Insegna la Storia, quella dei grandi eventi, ma anche la storia quotidiana, che riguarda ciascuno di noi, che dagli errori si può, anzi si deve imparare. Purtroppo, Storia e autobiografia ricordano anche che ciò avviene, se non raramente, meno spesso di quanto sarebbe opportuno.
È quanto viene da pensare scorrendo le nuove stagioni della Opernhaus di Zurigo e del Grand Théâtre di Ginevra. La prima nutritissima di nuove produzioni e riallestimenti, la seconda più contenuta ed adatta, per l’appunto, a un palcoscenico di provincia. Molto chic l’una, per numero di star proposte (ma in taluni casi meglio sarebbe scrivere: propinati), quasi altrettanto chic l’altra, che, pur vantando una presenza meno cospicua di divini e divine del canto moderno, propone almeno un accoppiamento interprete/ruolo, che neppure la fervida (perversa?) fantasia dei programmatori zurighesi si sogna di eguagliare. Ma andiamo con ordine, premettendo che delle sue stagioni saranno commentati solo gli spettacoli che per un verso o per l’altro risultano, sulla carta, stimolanti.
Zurigo propone, fra le nuove produzioni, l’Otello di Verdi e quello di Rossini. Il primo sarà affidato alla bacchetta di Daniele Gatti (facile prevedere pullman e spostamenti di massa dalla Lombardia all’Elvezia per accostarsi alla reliquia) e alla regia di Graham Vick (ancora?), protagonisti Peter Seiffert (in alcune repliche sostituito da José Cura), Fiorenza Cedolins e Thomas Hampson. Siccome siamo maligni e malpensanti, dubitiamo che la distribuzione possa restare la medesima da qui alla prima rappresentazione e, poi, rimanere inalterata fino al termine delle repliche.
Il secondo Otello si presenta, invece, con tutti i crismi della filologia di matrice baroccara,che ormai si è appropriata di Rossini, a partire dalla presenza nel golfo mistico dell’ensemble “Orchestra La Scintilla”, specializzata in operazioni di questo genere. I protagonisti saranno John Osborn (diciamo problematici i suoi rapporti con il Moro, anche perché la sua parte in quest’opera sarebbe quella dell’amoroso) e Cecilia Bartoli (rossiniana “discografica” di lungo corso, ma corto respiro, già disastrosa Contessa Adele nell’Ory di quest’anno, che peraltro sarà ripreso nella nuova stagione, confermando anche l’Isolier di Rebeca Olvera, impegnata a Zurigo anche quale Blondchen nel Ratto dal serraglio – sic!), affiancati dal Rodrigo di Javier Camarena e dallo Iago di Antonino Siragusa (quasi che toccare con fatica i primi acuti conferisse tout court lo status di tenore baritonale – rimane poi un mistero come il signor Siragusa si destreggerà quale Arnoldo del Guglielmo Tell, altro sublime ripescaggio dalla stagione non ancora conclusa).
Ma se per l’Otello nutriamo dubbi, precisi e circostanziati, per il Poliuto, protagonista ancora una volta Fiorenza Cedolins, affiancata da Vittorio Grigolo, abbiamo con riferimento alla opportunità della scelta, più certezze che dubbi. Alla luce dell’annunciato e poi cancellato Pollione zurighese, potremmo anche azzardare il nome del collega destinato a sostituire il tenore romano, ma preferiamo lasciare ai lettori il compito di cercare autonomamente la risposta. In fondo gli archivi digitali anche a questo possono servire. Sempre Grigolo si esibirà in Zurigo nei Contes d’Hoffmann, accanto alla proteiforme beniamina del pubblico svizzero, Elena Mosuc.
Restando in tema di forfait, la recente mancata partecipazione ai Capuleti monacensi fa presagire dense tenebre sulla Eboli di Vesselina Kasarova, visto le numerose incursioni della parte nel registro acuto e la necessità di accentare con forza e proprietà in tutta l’estensione della voce. Il resto della distribuzione (Harteros, Sartori, Salminen, Cavalletti, Muff) appare adeguato al massimo a qualche teatro della profonda provincia tedesca, mentre la direzione di Zubin Mehta si muove lungo i consueti binari della routine di pseudo lusso nella quale il maestro da tempo si è accomodato.
Nessuna lezione dall’esperienza pregressa sembra avere tratto persino il generalmente oculato Juan Diego Flórez, che si ripropone come baldanzoso Duca di Mantova in alternanza al più adatto Beczala (che, fedele alla tradizione di certi tenori di grazia, affronterà anche il Ballo). Rigoletto sarà l’immarcescibile Leo Nucci, Gilda, come già a Dresda, Diana Damrau. Verrà, poi, ripresa la Fanciulla del West Magee-Cura-Raimondi (vedi alla voce Otello), quindi, a novembre, sarà presentato un Don Giovanni, protagonista femminile Anna Netrebko. Auguriamo a madama Schrott migliore fortuna di quella toccata non più di tre anni or sono ad un collega, che esibitosi in Zurigo con onori e plausi, pure da parte della dirigenza scaligera, dovette dalla stessa e per giunta nello stesso titolo subire una non proprio "velata" protesta.
Le modeste dimensioni della sala di Zurigo sono verosimilmente all’origine della scelta di collocare Eva Mei non solo sul Re pastore, ma su titoli come Traviata e Tell, mentre Isabel Rey passerà dai panni di Norina a quelli di Liù, Micaela e Amelia Grimaldi (questi ultimi in compartecipazione con Barbara Frittoli, in un allestimento che vedrà impegnati, nel ruolo del Doge, ancora una volta Nucci e Plácido Domingo, come Adorno Massimiliano Pisapia e Fabio Sartori e, quale Fiesco, Carlo Colombara). Analoghe considerazioni valgano per la stagione ginevrina, che schiererà ad esempio Adina Nitescu quale Maddalena di Coigny e soprattutto Jennifer Larmore quale Lady Macbeth. Fulgido esempio della teoria, da lungo tempo praticata, che la lunga militanza belcantista e il progredire dell’età conferiscano ipso facto potere e titoli di approcciare il repertorio verdiano, o per meglio dire, della persuasione che la voce, che non riesca più a rifulgere come potrebbe e dovrebbe in Rossini, Mozart e Haendel, non possa che trovare la sua collocazione nel repertorio postbelcantista. Insomma, quasi che nell’opera si applicasse quel medesimo principio, eternato dall'adagio ambrosiano: “quando el corpo el se früsta, l’anima la se giüsta”.
Di fronte a siffatte prodezze viene da inneggiare al buon senso, alla misura e (perché no?) alla furbizia di Diana Damrau, che ricicla un antico must dei soprani leggeri di un tempo e si propone quale Filina nella Mignon. Certo che l’entusiasmo diminuisce se si pensano ai recenti stridori accusati dalla voce della signora nei Puritani e soprattutto nel Conte Ory newyorkese, ma le contenute proporzioni della parte dovrebbero costituire una garanzia di tenuta per il soprano. E soprattutto per il suo pubblico!
Gli ascolti
Rossini - Le Comte Ory
Atto I
En proie à la tristesse - Judith Raskin (con Frank Porretta & Shirley Verrett - 1962)
Offenbach - Les Contes d'Hoffmann
Atto I
Il était une fois à la court d'Eisenach - Agostino Lazzari (1960)
Thomas - Mignon
Atto II
Oui, pour ce soir...Je suis Titania la blonde - Verdad Luz Guajardo (1949)
È quanto viene da pensare scorrendo le nuove stagioni della Opernhaus di Zurigo e del Grand Théâtre di Ginevra. La prima nutritissima di nuove produzioni e riallestimenti, la seconda più contenuta ed adatta, per l’appunto, a un palcoscenico di provincia. Molto chic l’una, per numero di star proposte (ma in taluni casi meglio sarebbe scrivere: propinati), quasi altrettanto chic l’altra, che, pur vantando una presenza meno cospicua di divini e divine del canto moderno, propone almeno un accoppiamento interprete/ruolo, che neppure la fervida (perversa?) fantasia dei programmatori zurighesi si sogna di eguagliare. Ma andiamo con ordine, premettendo che delle sue stagioni saranno commentati solo gli spettacoli che per un verso o per l’altro risultano, sulla carta, stimolanti.
Zurigo propone, fra le nuove produzioni, l’Otello di Verdi e quello di Rossini. Il primo sarà affidato alla bacchetta di Daniele Gatti (facile prevedere pullman e spostamenti di massa dalla Lombardia all’Elvezia per accostarsi alla reliquia) e alla regia di Graham Vick (ancora?), protagonisti Peter Seiffert (in alcune repliche sostituito da José Cura), Fiorenza Cedolins e Thomas Hampson. Siccome siamo maligni e malpensanti, dubitiamo che la distribuzione possa restare la medesima da qui alla prima rappresentazione e, poi, rimanere inalterata fino al termine delle repliche.
Il secondo Otello si presenta, invece, con tutti i crismi della filologia di matrice baroccara,che ormai si è appropriata di Rossini, a partire dalla presenza nel golfo mistico dell’ensemble “Orchestra La Scintilla”, specializzata in operazioni di questo genere. I protagonisti saranno John Osborn (diciamo problematici i suoi rapporti con il Moro, anche perché la sua parte in quest’opera sarebbe quella dell’amoroso) e Cecilia Bartoli (rossiniana “discografica” di lungo corso, ma corto respiro, già disastrosa Contessa Adele nell’Ory di quest’anno, che peraltro sarà ripreso nella nuova stagione, confermando anche l’Isolier di Rebeca Olvera, impegnata a Zurigo anche quale Blondchen nel Ratto dal serraglio – sic!), affiancati dal Rodrigo di Javier Camarena e dallo Iago di Antonino Siragusa (quasi che toccare con fatica i primi acuti conferisse tout court lo status di tenore baritonale – rimane poi un mistero come il signor Siragusa si destreggerà quale Arnoldo del Guglielmo Tell, altro sublime ripescaggio dalla stagione non ancora conclusa).
Ma se per l’Otello nutriamo dubbi, precisi e circostanziati, per il Poliuto, protagonista ancora una volta Fiorenza Cedolins, affiancata da Vittorio Grigolo, abbiamo con riferimento alla opportunità della scelta, più certezze che dubbi. Alla luce dell’annunciato e poi cancellato Pollione zurighese, potremmo anche azzardare il nome del collega destinato a sostituire il tenore romano, ma preferiamo lasciare ai lettori il compito di cercare autonomamente la risposta. In fondo gli archivi digitali anche a questo possono servire. Sempre Grigolo si esibirà in Zurigo nei Contes d’Hoffmann, accanto alla proteiforme beniamina del pubblico svizzero, Elena Mosuc.
Restando in tema di forfait, la recente mancata partecipazione ai Capuleti monacensi fa presagire dense tenebre sulla Eboli di Vesselina Kasarova, visto le numerose incursioni della parte nel registro acuto e la necessità di accentare con forza e proprietà in tutta l’estensione della voce. Il resto della distribuzione (Harteros, Sartori, Salminen, Cavalletti, Muff) appare adeguato al massimo a qualche teatro della profonda provincia tedesca, mentre la direzione di Zubin Mehta si muove lungo i consueti binari della routine di pseudo lusso nella quale il maestro da tempo si è accomodato.
Nessuna lezione dall’esperienza pregressa sembra avere tratto persino il generalmente oculato Juan Diego Flórez, che si ripropone come baldanzoso Duca di Mantova in alternanza al più adatto Beczala (che, fedele alla tradizione di certi tenori di grazia, affronterà anche il Ballo). Rigoletto sarà l’immarcescibile Leo Nucci, Gilda, come già a Dresda, Diana Damrau. Verrà, poi, ripresa la Fanciulla del West Magee-Cura-Raimondi (vedi alla voce Otello), quindi, a novembre, sarà presentato un Don Giovanni, protagonista femminile Anna Netrebko. Auguriamo a madama Schrott migliore fortuna di quella toccata non più di tre anni or sono ad un collega, che esibitosi in Zurigo con onori e plausi, pure da parte della dirigenza scaligera, dovette dalla stessa e per giunta nello stesso titolo subire una non proprio "velata" protesta.
Le modeste dimensioni della sala di Zurigo sono verosimilmente all’origine della scelta di collocare Eva Mei non solo sul Re pastore, ma su titoli come Traviata e Tell, mentre Isabel Rey passerà dai panni di Norina a quelli di Liù, Micaela e Amelia Grimaldi (questi ultimi in compartecipazione con Barbara Frittoli, in un allestimento che vedrà impegnati, nel ruolo del Doge, ancora una volta Nucci e Plácido Domingo, come Adorno Massimiliano Pisapia e Fabio Sartori e, quale Fiesco, Carlo Colombara). Analoghe considerazioni valgano per la stagione ginevrina, che schiererà ad esempio Adina Nitescu quale Maddalena di Coigny e soprattutto Jennifer Larmore quale Lady Macbeth. Fulgido esempio della teoria, da lungo tempo praticata, che la lunga militanza belcantista e il progredire dell’età conferiscano ipso facto potere e titoli di approcciare il repertorio verdiano, o per meglio dire, della persuasione che la voce, che non riesca più a rifulgere come potrebbe e dovrebbe in Rossini, Mozart e Haendel, non possa che trovare la sua collocazione nel repertorio postbelcantista. Insomma, quasi che nell’opera si applicasse quel medesimo principio, eternato dall'adagio ambrosiano: “quando el corpo el se früsta, l’anima la se giüsta”.
Di fronte a siffatte prodezze viene da inneggiare al buon senso, alla misura e (perché no?) alla furbizia di Diana Damrau, che ricicla un antico must dei soprani leggeri di un tempo e si propone quale Filina nella Mignon. Certo che l’entusiasmo diminuisce se si pensano ai recenti stridori accusati dalla voce della signora nei Puritani e soprattutto nel Conte Ory newyorkese, ma le contenute proporzioni della parte dovrebbero costituire una garanzia di tenuta per il soprano. E soprattutto per il suo pubblico!
Gli ascolti
Rossini - Le Comte Ory
Atto I
En proie à la tristesse - Judith Raskin (con Frank Porretta & Shirley Verrett - 1962)
Offenbach - Les Contes d'Hoffmann
Atto I
Il était une fois à la court d'Eisenach - Agostino Lazzari (1960)
Thomas - Mignon
Atto II
Oui, pour ce soir...Je suis Titania la blonde - Verdad Luz Guajardo (1949)
12 commenti:
Vedo adesso che nella prossima stagione all'Unter den Linden (per il secondo anno allo Schiller Theater) Simon Rattle dirigerà "Da una casa di morti" del famigerato Janacek. Ma perché tutti questi grandi direttori, Abbado, Boulez, Rattle, Pekka Salonen hanno una simile strana passione per Janacek in generale e, in particolare, per la sua ultima opera? Che sia perché Janacek è un grandissimo compositore e la sua ultima opera un grande capolavoro? Magari lo eseguiranno in futuro anche a Cremona, Bergamo e Piacenza e con questo sarà finito tutto, anche nelle ultime roccaforti del belcanto.
Marco Ninci
A) perchè darsi un cotè intellettuale oggi si può solo con certi musicisti
b)perchè siccome il canto con questi musicisti conta poco o niente, loro sono i protagonisti assoluti
c) perchè ci trovano qualcosa di valido, fatto che non significa che questo musicista sia assai migliore di altri che non apprezzano
d) anche i direttori possono avere differnze di vedute, ed abbiamo esemplificato con Puccini già mille volte
marco, sei......una borsa!!
Anche a rischio di fare il bastian contrario dico: sì, anche se qualcuno non l'avesse ancora capito, Janacek è uno dei piú grandi compositori del Novecento e "Da una casa di morti" è un capolavoro.
Se ci sono melomani a cui piacciono belcanto e Janacek (m'annovero fra quelli, e per prova sia detto che stando alle idi di marzo inaugurai un personale ciclo Mercadante con "La vestale", "Elena da Feltre", "Il giuramento", "Il bravo", "Il reggente" e "Orazi e Curiazi" e adesso lo frammischio con "Guillaume Tell", cui seguiranno un par di Mercadante pre- e postreforma) non vedo perché non possano coesistere nel cartellone d'un teatro.
A me piacciono sia il belcanto che Janacek, adoro Mussorgskj, considero il Pelleas una tortura, ritengo noiosissime molte cose di Glück e Cherubini e trovo diversi lavori di Berlioz enfatici, retorici e tromboneschi.
Sono gusti miei personali e non pretendo di sfottere coloro i quali ne hanno di differenti.
Del resto, Abbado ignora Puccini, Sinopoli odiava Stravinskj, Boulez detesta Verdi e lo trova (parole sue) "enfatico, retorico, pieno di ripetizioni e zum-pa-pa", a Glenn Gould faceva schifo Chopin e Lele D´Amico aborriva Bruckner.
Per questo trovo inutile questo continuo insistere su Janacek, musicista che personalmente a me, come ripeto, piace moltissimo, anche se non trovo "Da una casa di morti" qualitativamente all´altezza di capolavori come Jenufa, Kata Kabanova, "La volpe astuta" e "L´affare Makropoulos".
Agli amici del blog non piace? Caro Marco, fattene una ragione.
Vorrei capire una cosa e scusate se evidentemente potrò sembrare una sciocca: ho letto e riletto il pezzo, ma potreste gentilmente indicarmi ove, nella puntuale disanima del nostro Tamburini, si fa accenno all'opera "Da una casa di morti" di Janacek?
Potreste anche indicarmi ove, sempre e sottolineo nel suddetto pezzo, il nostro Tamburini affermi, stando a quanto scritto da Marco e Angelodifuoco, che Janacek non sia un grandissimo compositore, che "Da una casa di morti" non sia un capolavoro, che nel cartellone di un teatro Janacek e belcanto non possano coesistere?
Molto bene Marco: spero che tu abbia già programmato una bella trasferta a Berlino per vedere quest'opera, così da poterne evidentemente parlare, possibilmente ampliando concetti che hai più volte espresso e ribadito e che credo, a questo punto, di aver anche assimilato.
Cremona, Bergamo e Piacenza da te nominate addirittura (!?) "roccaforti del belcanto", spero siano lusingate da tale incoronazione e se in futuro queste sedi ospiteranno "Da una casa di morti" spero non sia tu l'unico spettatore presente in sala.
Solo allora probabilmente sarà tutto finito.
Marianne Brandt
Ah, un´altra cosa. Ci vuole un bell´ottimismo a definire Bergamo "roccaforte del belcanto" dopo allestimenti catastrofici di opere come la Lucrezia Borgia, Favorita e il Poliuto.
Forse da quelle parti farebbero bene a lasciar stare il belcanto e dedicarsi ad altre cose, magari Britten o Janacek, perchè no?
li problema che non arrivi a capire caro marco è che quello che ha rotto il cazzo è la tua presunzione circa la superiorità dì janacek è la protervia con cui ti poni. Non sei in grado mi dispiace. Per parte mia continuo a preferire crispino è la comare. Non provo a convincerti non sei in grado dì capire
Ho prenotato a Zurigo per il Moses und Aron,capolavoro assoluto del teatro musicale,purtroppo senza coccode' e zum-pa-pa-zum che tanto esaltano i "cosidetti " melomani.A rincarare la dose aggiungo che,a mio parere (pare esista ancora la liberta' di opinione ), Opernhaus di Zurigo,per completezza,qualita'e
originalita' delle proposte,sia il Primo teatro d'Opera al mondo
caro imparato (anche se nessuno nasce tale), l'opinione di chi considera sottoprodotto culturale l'opera italiana, solo perché non aderisce ai canoni estetici dettati da un'altra cultura, non merita chiose, commentandosi ampiamente da sé. Io per quel Moses con un cast di carneadi non attraverserei la strada, figuriamoci andare fino a Zurigo e comprare per giunta il biglietto. Buon pro ti faccia.
1° Mai affermato che l'Opera Italiana sia un sottoprodotto culturale.
2° Chiosando il Principe De Curtis :Imparato si nasce e Io lo nacqui !
3°Nessuno e' perfetto !
4°Il Vostro Blog -a tutelar l'antica arte del canto- vuol diventare "a tutelar l'arte del canto ANTICO ?
No. A tutelar l'antica arte del canto. Che è una, indipendentemente dal gusto, ceh varia col tempo.
E' l'arte ove si canta con perizia tecnica e comprensione storica del testo che si esegue. Si può cantare con gusto moderno ma con tecnica e....adeguatezza stilistica.
Se questo non è ancora chiaro....continuiamo pure a preferire la bartoli alla sutherland, la dessay alla callas, i berti ai bergonzi etcccc
saluti
Carissima Sig.ra Grisi,le Sue parole esprimono saggezza ,pertinenza e gusto.La mia voleva essere una "provocazione" ai cari amici di questo blog prezioso, purtroppo i piu' semplici ci sono cascati !
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