadeguato al personaggio, oltre che non sempre appropriato nel fraseggio, abbiamo detto recensendo la première. Nel secondo cast dello spettacolo, per due recite soltanto (9 e 16 gennaio), ha cantato Celso Albelo, giovane tenore spagnolo che debuttava nel titolo. La sera del 9 (da noi ascoltata tramite una registrazione in house) il cantante aveva affrontato la parte con spavalderia, cercando di coniugare accento eroico e morbidezza di canto. Il tentativo era riuscito solo in parte: cercando di simulare un tonnellaggio vocale che non gli è proprio (la voce, da noi già udita dal vivo nel Tell di Santa Cecilia, novembre 2007, è di lirico leggero), il tenore aveva spinto eccessivamente, segnatamente sugli acuti, spesso risultati strozzati e di intonazione incerta, e in un paio di casi vistosamente calanti. La scelta di forzare aveva privato il canto di brillantezza e di quelle nuance che di Rubini erano la cifra caratteristica e cui Bellini aveva evidentemente pensato, disseminando la partitura di variazioni dinamiche ed agogiche che non sempre Albelo aveva non dico risolto, ma tentato di affrontare. Il 16, prima della rappresentazione, il teatro ha annunciato che Albelo avrebbe cantato malgrado un lieve raffreddore. All’entrata il tenore ha cantato come la sera del 9, con voce sufficientemente ampia e di timbro chiaro, ma anche faticando vistosamente nel legare i suoni e con intonazione incerta particolarmente nella zona che precede e coincide con il passaggio (re-sol) e sul primo acuto (la) de “fra la gioia e l’esultar”. All’attacco della seconda strofa la voce risultava davvero malferma e sporca, e dopo il do diesis (preso di forza e fortunosamente intonato) di “se rammento il mio tormento” il canto si è trasformato in una serie di rantolii e suoni accennati in cui era difficile trovare traccia di quanto previsto dall’autore. Nel dialogo con Enrichetta le intenzioni di Albelo sono apparse opportune ed adeguate, ma la necessità di spingere per risolvere un momento di slancio come “Non parlar di lei che adoro” ha polverizzato quello che rimaneva della voce del tenore, la cui cadenza “e la vergine adorata” si è risolta in una serie di suoni strozzati, davvero penosi e imbarazzanti. La pausa della polacca ha permesso al tenore di recuperare un po’ di energia e volume da sfoggiare alla sfida, ma l’attacco del terzetto e la tessitura alta dello stesso hanno ricondotto Albelo a suoni rauchi che sarebbe eufemistico definire stonati. A quel punto una voce dal pubblico ha urlato per due volte, a breve distanza, “basta!”. Il tenore ha smesso di cantare e ha lasciato la scena. Dopo una breve pausa, l’opera è ripresa dal recitativo dopo il terzetto (in assenza di Arturo, ovviamente) e il primo atto si è concluso normalmente.
Prima del terzo atto, è stato comunicato che Albelo, malgrado l’aggravarsi della sua indisposizione, avrebbe portato a termine la recita. Il recitativo di entrata, malgrado l’evidente fatica, è stato risolto con intelligenza e solo qualche slittamento d’intonazione, ma a partire dal primo la bemolle acuto (“Elvira, ah Elvira!”) sono ricomparsi i suoni stonati e stimbrati destinati a farla da padroni sino alla fine della serata, soprattutto in fascia centrale (canzone, duetto con Elvira), anche perché gli acuti e sovracuti scritti del duetto, salvo quello sul si di “d’ogni pianto” all’attacco, sono stati trasportati al grave (con raggiusti che sembravano improvvisati, e probabilmente lo erano) o semplicemente eliminati (soppresso anche il fa sul passaggio di “ti chiamo e te sol bramo, ah”), salvo poi aggiungere in chiusura un do sovracuto a squarciagola (già squarciata, purtroppo). Identici problemi nel “Credeasi misera” e nella cabaletta finale, chiusa peraltro da un re sovracuto corto e calante.
Intendiamoci: un’indisposizione è capitata, capita e capiterà sempre a tutti gli artisti, anche ai più grandi, ma non basta un raffreddore, per quanto grave, a rendere il canto così slabbrato e sgraziato. La nostra impressione è che Albelo, al di là della forma fisica non ottimale, abbia pagato lo scotto di una prima recita di Puritani cantata al di sopra dei propri mezzi e con il mero utilizzo e conseguente sovraccarico delle corde vocali, cui è stato richiesto di supplire alle lacune della tecnica di canto. Tecnica che, per inciso, è massimamente utile proprio in quelle serate che per vari motivi “non girano” e in cui è consigliabile cantare “sugli interessi” e non “sul capitale”. Insomma, giocare al risparmio, per cercare di salvare non solo la serata, ma anche la faccia e, più ancora, la voce. E questo vale anche per il direttore, che avrebbe dovuto proporre e, nel caso, imporre non soltanto un ridotto volume orchestrale, ma anche una serie di provvidenziali tagli alla partitura. Non si propongono i Puritani in edizione (pseudo) integrale con un tenore in quelle condizioni, quale che sia la causa delle stesse. Non potendo contare su un sostituto (a questo avrebbe dovuto provvedere il Teatro, ma dubitiamo che sarebbe stato possibile trovare un… quarto Arturo all’ultimo momento!), Mariotti avrebbe dovuto come minimo tagliare il terzetto e la cabaletta finale (e forse anche una strofa della canzone del trovatore), presentandosi magari al pubblico prima dello spettacolo per spiegare le ragioni della forbice così tempestivamente applicata (forbice che è stata poi applicata per cause di forza maggiore, lasciando nell’imbarazzo e nell’incertezza esecutori e pubblico). Certo questo avrebbe supposto, da parte di Albelo, una maggiore consapevolezza e del proprio stato di salute e delle proprie condizioni vocali rispetto al ruolo di Arturo. Ma è inverosimile che un tenore che elimina acuti e sovracuti scritti, per aggiungerne altri ad libitum (peraltro stonati), disponga di una simile autocoscienza. Per dovere di cronaca registriamo che il generoso pubblico bolognese ha premiato la simpatia e l’audacia del cantante spagnolo tributandogli applausi a scena aperta e una vera e propria ovazione dopo il “Vieni fra queste braccia”.
Se in Albelo abbiamo ravvisato, tra una forzatura e l’altra, almeno l’ombra del cavaliere altero e valoroso che dovrebbe essere Arturo, nulla di tutto questo ci è stato possibile individuare nel canto di Ivan Magrì, che per due sere (13 e 15 gennaio: noi abbiamo visto la prima) ha cantato a Bologna nell’ambito delle recite destinate agli allievi della Scuola dell’Opera Italiana del Teatro Comunale. Siffatte rappresentazioni intendono riprendere i titoli della stagione “canonica”, ponendosi quindi a metà strada fra il saggio di conservatorio e la recita propriamente detta. Premesso che simili lodevoli iniziative sortirebbero assai maggiore profitto se applicate a titoli un poco meno ostici dei Puritani (una bella Serva padrona, magari), l’interesse di questi Puritani “dei giovani” era costituito dalla presenza di Magrì, che a dispetto della giovane età è già comparso nelle stagioni ufficiali dei nostri teatri (ricordiamo lo sposino della Lucia di Lammermoor sempre a Bologna, lo scorso anno, e il Fernando nel Marino Faliero bergamasco, un paio di mesi fa). Ebbene, Magrì ha cantato con voce enorme (il triplo di quella sfoggiata da Florez nei momenti di maggiore intensità), anche di bel colore ma totalmente sprovvista del sostegno e conforto di una tecnica di canto che aspiri a essere minimamente professionale. In fascia centrale non suonava neppure immascherata, con quale efficacia nel rendere la nobiltà del personaggio, è facile immaginare. L’acuto è poi assolutamente aleatorio, con molti suoni presi alla sperindio e aggiustati all’ultimo secondo, con deprecabili effetti di glissando. Spiace vedere questa immensa dote naturale abbandonata a se stessa, e ci auguriamo che Magrì riesca a trovare, con il tempo e lo studio, un’impostazione vocale che lo renda in grado di affrontare questo, ma anche altri repertori (un Cavaradossi con una simile voce costituirebbe, oggi come oggi, più un unicum che una rarità).
Le due Elvire non offrivano maggiori motivi di conforto. Yolanda Auyanet ha centri più corposi della Machaidze ma un’analoga tendenza a spingere i suoni e a risolvere con sciatteria la copiosa coloratura prevista dal ruolo. L’acuto è importante, ma non di rado fisso e in molti casi anche stonato. Ha avuto bei momenti nel cantabile della pazzia, in cui qualche frase sapientemente legata al centro ha messo in luce almeno parte del potenziale di una scena che, la sera della prima, era scivolata via nell’indifferenza quasi totale. Tutt’altra cosa, comunque, rispetto a Hale Soner, Elvira nel cast dei giovani, che ha cantato con voce da minisoubrette, inesistente in prima ottava, stridula in acuto e abbastanza sicura solo nei sovracuti (è stata, delle tre Elvire, l'unica a tentare le varianti in alto nel finale primo), stremata dalla coloratura, spesso e volentieri spinta nel tentativo (quasi sempre frustrato) di risultare udibile. A lei potremmo consigliare di continuare con lo studio e comunque di indirizzarsi verso un repertorio più abbordabile (Susanna, Despina e così via).
Simone Del Savio, nei panni di Riccardo nel secondo cast, è risultato meno becero rispetto a Viviani, cercando, soprattutto nella cavatina, omogeneità dei registri e un canto sfumato, a onta di un registro medio-acuto non sempre impeccabile. Purtroppo, in altre parti, e particolarmente alla sfida e nel finale dell'opera, la ricerca di un accento veemente ha compromesso la tenuta della linea vocale. L’emissione, inoltre, non è sufficientemente stilizzata per risultare totalmente convincente in questo repertorio. Dal canto suo Kartal Karagedik ha sfoggiato voce di discreto calibro e nulla più (per giunta con una notevole tendenza ad andare “indietro”), legato faticoso, scarsa consistenza dei gravi e, a livello espressivo, una brutalità piuttosto irritante (e tralasciamo il taglio del da capo della cabaletta).
Come Giorgio, Giovanni Battista Parodi, dalla voce legnosa e che stenta a legare i suoni (con grave pregiudizio del “Cinta di fiori”), è comunque risultato più efficiente di D’Arcangelo, se non altro nel volume di voce. Di grande effetto la “canna” sfoggiata da Alexey Yakimov, nel cast dei giovani: una voce ampia e ricca, tipicamente russa, che ci piacerebbe riascoltare in un Boris o in una Kovancina, o comunque in un titolo in cui l’emissione ingolfata e il fraseggio monotono risultino un filo meno fastidiosi.
Resta da dire del direttore del cast dei giovani, Alessandro Vitiello, che pur cercando tempi meno frenetici rispetto a Mariotti ha concertato senza grazia e con numerosi sfasamenti fra orchestra e cantanti (notevole, nel finale, la mancata intesa con i solisti alla cabaletta finale, attaccata da soprano e tenore in ritardo e a mezza voce).
Insomma, i due cast alternativi hanno confermato che, come tutti i grandi titoli del Belcanto, i Puritani non sono opera che possa farsi “tanto per fare”. E che non bastano la buona volontà, l’impegno e nemmeno... il fa sovracuto, per fare un buon Arturo o una vera Elvira.
Gli ascolti
Bellini - I Puritani
Atto I
A te o cara - Marcelo Alvarez (con Ciofi, Alberghini, Zanellato & Buffoli) (1997)
Atto III
Finì... Me lassa!...Nel mirarti un solo istante - Joan Sutherland & Nicola Filacuridi (1960)
Credeasi misera - Aldo Bertolo (con Devia, de Corato & Surjan) (1985)
Di Florez, corretto ma di limitato volume e peso specifico inadeguato al personaggio, oltre che non sempre appropriato nel fraseggio, abbiamo detto recensendo la première. Nel secondo cast dello spettacolo, per due recite soltanto (9 e 16 gennaio), ha cantato Celso Albelo, giovane tenore spagnolo che debuttava nel titolo. La sera del 9 (da noi ascoltata tramite una registrazione in house) il cantante aveva affrontato la parte con spavalderia, cercando di coniugare accento eroico e morbidezza di canto. Il tentativo era riuscito solo in parte: cercando di simulare un tonnellaggio vocale che non gli è proprio (la voce, da noi già udita dal vivo nel Tell di Santa Cecilia, novembre 2007, è di lirico leggero), il tenore aveva spinto eccessivamente, segnatamente sugli acuti, spesso risultati strozzati e di intonazione incerta, e in un paio di casi vistosamente calanti. La scelta di forzare aveva privato il canto di brillantezza e di quelle nuance che di Rubini erano la cifra caratteristica e cui Bellini aveva evidentemente pensato, disseminando la partitura di variazioni dinamiche ed agogiche che non sempre Albelo aveva non dico risolto, ma tentato di affrontare. Il 16, prima della rappresentazione, il teatro ha annunciato che Albelo avrebbe cantato malgrado un lieve raffreddore. All’entrata il tenore ha cantato come la sera del 9, con voce sufficientemente ampia e di timbro chiaro, ma anche faticando vistosamente nel legare i suoni e con intonazione incerta particolarmente nella zona che precede e coincide con il passaggio (re-sol) e sul primo acuto (la) de “fra la gioia e l’esultar”. All’attacco della seconda strofa la voce risultava davvero malferma e sporca, e dopo il do diesis (preso di forza e fortunosamente intonato) di “se rammento il mio tormento” il canto si è trasformato in una serie di rantolii e suoni accennati in cui era difficile trovare traccia di quanto previsto dall’autore. Nel dialogo con Enrichetta le intenzioni di Albelo sono apparse opportune ed adeguate, ma la necessità di spingere per risolvere un momento di slancio come “Non parlar di lei che adoro” ha polverizzato quello che rimaneva della voce del tenore, la cui cadenza “e la vergine adorata” si è risolta in una serie di suoni strozzati, davvero penosi e imbarazzanti. La pausa della polacca ha permesso al tenore di recuperare un po’ di energia e volume da sfoggiare alla sfida, ma l’attacco del terzetto e la tessitura alta dello stesso hanno ricondotto Albelo a suoni rauchi che sarebbe eufemistico definire stonati. A quel punto una voce dal pubblico ha urlato per due volte, a breve distanza, “basta!”. Il tenore ha smesso di cantare e ha lasciato la scena. Dopo una breve pausa, l’opera è ripresa dal recitativo dopo il terzetto (in assenza di Arturo, ovviamente) e il primo atto si è concluso normalmente.
Prima del terzo atto, è stato comunicato che Albelo, malgrado l’aggravarsi della sua indisposizione, avrebbe portato a termine la recita. Il recitativo di entrata, malgrado l’evidente fatica, è stato risolto con intelligenza e solo qualche slittamento d’intonazione, ma a partire dal primo la bemolle acuto (“Elvira, ah Elvira!”) sono ricomparsi i suoni stonati e stimbrati destinati a farla da padroni sino alla fine della serata, soprattutto in fascia centrale (canzone, duetto con Elvira), anche perché gli acuti e sovracuti scritti del duetto, salvo quello sul si di “d’ogni pianto” all’attacco, sono stati trasportati al grave (con raggiusti che sembravano improvvisati, e probabilmente lo erano) o semplicemente eliminati (soppresso anche il fa sul passaggio di “ti chiamo e te sol bramo, ah”), salvo poi aggiungere in chiusura un do sovracuto a squarciagola (già squarciata, purtroppo). Identici problemi nel “Credeasi misera” e nella cabaletta finale, chiusa peraltro da un re sovracuto corto e calante.
Intendiamoci: un’indisposizione è capitata, capita e capiterà sempre a tutti gli artisti, anche ai più grandi, ma non basta un raffreddore, per quanto grave, a rendere il canto così slabbrato e sgraziato. La nostra impressione è che Albelo, al di là della forma fisica non ottimale, abbia pagato lo scotto di una prima recita di Puritani cantata al di sopra dei propri mezzi e con il mero utilizzo e conseguente sovraccarico delle corde vocali, cui è stato richiesto di supplire alle lacune della tecnica di canto. Tecnica che, per inciso, è massimamente utile proprio in quelle serate che per vari motivi “non girano” e in cui è consigliabile cantare “sugli interessi” e non “sul capitale”. Insomma, giocare al risparmio, per cercare di salvare non solo la serata, ma anche la faccia e, più ancora, la voce. E questo vale anche per il direttore, che avrebbe dovuto proporre e, nel caso, imporre non soltanto un ridotto volume orchestrale, ma anche una serie di provvidenziali tagli alla partitura. Non si propongono i Puritani in edizione (pseudo) integrale con un tenore in quelle condizioni, quale che sia la causa delle stesse. Non potendo contare su un sostituto (a questo avrebbe dovuto provvedere il Teatro, ma dubitiamo che sarebbe stato possibile trovare un… quarto Arturo all’ultimo momento!), Mariotti avrebbe dovuto come minimo tagliare il terzetto e la cabaletta finale (e forse anche una strofa della canzone del trovatore), presentandosi magari al pubblico prima dello spettacolo per spiegare le ragioni della forbice così tempestivamente applicata (forbice che è stata poi applicata per cause di forza maggiore, lasciando nell’imbarazzo e nell’incertezza esecutori e pubblico). Certo questo avrebbe supposto, da parte di Albelo, una maggiore consapevolezza e del proprio stato di salute e delle proprie condizioni vocali rispetto al ruolo di Arturo. Ma è inverosimile che un tenore che elimina acuti e sovracuti scritti, per aggiungerne altri ad libitum (peraltro stonati), disponga di una simile autocoscienza. Per dovere di cronaca registriamo che il generoso pubblico bolognese ha premiato la simpatia e l’audacia del cantante spagnolo tributandogli applausi a scena aperta e una vera e propria ovazione dopo il “Vieni fra queste braccia”.
Se in Albelo abbiamo ravvisato, tra una forzatura e l’altra, almeno l’ombra del cavaliere altero e valoroso che dovrebbe essere Arturo, nulla di tutto questo ci è stato possibile individuare nel canto di Ivan Magrì, che per due sere (13 e 15 gennaio: noi abbiamo visto la prima) ha cantato a Bologna nell’ambito delle recite destinate agli allievi della Scuola dell’Opera Italiana del Teatro Comunale. Siffatte rappresentazioni intendono riprendere i titoli della stagione “canonica”, ponendosi quindi a metà strada fra il saggio di conservatorio e la recita propriamente detta. Premesso che simili lodevoli iniziative sortirebbero assai maggiore profitto se applicate a titoli un poco meno ostici dei Puritani (una bella Serva padrona, magari), l’interesse di questi Puritani “dei giovani” era costituito dalla presenza di Magrì, che a dispetto della giovane età è già comparso nelle stagioni ufficiali dei nostri teatri (ricordiamo lo sposino della Lucia di Lammermoor sempre a Bologna, lo scorso anno, e il Fernando nel Marino Faliero bergamasco, un paio di mesi fa). Ebbene, Magrì ha cantato con voce enorme (il triplo di quella sfoggiata da Florez nei momenti di maggiore intensità), anche di bel colore ma totalmente sprovvista del sostegno e conforto di una tecnica di canto che aspiri a essere minimamente professionale. In fascia centrale non suonava neppure immascherata, con quale efficacia nel rendere la nobiltà del personaggio, è facile immaginare. L’acuto è poi assolutamente aleatorio, con molti suoni presi alla sperindio e aggiustati all’ultimo secondo, con deprecabili effetti di glissando. Spiace vedere questa immensa dote naturale abbandonata a se stessa, e ci auguriamo che Magrì riesca a trovare, con il tempo e lo studio, un’impostazione vocale che lo renda in grado di affrontare questo, ma anche altri repertori (un Cavaradossi con una simile voce costituirebbe, oggi come oggi, più un unicum che una rarità).
Le due Elvire non offrivano maggiori motivi di conforto. Yolanda Auyanet ha centri più corposi della Machaidze ma un’analoga tendenza a spingere i suoni e a risolvere con sciatteria la copiosa coloratura prevista dal ruolo. L’acuto è importante, ma non di rado fisso e in molti casi anche stonato. Ha avuto bei momenti nel cantabile della pazzia, in cui qualche frase sapientemente legata al centro ha messo in luce almeno parte del potenziale di una scena che, la sera della prima, era scivolata via nell’indifferenza quasi totale. Tutt’altra cosa, comunque, rispetto a Hale Soner, Elvira nel cast dei giovani, che ha cantato con voce da minisoubrette, inesistente in prima ottava, stridula in acuto e abbastanza sicura solo nei sovracuti (è stata, delle tre Elvire, l'unica a tentare le varianti in alto nel finale primo), stremata dalla coloratura, spesso e volentieri spinta nel tentativo (quasi sempre frustrato) di risultare udibile. A lei potremmo consigliare di continuare con lo studio e comunque di indirizzarsi verso un repertorio più abbordabile (Susanna, Despina e così via).
Simone Del Savio, nei panni di Riccardo nel secondo cast, è risultato meno becero rispetto a Viviani, cercando, soprattutto nella cavatina, omogeneità dei registri e un canto sfumato, a onta di un registro medio-acuto non sempre impeccabile. Purtroppo, in altre parti, e particolarmente alla sfida e nel finale dell'opera, la ricerca di un accento veemente ha compromesso la tenuta della linea vocale. L’emissione, inoltre, non è sufficientemente stilizzata per risultare totalmente convincente in questo repertorio. Dal canto suo Kartal Karagedik ha sfoggiato voce di discreto calibro e nulla più (per giunta con una notevole tendenza ad andare “indietro”), legato faticoso, scarsa consistenza dei gravi e, a livello espressivo, una brutalità piuttosto irritante (e tralasciamo il taglio del da capo della cabaletta).
Come Giorgio, Giovanni Battista Parodi, dalla voce legnosa e che stenta a legare i suoni (con grave pregiudizio del “Cinta di fiori”), è comunque risultato più efficiente di D’Arcangelo, se non altro nel volume di voce. Di grande effetto la “canna” sfoggiata da Alexey Yakimov, nel cast dei giovani: una voce ampia e ricca, tipicamente russa, che ci piacerebbe riascoltare in un Boris o in una Kovancina, o comunque in un titolo in cui l’emissione ingolfata e il fraseggio monotono risultino un filo meno fastidiosi.
Resta da dire del direttore del cast dei giovani, Alessandro Vitiello, che pur cercando tempi meno frenetici rispetto a Mariotti ha concertato senza grazia e con numerosi sfasamenti fra orchestra e cantanti (notevole, nel finale, la mancata intesa con i solisti alla cabaletta finale, attaccata da soprano e tenore in ritardo e a mezza voce).
Insomma, i due cast alternativi hanno confermato che, come tutti i grandi titoli del Belcanto, i Puritani non sono opera che possa farsi “tanto per fare”. E che non bastano la buona volontà, l’impegno e nemmeno... il fa sovracuto, per fare un buon Arturo o una vera Elvira.
Gli ascolti
Bellini - I Puritani
Atto I
A te o cara - Marcelo Alvarez (con Ciofi, Alberghini, Zanellato & Buffoli) (1997)
Atto III
Finì... Me lassa!...Nel mirarti un solo istante - Joan Sutherland & Nicola Filacuridi (1960)
Credeasi misera - Aldo Bertolo (con Devia, de Corato & Surjan) (1985)
5 commenti:
mi dispiace che non si sia assistito alla medesima rappresentazione della scuola, perchè non avendo avuto il medesimo riferimento non sono in grado di apprezzare pienamente le sue chiose.
Suppongo che come spesso avviene - e trattandosi di giovani è ancor più probabile - nella replica si sia cantato meglio. In particolare, come raccontavo nel mio primo commento, non ho mai avvertito un affaticamento nella Soner, e ho potuto apprezzare una buona intesa fra Vitiello e i cantanti.
Sull'opportunità di impegnare la scuola in spettacoli più accessibili, ritengo che sia l'aspetto economico ad imporre la strategia. la possibilità di avere già a disposizione costumi, scenografie ed in genere tutto il know how degli spettacoli dei professionisti consente non soltanto di abbattere quasi completamente i costi di queste rappresentazioni, ma addirttura di far sì che gli spettacoli degli allievi rappresentino una fonte di profitto per il comunale.
arrivederci
Anonimo lettore: non so per la Soner... ma a giudicare dall'audio che circola su YouTube Magrì non ha cantato molto meglio! anzi!!
essì mannaggia, quelle due stecche sono state vistosissime...
ma nella prima aveva quel fa? mi sono detto che lo aveva fatto o perché rinfrancato dal buon esito del duetto con elvira o o perché gli era riuscito nella precedente rappresentazione
la saluto nuovamente
No, la sera del 13 Magrì nel "Credeasi misera" si è fermato al re bemolle. In realtà avrebbe anche potuto osare il fa... tanto... a quel punto...!!!!!!!!!
Con riferimento all'articolo "La stecca che imbarazza Tutino", apparso su "LaRepubblica-Bologna" di oggi sabato 31 gennaio, p. I, voglio precisare che sul "Corriere della Grisi" non è mai stato postato un link ai video Youtube dei Puritani di Magrì e che l'unico riferimento agli stessi (commento n. 2 a questo post) è stato da me inserito il 18 gennaio alle 18.13, mentre già diverse ore prima, e più precisamente alle 11:52 e alle 12:28, i video erano stati linkati sul foro Operafree, da cui abbiamo appreso la notizia, vedi
http://operafree.forumfree.net/?t=35594296&p=297131006 e http://operafree.forumfree.net/?t=35594296&p=297139903.
Questo giusto per precisare e circostanziare la segnalazione cui fa riferimento LaRepubblica.
Torneremo presto sull'argomento.
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