Ieri sera, lunedì 11 aprile, il Teatro alla Scala ha ospitato i complessi dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, guidati dal Maestro Antonio Pappano, in una serata speciale a favore della sezione femminile milanese della Croce Rossa Italiana. Il programma scelto proponeva alcune tra le composizioni più importante del repertorio sinfonico e vocale del grande romanticismo europeo: la Sinfonia n. 4 in RE minore, Op. 120 di Robert Schumann e Ein Deutsche Requiem di Johannes Brahms. Occasione imperdibile, dunque, sia per ascoltare una delle pochissime orchestre italiane in grado di competere con le compagini europee e americane, sia per apprezzare un grande direttore d’orchestra dei nostri tempi (al solito scarsamente considerato dai vertici scaligeri). Ein Deutsche Requiem, insieme alle Messe di Requiem di Mozart e Verdi, compone, nella vulgata corrente, una sorta di “trittico sacro”, tuttavia il lavoro di Brahms nulla avrebbe in comune con le altre due composizioni, a cominciare dal linguaggio, dalla forma e dalle finalità. Mentre infatti le ultime due appartengono alla liturgia cattolica e ne seguono, abbastanza rigorosamente, lo schema, il lavoro di Brahms non ha alcun riscontro liturgico. Già l’indeterminativo “ein”, indica che non si intende presentare il canonico Requiem, bensì una proposta di meditazione sul tema della morte e, soprattutto, del dolore di chi sopravvive alla perdita dei propri cari: una dimensione privata, individuale (in questo molto protestante), rispetto alla ritualità cattolica (maggiormente esteriore e pubblica) che più concentrata nella celebrazione del mistero divino della resurrezione, che attenta alla sofferenza del singolo uomo. Il testo, innanzitutto, è scelto liberamente dall’autore tra alcuni brani della Bibbia nella traduzione in tedesco di Lutero, in un gesto che vuole saldare la propria visione umana e musicale alle solide radici della tradizione germanica, viva e orgogliosamente intagliata nella Storia (in contrasto con il latino della liturgia romana: una lingua morta, che semplicemente esprime il distacco del rito dalla realtà quotidiana). Una religiosità semplice per gente semplice (senza le speculazioni metafisiche, a volte oziose, che caratterizzano il cattolicesimo romano). Scelta polemica, per certi versi, che si accompagna e si lega, al particolare linguaggio musicale adottato da Brahms. Il compositore tedesco, infatti, rifiuta il metro della Musica Sacra classica (all’italiana), che da sempre regolava quelle composizioni e che affondava le proprie radici nel messale romano post tridentino. Si affida piuttosto alla “riscoperta” del grande patrimonio polifonico “popolare”, di matrice luterana, così come trasfigurata da Bach (e dalla suprema arte del contrappunto), unita al crepuscolo del grande sinfonismo europeo. Riecheggia, nell’opera di Brahms, uno sguardo commosso e nostalgico ad un mondo genuinamente semplice, ad una religiosità concreta. E umana. La composizione occupò l’autore per almeno 10 anni: alcuni studiosi fanno risalire le prime idee di un “requiem” alla commozione per la prematura morte dell’amico Schumann (avvenuta nel 1856). Prime testimonianze e abbozzi, risalgono invece al 1860. Tuttavia il vero e proprio lavoro di composizione comincia solo nel 1865 (stimolato in ciò dalla scomparsa, nello stesso anno, della madre) e si protrae per due anni tra Karlsruhe, Wintherthur e Lichtenthal (tutti luoghi in cui l’autore cercava e trovava isolamento e pace: pace che si riflette evidentemente sulla composizione). Una prima esecuzione parziale avviene nel dicembre del 1867, a cui ne seguirà un’altra più “ufficiale” nel duomo di Brema il 10 aprile del 1868. L’opera completa – comprensiva anche dell’attuale V movimento (quello più legato al ricordo della madre morta) – verrà eseguita a Lipsia il 18 febbraio 1869. Il lavoro – per soprano, baritono coro e orchestra – riflette tutto l’amore (e la padronanza tecnica) di Brahms per le composizioni corali (e proprio la direzione di coro fu l’unico suo vero impegno fisso in tutta la sua vita: da Detmold ad Amburgo e a Vienna), e presenta diversi spunti di riflessione musicale, a partire dai particolarissimi impasti timbrici, dalle scelte strumentali e dalla struttura del materiale melodico. Il trattamento corale rispecchia la severa grandiosità tipica sia delle opere polifoniche bachiane che dei “nuovi” oratori romantici (Mendelssohn, Schumann), attraverso elaborati contrappunti che si alternano a pause di meditazione (non c’è traccia di facile lirismo). Funzionale ad esso la presenza dei solisti, che non assumono mai un rilevo protagonistico (nessun esibizionismo vocale viene concesso da Brahms). L’esecuzione dell'Accademia di Santa Cecilia è stata, senza giri di parole, straordinaria. Personalmente non ho mai sentito suonare così nel teatro milanese. Suono morbido e precisissimo, compatto ed estremamente duttile. Orchestra che respira insieme al suo direttore: il Maestro Pappano, infatti, non si limita a dirigere, ma suona. Il bellissimo gesto, ampio e sicuro (quanta differenza con la confusionale gestualità di Gergiev!) guida l'orchestra e il coro attraverso i virtuosismi delle due partiture in una continua pulsazione espressiva (le sfumature, il fraseggio, le dinamiche, i crescendo impressionanti: tutte cose che risuonano nuove sul palco della Scala). Pappano inizia con una lettura travolgente della sinfonia di Schumann, caratterizzandola con continue variazioni espressive, giochi ritmici, impennate liriche e crescendo impalpabili (nessuno strappo, ma una continua e quasi impercettibile salita). Applauditissimo. Il meglio viene con la composizione di Brahms. La lettura di Pappano evidenzia da un lato le ascendenze bachiane (nella severità impeccabile dei grandiosi contrappunti: il coro di Santa Cecilia è di una bravura imbarazzante), dall'altro l'aspetto crepuscolare e contemplativo: direzione ricchissima di sfumature, compatta e travolgente. Perfettamente congeniali alla visione del Maestro, i due solisti: Rebecca Evans e, soprattutto, Peter Mattei (un velluto vocale). Alla fine un meritatissimo trionfo. Serata che a lungo verrà ricordata ricordata e che, temo, difficilmente si potrà ripetere. Per chiudere una piccola considerazione (che non vuole essere la solita polemica antiscaligera): ho ascoltato il concerto di Pappano il giorno successivo alla prima di Turandot. Ebbene un confronto tra le due orchestre e i due direttori è semplicemente imbarazzante. L'Accademia di Santa Cecilia potrebbe reggere il confronto con la Staatskapelle di Dresda, ha un direttore (un grandissimo direttore) che l'ha plasmata e respira con essa. L'orchestra scaligera, invece, pare non faccia nulla per nascondere la svogliata noncuranza con cui si limita a computare (con alterni risultati e con sempre più numerose sbavature) ogni partitura che affronta: ovviamente le responsabilità andrebbero ricercate nel manico, ossia in una sovrintendenza che dimostra di non aver alcun rispetto né per il pubblico né per gli stessi orchestrali, che accetta i capricci di un divo della bacchetta (evidentemente ormai più interessato ad altro), permettendogli di improvvisare all'ultimo momento una pseudo lettura di una partitura complessa come è quella dell'ultima opera di Puccini, che attribuisce patenti di maestro scaligero (dal contenuto fumoso) senza cognizione di causa e, ancora, evita di affrontare il problema identitario di un'orchestra che soffre, in maniera più che evidente, la mancanza di una guida stabile. Una situazione sempre più mortificante che l'eccellenza di certi eventi (come quello di ieri sera) evidenzia in modo spietato. Infine un'osservazione in merito alla scarsa educazione del pubblico: possibile che vi sia sempre un genio che applaude nel punto sbagliato (a cui si accodano altri suoi simili come un gregge di pecore), che lascia squillare il telefonino, che fa il commento ad alta voce nel momento meno opportuno, che sbraita come fosse allo stadio impedendo di godere di quei pochi istanti di silenzio dopo il lento spegnersi di Brahms? Purtroppo è possibile e frequente: un pubblico così si merita la sovrintendenza che ha!
martedì 12 aprile 2011
L'Accademia Nazionale di Santa Cecilia alla Scala: Pappano tra Schumann e Brahms
Pubblicato da Gilbert-Louis Duprez alle 17:00
Etichette: Accademia di Santa Cecilia, antonio pappano, brahms, ein deutsche requiem, peter mattei, rebecca evans, schumann, teatro alla scala
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3 commenti:
Caro Duprez, l'orchestra di S. Cecilia, che ho sentito spesso sotto la direzione di Pappano, è un'ottima orchestra, ma la Staatskapelle Dresden è a un livello imparagonabile,un livello che nessuna orchestra italiana, compresa quella di S. Cecilia, può permettersi di sognare.
Marco Ninci
E poi un'altra cosa. Io non se il gesto di Gergiev a Milano fosse confusionale. Ma qualche tempo fa ho sentito sotto la sua direzione a Duesseldorf un concerto meraviglioso della London Symphony. Il programma comprendeva la prima sinfonia di Tchaikovsky e i Quadri di un'esposizione di Mussorgsky. Gesto essenziale, sicurissimo. Risultato: un Tchaikovsky di una poesia infinita, un Mussorgsky portato all'ennesima potenza, una vera forza della natura. Tutto questo senza che vi fosse mai una forzatura del suono. Una delle più grandi meraviglie che io abbia mai udite.
Marco Ninci
Ma cosa c'entra con Brahms e con la Turandot diretta da Gergiev? Che sillogismo "del menga" mi vieni a proporre? Il Gergiev che hai sentito tu era arrivato 2 giorni prima a dirigere un'orchestra sconosciuta? Con un testo che conosceva poco o nulla? Ti prego, risparmiaci queste inutili banalità: se vuoi parlare di Turandot fallo nello spazio dedicato. Se invece vuoi genericamente parlare delle tue esperienze di ascolto in giro per l'Europa...beh, fallo altrove. Grazie
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