Nonostante sia ormai trascorso (nel bene e, più che altro, nel male) il “mese verdiano”, ci si occupa nuovamente del nostro compositore nazionale. Sono, infatti, disponibili almeno per il mercato anglosassone (e a breve si troveranno pure in Italia) alcune nuove incisioni del “cigno di Busseto”. Si tratta di due produzioni internazionali (a ulteriore dimostrazione – come se ve ne fosse bisogno – che la pretesa di un festival finalizzato alla diffusione della musica verdiana nel mondo sia quanto meno pleonastico, quando non inutile e, se si guarda ai risultati, perfettamente evitabile), dedicate al Verdi maturo, quello che più attrae i grandi direttori europei, poiché più interessante musicalmente ed elaborato orchestralmente. Mentre la nuova Messa da Requiem incisa da Muti con i complessi di Chicago sarà oggetto di un prossimo intervento (che seguirà il presente a distanza di qualche giorno), mi soffermo ora sul nuovo Otello inciso da Sir Colin Davis in quel di Londra, a capo della sua London Symphony Orchestra.
Com’è ormai noto Davis sta vivendo una straordinaria stagione di rinnovata creatività: sul podio della LSO – compagine tra le migliori a livello internazionale, per la bellezza e la precisione delle sue interpretazioni: sia nel repertorio operistico, sia in quello sinfonico e concertistico – ha conquistato una nuova dimensione artistica, che ha prodotto risultati solitamente eccellenti. In particolare si è concentrato sulla rivisitazione del grande repertorio sinfonico-corale che ha segnato la sua precedente carriera: dal Messiah al Requiem di Mozart, dalla Creazione alla Messa in Do di Beethoven, sino all’integrale sinfonica di Sibelius e, soprattutto, a Berlioz (di cui è interprete privilegiato da almeno un quarantennio). Non è mancato, ovviamente, l’avvicinamento a Verdi (un certo Verdi, non quello degli “anni di galera” o delle “opere a cabaletta”): Messa da Requiem e Falstaff. Proprio l’ultimo capolavoro verdiano è stato oggetto di un’incisione che si pone ai vertici della discografia, per elganza, nobiltà, lettura sinfonica e performance vocali (su tutte il misurato protagonista di Michele Pertusi che evita, finalmente, certi insopportabili eccessi e gigionate a cui una cattiva tradizione ci ha abituato), riscattando così la brutta registrazione degli anni '90. Non così, purtroppo, questo nuovo Otello. Anzi, come per una specie di contrappasso, e all’inverso del precedente Falstaff, questa ultima incursione verdiana si pone sui livelli più bassi della discografia dell’opera (peraltro numerosa), battendosi per l’ultimo posto in assoluto. E questo, spiace dirlo, non solo per le esecuzioni vocali, ma proprio per la lettura del direttore. L’idea di fondo, percepibile sin dai primi accordi, è la sottolineatura dell’aspetto drammatico, evitando pesantezze o compiacimenti wagneriani (come invece Furtwangler) attraverso un’estrema mobilità espressiva, dalla sonorità tesa, nervosa, non solo nei momenti più concitati della tragedia, ma anche negli squarci lirici, pure sui quali incombe, come un presagio, l’urgenza del dramma che conduce all’unico e sanguinoso esito possibile. Purtroppo Davis non riesce nell’intento, almeno non pienamente: ovviamente il suono della LSO è magnifico, preciso, perfetto eppure manca qualcosa. Manca una visione unitaria, un senso: gli episodi si succedono, ma appaiono slegati, separati tra loro. Sembra quasi che Davis abbia mancato del necessario approfondimento, dell'appropriarsi della partitura (come invece accadde nella perfetta simbiosi con Falstaff). Peraltro non mancano alcune scelte discutibili (gli artificiali e troppo chiassosi effetti sonori dei tuoni campionati che costellano l’apertura dell’opera – davvero troppo invasivi e doppiamente scorretti, in quanto Verdi aveva già previsto, con la musica, la rappresentazione dei fatti atmosferici: in tal modo si ha solo una inutile e sgradevole duplicazione), come, onestamente, non mancano i “bei momenti” (l’accompagnamento di taluni passi di conversazione, o, soprattutto uno dei più raffinati “Fuoco di gioia” che abbia sentito). Alla fine, tuttavia, tra pregi e difetti, rimane un senso di artificiosità, di sterilità: una specie di esperimento di laboratorio, freddo e distante, in cui la ricerca del dramma appare a volte forzata e ricercata. Ma ciò che compromette irrimediabilmente l’incisione è la performance dei cantanti, nessuno dei quali pare avere familiarità e dimestichezza con il nostro repertorio. Premetto il fastidio per l’inaccettabile italiano sfoggiato da tutti gli interpreti (dal protagonista all’ultimo comprimario, salvo Emilia, che è madre lingua): è davvero inconcepibile che per una registrazione così importante – negli intenti – e svoltasi in un contesto tanto prestigioso, non venga preteso un livello quantomeno decente, magari fornendo un esperto linguistico (un italian coach) che corregga certi orrori. Fatto sta che erano anni che non si sentivano certi garbugli, eliminazioni di parole, indistinte sequele di consonanti e vocali invertite, omissioni di doppie, fantasiosi dittonghi e totale incapacità di pronunciare la “T” e la “R”. Tolta questa tara (che da sola varrebbe a squalificare l’incisione, perché davvero fastidiosa) comincio dal migliore in campo: lo Jago di Gerald Finley. La voce è chiara, tendente all’acuto, si sforza più di tutti a ricercare il giusto fraseggio, ad esaltare le mezze voci (che però spesso confinano col falsetto) ed i segni espressivi, ad evitare di incorrere nel solito Jago vilain, optando per un personaggio più razionale, mellifluo, calcolatore (come Shuisky nel Boris). Il suo “Credo” non è plateale o grandguignolesco (condito magari dall’orribile risatazza finale), è sussurrato, pacato eppure terribile. Così come ben riuscita è la narrazione del sogno di Cassio, cantata a fior di labbra e accompagnata da Davis con un’inusitata trasparenza orchestrale. Ma qui purtroppo finiscono i pregi: la voce in molti punti fatica, balla, inciampa, e pure il gusto sfocia nel greve (la ballata dell’Atto I, ad esempio, è proprio una canzonaccia da osteria). Ingiudicabile la Desdemona di Anne Schwanewilms, piatta e uniforme non mostra di avere alcun controllo sulla voce, che ondeggia pericolosamente negli sbalzi tonali: fissa negli acuti (gridati o strozzati) tende a calare sensibilmente non appena il volume cresce e la tessitura sale (la chiusa del duetto segna una fastidiosa dissonanza derivante dalla mancata intonazione di tenore e soprano, ognuno per suo conto, tanto da trasformare Verdi in una specie di Berio). Insomma una pessima Desdemona, tanto da non venire citata neppure nei trafiletti di stampa, al solito esaltanti la presunta storicità dell’esecuzione. Ma veniamo al Moro: l’Otello di Simon O’Neill è gravemente insufficiente. E’ evidente come il repertorio italiano sia del tutto estraneo alle caratteristiche di questo tenore (manca il fraseggio, il senso del canto, l’eleganza e la nobiltà), tuttavia una tale piattezza e superficialità interpretativa non era davvero immaginabile. A parte le difficoltà di una voce che risuona sempre ingolata, priva di smalto e di brillantezza (o di bronzea corposità), che fatica enormemente nei pochi acuti della parte, ciò che stupisce è la mancanza totale di sfumature, di espressione, di vita. Già l’“Esultate” è un pericoloso campanello d’allarme: superato a mala pene (e traballando non poco) il salto di quinta iniziale, O’Neill sembra che stia leggendo la lista della spesa: nessun coinvolgimento. Idem “Ora e per sempre addio”, ridotto ad uno stanco e trascinato elenco di note; pessimo il “Dio mi potevi scagliare”, privo di ogni espressione e commozione. Scandaloso il duetto d’amore con Desdemona (stonature, sbavature, inciampi) che si chiude su una bella stecca, pessimo il “Sì pel ciel marmoreo giuro”, dove il tenore arriva stremato. Non è neppure il caso di parlare dell'ultimo atto (per entrambi i protagonisti, tanto che l'unica a sortire un effetto gradevole è l'Emilia di Eufemia Tufano). O’Neill mostra anche delle buone volontà: non fare l’ennesimo clone di Del Monaco e restituire Otello ad una vocalità più vicina a quella del primo interprete (Tamagno, che non era certo un orco), ma il mezzo di cui dispone non glielo consente. Ecco che le mezze voci sono solo falsetti, le sfumature si stemperano in un continuum che resta su di un perpetuo mezzo forte, l’alleggerimento si traduce in un mero sbiancamento, gli acuti sono difficoltosissimi e il legato è mal gestito. Oltretutto l’idea che uno si fa è che O’Neill non abbia la più pallida idea del senso delle parole che canta (neanche l’ascoltatore riesce a percepirle, data la pronuncia fantasiosa dell’interprete). Insomma, solo noia e mal canto. Mi stupisce non poco che un cantante di questo genere venga ritenuto un buon wagneriano (mi stupisce meno, però, il fatto che la Scala, nella sua nota insipienza, l’abbia scelto come Sigmund inaugurale). Alla fine un’incisione inutile: un’occasione sprecata soprattutto per Davis e per la magnifica LSO.
Verdi
Otello
Atto I
Già nella notte densa - Francesco Merli & Maria Caniglia - dir. Victor de Sabata (1938)
Com’è ormai noto Davis sta vivendo una straordinaria stagione di rinnovata creatività: sul podio della LSO – compagine tra le migliori a livello internazionale, per la bellezza e la precisione delle sue interpretazioni: sia nel repertorio operistico, sia in quello sinfonico e concertistico – ha conquistato una nuova dimensione artistica, che ha prodotto risultati solitamente eccellenti. In particolare si è concentrato sulla rivisitazione del grande repertorio sinfonico-corale che ha segnato la sua precedente carriera: dal Messiah al Requiem di Mozart, dalla Creazione alla Messa in Do di Beethoven, sino all’integrale sinfonica di Sibelius e, soprattutto, a Berlioz (di cui è interprete privilegiato da almeno un quarantennio). Non è mancato, ovviamente, l’avvicinamento a Verdi (un certo Verdi, non quello degli “anni di galera” o delle “opere a cabaletta”): Messa da Requiem e Falstaff. Proprio l’ultimo capolavoro verdiano è stato oggetto di un’incisione che si pone ai vertici della discografia, per elganza, nobiltà, lettura sinfonica e performance vocali (su tutte il misurato protagonista di Michele Pertusi che evita, finalmente, certi insopportabili eccessi e gigionate a cui una cattiva tradizione ci ha abituato), riscattando così la brutta registrazione degli anni '90. Non così, purtroppo, questo nuovo Otello. Anzi, come per una specie di contrappasso, e all’inverso del precedente Falstaff, questa ultima incursione verdiana si pone sui livelli più bassi della discografia dell’opera (peraltro numerosa), battendosi per l’ultimo posto in assoluto. E questo, spiace dirlo, non solo per le esecuzioni vocali, ma proprio per la lettura del direttore. L’idea di fondo, percepibile sin dai primi accordi, è la sottolineatura dell’aspetto drammatico, evitando pesantezze o compiacimenti wagneriani (come invece Furtwangler) attraverso un’estrema mobilità espressiva, dalla sonorità tesa, nervosa, non solo nei momenti più concitati della tragedia, ma anche negli squarci lirici, pure sui quali incombe, come un presagio, l’urgenza del dramma che conduce all’unico e sanguinoso esito possibile. Purtroppo Davis non riesce nell’intento, almeno non pienamente: ovviamente il suono della LSO è magnifico, preciso, perfetto eppure manca qualcosa. Manca una visione unitaria, un senso: gli episodi si succedono, ma appaiono slegati, separati tra loro. Sembra quasi che Davis abbia mancato del necessario approfondimento, dell'appropriarsi della partitura (come invece accadde nella perfetta simbiosi con Falstaff). Peraltro non mancano alcune scelte discutibili (gli artificiali e troppo chiassosi effetti sonori dei tuoni campionati che costellano l’apertura dell’opera – davvero troppo invasivi e doppiamente scorretti, in quanto Verdi aveva già previsto, con la musica, la rappresentazione dei fatti atmosferici: in tal modo si ha solo una inutile e sgradevole duplicazione), come, onestamente, non mancano i “bei momenti” (l’accompagnamento di taluni passi di conversazione, o, soprattutto uno dei più raffinati “Fuoco di gioia” che abbia sentito). Alla fine, tuttavia, tra pregi e difetti, rimane un senso di artificiosità, di sterilità: una specie di esperimento di laboratorio, freddo e distante, in cui la ricerca del dramma appare a volte forzata e ricercata. Ma ciò che compromette irrimediabilmente l’incisione è la performance dei cantanti, nessuno dei quali pare avere familiarità e dimestichezza con il nostro repertorio. Premetto il fastidio per l’inaccettabile italiano sfoggiato da tutti gli interpreti (dal protagonista all’ultimo comprimario, salvo Emilia, che è madre lingua): è davvero inconcepibile che per una registrazione così importante – negli intenti – e svoltasi in un contesto tanto prestigioso, non venga preteso un livello quantomeno decente, magari fornendo un esperto linguistico (un italian coach) che corregga certi orrori. Fatto sta che erano anni che non si sentivano certi garbugli, eliminazioni di parole, indistinte sequele di consonanti e vocali invertite, omissioni di doppie, fantasiosi dittonghi e totale incapacità di pronunciare la “T” e la “R”. Tolta questa tara (che da sola varrebbe a squalificare l’incisione, perché davvero fastidiosa) comincio dal migliore in campo: lo Jago di Gerald Finley. La voce è chiara, tendente all’acuto, si sforza più di tutti a ricercare il giusto fraseggio, ad esaltare le mezze voci (che però spesso confinano col falsetto) ed i segni espressivi, ad evitare di incorrere nel solito Jago vilain, optando per un personaggio più razionale, mellifluo, calcolatore (come Shuisky nel Boris). Il suo “Credo” non è plateale o grandguignolesco (condito magari dall’orribile risatazza finale), è sussurrato, pacato eppure terribile. Così come ben riuscita è la narrazione del sogno di Cassio, cantata a fior di labbra e accompagnata da Davis con un’inusitata trasparenza orchestrale. Ma qui purtroppo finiscono i pregi: la voce in molti punti fatica, balla, inciampa, e pure il gusto sfocia nel greve (la ballata dell’Atto I, ad esempio, è proprio una canzonaccia da osteria). Ingiudicabile la Desdemona di Anne Schwanewilms, piatta e uniforme non mostra di avere alcun controllo sulla voce, che ondeggia pericolosamente negli sbalzi tonali: fissa negli acuti (gridati o strozzati) tende a calare sensibilmente non appena il volume cresce e la tessitura sale (la chiusa del duetto segna una fastidiosa dissonanza derivante dalla mancata intonazione di tenore e soprano, ognuno per suo conto, tanto da trasformare Verdi in una specie di Berio). Insomma una pessima Desdemona, tanto da non venire citata neppure nei trafiletti di stampa, al solito esaltanti la presunta storicità dell’esecuzione. Ma veniamo al Moro: l’Otello di Simon O’Neill è gravemente insufficiente. E’ evidente come il repertorio italiano sia del tutto estraneo alle caratteristiche di questo tenore (manca il fraseggio, il senso del canto, l’eleganza e la nobiltà), tuttavia una tale piattezza e superficialità interpretativa non era davvero immaginabile. A parte le difficoltà di una voce che risuona sempre ingolata, priva di smalto e di brillantezza (o di bronzea corposità), che fatica enormemente nei pochi acuti della parte, ciò che stupisce è la mancanza totale di sfumature, di espressione, di vita. Già l’“Esultate” è un pericoloso campanello d’allarme: superato a mala pene (e traballando non poco) il salto di quinta iniziale, O’Neill sembra che stia leggendo la lista della spesa: nessun coinvolgimento. Idem “Ora e per sempre addio”, ridotto ad uno stanco e trascinato elenco di note; pessimo il “Dio mi potevi scagliare”, privo di ogni espressione e commozione. Scandaloso il duetto d’amore con Desdemona (stonature, sbavature, inciampi) che si chiude su una bella stecca, pessimo il “Sì pel ciel marmoreo giuro”, dove il tenore arriva stremato. Non è neppure il caso di parlare dell'ultimo atto (per entrambi i protagonisti, tanto che l'unica a sortire un effetto gradevole è l'Emilia di Eufemia Tufano). O’Neill mostra anche delle buone volontà: non fare l’ennesimo clone di Del Monaco e restituire Otello ad una vocalità più vicina a quella del primo interprete (Tamagno, che non era certo un orco), ma il mezzo di cui dispone non glielo consente. Ecco che le mezze voci sono solo falsetti, le sfumature si stemperano in un continuum che resta su di un perpetuo mezzo forte, l’alleggerimento si traduce in un mero sbiancamento, gli acuti sono difficoltosissimi e il legato è mal gestito. Oltretutto l’idea che uno si fa è che O’Neill non abbia la più pallida idea del senso delle parole che canta (neanche l’ascoltatore riesce a percepirle, data la pronuncia fantasiosa dell’interprete). Insomma, solo noia e mal canto. Mi stupisce non poco che un cantante di questo genere venga ritenuto un buon wagneriano (mi stupisce meno, però, il fatto che la Scala, nella sua nota insipienza, l’abbia scelto come Sigmund inaugurale). Alla fine un’incisione inutile: un’occasione sprecata soprattutto per Davis e per la magnifica LSO.
Verdi
Otello
Atto I
Già nella notte densa - Francesco Merli & Maria Caniglia - dir. Victor de Sabata (1938)
27 commenti:
Dunque, è andata così: avevo visto questa registrazione in negozio e l'avevo lasciata perdere; ho letto la tua recensione e m'hai fatto venir voglia di ascoltarla.
Sono alla fine del secondo atto e - devo dirlo - penso che tu sia stato cattivello.
Cominciamo dall'italiano: ho sentito di molto peggio, e proprio in quest'opera. Vickers, per esempio: sembrava uscito da un film di Stanlio e Ollio, ma il personaggio era talmente grandioso che passavi sopra tutto.
Per quanto riguarda la direzione, mi sembra eccellente, lieve e vaporosa: hai ben ragione nel sottolineare l'assenza di wagnerismi di riporto.
O'Neill mi sembra convincente: finalmente un tenore che non fa la voce grossa! Certo, non è Tamagno, e si sente, ma cerca finalmente una strada esecutiva personale. Non sarà l'Otello del secolo, ma se è riuscito ad aprire una strada diversa dal solito, tanto di cappello.
Finley è gelido, agghiacciante, perfetto: niente biecaggini in stile gobbesco. E' il migliore in campo ed è anche uno dei migliori Jago che io abbia mai ascoltato.
Persino la Schwanewilms finisce complessivamente per convincermi.
Certo, capisco il tuo sgomento e la tua perplessità: questo non è un Otello di vocalisti, ma di declamatori, categoria che qui so non essere particolarmente amata. A me questa registrazione piace molto, ma mi rendo conto che è questione di gusti.
Concludo con un "COMPLIMENTI" per le tue recensioni discografiche: come sai non è che le condivida poi molto, ma sai che palle se dicessimo tutti le stesse cose...
Ciao!
Pietro
Non mi stupisce per niente veder fare simili distinguo tra “vocalisti” e “declamatori” - uno dei tanti sofismi, non tra i più intelligenti ma sicuramente il più assurdo, per avallare il NON-canto - da parte di chi individua un Otello “grandioso” in quella completa e atroce negazione del canto chiamata Jon Vickers. Da parte mia, posso solo liquidare tutti questi distinguo e tutti questi “grandiosi interpreti” con una parola quanto mai appropriata: spazzatura.
Saluti
Premesso che non ritengo meritevole di risposta l'inutile provocazione di Cesconegre (non si può definire "spazzatura" l'Otello scelto da Karajan senza neppure spiegarne i motivi), preferisco rispondere agli spunti di chi l'ha preceduto nel commento.
Non credo sia una questione tra "declamatori" e "vocalisti" - peraltro Otello rimane opera inserita fortemente nel novero della tradizione melodrammatica italica, in nulla essendo riconducibile al declamato post wagneriano e straussiano (se pure si può accomunare), e neppure a quello verista o "futurista". Forse sono stato eccessivamente cattivo nella recensione, ma le aspettative per questo Otello erano molte (memore dello splendido Falstaff). Davis innanzitutto: dato atto delle intenzioni e della eccellenza tecnica, non posso che constatarne la fredda e artificiosa realizzazione. Certo è una letura importante, che rifugge i soliti wagnerismi di riflusso della maggior parte dei direttori di estrazione sinfonica. Quanto al cast ribadisco quanto scritto. Il migliore resta Jago - credo di aver messo bene in evidenza i meriti nell'evitare i facili cliché "gobbiani", interpretazione misurata e spietata, razionalissima, con talune pecche vocali (e di gusti) su cui si può tranquillamente soprassedere. L'Otello di O'Neill però resta improponibile: proprio per la piattezza interpretativa. Sono ben felice che si eviti la scimiottatura dell'Otello di Del Monanco (un falso storico bello e buono), però restano evidenti i problemi del fraseggio e della tenuta vocale. Le stonature evidenti e la sistematica omissione dei segni d'espressione. A me un Otello così non basta: non cerco il puro vocalismo, ma pretendo interpretazione e coscienza del ruolo...O'Neill sembra legga la lista della spesa: in italiano precario (Vickers al confronto è molto meglio). Certo è un passo avanti verso la riscoperta dello stile appropriato per il ruolo, tuttavia non credo sia il repertorio più adatto a O'Neill. La Desdemona resta però inaccettabile - sia essa declamatrice o vocalista - poichè stonata e fissa, e sfido chiunque a verificarlo. A me ha deluso molto, tutto qui. Circa le divergenze d'opinione...ognuno giustamente ha il suo gusto, e credo doveroso il rispetto...e poi le discussioni più interessanti e costruttive si fanno con chi la pensa diversamente (lo dico anche a Cesconegre).
Quando scrivo su questo blog penso sempre di poter dare molte cose per scontate, ma a quanto pare invece non è così!!
E così c'è davvero bisogno di spiegare perché Vickers non è niente di più che spazzatura vocale?! Davvero registi e direttori d'orchestra hanno infinocchiato le vostre percezioni fino a tal punto?!
Duprez, quando tu scrivi "non cerco il puro vocalismo, ma pretendo interpretazione e coscienza del ruolo" sembri ignorare che la tecnica vocale è la condicio senza la quale non può aversi nessuna interpretazione.
Comunque, per quanto riguarda Vickers, basta un semplice ascolto comparato per qualificarlo quale mera porcheria vocale.
Qui Antonio Paoli:
http://www.youtube.com/watch?v=AE4G0-AKPlo
Qui Vickers:
http://www.youtube.com/watch?v=Uaen8W7Ejzg
Vickers è tutto un farfugliare con voce claudicante, senescente e morchiosa, salvo poi urlare selvaggiamente già a partire dai primi acuti. Dire che è gutturale è un eufemismo: pura fibra, gola e naso esibiti nel modo più bieco. E' OSCENO. Basta sentire in che modo viene risolto lo scabroso passaggio sulle parole “l’anima acqueto”: Paoli sa toccare la nota sul passaggio di registro con grazia e morbidezza, il che non vuol dire stimbrare e spoggiare, mentre Vickers rovina tutto con un falsettino da dilettante: alla Corrida di Gerry Scotti si sente di meglio. Questo sarebbe Otello?? Ma per favore... sembra il ritratto di una strega del Macbeth!!! E' uno schifo, e non fa che confermare ciò che ho sempre pensato di Karajan (come di gran parte dei direttori dell'ultimo mezzo secolo): che fosse cioè un analfabeta vocale.
Detto ciò, non esiste interprete alcuno di Otello, negli ultimi sessant’anni, che si possa ascoltare: sostanzialmente, è tutta spazzatura! Eccetto forse il solo Del Monaco, ben lungi dall’essere per me un interprete di riferimento, ma sicuramente fondamentale per portata storica. Direi quindi che l’unico Otello degno di essere ricordato nel secondo Dopoguerra è quello di Del Monaco.
Saluti
Vickers in ruoli come Giasone, Don Carlo, Riccardo (Ballo), Florestano, Otello, Siegmund, Tristan, Parsifal, Samson, Don Josè, Pollione, Peter Grimes, nonostante una voce dal timbro brutto e sugheroso lo concedo, ma robusta dalla buona estensione, sostenuta da grande intelligenza e sensibilità interpretativa, è stato un grande cantante a parer mio con i suoi pregi ed i suoi difetti di cui egli stesso era pienamente consapevole.
L'ultimo Otello? Forse Domingo con Kleiber in Scala (ma ascolterei anche Cossutta, Giacomini, Martinucci).
"Spazzatura" e "schifo" quindi non sono parole che collego ad artisti come loro... e non si da mai nulla per scontato ;-)
Marianne Brandt
E questa, cara Marianne, cosa sarebbe, una lista di Otelli, o una teoria di orchi e cagnacci??
Domingo, Giacomini... il gotha del NON-CANTO!!
BLEAH! SPAZZATURA!
Che robe... ma mi prendete in giro forse?!
Ahahahhaha Cesco, ma insomma, ti ho detto solo di ascoltare per curiosità non li ho mica elencati come riferimento (che infatti si fermava al Domingo dei primi anni '80), se cogli solo difetti e cose brutte è un problema tuo non mio.
Marianne Brandt
Dire che l'Otello di Domingo sia NON-CANTO mi sembra non stare né in cielo né in terra... L'Otello di Kleiber è splendido, così come quello con Levine. Del resto quale sarebbe l'Otello migliore secondo Cesconegre?
Per quanto mi riguarda tutto ciò che ha fatto Domingo è non-canto, dal momento che Domingo non ha mai saputo cantare in tutta la sua vita. Un osceno urlatore completa negazione del canto e frutto solo dell'imbarbarimento della società e dei suoi gusti, oltreché dell'infinocchiamento operato dalle case discografiche sulle orecchie del pubblico prono e acritico, ovviamente a braccetto con la critica più delinquente.
L'Otello di Kleiber non so cosa sia, così come quello di Levine: io conosco solo l'Otello di Verdi e quello di Rossini.
Se mi chiedi quali sono gli interpreti di Otello che preferisco, posso dirti che tra i pochi che riesco ad ascoltare figurano Tamagno, Paoli, Lauri Volpi e Bergonzi (quest'ultimo ovviamente limitatamente all'incisione in studio di una o due arie, visto che non ha mai portato il ruolo sul palcoscenico se non in una estrema e non riuscita esecuzione concertistica).
Saluti
Ma Cesconegre...ancora 'sta novena? Imbarbarimento, infinocchiamenti, congiure, delinquenze... Ma stiamo parlando di musica o di questioni di stato? Inutile fare l'avvocato di Domingo - che non ne ha certo necessità - tuttavia vorrei sottolineare il timbro, le capacità di fraseggio, il colore. Non si fa una carriera come la sua "urlando"...siamo seri e non lanciamoci in inutili provocazioni. Parlo del Domingo migliore, ovviamente, e nel suo vero repertorio. Otello resta un ruolo perfetto per la sua voce, anche perchè non sollecita il registro acuto, da sempre difficoltoso. Cantante, poi, di grande intelligenza e comunicativa. A te può pure non piacere, ovviamente non discuto i gusti personali, ma eviterei sentenze e maledizioni (tanto feroci e intransigenti, quanto, se mi permetti, immotivate e scontate).
Mi spiace che tu non conosca Kleiber e Levine (mi auguro però che tu non parli di ciò che mai hai visto o sentito).
Ti informo che l'Otello di Verdi (e di Rossini) esiste solo sulla carta di una partitura: quindi per percepirlo è necessario il tramite di interpreti. E tra di essi il direttore d'orchestra, fondamentale in quel repertorio. Lo dice Verdi, non solo io, tanto che lui stesso, dalla seconda parte della carriera (il Verdi migliore), non ha più accettato scritture da teatri che non disponessero di un direttore d'orchestra (aspetto che lui evidentemente riteneva importantissimo). Ti consiglio dunque di informarti meglio, Cesconegre, magari sfogliando qualche libro di storia della musica in più (ti consiglio, su Verdi, i volumi del Budden).
Non discuto i tuoi gusti in merito agli Otelli da te indicati. Sottolineo però come di essi abbiamo solo pochi brani che fanno solo intravedere la loro interpretazione: di Tamagno restano 3 esecuzioni (peraltro risalenti al periodo del ritiro, purtroppo); di Lauri-Volpi qualcosa di più; di Paoli pure pochissimi frammenti (ma di gusto discutibile).
Ma caro Duprez, sarebbe assai interessante invece discutere una volta tanto di cantanti veri anziché delle solite star del disco che con il canto non c'entrano proprio un bel niente. Io non aspetto altro che sentire un tuo parere sui miei gusti, e che tu magari mi proponga migliori alternative, perché vedi non devi credere che io non voglia mettere in discussione i miei gusti e le mie convinzioni: io semplicemente, prima di addentrarmi in qualsiasi discussione sui meriti e sul valore di un interprete, stabilisco prima se di canto si tratta, oppure no.
Vickers, Domingo, Giacomini: lordume vocale, orribili negazioni del canto, su cui non credo valga neppure la pena fermarsi a riflettere.
Prima si stabilisca cosa è canto e cosa non lo è: una volta attivato questo filtro, allora sì è possibile discutere!!
I presunti pregi che tu hai elencato in Domingo sono solo falsità. Innanzitutto, il timbro ed il colore, che in una voce così mal impostata ed emessa in quel modo atroce risultano del tutto inqualificabili. E se proprio dovessi sforzarmi a classificare il timbro ed il colore di Domingo, anche se la sua dilettantesca ed urlatoria (non)tecnica d'emissione impedisce di cogliere la vera natura della sua voce, senza dubbio li definirei osceni ed inespressivi, oltreché del tutto inadatti a cantare qualsiasi ruolo, Otello in primis.
Le capacità di fraseggio mi piacerebbe sapere dove tu le abbia mai sentite!! AHAHAHA non farmi ridere!! Domingo per tutta la carriera a mala pena ricordava le parole che doveva cantare... il fraseggio di Domingo è sempre stato un ridicolo “blablablablabla”. Neanche le parole sapeva!!!
Quanto alla carriera, ci sono molti modi per farla, e Domingo non è stato il primo né l'ultimo urlatore ad avere una carriera lunga e gloriosa. Se tu non sei capace di distinguere un'emissione corretta da un berciare sgraziato e dilettantesco non sono problemi miei!! Domingo non canta, ma urla e fa “blabla”. Altroché recitar-cantando, il suo è un BALBUZIAR -BERCIANDO!!! E' la negazione del canto, della musica, e del teatro. Intelligente però lo è, questo sì: come uomo d'affari ha saputo vendersi meglio di chiunque altro. E vi ha infinocchiati tutti.
Ih ih
Saluti
Vedi, la tua risposta mi conferma la profonda differenza che vi sia tra il "ragionare" e lo "sparare sentenze", ripetendo (a vanvera) concetti di altri, grondanti pregiudizio e semplificazioni.
Per te, qualisasi cosa non incontri i tuoi gusti (reazionari a prescindere) è spazzatura, e chi la apprezza è un povero idiota che "fa ridere". Mi spiace ogni volta dover ribadire i soliti concetti, ma mi spiace ogni volta leggere rabbiose e insopportabili tirate. Quindi o ti moderi o mi assumo l'incarico di cancellare ogni tuo intervento che ritengo offensivo e gratuito.
Questo non è il giornalino delle superiori, nè un bar sport dove fare bassa tifoseria. E' uno spazio libero, ma molto frequentato e seguito. Sei dunque pregato di lasciare espressioni quali "immondizia", "spazzatura" etc..a casa tua.
Ti invito nuovamente a smettere di insultarmi sostenendo che non riesca a distinguere urla da canto. Domingo non urla affatto, ma lasciamo perdere (anche perchè credo che tu non abbia mai ascoltato Domingo, ma solo letto critiche e demolizioni, che ripeti a pappagallo senza porti neppure il problema di comprenderne il senso).
Io davvero non comprendo questo integralismo grottesco e dannoso (per tutti).
La tua di risposta, Duprez, mi conferma invece quale differenza vi sia tra chi non fa che "ragionare", e chi sa anche ascoltare.
Nessuno è fortunato in misura tale da non aver mai sentito Domingo. Purtroppo io non faccio eccezione. Domingo è ovunque…
Propongo un altro ascolto comparato: “Ora e per sempre addio”:
- Leo Slezak: http://www.youtube.com/watch?v=Y939q3s8fT0
- Placido Domingo: http://www.youtube.com/watch?v=GDnfaapWK0Q
L’ascolto parla da sé: glossare, o "ragionare", è superfluo.
Ih ih
Saluti……………………………… ora e per sempre... addio?
Questo Cesconegre che non sa che sbraitare, insultare, urlare e che, come ho visto ieri sera, parla con grande disinvoltura perfino di Nietzsche, Platone ed Eraclito, in un minestrone dal sapore quantomeno discutibile, è un caso di grande interesse.
Marco Ninci
Sul fatto che "ragionare" per te sia superfluo, credimi, non nutrivo dubbio veruno.
Come pure non nutro alcun dubbio sull'inutilità di questi due ascolti (che vorrebbero dimostrare?). Ah già, non si può glossare o ragionare, ma solo inchinarsi a supreme verità rivelate (da chi poi?).
Peraltro, fossi in te, rileggerei le parole scritte da Celletti sull'Otello di Vickers (le troverai sorprendenti) e pure su Domingo (di cui evidenziava, certamente, taluni difetti e taluna genericità, ma sempre circoscritta a determinati repertori: mai ha scritto che trattasi di urlatore e non cantante).
Non capisco francamente il giochino di fare l'integralista più integralista di tutti, la gara al titolo più "cruscante" da dedicare a cantanti che evidentemente non incontrano i tuoi gusti (a proposito: lo sai che i tuoi gusti non sono vangelo e non è che se qualcuno non ti piace automaticamente è un "cane orrendo"?), il voler non sentire altro che brutture. Già te l'ha scritto Marianne - e lo condivido in pieno - se tu non riesci a trovare che brutture, in tutto ciò che è successo nel canto dopo la rivoluzione d'ottobre, è un problema solo tuo (e ribadisco trattarsi di un "problema").
Posso aggiungere una piccola citazione a beneficio del nostro focoso Cesco?
"Placido Domingo, uomo di cultura e musicista, conosce i limiti della sua voce ed ha l´innato senso della misura. Splendida figura in scena, ha impersonato Otello con equilibrio e vis tragica. Otello non è la bestia feroce che alcuni presentano come un quaerens quem devoret".
Chi ha scritto queste parole? un critico incompetente o delinquente, dirai tu.
Invece le ha scritte Giacomo Lauri Volpi.
Cito dalla terza edizione di "Voci parallele", Bongiovanni 1977, nell´appendice.
Su Vickers, cito un articolo di Celletti relativo all´edizione RCA 1960 dell´Otello.
"Nessuno ha mai reso questo brano (parla del monologo "Dio mi potevi scagliar", ndr.) così come lo canta questo ispirato e stupefacente tenore canadese".
Per il resto della polemica, appoggio Duprez incondizionatamente.
Saluti.
Celletti è un critico che rispetto ma con cui raramente sono d'accordo, soprattutto quando recensisce i dischi d'opera.
Peraltro, non ho bisogno di un critico per far funzionare le mie orecchie.
Piuttosto, se a taluno le orecchie non bastassero, basta leggere un un qualsiasi trattato di canto per rendersi conto che Domingo è l'anti-canto.
Ho messo gli ascolti a confronto affiché, attraverso l'ascolto comparato, chiunque possa cogliere che differenza vi sia tra un canto corretto, nobile e raffinato, ed un inespressivo, tremendo ed agoscioso faticare di gola. La differenza cioè tra il canto (quello vero) ed il suo moderno surrogato discografico. La diferenza tra la civiltà della voce e dell'arte e l'esibizione di una truculenta, anche se robusta, fibra corporea. La differenza tra musica ed immondi versacci.
Saluti
Qualcuno dovrebbe spiegare a Cesconegre che, tutte le volte che parla, rischia una querela da parte di qualche cantante. E' un blog molto letto e non si tratta di un'ipotesi peregrina. E se non la rischia lui, la rischia il sito che lo ospita. "Immondi versacci", "spazzatura", "da vomito" sono proprio espressioni da querela. Non sarebbe un gran comportamento versi chi ha la buona grazia di permettergli di parlare.
Marco Ninci
Fermo restando che ognuno di noi è responsabile per quello che dice e solo di quel che dice può essere chiamato a rispondere, ti ricordo, o Ninci, che la legge offre strumenti di difesa non solo contro tutto ciò che attenta al buon nome e alla dignità del singolo, ma anche contro ogni forma di minaccia, velata o palese che sia.
Sì, però, Antonio, si dovrebbe usare un metro valido per tutti: non è tollerabile che taluno (Cesconegre) possa insultare tutto e tutti (compreso il sottoscritto), e ad altri venga impedito di reagire a detti insulti e provocazioni (peraltro non vedo alcuna minaccia velata o palese in ciò che scrive Ninci, anzi affronta una questione che andrebbe FINALMENTE affrontata). Non capisco questa assurda difesa d'ufficio di Cesconegre (che è ospite esattamente come Ninci e altri) niente di più e niente di meno.
Quale minaccia? Il mio è soltanto un richiamo ad elementari regole di prudenza, al fine di evitare complicazioni. Cesconegre può insultare chi vuole, compresa la mia persona. Io posso rispondere, ma figuriamoci se perdo tempo con le querele. Io non ho nessuna conoscenza nell'ambito del teatro lirico, non conosco personalmente nessun cantante, direttore, regista. Sono totalmente solo e privo di ogni potere. Quindi chi posso minacciare, palesemente o velatamente? Chi mi conosce oltretutto sa che una pratica di questo genere mi è totalmente estranea. Sono esterrefatto che un semplice consiglio di buon senso possa essere interpretato come una minaccia velata. Sto scoprendo un terreno pieno di stranissimi gineprai.
Marco Ninci
E, secondo me, non è soltanto in ragione di possibili complicazioni di ordine legale che certe espressioni andrebbero evitate. Tempo fa c'è stata sulla "Voce del loggione" una discussione vivace riguardo a Villazon, cantante di cui nessuno nega i problemi, magari mediocre etc. Ora però un interlocutore lo ha definito "latrina vocale". Ecco, si può essere netti e indiscutibili usando argomenti tecnici, competenti, che non lascino spazio a dubbi; tenendo tuttavia da parte questo tipo di definizioni. Le quali non fanno che togliere autorevolezza alla critica; fanno intendere che dietro quel giudizio c'è un lavorio interno di chi lo esprime, una rabbia accumulata, il più delle volte una frustrazione. E allora spunta il personale; tutto si confonde e nessuno comprende più nulla. E' una critica, una rivincita, uno sfogo? Chi sa...Caso mai una ben piazzata ironia è ben più efficace di questi gorgogliare e ribollire interni.
Marco Ninci
A me il "due pesi, due misure", vedi Steccanella e Marco Ninci, non è mai piaciuto: quindi proporrei in futuro, a prescindere da chi scrive o dal contenuto, che può essere di interesse nazionale non mi importa, se ci toccherà leggere frasi come quelle scritte da Cesco o da chi per lui o si cassa il messaggio o non lo si pubblica o lo si modifica visto che tanto i diretti interessati di buona educazione o di automoderarsi non vogliono saperne nonostante siano stati ripresi e "bannati".
Se Stecca e Ninci sono stati ripresi, perchè Cesco no?
Marianne Brandt
Scusami, Marianne, non mi sembra di essere stato ripreso o censurato. Ho avuto delle discussioni vivaci, ma nessuno ha usato con me il tono della maestra. Sempre da pari a pari, com'è giusto che sia.
Marco Ninci
Ninci, per principio e anche per esperienza passata diffido dei latori di buoni e disinteressati consigli di prudenza e cautela. Mi rallegro che nel tuo caso non vi fossero altre finalità, ma solo una sincera preoccupazione per il destino del blog. A ogni buon conto, fidati, sappiamo difenderci e lo faremo, se sarà necessario. Per quanto concerne Cesconegre mi auguro anch'io che acquisti maggiore continenza e temperanza espressiva, doti che in genere sono uno dei più graditi frutti dell'età. Quanto a Villazon "latrina vocale" è espressione certamente eccessiva, come eccessivi sono i peana sciolti da certa critica per un cantante men che mediocre, ma abilissimo promoter di se stesso. Come il suo mentore Domingo. Peana spropositati, proposti come verità rivelate (e difatti privi di qualsivoglia supporto teorico e storico: basta un disco di Ferruccio Tagliavini a smentirli), non possono che suscitare reazioni di segno opposto ed egualmente spropositate.
Caro Ninci la Grisi nell'altra discussione ha minacciato di non pubblicarti più, mi pare una bella ripresa ;-)
Marianne Brandt
Tornando a Otello mi vien da dire "che avvien? Son io tra i saraceni o la turchesca rabbia è in voi trasfusa da sbranarvi l'un l'altro?". Affrontando per l'ultima volta l'argomento, credo che non tutto possa essere giustificato con la "giovanile irruenza" sia nella forma che nel contenuto. Neppure trovo una qualche giustificazione all'improperio, nei peana a volte eccessivi che taluni destinano a cantanti che non li meritano. Espressioni quali "latrina vocale" e "spazzatura" sono talmente sproporzionate, eccessive e fastidiose, che gettano solo discredito su chi le pronuncia. Ripeto: nella forma e nel merito. Su Domingo si possono scrivere tante cose, si può giustamente criticare certa genericità, certa ansia di frequentare tutto il repertorio, la mancanza di un vero registro acuto, la difficoltà in talune zone della tessitura. E dunque? Basta questo a dire che emette "immondi versacci"? Riporto alcuni giudizi di Celletti, che di certo non può essere tacciato di "sordità musicale" o "malafede" o "insensibilità alle ragioni del canto", e che non si è certo risparmiato nelle critiche alla vocalità dominghiana (critiche puntuali e obiettive, misurate e circostanziate, non integraliste e furibonde):
1) RACCINTI DI HOFFMANN: "Domingo...è protagonista eccellente"; "con il suo timbro sonoro e vellutato, Domingo ha notevole fascino"
2) NORMA: "rispetto a Corelli, Domingo contrappone un Pollione più cordiale e affabile e ,soprattutto, amoroso. E' la qualità stessa della voce - calda, vellutata, sensuale - a determinare questa scelta...si aggiungano una certa nobiltà di fraseggio e il fatto che la tessitura centrale della parte risparmia quasi sempre a Domingo quelle forzature in zona acuta che costituiscono il suo tallone d'Achille. In linea generale si può parlare d'una buona prestazione".
3) OBERON: "offre una delle sue migliori prestazioni fonografiche, soprattutto perchè fraseggia con varietà, oltre che con grande nobiltà, alternando il canto fiero e scandito a quello morbido ed estatico"
4) AIDA: "Domingo ha una voce che pur essendo corposa e ampia nei centri e maschia nelle vibrazioni, spiega tutta la dolcezza dell'impasto e la suggestione dello smalto nell'espressione estatico-elegiaca. Altrove può fraseggiare con vigore e cantare con slancio, ma il suono, in alto, manca dei riflessi adamantini e dello squillo argenteo"; "che cosa può fare un simile tenore in Aida? Eseguire ottimamente certe pagine e destreggiarsi abilmente nel resto, contando sul temperamento, sull'intelligenza, sul caldo fraseggio, sulla musicalità e sulle qualità timbriche per fornire un'esecuzione nel complesso apprezzabile, ma non ideale"
5) TROVATORE: "Domingo e la sua voce calda e pastosa, la sua dizione chiara e nitida, il suo fraseggio legato e tornito, sono fattori di peso molto rilevante"
TOSCA: "Domingo è nato per cantare Cavaradossi". Etc....
Ovviamente vi sono anche molte critiche, e spesso condivisibili, soprattutto a partire dai primi anni '80, ossia il periodo peggiore di Domingo: nei '90 cambia infatti repertorio.
Quel che si nota, però, è che pure un critico che non subisce condizionamenti e suggestioni (e che non ama particolarmente il cantante in oggetto) non si lascia andare a tirate furibonde e scorrette: nessun livore e nessuna rabbia, nessun insulto e nessuna ingiuria. E all'epoca vi erano già i peana a Domingo, ma in nessun modo hanno giustificato o portato a critiche esagitate, ingiuste e, di conseguenza, superficiali.
Posta un commento