Come ogni anno la primavera, oltre al “bel tempo”, porta le nuove stagioni dei teatri lirici (italiani ed europei): tra aprile e maggio, infatti, vengono presentate alla stampa e al pubblico, le programmazioni dei cartelloni 2011/12. In attesa di scoprire compiutamente le novità per il prossimo anno dei grandi templi lirici del vecchio e del nuovo mondo (mancano ancora all’appello Londra, parte dei teatri parigini, Berlino, Vienna e Milano), vale la pena soffermarsi sulla realtà meno frequentata, ma vitalissima e interessantissima (per certi versi), dei teatri di Bruxelles e di Amsterdam. Centri di grande vivacità culturale, ospitano importanti teatri che vantano storia e tradizione ovvero da esse traggono la loro linfa vitale. Entrambi si caratterizzano per un tipo di stagione assai simile – quanto a numeri – a quella dei nostrani enti lirici, ma appare chiaro, scorrendo semplicemente i titoli, quale diversa mentalità e strategia di politica culturale vi sia alle spalle.
La De Nederlandse Opera, è attiva dal secondo dopoguerra – oggi è stabilita in un moderno teatro inaugurato nel 1986 – e vanta una storia, seppur recente, di grande eccellenza artistica. Proprio la prossima stagione segnerà l’avvio della colaborazione con il teatro del Maestro Marc Albrecht, già assistente di Claudio Abbado (nell’Orchestra Mahler), e molto attivo nei maggiori teatri d’opera europei. Il cartellone 2011/12 (evidentemente dedicato ad un’indagine sulla tragedia classica), consta di 12 titoli, e si apre il 7 di settembre con una proposta abbastanza inconsueta: Iphigénie en Aulide e Iphigénie en Tauride. Entrambe le opere saranno eseguite nella stessa serata, una di seguito all’altra, con un’intervallo tra le due. Scelta abbastanza coraggiosa – Gluck è rischioso se eseguito con la marmorea immobilità cui ci aveva abituato il Maestro Muti – ma, decisamente stuzzicante (la durata, poi, non è così eccessiva come sembra, considerando che l’accoppiata risulta comunque più breve di una qualsiasi opera di Wagner, o del Don Carlo o di Moise et Pharaon…). Cast guidato da Marc Minkowski con i suoi Musiciens du Louvre (specialista in questo repertorio con diverse incisioni all’attivo) che sfoggia la Gens e la von Otter (nella prima Iphigénie) e la assai più problematica Delunsch (nella seconda). Si prosegue con l’Elektra di Strauss diretta da Marc Albrecht, con la Herlitzius e la Watson che si alterneranno nel ruolo della protagonista. A seguire Idomeneo, re di Creta: dirige John Nelson (direttore di non molta fantasia), protagonista il tenore Michael Shade. L’indagine del mito antico continua con Orest, nuova opera di Manfred Trojahn (sempre con la bacchetta di Albrecht). E’ poi la volta di due titoli russi (repertorio da noi quasi del tutti ignoto): Le Rossignol di Stravinsky diretto dalla brava Xian Zhang (per chi non lo sapesse è direttore principale dell’Orchestra Verdi di Milano, che, nell’Auditorium di Largo Mahler presenta ogni anno una delle più complete stagioni sinfoniche nazionali) e La Leggenda della città invisibile di Kitezh, uno dei tanti capolavori di Rimsky-Korsakov da noi totalmente ignorati. Dirige ancora Albrecht e la regia è affidata al discusso Dmitri Tcherniakov (a placare gli entusiasmi ci pensa però la lettura, nel cast, dei nomi di Paata Burchuladze e Nikita Storoyev che si alterneranno nel ruolo di Bedyay). Non manca l’opera barocca con la rara Deidamia di Handel (ultimo suo lavoro teatrale): dirige il non certo indimenticabile Ivor Bolton, cantano Sally Matthews, Veronica Cangemi, Silvia Tro Santafé e Umberto Chiummo. Non manca neppure il repertorio italiano: Il Turco in Italia (con un cast che non appare entusiasmante: Rizzi, Esposito, Perytyatko, Brownlee, Priante) e Don Carlo (che pare interessante unicamente per il direttore – Yannick Nézet-Séguin, spesso alla guida dei Berliner – più che per un cast che sembra aver poco o nulla a che spartire con Verdi). Si chiude con un altro titolo contemporaneo: Waiting for Miss Monroe di Robin de Raaff.
Diversa l’offerta di Bruxelles e, sicuramente, meno interessante. La Monnaie apre la sua stagione con Orlando Paladino di Haydn con i complessi di René Jacobs: opera tra le più fortunate dell’autore (anche se di limitatissima diffusione), viene eseguita in forma di concerto. Il 6 settembre, la prima rappresentazione scenica è dedicata ad un tardivo, ma doveroso omaggio a Luigi Cherubini (ovviamente la Scala ha bellamente ignorato l’evento: evidentemente troppo occupata a propinarci Tosche, Rigoletti e Barbieri): la Medée. Presentata nella sua originaria e autentica forma di opéra-comique, è diretta da Christophe Rousset coi suoi Talens Lyriques. Protagonista (in un ruolo massacrante e ingrato, in cui poco o nulla valgono le attitudini belcantiste) Nadja Michael. Dopo i rarissimi Krol Roger di Szymanowski ed Oedipe di George Enescu (titoli sicuramente difficili e che difficilmente vedremo in teatri nostrani), si prosegue con quelli che appaiono i punti più deboli della programmazione: la stucchevole Cendrillon di Massenet (con la regia di Pelly) e la solita Salome di Strauss (spiace constatare che, quando si parla di Strauss, si fatichi ad uscire dai confini dei soliti 3 o 4 titoli, visti e rivisti: l’aggravante, qui rispetto all’Elektra di Amsterdam, sta nel fatto che mentre quest’ultima è concepita come “tassello” di uno specifico progetto drammatico, a Bruxelles è “solo” un titolo, e per questo non indispensabile), che segnalo unicamente per l’Erode di Merritt che pare aver trovato un nuovo repertorio dopo l’abbandono necessario di quello rossiniano. A seguire Rusalka di Dvorak. Dopo l’opera contemporanea Thanks to my eyes, è il turno del barocco con due interessanti appuntamenti handeliani: Theodora e Orlando. Ovviamente entrambi i titoli sono affidati a complessi specialistici, con relative gioie – la direzione di Niquet e di Jacobs (che in Handel raggiunge risultati assai più convincenti che in Mozart) – e dolori, principalmente dovute a certe scelte di cast (Zazzo, Patricia Bordon, Sunhae Im). Si segnala (più per la curiosità) la presenza in Orlando di Bejun Mehta (nipote di Zubin e stella nascente del firmamento “baroccaro”) nel ruolo del protagonista: falsettista ovviamente. Gli ultimi due titoli sono dedicati al repertorio italiano: Otello di Rossini e Trovatore. Dei due è soprattutto il primo a destare interesse: sotto la bacchetta “esperta” di Evelino Pidò (che pare ormai essersi ritagliato il ruolo di “specialista” nel genere) sfilano l’immarcescibile Gregory Kunde di nuovo alle prese con un ruolo baritenorile (già aveva affrontato il moro a Pesaro, con esito non proprio lusinghiero: ultimamente, però, il tenore americano pare stia vivendo una nuova ribalta artistica) anche se non tra i più impegnativi, Korchak e Schmunck quali Rodrigo (ha riscosso buon successo, nello stesso ruolo, a Parigi) e Jago mignon, e la Desdemona della Antonacci (ruolo Colbran soft, comunque insidioso, che richiede un registro centrale saldo e una coloratura ben padroneggiata). Farà discutere, invece, l’opera che chiude la stagione, soprattutto per la direzione: il Trovatore, infatti, sarà l’esordio di Minkowski alla direzione di un’opera verdiana. Il direttore francese, nonostante sia ben radicato nell’ambito del repertorio barocco e settecentesco (dalla tragédie-lyrique francese a Handel e a Gluck), ha sempre dimostrato interessi piuttosto ampi, pur restando nell’ambito francese, con incursioni nel grand opéra (Meyerbeer) e Bizet, ed è, ad oggi, uno dei migliori interpreti di Offenbach. Molto interessante il suo approccio alla musica ottocentesca (all'insegna di un ricercato equilibrio tra archi e fiati e di un generale ripensamento dei volumi sonori). Certo è che qualsiasi buona intenzione è destinata a infrangersi di fronte ad una scelta di cast quantomai discutibile: mi chiedo, infatti, come sia possibile proporre la Leonora della Poplavskaja, in un ruolo così ibrido tra maturità verdiana e ascendenze donizettiane, che necessita al pari di coloratura sciolta e saldezza nel reggere il canto più spianato.
Che dire? Alti e bassi, dunque, certo è che l’offerta musicale di entrambi i teatri appare meditata e programmata con una certa consapevolezza, soprattutto nella scelta dei titoli. Apprezzabile l’interesse per il ‘700 e per titoli poco frequentati (l’opera russa e talune realtà nazionali), anche se ci dovrà poi essere la verifica sul campo, ossia alla luce delle interpretazioni (che sono sempre un'incognita). Ovviamente il tutto avviene a scapito del cosiddetto “repertorio” (che però è considerato “intoccabile” solo da noi): l’accusa di “intellettualismo”, però, va rigettata, atteso che si tratta di titoli assolutamente centrali nella storia della musica occidentale (non si tratta, infatti, di improbabili riesumazioni). E se per eseguirli si deve rinunciare alle ennesime Tosche, Rigoletti, Cavallerie Rusticane, Aide etc…, beh, è una rinuncia che si fa volentieri. Sarebbe anche un’ottima cura per svegliare i nostri teatri (in particolare l’autodefinitosi “il maggiore”) dal torpore della routine (torpore che quest’anno ha contagiato l’Opéra di Parigi, dimostrando – ancora una volta – come mancanza di idee e “arte del riciclo” siano virtù transnazionali). Non ha senso, infatti, riprendere i soliti titoli (sempre uguali, di stagione in stagione) comuni a tanti altri teatri italiani ed europei (pare, a volte, che scattino tendenze e mode) senza essere in grado di proporre cast adeguati (non perché non esistono, ma perché non si vuole trovarli), senza uscire dalla mediocritas ad uso e consumo dei pullman dei turisti dell'opera e, per questo, ignorare lavori capitali: meglio scegliere la sospensione provvisoria del reperetorio più popolare...e seguire scelte di testa, più che di pancia (anche perchè, ultimamente si rischia, più che altro il MAL di pancia). Chiaramente poi, subentrano i gusti di ciascuno: e questi non si discutono mai.
Gli ascolti
Gluck - Iphigénie en Tauride
Atto III - D'une image, hélas! trop chérie - Sena Jurinac (1965)
Cherubini - Medea
Atto III - Del fiero duol - Cristina Deutekom (1978)
Rossini - Il Turco in Italia
Atto II - Qual colpo, ohimè! che sento...Squallida veste e bruna - Ruth Welting (1979)
La De Nederlandse Opera, è attiva dal secondo dopoguerra – oggi è stabilita in un moderno teatro inaugurato nel 1986 – e vanta una storia, seppur recente, di grande eccellenza artistica. Proprio la prossima stagione segnerà l’avvio della colaborazione con il teatro del Maestro Marc Albrecht, già assistente di Claudio Abbado (nell’Orchestra Mahler), e molto attivo nei maggiori teatri d’opera europei. Il cartellone 2011/12 (evidentemente dedicato ad un’indagine sulla tragedia classica), consta di 12 titoli, e si apre il 7 di settembre con una proposta abbastanza inconsueta: Iphigénie en Aulide e Iphigénie en Tauride. Entrambe le opere saranno eseguite nella stessa serata, una di seguito all’altra, con un’intervallo tra le due. Scelta abbastanza coraggiosa – Gluck è rischioso se eseguito con la marmorea immobilità cui ci aveva abituato il Maestro Muti – ma, decisamente stuzzicante (la durata, poi, non è così eccessiva come sembra, considerando che l’accoppiata risulta comunque più breve di una qualsiasi opera di Wagner, o del Don Carlo o di Moise et Pharaon…). Cast guidato da Marc Minkowski con i suoi Musiciens du Louvre (specialista in questo repertorio con diverse incisioni all’attivo) che sfoggia la Gens e la von Otter (nella prima Iphigénie) e la assai più problematica Delunsch (nella seconda). Si prosegue con l’Elektra di Strauss diretta da Marc Albrecht, con la Herlitzius e la Watson che si alterneranno nel ruolo della protagonista. A seguire Idomeneo, re di Creta: dirige John Nelson (direttore di non molta fantasia), protagonista il tenore Michael Shade. L’indagine del mito antico continua con Orest, nuova opera di Manfred Trojahn (sempre con la bacchetta di Albrecht). E’ poi la volta di due titoli russi (repertorio da noi quasi del tutti ignoto): Le Rossignol di Stravinsky diretto dalla brava Xian Zhang (per chi non lo sapesse è direttore principale dell’Orchestra Verdi di Milano, che, nell’Auditorium di Largo Mahler presenta ogni anno una delle più complete stagioni sinfoniche nazionali) e La Leggenda della città invisibile di Kitezh, uno dei tanti capolavori di Rimsky-Korsakov da noi totalmente ignorati. Dirige ancora Albrecht e la regia è affidata al discusso Dmitri Tcherniakov (a placare gli entusiasmi ci pensa però la lettura, nel cast, dei nomi di Paata Burchuladze e Nikita Storoyev che si alterneranno nel ruolo di Bedyay). Non manca l’opera barocca con la rara Deidamia di Handel (ultimo suo lavoro teatrale): dirige il non certo indimenticabile Ivor Bolton, cantano Sally Matthews, Veronica Cangemi, Silvia Tro Santafé e Umberto Chiummo. Non manca neppure il repertorio italiano: Il Turco in Italia (con un cast che non appare entusiasmante: Rizzi, Esposito, Perytyatko, Brownlee, Priante) e Don Carlo (che pare interessante unicamente per il direttore – Yannick Nézet-Séguin, spesso alla guida dei Berliner – più che per un cast che sembra aver poco o nulla a che spartire con Verdi). Si chiude con un altro titolo contemporaneo: Waiting for Miss Monroe di Robin de Raaff.
Diversa l’offerta di Bruxelles e, sicuramente, meno interessante. La Monnaie apre la sua stagione con Orlando Paladino di Haydn con i complessi di René Jacobs: opera tra le più fortunate dell’autore (anche se di limitatissima diffusione), viene eseguita in forma di concerto. Il 6 settembre, la prima rappresentazione scenica è dedicata ad un tardivo, ma doveroso omaggio a Luigi Cherubini (ovviamente la Scala ha bellamente ignorato l’evento: evidentemente troppo occupata a propinarci Tosche, Rigoletti e Barbieri): la Medée. Presentata nella sua originaria e autentica forma di opéra-comique, è diretta da Christophe Rousset coi suoi Talens Lyriques. Protagonista (in un ruolo massacrante e ingrato, in cui poco o nulla valgono le attitudini belcantiste) Nadja Michael. Dopo i rarissimi Krol Roger di Szymanowski ed Oedipe di George Enescu (titoli sicuramente difficili e che difficilmente vedremo in teatri nostrani), si prosegue con quelli che appaiono i punti più deboli della programmazione: la stucchevole Cendrillon di Massenet (con la regia di Pelly) e la solita Salome di Strauss (spiace constatare che, quando si parla di Strauss, si fatichi ad uscire dai confini dei soliti 3 o 4 titoli, visti e rivisti: l’aggravante, qui rispetto all’Elektra di Amsterdam, sta nel fatto che mentre quest’ultima è concepita come “tassello” di uno specifico progetto drammatico, a Bruxelles è “solo” un titolo, e per questo non indispensabile), che segnalo unicamente per l’Erode di Merritt che pare aver trovato un nuovo repertorio dopo l’abbandono necessario di quello rossiniano. A seguire Rusalka di Dvorak. Dopo l’opera contemporanea Thanks to my eyes, è il turno del barocco con due interessanti appuntamenti handeliani: Theodora e Orlando. Ovviamente entrambi i titoli sono affidati a complessi specialistici, con relative gioie – la direzione di Niquet e di Jacobs (che in Handel raggiunge risultati assai più convincenti che in Mozart) – e dolori, principalmente dovute a certe scelte di cast (Zazzo, Patricia Bordon, Sunhae Im). Si segnala (più per la curiosità) la presenza in Orlando di Bejun Mehta (nipote di Zubin e stella nascente del firmamento “baroccaro”) nel ruolo del protagonista: falsettista ovviamente. Gli ultimi due titoli sono dedicati al repertorio italiano: Otello di Rossini e Trovatore. Dei due è soprattutto il primo a destare interesse: sotto la bacchetta “esperta” di Evelino Pidò (che pare ormai essersi ritagliato il ruolo di “specialista” nel genere) sfilano l’immarcescibile Gregory Kunde di nuovo alle prese con un ruolo baritenorile (già aveva affrontato il moro a Pesaro, con esito non proprio lusinghiero: ultimamente, però, il tenore americano pare stia vivendo una nuova ribalta artistica) anche se non tra i più impegnativi, Korchak e Schmunck quali Rodrigo (ha riscosso buon successo, nello stesso ruolo, a Parigi) e Jago mignon, e la Desdemona della Antonacci (ruolo Colbran soft, comunque insidioso, che richiede un registro centrale saldo e una coloratura ben padroneggiata). Farà discutere, invece, l’opera che chiude la stagione, soprattutto per la direzione: il Trovatore, infatti, sarà l’esordio di Minkowski alla direzione di un’opera verdiana. Il direttore francese, nonostante sia ben radicato nell’ambito del repertorio barocco e settecentesco (dalla tragédie-lyrique francese a Handel e a Gluck), ha sempre dimostrato interessi piuttosto ampi, pur restando nell’ambito francese, con incursioni nel grand opéra (Meyerbeer) e Bizet, ed è, ad oggi, uno dei migliori interpreti di Offenbach. Molto interessante il suo approccio alla musica ottocentesca (all'insegna di un ricercato equilibrio tra archi e fiati e di un generale ripensamento dei volumi sonori). Certo è che qualsiasi buona intenzione è destinata a infrangersi di fronte ad una scelta di cast quantomai discutibile: mi chiedo, infatti, come sia possibile proporre la Leonora della Poplavskaja, in un ruolo così ibrido tra maturità verdiana e ascendenze donizettiane, che necessita al pari di coloratura sciolta e saldezza nel reggere il canto più spianato.
Che dire? Alti e bassi, dunque, certo è che l’offerta musicale di entrambi i teatri appare meditata e programmata con una certa consapevolezza, soprattutto nella scelta dei titoli. Apprezzabile l’interesse per il ‘700 e per titoli poco frequentati (l’opera russa e talune realtà nazionali), anche se ci dovrà poi essere la verifica sul campo, ossia alla luce delle interpretazioni (che sono sempre un'incognita). Ovviamente il tutto avviene a scapito del cosiddetto “repertorio” (che però è considerato “intoccabile” solo da noi): l’accusa di “intellettualismo”, però, va rigettata, atteso che si tratta di titoli assolutamente centrali nella storia della musica occidentale (non si tratta, infatti, di improbabili riesumazioni). E se per eseguirli si deve rinunciare alle ennesime Tosche, Rigoletti, Cavallerie Rusticane, Aide etc…, beh, è una rinuncia che si fa volentieri. Sarebbe anche un’ottima cura per svegliare i nostri teatri (in particolare l’autodefinitosi “il maggiore”) dal torpore della routine (torpore che quest’anno ha contagiato l’Opéra di Parigi, dimostrando – ancora una volta – come mancanza di idee e “arte del riciclo” siano virtù transnazionali). Non ha senso, infatti, riprendere i soliti titoli (sempre uguali, di stagione in stagione) comuni a tanti altri teatri italiani ed europei (pare, a volte, che scattino tendenze e mode) senza essere in grado di proporre cast adeguati (non perché non esistono, ma perché non si vuole trovarli), senza uscire dalla mediocritas ad uso e consumo dei pullman dei turisti dell'opera e, per questo, ignorare lavori capitali: meglio scegliere la sospensione provvisoria del reperetorio più popolare...e seguire scelte di testa, più che di pancia (anche perchè, ultimamente si rischia, più che altro il MAL di pancia). Chiaramente poi, subentrano i gusti di ciascuno: e questi non si discutono mai.
Gli ascolti
Gluck - Iphigénie en Tauride
Atto III - D'une image, hélas! trop chérie - Sena Jurinac (1965)
Cherubini - Medea
Atto III - Del fiero duol - Cristina Deutekom (1978)
Rossini - Il Turco in Italia
Atto II - Qual colpo, ohimè! che sento...Squallida veste e bruna - Ruth Welting (1979)
6 commenti:
>La Leggenda della Città Invisibile di Kitezh, uno dei tanti capolavori di Rimsky-Korsakov>, vista da me medesimo, è opera bellissima e ignoratissima dal "maggiore" teatro nostrano ed eventualmente mondiale.
Non so come si debba intendere "placare gli entusiasmi", ma il ruolo di Bed'aj, seppur assai importante drammaturgicamente, non è certo quello su cui si debba basare la valutazione d'un Kitezh.
In quanto al fatto che questo titolo venga ignorato in Italia: l'allestimento della DNO è una coproduzione con l'ONP (2012-2013), il Liceu e... la Scala, dove verra eseguito almeno in terza occasione (le precedenti, ch'io sappia, sono una produzione scebua negli anni cinquanta diretta da Dobrowen e un'esecuzione in forma di concerto diretta da Gergiev intorno al 1997).
Inoltre la giovane Scotto cantò Fevronija a Trieste.
Il "placare gli entusiasmi" è riferito al fatto che, a prescindere dal ruolo, si vada a riesumare un Burchuladze che neppure nei suoi momenti migliori è stato un cantante degno della carriera che ha fatto. Opinioni. Per carità. Circa l'opera russa: da noi (salvo tre titoli: comunque rappresentati rarissimamente) è del tutto ignorata.
Sempre ho pensato che questi i titoli fossero quattro: due di Ciaikovskij, uno di Mussorgskij ed uno di Sciostakovic.
L'ultima di quei quattro, a dire il vero, è in Italia rappresentata con intervalli ventennali. Siamo malati di troppi Rigoletti, Tosche e Barbieri...
La Leggenda della città invisibile di Kitesh e della fanciulla Fevronja l'abbiamo messa in scena in coproduzione con il teatro Bolshoj di Mosca a Cagliari qualche anno fa con la regia di Nekrosius e Vedernikov sul podio. e , stranamente, nonostante le incerteze e i dubbi che avevamo, il pubblico l'ha accolta benissimo tributando un grande successo ad ogni replica. e poiù che la musica a detta degli abbonati, piacque moltissimo lo spettacolo, che è stato poi trasmesso nei cinema (!!) quando la misero in scena a Mosca qualche mese dopo...
saluti Maometto II
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