venerdì 26 novembre 2010

Vittorio Grigolo: The Italian Tenor

L’industria del disco e i grandi teatri, universi che dovrebbero esser paralleli e sono, invece, sempre più comunicanti, ma quasi mai per offrire al pubblico un prodotto minimamente degno di interesse, preso verosimilmente atto dello stato di decozione in cui versano alcuni celebrati, sebbene ancor giovani, tenori, non perdono l’occasione di creare un nuovo astro Vittorio Grigolo, già Duca di Mantova nel Rigoletto televisivo Andermann/Domingo. Come ognun sa il divo non può esistere senza il disco e viceversa, ed ecco quindi che il mercato provvede a confezionare questo album, dedicato nel titolo al tenore italiano e incentrato su alcune delle più significative pagine del melodramma da Donizetti a Puccini, dall’ambito del lirico leggero a quello del lirico puro, al lirico spinto.

In buona sostanza è il repertorio che un Beniamino Gigli o un Luciano Pavarotti avevano sulle tavole dei palcoscenici e delle sale da concerto assemblato intorno ai tre-quattro lustri di carriera.
Peraltro di questo estesissimo, seppur poco fantasioso, repertorio Grigolo ha affrontato ad oggi, in ambito teatrale, la porzione vocalmente meno onerosa e più consona alle sue caratteristiche vocali, ossia Bohème, Schicchi ed Elisir, oltre naturalmente al Rigoletto in televisione (è atteso nel ruolo a Zurigo e alle Chorégies d’Orange, anche se un tenore che incontra difficoltà come Alfredo della Traviata, difficilmente potrà in teatro risultare convincente come Duca, parte che insiste nella stessa zona della voce, ma richiede ben altra ampiezza e incisività di accento), e al Corsaro, affrontato per inciso sempre nella cornice acusticamente favorevole dell’Opernhaus, la medesima sala che avrebbe dovuto ospitarne il debutto quale Pollione (lo rimpiazzerà Roberto Aronica).
Superflua, oltre che un poco tediosa, perché poco vario ne sarebbe l’argomento, una disamina particolareggiata dell’intero disco, concentreremo la nostra attenzione su alcuni brani, particolarmente significativi delle diverse tipologie di tenore italiano trattate nell’album. Tipologie che per essere risolte in maniera significativa richiedono le doti naturali di un Gigli o quelle di accento di un Pertile, oltre ben inteso il loro bagaglio tecnico. E questo non già per essere i soliti passatisti del Corriere, ma per onestà nei confronti del pubblico ed onesto servizio verso la musica. Forme di onestà differenti, ma delle quali il teatro non può fare a meno.
Nella romanza della Favorita, a latitare non sono le intenzioni espressive, ma la realizzazione è precaria e aleatorio ne è, di conseguenza, l’esito. Rileviamo prima di tutto come il do esibito nella sezione conclusiva sia facile e abbastanza sonoro, com’è consuetudine per i tenori spontaneamente “lunghi”, mentre i primi acuti (la e si della cadenza di tradizione) denotano sforzo e tensione, anche perché collocati in chiusa a un brano di tessitura eminentemente centrale, che insiste cioè in quella fascia in cui la voce di Grigolo suona ora vuota (attacco del recitativo) nei tentativi di smorzare e addolcire, ora enfia (“trama infernal”) quando il tenore ricerca, giustamente, accento magnifico e grandioso, che è la cifra del personaggio da grand-opéra. Tralasciamo pure la realizzazione piuttosto sciatta delle acciaccature (“la gloria mia”, “ma ti perdei”), ma il secondo passaggio di registro, come si dice in gergo, “non gira”, costringendo il tenore a spingere o a falsettare i suoni compresi tra il fa3 e il sol3, come nella frase “larve d’amor, fuggite insieme”, nella quale manca completamente il gioco di crescendo, rubati e accenti prescritti con grande chiarezza dall’autore. Il confronto con i grandi interpreti discografici di questa pagina, che per inciso affrontavano spesso in teatro il ruolo di Fernando, neppure si pone.
Il cantabile della Bohème ripropone le difficoltà di Grigolo nel reggere una tessitura medio-alta, tanto che il do della “speranza”, peraltro tenuto allo spasimo, vede il cantante molto più in affanno che non nel corrispondente passo donizettiano. Qui a latitare, oltre alla sicurezza sul passaggio di registro, che dà luogo a insistiti suoni nasaleggianti perché “dare di naso” è un buon surrogato del passaggio corretto (si ascoltino frasi come “talor dal mio forziere” e “ed i bei sogni miei tosto si dileguar”), e alla fermezza degli acuti, fin dal primo si bemolle di “chi son”, è l’accento tenero e incantato dell’incontro al chiaro di luna, quell’accento che il compositore richiede e sollecita praticamente a ogni battuta, con fittissime variazioni di tempo e dinamica, oltre che con indicazioni espressive quali “con anima”, “dolcissimo”, “sostenendo largamente”. A più riprese, ad esempio su “per sogni e per chimere” e su “talor dal mio forziere”, Grigolo deve ricorrere a percettibili inspirazioni, che il microfono mette impietosamente in evidenza, per sostenere la grandiosità e la lunghezza delle arcate musicali pucciniane, senza peraltro riuscire ad evitare che il suono vada “indietro”.
Nei panni di Nemorino, parte sostenuta più volte in teatro e teoricamente ben più consona ai suoi mezzi di altre affrontate in questo disco, Grigolo si conferma povero di colori e avaro di sfumature, affrontando la struggente melodia quasi fosse una canzonetta di consumo. Inserisce un inatteso quanto parco abbellimento (una sorta di mordente o trillo breve) su “m’ama, lo vedo”, ma chiamato ad esibire un poco di cavata alle parole “che più cercando io vo”, non trova adeguata pienezza e rotondità di suono. Il tentativo, in sé lodevole, di avere una cavata confacente e di accentare con proprietà sulla solita zona del secondo passaggio rende il canto piuttosto duro e tendenzialmente legnoso, come nella frase “cielo, si può morir” e nella cadenza finale, risolta in modo, a esser generosi, meccanico e ancora una volta con scarso interesse per il personaggio e la circostanza drammatica. Davvero non si comprende il senso di consegnare al disco quella che sembra più una lettura a prima vista che un’interpretazione seriamente meditata. Mi permetto una chiosa perché certamente qualcuno dei lettori eccepirà che alcuni Nemorino di levatura storica tutto avevano fuorché la cavata, ma erano mistificatori sublimi e sapevano modulare la voce in modo tale da dar l’illusione di una ampiezza e di una cavata, che non c’era. E non parlo solo di Tito Schipa, che a detta di chi ebbe il privilegio di ascoltarlo al centro era ampio e sonoro.
Nell’assolo del terzo atto della Tosca, il cantante soffre la tessitura marcatamente centrale del brano, giungendo nella prima parte (“entrava ella, fragrante”) a scivolare nel parlato. Appena la tessitura sale un poco (“le belle forme disciogliea dai veli”) ricompaiono suoni malfermi, che denotano la fatica nel cantare piano e legato in una zona della voce per sua natura scomoda e impervia. Ricordo che proprio la frase “le belle forme disciogliea” era la palestra di filature e di arbitri nei primi trent’anni del secolo passato. Per inciso la capacità di sfumare, addolcire, in una parola, cantare in questa zona della voce è quella che distingue il dilettante, di voce magari bella e potente, dal cantante professionista. Sappiamo bene che oggi vanno per la maggiore Cavaradossi, per i quali cantare piano significa automaticamente cantare in difetto di appoggio della voce, ma nell’ambito di un album pomposamente dedicato al tenore italiano, di ben altro spessore dovrebbero essere i modelli esecutivi di una pagina come questa. E per inciso anche tenori di non straordinaria dote naturale hanno affrontato la Tosca in teatro e lasciato memorabili incisioni di questa ed altre pagine dell’opera.
Un’altra pagina pensata per un lirico spinto, ma tradizionalmente affrontata anche dai tenori un tempo detti di grazia, è l’aria, o meglio, il cantabile dell’aria di Rodolfo dalla Luisa Miller. Fin dal recitativo colpisce, in negativo, l’accento querulo e smanceroso, che parrebbe fuori posto anche per l’Incredibile dello Chénier o per l’Innocente del Boris. Nessuna passione, nessuna scansione bruciante di frasi come “son cifre sue”, nessuna ironia amara su “ben la conobbe il padre”, mentre la voce si gonfia, ma senza acquisire peso specifico e autorevolezza, su “tutto è menzogna, tradimento” prima di spegnersi in gola nel successivo “inganno”. Ridotto a una nenia l’Andante “appassionatissimo” “Quando le sere al placido”, con suoni difficoltosi e aspri che puntuali compaiono dal sol3 in su (“lo sguardo innamorato”, “ah mi tradia”). La seconda strofa non suggerisce variazioni agogiche o dinamiche, mentre la forcella su “ed ella in suon angelico” viene spostata alla battuta successiva (“amo te sol”) e realizzata con una sorta di singulto. Fiacchi e privi di smalto anche i tentativi di accentare “ah mi tradia”, mentre i piani e pianissimi sono suoni flautati e privi di smalto. Lascia perplessi la scelta di chiudere l’aria in acuto, visto che il labem3, preceduto da un tentativo di forcella anche riuscito rispetto agli altri previsti dalla pagina, è ancora una volta un suono nasale e non facile.
Risorse di accento, proprietà di fraseggio e aderenza al dettato del compositore sono di pari livello nella scena del Corsaro, in cui il tenore è chiamato a sfoggiare nel cantabile una voce ampia e timbrata in fascia centrale, per poi svettare sugli acuti alla cabaletta. Il tutto naturalmente da cantarsi con slancio e facilità di squillo, per questo come per tutti gli altri ruoli di tenore eroico e “maledetto” del primo Verdi. Dopo un recitativo in cui abbondano ancora e sempre pianini e suoni d’incerta stabilità, anche nei punti in cui magari l’autore prescrive “f” e “ff” (“ma vendicato”), Grigolo esibisce nell’Andante un suono di cavata insufficiente e povero di colori (si senta l’attacco “tutto parea sorridere” e ancora la frase “dell’innocenza i dì”), mentre nuovi singulti accompagnano la salita ai primi acuti di “un fato inesorabile ogni mio ben rapì”. Ignorate ancora una volta le forcelle, prescritte quasi a ogni battuta, la voce si fa malferma e va “indietro”, compromettendo la tenuta dell’intonazione, specie quando si avvicina ai primi acuti (“più non vedrò risorgere”, labem3). Quanto alla cabaletta, che a dispetto della partitura ha ben poco di marziale, si segnala per due inserimenti ancora una volta poco felici: un rinnovato breve trillo su “l’empia Luna” (dovrebbe servire a mascherare in qualche modo l’inconsistenza dell’ottava bassa?) e, alla cadenza prima della stretta conclusiva, un re bemolle sovracuto, risolto con un suono ben poco virile e timbrato. È questa, per inciso, l’unica variazione, che giustifichi la ripetizione della cabaletta. Un po’ poco. Ma forse è ingiusto dolersene, atteso che dal vivo, a Zurigo (come si può verificare dal video che proponiamo in coda a questo post), non v’era neppure questa timida, in ogni senso, interpolazione.
E con queste considerazioni ci fermiamo, ben consci di aver affrontato solo una metà abbondante del disco in questione. Riteniamo sia sufficiente, per completare la nostra riflessione in merito, proporre le arie in questione, affidate a uno dei nostri tenori preferiti, prototipo del tenore di grazia, che affrontava però in teatro anche il Ballo in maschera e la Fedora. La varietà, la fantasia, l’intelligenza interpretativa, figlia della sapienza tecnica e non certo della generosa natura, fanno di Alessandro Bonci la migliore risposta che il Corriere possa indirizzare ai propri critici, sempre pronti ad accuse d’idolatria necrofila. Cari signori, qualche volta è sufficiente ascoltare, comparare e porsi gli interrogativi del caso.



Gli ascolti


Donizetti - L'elisir d'amore

Atto II

Una furtiva lagrima - Alessandro Bonci (1912)


Donizetti - La favorita

Atto IV

Spirto gentil - Alessandro Bonci (1905)


Verdi - Luisa Miller

Atto II

Quando le sere al placido - Alessandro Bonci (1906), Giuseppe Anselmi (1907)


Verdi - Rigoletto

Atto II

Parmi veder le lagrime - Alessandro Bonci (1907)


Puccini - Le Villi

Atto II

Torna ai felici dì - Alessandro Bonci (1926)


Puccini - Manon Lescaut

Atto I

Donna non vidi mai - Alessandro Bonci (1906)


Puccini - La Bohème

Atto I

Che gelida manina - Alessandro Bonci (1905)


Puccini - Tosca

Atto III

E lucevan le stelle - Tito Schipa (1913)





2 commenti:

mozart2006 ha detto...

Grigolo è solo un esponente di quella che negli USA è chiamata popera, ossia l´Operatic pop, come Bocelli, Filippa Giordano, Alessandro Safina, Mario Frangoulis o gruppi come Il Divo e The Ten Tenors. Dopo aver fatto i soldi in questo modo, adesso vuole crearsi una patente di nobiltà artistica per impressionare di più il suo pubblico di fans sprovveduti. Meglio il rock vero, che una sua credibilità artistica la possiede, piuttosto che queste squallide operazioni guidate solo dal mito del denaro facile.

Giambattista Mancini ha detto...

Anselmi è fenomenale, meraviglioso. Nell'aria "Quando le sere al placido" lo preferisco anche a Bonci. Nonostante questo "tremolino" caprino che l'antica tecnica di registrazione conferisce alle loro voci, traspare comunque una pasta vocale di gran qualità, timbratissima ma morbidissima, ed un canto raffinatissimo, che suscita in me emozioni purissime.

E' sempre una delizia ascoltare questi cantanti, gli ultimi esponenti della scuola ottocentesca.

E Grigolo... bah, non merita parole. Segnalo però l'intervista che si trova su youtube (in francese), dove Grigolo afferma che questo cd vuole essere una sorta di biglietto da visita del tenore che lui è adesso, che è stato in passato, e che sarà in un domani. Con questo Grigolo ha lasciato intendere che presto affronterà per intero in teatro ruoli come Manrico e Cavaradossi. Ora, qui sopra abbiamo la dimostrazione che basta saper cantare bene per fare bella figura anche nei ruoli più spinti pur con voce leggera (vedi Schipa, vedi Bonci). A Grigolo non resta che imparare a cantare.

Saluti