Aureliano in Palmira ha inaugurato ieri sera la stagione nu° trentasette del festival di Martina Franca. Nel settembre 1980 agli albori della aetas aurea Rossini renaissance l’opera Giocosa lo propose a Genova e teatri minori liguri affidandolo nel ruolo della regina Zenobia all’astro nascente della coloratura Luciana Serra ed affiancando in alcune recite l’Arsace di Martine Dupuy. Allora fu un avvenimento storico perché secondo la tradizione Aureliano era il titolo che, in grazia delle pesanti varianti e riscritture del musico Giovanni Battista Velluti primo Arsace, aveva indotto Rossini a scrivere in extenso la coloratura.
Era una fola di marca idealista, smentita da stima e nostalgia che Rossini, sempre, dimostrò per i castrati, dal fatto che dopo l’Aureliano, ora Rossini ora grandi esecutori, come Garcia, ebbero mano tanto pesante quanto felice nelle appoggiature e nelle riscritture senza che seguissero censure di sorta e dal fatto che, dopo Aureliano, vi furono altri titoli in cui la coloratura è tutt’altro che minuta. Non solo, ma il mito di Aureliano si fonda anche sulla circostanza che sia l’unica opera espressamente scritta da Rossini per un castrato e di cui manchi l’autografo. Perduto si dice, voglio credere finito fra, le non ancora ben inventariate, carte del Velluti medesimo, quale omaggio dell’autore all’interprete,analogo a quello di Meyerbeer con Semiramide, scritta per la Bassi.
Ma se un tempo la critica aveva le sue foje come, appunto, quella del disgusto rossiniano per gli interventi di Velluti l’attuale ha quella, ancor più grave e perniciosa, di affidare la parte dell’amoroso -musico- ad un controtenore. Dell’antistoricità della scelta più volte è stato detto e non è il caso di ripetere. Le cronologie dei teatri documentano che contemporanemante e dopo Velluti Arsace fu il ruolo di Marietta Marcolini, Adelaide Malanotte, Carolina Bassi Manna, Rosmunda benedetta Pisaroni e Giuditta Pasta, ovvero di tutti i contralti rossiniani, tanto quanto Velluti cantò Tancredi e Arsace di Semiramide. E ciò basta per escludere, buono o cattivo che sia, un controtenore nei panni di Arsace come in quelli di tutte le opere di belcanto.
Lasciamo, poi, stare che a Martina Franca, nata dalle idee –anch’esse condivisibili o meno, ma sempre documentate- di Rodolfo Celletti il controtenore sia sempre stato considerato un falso storico. Non serve una approfondita conoscenza degli scritti di Celletti, bastando la superficiale lettura dei suoi articoli sulle riviste musicali.
Ma i tempi sono quelli che sono e, quindi, dobbiamo anche sentire, via Sorella Radio, pure la baggianata che la voce del controtenore sia astratta e faccia sognare. Esistono – è vero- sogni ed incubi. E quello di ieri sera ad opera di Franco Fagioli era della seconda specie. Quando il cantante attacca il duettino “se tu m’ami o mia regina” si sente la più esaustiva imitazione della peggior Valentini Terrani o Daniela Barcellona. E per tutta la serata sentiamo, per contro e costantemente un suono duro, spinto, verista e volgare, che nulla può avere a che vedere con quello astratto e stilizzato, ritenuto la peculiarità della voce del castrato e delle voci femminili più autenticamente belcantiste, come siamo in grado di documentare. Il problema è che la scrittura marcatamente centrale, su cui il cantante interveniva insiste su quella che sarebbe la zona acuta della voce maschile e dove il suono è per forza di cose esile e di frequente stonato. L’estatico abbandono e il canto a fior di labbra della due arie “Che sa dirmi” e “perche mai le luci aprimmo”, che Rossini riadattò per Isabella Colbran, interprete del Tancredi, piuttosto che la precisione dei passi di agilità del rondò apocrifo “Non lasciarmi in tal momento” ( eseguita ab integro, però) sono stati un astratto sogno, un’araba fenice per tutta la serata. Preciso che la stretta del duetto all’atto primo con Zenobia “parto e mi sia partendo” era una autentica parodia e caricatura del canto di forza rossiniano.
Nel mio incipit ho ricordato che la prima riproposizione di Aureliano fu salutata per la novità e perché era la riproposizione di un testo musicale, che al di là della qualità intrinseca, fa parte della storia della musica. Chi conosce quella registrazione e la realizzazione delle arie ad opera di Martyne Dupuy può anche considerare come si regolarono gli esecutori di allora con gli interventi,gli abbellimenti e quell’apparato rimesso all’esecutore. A distanza di trent’anni mi sarei aspettato, almeno, una prassi esecutiva nuova o illuminate. Ed invece abbiamo sentito le varianti della Serra in “La pugnai” e seguente cabaletta “non piangete o sventurati” riciclate e semplificate, l’omissione di cadenze alla sezione centrale dei duetti ed una parsimonia assoluta di abbellimenti da razionamento bellico. Scusate: trent’anni e fiumi di inchiostro e le esperienze esecutive di una Horne piuttosto che di un Blake a che sono servite?
Quanto agli altri due protagonisti, secondo la tipica divisione delle parti da opera seria rossiniana non napoletana, soprano assoluto e tenore baritonale abbiamo sentito una soubrette o al più chauteuse a roulade e un tenore senza acuti, che non è un tenore baritonale, con colore e timbro da esecutore da farsa rossiniana ossia da titolo napoletano del ‘700. Nel dettaglio Maria Aleida ha esibito solo un paio di sovracuti (chiusa dell’aria e del concertato atto primo) facili , ma di peso da soprano leggero che diviene, come tutte le voci slave aspra e forzata quando, in adesione alle esigenze drammaturgiche cerca di essere drammatica. In questi passi, come pure in quelli di canto ampio in zona di passaggio (terzetto atto secondo) la cantante non è neppure in regola con l’intonazione Nel dettaglio duetto con Aureliano all’atto secondo e la prima sezione dell’aria. Lo stesso accade al signor Bogdan Mihai che canta da baritenore perché non è in grado di “girare” la voce per usare una eloquente espressione gergale riferita al passaggio di registro e manca per conseguenza dell’accento ampio e fiero che i recitativi ed i cantabili impongono e quanto alle agilità l’aggettivo scolastiche è persino troppo. Inserire diminuzioni e varianti come accade nella cabaletta della sortita ha senso e significato se il cantante è in grado di eseguirle non di farfugliarle (per usare un idoneo termine di cellettiano conio)
Da ultimo un direttore poco ispirato, lento e poco vario negli andanti, rumoroso quanto intervengono percussioni e legni nella sinfonia per altro diretta in stile da idillio e non già da titolo tragico. Perché, risentito Aureliano, è un titolo tragico e serio. I passi marziali di introduzione, le strette di tutte le cabalette, i cori dal sapore autenticamente tragico come quelli dei prigionieri, visitati da Zenobia parlano chiaro il linguaggio di un autore che dall’esperienza del Tancredi sta approdando ai titoli napoletani e questo è il solo motivo per cui Aureliano merita di essere riproposto. Non certo per la qualità esecutiva, irrinunciabile sempre, in ROSSINI SOPRATTUTTO!
Gli ascolti
Rossini - Aureliano in Palmira
Atto I
Torna oh Prence - Paolo Barbacini & Martine Dupuy (1980)
Chi sa dirmi, o mia speranza - Martine Dupuy (1980)
Atto II
Perché mai le luci aprimmo...No! non posso: al mio tesoro - Martine Dupuy (1980)
Era una fola di marca idealista, smentita da stima e nostalgia che Rossini, sempre, dimostrò per i castrati, dal fatto che dopo l’Aureliano, ora Rossini ora grandi esecutori, come Garcia, ebbero mano tanto pesante quanto felice nelle appoggiature e nelle riscritture senza che seguissero censure di sorta e dal fatto che, dopo Aureliano, vi furono altri titoli in cui la coloratura è tutt’altro che minuta. Non solo, ma il mito di Aureliano si fonda anche sulla circostanza che sia l’unica opera espressamente scritta da Rossini per un castrato e di cui manchi l’autografo. Perduto si dice, voglio credere finito fra, le non ancora ben inventariate, carte del Velluti medesimo, quale omaggio dell’autore all’interprete,analogo a quello di Meyerbeer con Semiramide, scritta per la Bassi.
Ma se un tempo la critica aveva le sue foje come, appunto, quella del disgusto rossiniano per gli interventi di Velluti l’attuale ha quella, ancor più grave e perniciosa, di affidare la parte dell’amoroso -musico- ad un controtenore. Dell’antistoricità della scelta più volte è stato detto e non è il caso di ripetere. Le cronologie dei teatri documentano che contemporanemante e dopo Velluti Arsace fu il ruolo di Marietta Marcolini, Adelaide Malanotte, Carolina Bassi Manna, Rosmunda benedetta Pisaroni e Giuditta Pasta, ovvero di tutti i contralti rossiniani, tanto quanto Velluti cantò Tancredi e Arsace di Semiramide. E ciò basta per escludere, buono o cattivo che sia, un controtenore nei panni di Arsace come in quelli di tutte le opere di belcanto.
Lasciamo, poi, stare che a Martina Franca, nata dalle idee –anch’esse condivisibili o meno, ma sempre documentate- di Rodolfo Celletti il controtenore sia sempre stato considerato un falso storico. Non serve una approfondita conoscenza degli scritti di Celletti, bastando la superficiale lettura dei suoi articoli sulle riviste musicali.
Ma i tempi sono quelli che sono e, quindi, dobbiamo anche sentire, via Sorella Radio, pure la baggianata che la voce del controtenore sia astratta e faccia sognare. Esistono – è vero- sogni ed incubi. E quello di ieri sera ad opera di Franco Fagioli era della seconda specie. Quando il cantante attacca il duettino “se tu m’ami o mia regina” si sente la più esaustiva imitazione della peggior Valentini Terrani o Daniela Barcellona. E per tutta la serata sentiamo, per contro e costantemente un suono duro, spinto, verista e volgare, che nulla può avere a che vedere con quello astratto e stilizzato, ritenuto la peculiarità della voce del castrato e delle voci femminili più autenticamente belcantiste, come siamo in grado di documentare. Il problema è che la scrittura marcatamente centrale, su cui il cantante interveniva insiste su quella che sarebbe la zona acuta della voce maschile e dove il suono è per forza di cose esile e di frequente stonato. L’estatico abbandono e il canto a fior di labbra della due arie “Che sa dirmi” e “perche mai le luci aprimmo”, che Rossini riadattò per Isabella Colbran, interprete del Tancredi, piuttosto che la precisione dei passi di agilità del rondò apocrifo “Non lasciarmi in tal momento” ( eseguita ab integro, però) sono stati un astratto sogno, un’araba fenice per tutta la serata. Preciso che la stretta del duetto all’atto primo con Zenobia “parto e mi sia partendo” era una autentica parodia e caricatura del canto di forza rossiniano.
Nel mio incipit ho ricordato che la prima riproposizione di Aureliano fu salutata per la novità e perché era la riproposizione di un testo musicale, che al di là della qualità intrinseca, fa parte della storia della musica. Chi conosce quella registrazione e la realizzazione delle arie ad opera di Martyne Dupuy può anche considerare come si regolarono gli esecutori di allora con gli interventi,gli abbellimenti e quell’apparato rimesso all’esecutore. A distanza di trent’anni mi sarei aspettato, almeno, una prassi esecutiva nuova o illuminate. Ed invece abbiamo sentito le varianti della Serra in “La pugnai” e seguente cabaletta “non piangete o sventurati” riciclate e semplificate, l’omissione di cadenze alla sezione centrale dei duetti ed una parsimonia assoluta di abbellimenti da razionamento bellico. Scusate: trent’anni e fiumi di inchiostro e le esperienze esecutive di una Horne piuttosto che di un Blake a che sono servite?
Quanto agli altri due protagonisti, secondo la tipica divisione delle parti da opera seria rossiniana non napoletana, soprano assoluto e tenore baritonale abbiamo sentito una soubrette o al più chauteuse a roulade e un tenore senza acuti, che non è un tenore baritonale, con colore e timbro da esecutore da farsa rossiniana ossia da titolo napoletano del ‘700. Nel dettaglio Maria Aleida ha esibito solo un paio di sovracuti (chiusa dell’aria e del concertato atto primo) facili , ma di peso da soprano leggero che diviene, come tutte le voci slave aspra e forzata quando, in adesione alle esigenze drammaturgiche cerca di essere drammatica. In questi passi, come pure in quelli di canto ampio in zona di passaggio (terzetto atto secondo) la cantante non è neppure in regola con l’intonazione Nel dettaglio duetto con Aureliano all’atto secondo e la prima sezione dell’aria. Lo stesso accade al signor Bogdan Mihai che canta da baritenore perché non è in grado di “girare” la voce per usare una eloquente espressione gergale riferita al passaggio di registro e manca per conseguenza dell’accento ampio e fiero che i recitativi ed i cantabili impongono e quanto alle agilità l’aggettivo scolastiche è persino troppo. Inserire diminuzioni e varianti come accade nella cabaletta della sortita ha senso e significato se il cantante è in grado di eseguirle non di farfugliarle (per usare un idoneo termine di cellettiano conio)
Da ultimo un direttore poco ispirato, lento e poco vario negli andanti, rumoroso quanto intervengono percussioni e legni nella sinfonia per altro diretta in stile da idillio e non già da titolo tragico. Perché, risentito Aureliano, è un titolo tragico e serio. I passi marziali di introduzione, le strette di tutte le cabalette, i cori dal sapore autenticamente tragico come quelli dei prigionieri, visitati da Zenobia parlano chiaro il linguaggio di un autore che dall’esperienza del Tancredi sta approdando ai titoli napoletani e questo è il solo motivo per cui Aureliano merita di essere riproposto. Non certo per la qualità esecutiva, irrinunciabile sempre, in ROSSINI SOPRATTUTTO!
Gli ascolti
Rossini - Aureliano in Palmira
Atto I
Torna oh Prence - Paolo Barbacini & Martine Dupuy (1980)
Chi sa dirmi, o mia speranza - Martine Dupuy (1980)
Atto II
Perché mai le luci aprimmo...No! non posso: al mio tesoro - Martine Dupuy (1980)
6 commenti:
non riesco a leggere tutta la recensione ma solo l'incipit.. è un problema solo mio?
l'attendevo con ansia.. ieri ero a Palazzo Ducale a sentire l'Aureliano, qualora a qualcuno interessi sapere come rendevano alcune cose dal vivo.
a parte che Fagioli ieri sera abbia cantato bene oppure male,mi chiedo semplicemente cosa serve a fare cantare un controtenore una parte che fu di un castrato... a rigor di logica non ha senso,perche un controtenore non canta come un castrato,quindi veramente qui si tratta di un falso
la voce di un castrato è sostituita senza neanche cambiare la partitura da un mezzosoprano
Poi su Fagioli non mi pronuncio o meglio in chat ieri sera ho scritto che cerca di metterci del suo meglio,e a giudicare il pubblico lo ha applaudito e di certo non sono io a censurarlo sulle sue scelte.Ma per me puo anche cambiare mestiere..
ecco ora sono riuscito a leggerla tutta.. devo convenire sul fatto che la serata sia stata alquanto deludente, e che il tenore era forse ancor peggio dal vivo.
Mi permetto di sottolineare che il controtenore non è un falso storico ma un registro maschile da sempre esistente e utilizzato nei secoli. da non confondere, ahimé, col sopranista, come il Fagioli, che è sì, un falso storico.
falso non falso insomma se nel passato,c'era la figura del castrato nato per motivi ormai noti
e poi per fortuna questa categoria o meglio questo registro vocale è stato dismesso,mi chiedo per quale motivo un controtenore,o un sopranista debba prenderne il posto come ieri sera quando la sua vocalità "artefatta" non è quella di un castrato,ecco non ha senso.
A questo punto vogliono tornare all'"origine della prima" allora cerchino bambini da castrare cosi avremo di nuovo un Velluti a cantare Arsace.
E cosi torniamo all'"originale" e non un falso..
Oppure questi uomini che vogliono cantare da soprano si castrino meglio...
Bene, ora attendiamo, sempre in nome del progresso, i controtenori appropriarsi di Faliero, Romeo, Urbano, Smeton, Siebel, Oscar e magari anche Beppe dell´Amico Fritz.
Viva la modernità e il nuovo modo di eseguire le opere! Viva l´ammmore!
non confondete i controtenori con i sopranisti per favore... non fate anche voi questo errore grossolano.. il controtenore non ha mai preso il posto di nessuno se non quello di se stesso e non è una vocalità "falsa"..
di veri controtenori ce ne sono poche decine. concordo sull'uso smodato inoculato e talvolta inopportuno di sopranisti e contraltisti.
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