Nel luglio scorso il Festival della Valle d’Itria ha proposto il donizettiano Gianni di Parigi. La prevista diretta radiofonica non ha avuto luogo a causa di un violento temporale, che ha costretto a procrastinare di ventiquattro ore la prima delle due recite in cartellone. Mesi dopo, nel pieno di un autunno grigio e piovoso, Radiotre recupera e trasmette, con poca o punta pubblicità, la registrazione di quel Gianni. Che diviene ora, a festival concluso, lo spunto per alcune riflessioni. Riflessioni che non investono tanto la pochezza dell’esecuzione (pochezza comprensibile e scusabile, almeno in parte, qualora si consideri il carattere “studentesco” della rappresentazione, affidata per l’appunto a interpreti all’esordio o quasi nella carriera professionale), quanto il senso e l’utilità di una siffatta riproposta.
Come osservato ieri sera in chat, il Gianni, opera che contiene pagine di indubbia validità (penso soprattutto al primo atto, ma anche all’elaborato duetto che precede il rondò della primadonna), non è tuttavia abbastanza continua nell’invenzione musicale, né sufficientemente solida nella struttura drammaturgica, da “reggersi” da sola e garantire il buon esito di una serata. Non è il Don Pasquale, per intenderci, e neppure la Figlia del reggimento, opere che sopravvivono senza troppi patemi anche a un’esecuzione mediocre o sciatta. Tanto più, quindi, necessita il Gianni di esecutori, se non di riferimento assoluto, almeno che abbiano buona familiarità con il teatro donizettiano e sufficiente disinvoltura nell’affrontare la scrittura di ruoli concepiti per i massimi divi del belcanto, come, nel titolo in questione, quello del protagonista. Affidare una parte del genere a un giovane cantante, per giunta chiamato a sostituire senza preavviso o quasi l’annunciato interprete (Ivan Magrì, la cui pregressa frequentazione di parti Rubini offre il destro a più di una speculazione sul carattere diplomatico dell’indisposizione, che ha trasformato Edgardo Rocha da cover designato a protagonista di ben due recite in due giorni), è follia pura. E a poco valgono i tagli approntati per l'occasione (ad esempio nell'aria del secondo atto). Tagli di cui per inciso beneficia la stessa Principessa di Navarra, Ekaterina Lekhina, nella cabaletta del rondò conclusivo. E la Lekhina non era certo un rimpiazzo dell’ultimo minuto.
Basterebbe questa disinvoltura nel trattamento della partitura a far emergere il carattere ben poco meditato della produzione. Quanto all'annunciata filologia, siamo di fronte al solito pasticcio: si annuncia la versione della Scala 1839, versione che l’autore mai approvò e in ragione della quale prese anzi provvedimenti legali nei confronti del teatro e dell’impresario Merelli, che volle allestire la serata (disponendo peraltro di un tenore molto distante dalla vocalità di Rubini, “dettaglio” che le critiche dell’epoca, a differenza delle attuali, non mancarono di sottolineare). Ma la versione Scala 1839, come si apprende da qualunque manuale di storia della musica, comprendeva, oltre a numerose aule di baule e sostituzioni apocrife nelle arie dei protagonisti, un numero alternativo donizettiano per il rondò finale, sostituito da quello della “Francesca di Foix”. A Martina Franca si è eseguito il rondò originario, già proposto nei precedenti allestimenti moderni del titolo, che certo non chiamavano in causa fantomatiche versioni scaligere. Ma posto che si volesse eseguire la versione scaligera, si sarebbe dovuta ricostruire nel modo più fedele possibile, anche in ragione della storia e della tradizione del luogo, in cui avveniva la riproposta. E invece non solo non sono stati recuperati i numeri milanesi, alternativi a quelli donizettiani, ma è stata inserita, per il personaggio di Lorezza (privo di momenti solistici, come si confà a una parte di seconda donna nel melodramma postrossiniano), un’aria solistica tratta da un’altra opera dell’autore, “Enrico di Borgogna”. Il tutto, come abbiamo appreso dall’intervista a Roberto de Candia, trasmessa nell’intervallo dell’opera, è avvenuto con il consenso della Fondazione Donizetti di Bergamo, che dimostra per l’ennesima volta (quasi ce ne fosse il bisogno) il proprio impegno nel servire le ragioni dell’autore e nel difendere l’integrità della di lui musica. Aggiungiamo che la designata Lorezza (Eleonora Buratto) non era certo così convincente da motivare, con la sua prestazione, l’aggiunta di un brano di musica, seppur collocato nell’esornativa scena del banchetto. Meglio avrebbero fatto, i musicologi coinvolti nella discutibile operazione, a suggerire, in luogo delle scarne e prudenti adottate, variazioni e cadenze, che evitassero la zona massimamente rischiosa (per il tenore e più ancora per il soprano) del secondo passaggio e dei primi acuti.
Tornando a Roberto de Candia, certo il cantante di maggiore esperienza coinvolto nella produzione, dobbiamo rilevare come, assecondato dal giovane Andrea Porta, abbia dato vita a un duetto del secondo atto infarcito di “caccole” e parlati, retaggio di una visione del buffo caricato che speravamo estinta con i vari Capecchi e Montarsolo, e che certo non è degna di un festival, che voglia restaurare la tradizione del belcanto anche sotto il profilo del gusto. Così come sarebbe stato nell’interesse del festival, se davvero si propone di coltivare i talenti anche in vista di future edizioni, trovare un direttore d’orchestra o per lo meno un maestro ripassatore che spiegasse a Paola Gardina, la voce più interessante della serata, che gonfiare le gote e aprire i suoni in basso non conferisce, come alcuni credono, un bel colore scuro al suo strumento di soprano lirico, ma rischia al contrario di comprometterne la tenuta.
Chiudiamo con una bella notizia, che non potrà che confortare i tanti amici, antichi e moderni, del festival pugliese. Sta nascendo in questi giorni l’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” di Martina Franca, “promossa e organizzata dalla Fondazione Paolo Grassi in collaborazione con il Festival della Valle d'Itria. Il corso, che si avvale della guida del direttore artistico del Festival Alberto Triola, darà occasione ai giovani artisti selezionati di approfondire i diversi aspetti della tecnica e dell’interpretazione del belcanto italiano (da Monteverdi al protoromanticismo), senza trascurare l’analisi dei diversi stili della tradizione del teatro musicale occidentale” (http://www.fondazionepaolograssi.it/NewsDetail.aspx?ID=00001G). Essendo Triola direttore della Scuola dell’Opera Italiana del Comunale di Bologna (impegnata quest’anno nelle produzioni di Martina Franca), e annoverando la nascente Accademia docenti del calibro di Anna Caterina Antonacci, Alfonso Antoniozzi, Stefania Bonfadelli, Tiziana Fabbricini, Raul Giménez, Vittorio Terranova, Alberto Zedda e la poliedrica Rosetta Cucchi, non dubitiamo del felice esito di siffatto esperimento didattico. Con un poco di fortuna cominceremo a vederne i frutti fin dal prossimo festival, nell’ambito del quale sarà rappresentato l’Aureliano in Palmira rossiniano. Da un sito che riporta anticipazioni sull’edizione del 2011, apprendiamo che “al Festival della Valle d'Itria si vedrà per la prima volta il ruolo di Arsace affidato, come alla prima scaligera del 1813, a un interprete maschile con registro vocale di contraltista” (http://www.cannibali.it/leggi.php?i=783&c=1&n=1). Apprendiamo en passant che Giambattista Velluti non era un castrato, bensì un surrogato, al pari degli odierni Scholl, Daniels, Cencic e Fagioli. E forti di questa rivelazione, attendiamo con animo lieto i meravigliosi esiti della filologia postcellettiana.
Come osservato ieri sera in chat, il Gianni, opera che contiene pagine di indubbia validità (penso soprattutto al primo atto, ma anche all’elaborato duetto che precede il rondò della primadonna), non è tuttavia abbastanza continua nell’invenzione musicale, né sufficientemente solida nella struttura drammaturgica, da “reggersi” da sola e garantire il buon esito di una serata. Non è il Don Pasquale, per intenderci, e neppure la Figlia del reggimento, opere che sopravvivono senza troppi patemi anche a un’esecuzione mediocre o sciatta. Tanto più, quindi, necessita il Gianni di esecutori, se non di riferimento assoluto, almeno che abbiano buona familiarità con il teatro donizettiano e sufficiente disinvoltura nell’affrontare la scrittura di ruoli concepiti per i massimi divi del belcanto, come, nel titolo in questione, quello del protagonista. Affidare una parte del genere a un giovane cantante, per giunta chiamato a sostituire senza preavviso o quasi l’annunciato interprete (Ivan Magrì, la cui pregressa frequentazione di parti Rubini offre il destro a più di una speculazione sul carattere diplomatico dell’indisposizione, che ha trasformato Edgardo Rocha da cover designato a protagonista di ben due recite in due giorni), è follia pura. E a poco valgono i tagli approntati per l'occasione (ad esempio nell'aria del secondo atto). Tagli di cui per inciso beneficia la stessa Principessa di Navarra, Ekaterina Lekhina, nella cabaletta del rondò conclusivo. E la Lekhina non era certo un rimpiazzo dell’ultimo minuto.
Basterebbe questa disinvoltura nel trattamento della partitura a far emergere il carattere ben poco meditato della produzione. Quanto all'annunciata filologia, siamo di fronte al solito pasticcio: si annuncia la versione della Scala 1839, versione che l’autore mai approvò e in ragione della quale prese anzi provvedimenti legali nei confronti del teatro e dell’impresario Merelli, che volle allestire la serata (disponendo peraltro di un tenore molto distante dalla vocalità di Rubini, “dettaglio” che le critiche dell’epoca, a differenza delle attuali, non mancarono di sottolineare). Ma la versione Scala 1839, come si apprende da qualunque manuale di storia della musica, comprendeva, oltre a numerose aule di baule e sostituzioni apocrife nelle arie dei protagonisti, un numero alternativo donizettiano per il rondò finale, sostituito da quello della “Francesca di Foix”. A Martina Franca si è eseguito il rondò originario, già proposto nei precedenti allestimenti moderni del titolo, che certo non chiamavano in causa fantomatiche versioni scaligere. Ma posto che si volesse eseguire la versione scaligera, si sarebbe dovuta ricostruire nel modo più fedele possibile, anche in ragione della storia e della tradizione del luogo, in cui avveniva la riproposta. E invece non solo non sono stati recuperati i numeri milanesi, alternativi a quelli donizettiani, ma è stata inserita, per il personaggio di Lorezza (privo di momenti solistici, come si confà a una parte di seconda donna nel melodramma postrossiniano), un’aria solistica tratta da un’altra opera dell’autore, “Enrico di Borgogna”. Il tutto, come abbiamo appreso dall’intervista a Roberto de Candia, trasmessa nell’intervallo dell’opera, è avvenuto con il consenso della Fondazione Donizetti di Bergamo, che dimostra per l’ennesima volta (quasi ce ne fosse il bisogno) il proprio impegno nel servire le ragioni dell’autore e nel difendere l’integrità della di lui musica. Aggiungiamo che la designata Lorezza (Eleonora Buratto) non era certo così convincente da motivare, con la sua prestazione, l’aggiunta di un brano di musica, seppur collocato nell’esornativa scena del banchetto. Meglio avrebbero fatto, i musicologi coinvolti nella discutibile operazione, a suggerire, in luogo delle scarne e prudenti adottate, variazioni e cadenze, che evitassero la zona massimamente rischiosa (per il tenore e più ancora per il soprano) del secondo passaggio e dei primi acuti.
Tornando a Roberto de Candia, certo il cantante di maggiore esperienza coinvolto nella produzione, dobbiamo rilevare come, assecondato dal giovane Andrea Porta, abbia dato vita a un duetto del secondo atto infarcito di “caccole” e parlati, retaggio di una visione del buffo caricato che speravamo estinta con i vari Capecchi e Montarsolo, e che certo non è degna di un festival, che voglia restaurare la tradizione del belcanto anche sotto il profilo del gusto. Così come sarebbe stato nell’interesse del festival, se davvero si propone di coltivare i talenti anche in vista di future edizioni, trovare un direttore d’orchestra o per lo meno un maestro ripassatore che spiegasse a Paola Gardina, la voce più interessante della serata, che gonfiare le gote e aprire i suoni in basso non conferisce, come alcuni credono, un bel colore scuro al suo strumento di soprano lirico, ma rischia al contrario di comprometterne la tenuta.
Chiudiamo con una bella notizia, che non potrà che confortare i tanti amici, antichi e moderni, del festival pugliese. Sta nascendo in questi giorni l’Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” di Martina Franca, “promossa e organizzata dalla Fondazione Paolo Grassi in collaborazione con il Festival della Valle d'Itria. Il corso, che si avvale della guida del direttore artistico del Festival Alberto Triola, darà occasione ai giovani artisti selezionati di approfondire i diversi aspetti della tecnica e dell’interpretazione del belcanto italiano (da Monteverdi al protoromanticismo), senza trascurare l’analisi dei diversi stili della tradizione del teatro musicale occidentale” (http://www.fondazionepaolograssi.it/NewsDetail.aspx?ID=00001G). Essendo Triola direttore della Scuola dell’Opera Italiana del Comunale di Bologna (impegnata quest’anno nelle produzioni di Martina Franca), e annoverando la nascente Accademia docenti del calibro di Anna Caterina Antonacci, Alfonso Antoniozzi, Stefania Bonfadelli, Tiziana Fabbricini, Raul Giménez, Vittorio Terranova, Alberto Zedda e la poliedrica Rosetta Cucchi, non dubitiamo del felice esito di siffatto esperimento didattico. Con un poco di fortuna cominceremo a vederne i frutti fin dal prossimo festival, nell’ambito del quale sarà rappresentato l’Aureliano in Palmira rossiniano. Da un sito che riporta anticipazioni sull’edizione del 2011, apprendiamo che “al Festival della Valle d'Itria si vedrà per la prima volta il ruolo di Arsace affidato, come alla prima scaligera del 1813, a un interprete maschile con registro vocale di contraltista” (http://www.cannibali.it/leggi.php?i=783&c=1&n=1). Apprendiamo en passant che Giambattista Velluti non era un castrato, bensì un surrogato, al pari degli odierni Scholl, Daniels, Cencic e Fagioli. E forti di questa rivelazione, attendiamo con animo lieto i meravigliosi esiti della filologia postcellettiana.
3 commenti:
Che bella notizia, carissimo Antonio: ci voleva un'accademia siffatta, e di tale "levatura"... Tornando alla realtà: penso non vi sia da aggiungere nulla su Triola. Mi chiedo, però, come la stampa - anche specializzata - possa bersi qualsiasi cosa le venga offerto! Il caso del Gianni di Parigi è emblematico della leggerezza, dell'ignoranza e dell'opportunismo con cui vengono affrontate questioni filologiche. Presentare un mix "inedito" (in quanto arbitrario) mascherato da "versione di Milano" (espressamente AVVERSATA dall'autore) significa compiere un'operazione sbagliata, scorretta e truffaldina. Il fatto che la Fondazione Donizetti "vi abbia messo il suggello" fa parte della medesima vergogna (ma un saggio della serietà filologica di suddetta fondazione si riscontra ogni anno nel corso del festival bergamasco). Del resto, oltre alla presa in giro del Gianni, l'ultima edizione del Festival di Martina Franca si è segnalato per un altro svarione filologico: la Rodelinda, presentata come prima esecuzione mondiale dell'edizione critica e come prima rappresentazione italiana in assoluto. Due evidenti falsità che potevano essere evitate (insieme alla relativa figuraccia, con tanto di cambio di dicitura nel programma all'ultimo momento - per aggiustare il tiro, ma perseverando nell'errore: limitandosi ad aggiungere qualche aggettivo e distinguo) facendo un giro in un qualsiasi negozio di dischi e sbirciando l'edizione diretta da Curtis per la DGG... Ma tant'è: Triola non se n'è accorto, come non se n'é accorto il giornalista di Classic Voice che l'ha intervistato nel merito. E vedo che la disinformazione continua: l'Aureliano col falsettista (già un'aberrazione su cui avremo modo di discutere) non è esperimento inedito. Anche qua Triola poteva fare un giretto in un qualsiasi negozio di dischi, acquistare l'edizione dell'opera registrata dal vivo a Wildbad nel 1996 (e pubblicata dalla BONGIOVANNI) e "scoprire" come il ruolo di Arsace fosse interpretato dal falsettista Angelo Manzotti (con risultati assai scadenti peraltro). Qualcuno se ne accorgerà l'anno prossimo? Insomma, il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Cosa s'intende per "surrogato" di castrato? E' un bel mistero interpretativo.Bene per Velluti che poteva conservare il piacere di dire"che palle".
Sì, cari miei, ma quando si ha le proprie spalle coperte (da anni...) non ci sono problemi.
L'importante che almeno qualcuno (voi) se ne accorge e smaschera.
Il problema verrà quando tutti sospirano insieme e dicono, "Che meraviglia!"
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