E’ un triste giubileo quello del Festival di Bayreuth che nel 2011 celebra la sua centesima stagione. Per mancanza d’idee, di capacità, finanze o tutto insieme, il giubileo non si festeggia.
L’unica novità è il Tannhäuser in salsa eurotrash-intelettualoide, come ormai è costume nel tempio wagneriano, che oltre ad una regia pseudo-originale infligge al pubblico locale e virtuale un cast improponibile. Se la Ortrud “cantata” da Evelyn Herlitzius l’anno scorso sembrava l’estremo limite possibile dell’indecenza, stavolta è stata la Venere dell’ignota Stephanie Friede ad avere oltraggiato orecchie e sensibilità non solo degli ascoltatori distanti, ma anche del pubblico presente in sala che ha salutato la cantante con una valanga di buu. Inascoltabile quale Elisabetta anche l’urlacchiante Camilla Nylund, voce terribilmente ridotta ed invecchiata in poco tempo. Molto problematico anche il cast maschile in cui l’unanime simpatia della critica e del pubblico va al Langravio Günther Groissböck, basso nominale, perché in realtà non lo è, forzato se non inesistente nel registro grave e, nel complesso, una prestazione modesta in un ruolo d’importanza modesta che certo non può salvare uno spettacolo, e ancora meno un festival. Più positivo dell’aspettato invece la direzione di Thomas Hengelbrock che, eccetto qualche momento di rilassamento, ha guidato l’orchestra del festival con mano sicuro, energia e grande trasparenza del suono. Una buona prova visto che si è trattato di un debutto in una sala la cui acustica è notoriamente difficile ad addomesticare per un direttore quanto è propizia per i cantanti.
Niente di nuovo neppure nei Maestri Cantori “di” Katharina Wagner. Malgrado i cinque anni di esperienza, Sebastian Weigle non sembra avesse appreso qualcosa nel gestire l’orchestra e lo spartito. Oltre alla ridicola regia dell’erede biologica, ma non certo artistica del Meister, questa produzione rimane stigmatizzata dalla greve e letargica direzione ed un cast senza nemmeno un raggio di luce. Triste, molto triste il Sachs di James Rutherford, cantante giovane, ma già possessore di una voce vecchia e ballante. Duro, con gli acuti indietro e privo del necessario lirismo il debutto di Burkhard Fritz nel ruolo di Walter. Insignificante il resto.
Il Lohengrin che in internet è giustamente stato battezzato quale Rattengrin ci presenta un Andris Nelsons in miglior forma rispetto all’anno passato, con un primo e secondo atto corretti ed un terzo abbastanza grigio. Il cast invece non cessa a suscitare perplessità. Petra Lang è sicuramente lontana dalla catastrofe che è stata Evelyn Herlitzius, ma non si sente una sostanziale differenza nel trattare lo strumento vocale. Se l’anno scorso Lohengrin era incarnato dall’ingolato, gemente e falsettante superstar Jonas Kaufmann, nell’edizione presente ci troviamo davanti ad un tenore lirico-leggero dotato di scarsa tecnica che incontra gravi difficoltà nel cruciale terzo atto. Eppure, qualche frase decente ci ha comunque fatto sentire, mentre è rimasta dalla prima fino all'ultima nota assolutamente improponibile - improponibile come mai prima - la Elsa di Annette Dasch. Si cerca di scusarla coll’argomento che sia una mozartiana ed inadatta al tonnellaggio wagneriano. Si dimentica però che con voce sistematicamente ballante, spoggiata ed urlante non si canta nemmeno Mozart. Si loda la prestazione di Georg Zeppenfeld sia quale Pogner nei Maestri Cantori che quale Re Enrico. Può darsi che, malgrado l’emissione stomacale, il giovane basso abbia una minima musicalità, ma, come nel caso del Langravio, non è certamente su una corretta esecuzione del ruolo del Re Enrico che si costruisce il successo di un festival internazionale, che è forse IL festival per eccellenza.
La produzione del Parsifal è l’unica che comporta una regia efficace, salutata dal pubblico con reazioni molto positive sia alla prova generale sia alla ripresa. Si tratta infatti dell’unico esperimento stile “Regieoper” che abbia senso, coerenza e qualità visiva. Abbastanza peggiorata la direzione di Daniele Gatti, con pesantezza e monotonia difficilmente digeribile soprattutto nel terzo atto. Disastroso sia il debutto dell’ingolato-nasale Simon O’Neill, Parsifal con la voce di un Mime di terza scelta, che la ripresa del ruolo di Kundry da parte di Susan Maclean o l’Amfortas spinto ed abbaiato di Detlef Roh. E’ ancora una volta Kwangchul Youn nel ruolo di Gurnemanz a dimostrarsi di essere l’unico artista degno di questo nome presente nel festival di quest’anno. Anche se ritengo le sue prestazioni sia a Torino sia negli ultimi anni a Bayreuth molto superiori a quella che abbiamo sentito mercoledì, il signor Youn rimane uno dei migliori interpreti di questo ruolo fondamentale.
Accanto a Youn l'unico altro protagonista del festival che si trova su un livello da festival è il coro sotto la guida del grande, grandissimo Eberhard Friedrich. E' un complesso che non si smarrisce nemmeno con la bacchetta più incerta e canta sempre con uguale morbidezza, piennezza, omogeneità di suono ed una dinamica talvolta davvero incantevole. Non è per niente che in molti casi i più grandi applausi alla fine delle recite gli otteneva proprio il coro del festival ed il suo bravissimo Chormeister.
Per quanto riguarda il Tristano, la produzione va in scena senza importanti cambi di cast, con la direzione secca ed impersonale di Peter Schneider, un lirico Robert Dean Smith inadatto alla pesantissima vocalità del protagonista, una Irene Théorin che è la più urlante fra tutte le urlatrici wagneriani di tutti i tempi, un Marke stonato del veterano Robert Holl e l’insipida Michele Breedt nel ruolo di Brangäne. Tutto questo ambientato in una delle messinscene più pallide proposte a Bayreuth.
E’ questo il bilancio – tristissimo – per il centesimo anniversario del festival. Tristissimo perché Bayreuth sta girando il coltello nella piaga scritturando nella maggior parte dei casi i peggiori artisti possibili, benché non sia difficile nemmeno oggi trovare dei cast leggermente più decenti. Il livello vocale è tanto più scandaloso quanto la direzione del festival non scrittura i cantanti senza sceglierli attraverso audizioni le quali - in teoria - sono obbligatorie per tutti nonostante il grado della loro celebrità o preparazione. Un altro elemento sfortunato della politica della direzione artistica è l’investimento di tutte le risorse in esperimenti registiche che finiscono con terribili fiaschi, sperando che un bel dì il pubblico si abituerà e “capirà” la profondità delle “letture” dei registi – una “svolta” che guarda con fede verso il caso del leggendario Ring di Chereau del 1976 ed aspetta una virata nel giudizio del pubblico che non avviene perché queste produzioni non hanno nemmeno il quarto della chiarezza ed originalità del concetto di Chereau. Una volta per sempre i registi intellettualoidi che optano per una decostruzione dell’opera dovrebbero capire che le loro rivoluzioni non sono più rivoluzionarie né iconoclastiche almeno dall’Anno Domini 1976 quando il team francese ha per la prima volta decostruito la tetralogia. Quella è un “topos”, una fissazione che – evento unico e veramente nuovo in quell’epoca – rimane con evidenza un ideale di creatività e d’innovazione fino ad oggi. Eppure, è evidente anche il fatto che la direzione del fesitval dovrebbe profondamente rivisitare i suoi valori estetici, cambiare approccio. Magari cambiare anche mestiere. Non basta essere discendente di Richard Wagner per avere sia talento musicale e teatrale sia capacità di manager. Intanto cala catastroficamente la domanda - chi sà se solo a causa delle regie inguardabili o anche per la carenza di qualità musicale - per i bigletti soprattutto dei Maestri Cantori, Lohengrin e Tristan. Alla bigletteria del festival non si è mai trovata una tale quantità di bigletti restituiti. C'è qualcuno che, avendo lottato 10 anni per ottenere un bigletto, preferisce rimanere a casa, magari accendere la radio e convincersi con successo in pochi minuti che abbia fatto bene di essere rimasto a casa ed avere economizzato parecchie centinaia di euro per un evento in cui non c'è più quasi niente d'incantevole oltre al luogo stesso, alla magica geografia della collina ed il momento affascinante in cui nell'austera sala le luci vanno lentamente per spegnersi, dando risalto al bagliore giallastro che dal golfo mistico annebbia il bruno sipario. E' davvero magico, ma poi, su che - e su chi - si apre quel sipario?
Gli ascolti
Wagner
Lohengrin
Atto I
Einsam in trüben Tagen - Elisabeth Rethberg (1927)
Atto II
Euch Lüften - Lotte Lehmann (1930)
Entweihte Götter - Gertrude Grob-Prandl (1955)
Atto III
Mein lieber Schwan - Hermann Jadlowker (1914)
Die Meistersinger von Nürnberg
Atto I
Am stillen Herd - Leo Slezak (1905)
Atto III
Selig, wie die Sonne - Friedrich Schorr, Lauritz Melchior, Elisabeth Schumann, Gladys Parr & Ben Williams (1932)
Parsifal
Atto III
Preludio - Pierre Boulez (1966)
So ward es uns verhiessen - Alexander Kipnis & Fritz Wolff (1927)
Tannhäuser
Atto II
Dich teure Halle - Maria Müller (1930)
Blick' ich umher - Herbert Janssen (1930)
Atto III
Allmächt'ge Jungfrau - Kirsten Flagstad (1948)
Tristan und Isolde
Atto II
Hörst du sie noch? - Nanny Larsen-Todsen & Anny Helm (1928)
O sink hernieder - Georg Anthes, Lillian Nordica & Ernestine Schumann-Heink (Mapleson - 1903)
Tatest du's wirklich? - Emanuel List (1938)
Atto III
Mild und leise - Lilli Lehmann (1907)
L’unica novità è il Tannhäuser in salsa eurotrash-intelettualoide, come ormai è costume nel tempio wagneriano, che oltre ad una regia pseudo-originale infligge al pubblico locale e virtuale un cast improponibile. Se la Ortrud “cantata” da Evelyn Herlitzius l’anno scorso sembrava l’estremo limite possibile dell’indecenza, stavolta è stata la Venere dell’ignota Stephanie Friede ad avere oltraggiato orecchie e sensibilità non solo degli ascoltatori distanti, ma anche del pubblico presente in sala che ha salutato la cantante con una valanga di buu. Inascoltabile quale Elisabetta anche l’urlacchiante Camilla Nylund, voce terribilmente ridotta ed invecchiata in poco tempo. Molto problematico anche il cast maschile in cui l’unanime simpatia della critica e del pubblico va al Langravio Günther Groissböck, basso nominale, perché in realtà non lo è, forzato se non inesistente nel registro grave e, nel complesso, una prestazione modesta in un ruolo d’importanza modesta che certo non può salvare uno spettacolo, e ancora meno un festival. Più positivo dell’aspettato invece la direzione di Thomas Hengelbrock che, eccetto qualche momento di rilassamento, ha guidato l’orchestra del festival con mano sicuro, energia e grande trasparenza del suono. Una buona prova visto che si è trattato di un debutto in una sala la cui acustica è notoriamente difficile ad addomesticare per un direttore quanto è propizia per i cantanti.
Niente di nuovo neppure nei Maestri Cantori “di” Katharina Wagner. Malgrado i cinque anni di esperienza, Sebastian Weigle non sembra avesse appreso qualcosa nel gestire l’orchestra e lo spartito. Oltre alla ridicola regia dell’erede biologica, ma non certo artistica del Meister, questa produzione rimane stigmatizzata dalla greve e letargica direzione ed un cast senza nemmeno un raggio di luce. Triste, molto triste il Sachs di James Rutherford, cantante giovane, ma già possessore di una voce vecchia e ballante. Duro, con gli acuti indietro e privo del necessario lirismo il debutto di Burkhard Fritz nel ruolo di Walter. Insignificante il resto.
Il Lohengrin che in internet è giustamente stato battezzato quale Rattengrin ci presenta un Andris Nelsons in miglior forma rispetto all’anno passato, con un primo e secondo atto corretti ed un terzo abbastanza grigio. Il cast invece non cessa a suscitare perplessità. Petra Lang è sicuramente lontana dalla catastrofe che è stata Evelyn Herlitzius, ma non si sente una sostanziale differenza nel trattare lo strumento vocale. Se l’anno scorso Lohengrin era incarnato dall’ingolato, gemente e falsettante superstar Jonas Kaufmann, nell’edizione presente ci troviamo davanti ad un tenore lirico-leggero dotato di scarsa tecnica che incontra gravi difficoltà nel cruciale terzo atto. Eppure, qualche frase decente ci ha comunque fatto sentire, mentre è rimasta dalla prima fino all'ultima nota assolutamente improponibile - improponibile come mai prima - la Elsa di Annette Dasch. Si cerca di scusarla coll’argomento che sia una mozartiana ed inadatta al tonnellaggio wagneriano. Si dimentica però che con voce sistematicamente ballante, spoggiata ed urlante non si canta nemmeno Mozart. Si loda la prestazione di Georg Zeppenfeld sia quale Pogner nei Maestri Cantori che quale Re Enrico. Può darsi che, malgrado l’emissione stomacale, il giovane basso abbia una minima musicalità, ma, come nel caso del Langravio, non è certamente su una corretta esecuzione del ruolo del Re Enrico che si costruisce il successo di un festival internazionale, che è forse IL festival per eccellenza.
La produzione del Parsifal è l’unica che comporta una regia efficace, salutata dal pubblico con reazioni molto positive sia alla prova generale sia alla ripresa. Si tratta infatti dell’unico esperimento stile “Regieoper” che abbia senso, coerenza e qualità visiva. Abbastanza peggiorata la direzione di Daniele Gatti, con pesantezza e monotonia difficilmente digeribile soprattutto nel terzo atto. Disastroso sia il debutto dell’ingolato-nasale Simon O’Neill, Parsifal con la voce di un Mime di terza scelta, che la ripresa del ruolo di Kundry da parte di Susan Maclean o l’Amfortas spinto ed abbaiato di Detlef Roh. E’ ancora una volta Kwangchul Youn nel ruolo di Gurnemanz a dimostrarsi di essere l’unico artista degno di questo nome presente nel festival di quest’anno. Anche se ritengo le sue prestazioni sia a Torino sia negli ultimi anni a Bayreuth molto superiori a quella che abbiamo sentito mercoledì, il signor Youn rimane uno dei migliori interpreti di questo ruolo fondamentale.
Accanto a Youn l'unico altro protagonista del festival che si trova su un livello da festival è il coro sotto la guida del grande, grandissimo Eberhard Friedrich. E' un complesso che non si smarrisce nemmeno con la bacchetta più incerta e canta sempre con uguale morbidezza, piennezza, omogeneità di suono ed una dinamica talvolta davvero incantevole. Non è per niente che in molti casi i più grandi applausi alla fine delle recite gli otteneva proprio il coro del festival ed il suo bravissimo Chormeister.
Per quanto riguarda il Tristano, la produzione va in scena senza importanti cambi di cast, con la direzione secca ed impersonale di Peter Schneider, un lirico Robert Dean Smith inadatto alla pesantissima vocalità del protagonista, una Irene Théorin che è la più urlante fra tutte le urlatrici wagneriani di tutti i tempi, un Marke stonato del veterano Robert Holl e l’insipida Michele Breedt nel ruolo di Brangäne. Tutto questo ambientato in una delle messinscene più pallide proposte a Bayreuth.
E’ questo il bilancio – tristissimo – per il centesimo anniversario del festival. Tristissimo perché Bayreuth sta girando il coltello nella piaga scritturando nella maggior parte dei casi i peggiori artisti possibili, benché non sia difficile nemmeno oggi trovare dei cast leggermente più decenti. Il livello vocale è tanto più scandaloso quanto la direzione del festival non scrittura i cantanti senza sceglierli attraverso audizioni le quali - in teoria - sono obbligatorie per tutti nonostante il grado della loro celebrità o preparazione. Un altro elemento sfortunato della politica della direzione artistica è l’investimento di tutte le risorse in esperimenti registiche che finiscono con terribili fiaschi, sperando che un bel dì il pubblico si abituerà e “capirà” la profondità delle “letture” dei registi – una “svolta” che guarda con fede verso il caso del leggendario Ring di Chereau del 1976 ed aspetta una virata nel giudizio del pubblico che non avviene perché queste produzioni non hanno nemmeno il quarto della chiarezza ed originalità del concetto di Chereau. Una volta per sempre i registi intellettualoidi che optano per una decostruzione dell’opera dovrebbero capire che le loro rivoluzioni non sono più rivoluzionarie né iconoclastiche almeno dall’Anno Domini 1976 quando il team francese ha per la prima volta decostruito la tetralogia. Quella è un “topos”, una fissazione che – evento unico e veramente nuovo in quell’epoca – rimane con evidenza un ideale di creatività e d’innovazione fino ad oggi. Eppure, è evidente anche il fatto che la direzione del fesitval dovrebbe profondamente rivisitare i suoi valori estetici, cambiare approccio. Magari cambiare anche mestiere. Non basta essere discendente di Richard Wagner per avere sia talento musicale e teatrale sia capacità di manager. Intanto cala catastroficamente la domanda - chi sà se solo a causa delle regie inguardabili o anche per la carenza di qualità musicale - per i bigletti soprattutto dei Maestri Cantori, Lohengrin e Tristan. Alla bigletteria del festival non si è mai trovata una tale quantità di bigletti restituiti. C'è qualcuno che, avendo lottato 10 anni per ottenere un bigletto, preferisce rimanere a casa, magari accendere la radio e convincersi con successo in pochi minuti che abbia fatto bene di essere rimasto a casa ed avere economizzato parecchie centinaia di euro per un evento in cui non c'è più quasi niente d'incantevole oltre al luogo stesso, alla magica geografia della collina ed il momento affascinante in cui nell'austera sala le luci vanno lentamente per spegnersi, dando risalto al bagliore giallastro che dal golfo mistico annebbia il bruno sipario. E' davvero magico, ma poi, su che - e su chi - si apre quel sipario?
Gli ascolti
Wagner
Lohengrin
Atto I
Einsam in trüben Tagen - Elisabeth Rethberg (1927)
Atto II
Euch Lüften - Lotte Lehmann (1930)
Entweihte Götter - Gertrude Grob-Prandl (1955)
Atto III
Mein lieber Schwan - Hermann Jadlowker (1914)
Die Meistersinger von Nürnberg
Atto I
Am stillen Herd - Leo Slezak (1905)
Atto III
Selig, wie die Sonne - Friedrich Schorr, Lauritz Melchior, Elisabeth Schumann, Gladys Parr & Ben Williams (1932)
Parsifal
Atto III
Preludio - Pierre Boulez (1966)
So ward es uns verhiessen - Alexander Kipnis & Fritz Wolff (1927)
Tannhäuser
Atto II
Dich teure Halle - Maria Müller (1930)
Blick' ich umher - Herbert Janssen (1930)
Atto III
Allmächt'ge Jungfrau - Kirsten Flagstad (1948)
Tristan und Isolde
Atto II
Hörst du sie noch? - Nanny Larsen-Todsen & Anny Helm (1928)
O sink hernieder - Georg Anthes, Lillian Nordica & Ernestine Schumann-Heink (Mapleson - 1903)
Tatest du's wirklich? - Emanuel List (1938)
Atto III
Mild und leise - Lilli Lehmann (1907)
22 commenti:
Carissima Sig.ra Pasta,
condivido in pieno le sue sagge parole.
Sono entrato per ben 13 volte nella magica sala del Festspielhaus
ho avuto la possibilita' di assistere forse agli ultimi memorabili spettacoli degni di Bayreuth ,sia dal punto di vista musicale che scenico.Tra il Tristan di Heiner Muller ed il Parsifal di Scliegensief c'era un abisso,ove il secondo era la negazione di ogni competenza musicale ma con la prosopopea di faciloneria scenica.Prevedo che qualcosa si muovera' contro le "sorellastre",troppo e' il rispetto ,anzi la venerazione, che i Tedeschi nutrono per Bayreuth.
Caro Imparato, ma nella negazione di competenza musicale era compreso anche Pierre Boulez, direttore sublime di quel Parsifal che Lei cita? Se così fosse, sarebbe un giudizio molto, molto strano.
Marco Ninci
Caro imparato,
io sono più pessimista per quanto riguarda le motivazioni dei tedeschi per cambiare qualcosa a Bayreuth. Fino adesso tutti discutono solo della regia e pensano che non c'è altro problema a Bayreuth e nel mondo dell'opera che la dittatura dell'eurotrash. Qua e là si lamentano delle direzioni e quasi nessuno discute sulla profondissima crisi vocale, perché alla fine per l'atteggiamento che hanno i tedeschi (e ormai anche una buona parte del pubblico internazionale) verso il canto, una grande differenza fra gli urlatori ed il buon canto non c'è. Quello che conta è "espressione", "interpretazione" e "presenza scenica" che sono oggi tre concetti astrattissimi, applicati con successo a qualsiasi catastrofe vocale. Sia i critici che il pubblico sembrano alla fine molto contenti. Il problema è che ormai c'è una grande differenza anche nel pubblico, cioè c'è dappertutto una certa quantità di gente che non mette più il piede all'opera (che il teatro si chiami Met, Scala o Bayreuth) perché sono sostanzialmente contro le tendenze musicali-teatrali dell'opera attuale. E c'è il pubblico che va sempre all'opera e che è quella che prevalentemente è in fondo d'accordo con la nuova "estetica" operistica. Per questo l'opera avanza beatamente verso un completo naufragio. Il pubblico che ho visto io a Bayreuth è uno che offre fragorosi applausi ad un scandaloso Siegfried - parlante ed urlante - di Christian Frantz per anni ed anni!
Caro Marco,
ovviamente mi riferivo solo al regista,che pure deve avere competenze musicali.La direzione di Boulez era STRAORDINARIA,era come VEDERE la partitura , un nitore ed una intensita' assolute ,mediate da una agogica stringente :forse il Parsifal piu'"veloce" della storia di Bayreuth.
E su Christian Schlingensief, pace all'anima sua. E' morto terribilmente giovane.
Marco Ninci
Concordo con Giuditta. Di una settimana di dirette radio, ho trovato da salvare solo Youn e il coro. Gatti sempre più lento, pesante e macignoso, Vogt ha fatto un Lohengrin sopranista, forse adatto alla Barbarina von Brabant che aveva a fianco. Nelsons forse è migliorato, ma la sua era sempre una direzione superficiale e fracassona. Dei Meistersinger e del Tristan non vale neanche la pena di parlare.
Il cast del Tannhäuser era buono al massimo per una ripresa a Gelsenkirchen, come del resto quello dei Maestri.
Come giudizio generale, spettacoli di questo livello si possono vedere su qualunque scena tedesca di media categoria, pagando un quarto del prezzo che pretendono a Bayreuth. Infatti è vero che quest´anno si registra un elevato numero di biglietti restituiti.
Probabilmente, la gente si sta davvero scocciando e non è più disposta a spendere simili cifre per vedere questa roba.
Aggiunta. Fino a pochi anni fa la consulente per il casting a Bayreuth era stata per lungo tempo Dorothea Glatt, persona comunque prudente e competente che usava provare i giovani cantanti wagneriani o potenziali tali all'opera di Nizza dove era vicedirettrice, prima di esporli a Bayreuth. Ora invece là come altrove sembra proprio che delle voci non gliene freghi niente a nessuno.
Ho letto che adesso la responsabile per le voci è Eva Wagner-Pasquier. Mi sa che lei è pure la presidente della giuria del concorso delle voci wagneriane che il Wagnerverband organizza ogni anno.
Comunque, sono quei concorsi che hanno premiato una Schuster, una Kaune etc. Le competenze vocali si vedono, eh...
Una delle due sorellastre Wagner è stata fino a pochi anni fa il braccio destro ad Aix-en-Provence di colui che ora si sta dando da fare per sotterrare la Scala... ma uno dei problemi veramente seri in tutti i teatri, e in quelli tedeschi ancor più che in quelli italiani, è appunto il fatto che i direttori d'orchestra non hanno più voce in capitolo nella formazione dei cast. Questo può essere un bene quando non ne capiscono niente, ma più spesso è un male, perché chi siede sulle poltrone negli uffici delle direzioni artistiche ne capisce meno ancora.
Ammettendo che sono due lustri che non lo ascolto dal vivo e un paio d'anni che non lo ascolto in registrazion o sulla radio, il tenore lirico-leggero ovvero sopranista è una mia debolezza, può piacere o non piacere, ma ha una dizione perfetta, non forza e non spinge e lo si sente comunque (tranne forse nei gravi, com'ebbi occasione di constatare udendo il suo Max nel "Freischütz").
Comunque non è questo l'oggetto del mio intervento, ma quanto segue.
Leggendo adesso nella Frankfurte Allgemeine la recensione della "Rana" ovvero "Donna senz'ombra", mi sono imbattuto in questo:
Evelyn Herlitzius als Färberin: mit rückhaltlosem, stimmlich dennoch erstaunlich kontrolliertem, jederzeit glaubhaftem und geradezu hingebungsvoll hysterischem Ausdruck!
"Evelyn Herlitzius come tintrice: con un'espressione senza riserve, comunque vocalmente stupendamente controllata, credibile in ogni istante e quasi fervidamente isterica!"
Confrontando ciò con quanto scritto da donna Giuditta mi stupisco.
Poi un dotto discorso pieno di parole fiorite sulla complessità della partitura e l'impossibilità del contenuto, molto sulla regia, qualcosoa sulle protagoniste femminili e sull'orchestra diretta da Thielemann. Dei due protagonisti maschili niente tranne i nomi. Ed io che pensavo che la FAZ fosse un giornale serio e d'un certo livello...
Qui a Brema ci sarà in apertura di stagione un Tannhäuser ben piú interessante e per certi versi anche meglio cantato.
Caro angelo di fuoco,
è triste ma la Herlitzius in quella Frau ohne Schatten è stata la migliore. Lei ha senza dubbio un fuoco artistico che avrebbe potuto dare a certi melomani un vero piacere, se lei sapesse CANTARE. Perchè la Herlitzius è una cantante che non respira mai. Non è che respira male; NON RESPIRA. E' incredibile. E' una voce che va per strangolarsi mentre canta. Quindi, parlare di sicurezza e controllo tecnica in relazione con Evelyn Herlitzius è una contradizione. L'anno scorso a Bayreuth ha fatto un tremendo fiasco perché 1. grida sistematicamente, e 2. non era in serata. Cioè, gridava ancora più del solito. A Salisburgo ha avuto fortuna che fisicamente era ben predisposta. Se no, lei è una di quelle cantanti che dipendono complettamente della condizione fisica, perché non hanno nemmeno un minimo di tecnica per protteggere al massimo la voce dai "caprici" quotidiani ed imprevedibili del corpo.
Purtroppo, sono cosi i critici sopratutto in Germania. O non vedono mai le fondamentali mancanze tecniche o le ignorano o quando pensano di dire qualcosa di "tecnico", scrivono delle cose ridicole che rende ancora una volta manifesto la loro incompetenza nella vocalità. Non è solo FAZ che ha dei critici musicali assoluttamente amusicali.
Comunque, grazie del commento. Domani ci sarà un'altra riflessione wagneriana. Stay tooned ;)
Miei cari,la presente crisi del teatro d´opera è anche dovuta al fatto che purtroppo oggi i giovani cantanti hanno pretese di questo tipo:
Cercasi maestro di canto lirico, non ciarlatano, economico, onesto, maestro di tecnica del fiato, appoggio, mezzevoci, agilità, squillo, chiaroscuri, arte scenica, solfeggio e pure pianoforte, massimo 20 euro al mese. Totalmente disinteressato e devoto all'allievo, possibilmente ammanicato con agenti, direttori artistici e case discografiche per rapido apprendimento e carriera internazionale fulminea! Astenersi perditempo!!!
CAro Mozart,
circa l'estromissione dei direttori dalla formazione dei cast, così ti dico:
- il punto a me pare sia piuttosto l'incompeteza. Gli svarioni di cast dei Baremboim, dei Metha, dei Maazel sono sotto gli occhi di tutti
Non mi è chiaro di quali lro estromissioni dovremmo lamentarci, nel senso che in effetti qualcuno che qualcosa di piuì sa forse esiste anche , ma i lproblema è che le bacchette di oggi NO SANNO UNA CIPPA DI CANTO, NO NE CAPISCONO PRORPIO UN ACCA! e si prostiutuiscono alle agenzie nel chiamare e trasformare in divi cantori che nulla hanno in piu'dei loro colleghi.
No, io penso che il problema è che del canto non importa piuì nulla anessuno, per disamore, per ignaranza, per malacultura tedescofila che ha relegato il canto ad una posizione vassalla ad ogni altra componente della lirica.
e la tradizione del canto si perde assieme al suo senso profondo.
vado oltre, anche.
E' per colpa di certe grandi bacchettte che il canto è stato distrutto, perchè a fianco del mito del regista sta il mito del direttore.
..se il canto è stato distrutto...correggo l'errore ..
Carissima Giulia, non c'è proprio nulla da correggere. La tua frase ed anche il suo contenuto vanno benissimo così. Anche se forse alcune grandi bacchette di oggi hanno fatto qualcosa per il canto. Non sempre, ma certe volte sì. Vedi per esempio Muti con la Scotto o Abbado con la Verret o ancora Muti con quell'eccellente cantante che è stato Luchetti.
Marco Ninci
si caro ninci, ma io mipongo un dubbio e te lo rigiro quando muti aveva la signora scotto la testa pensante chi era. renata scotto non ha mai brillato per modestia e conosenza dei propri limiti, ma visto il muti senza scotto ho il fondatissimo dubbio che le idee interpretative fossero tutee by scotto non by maestro!
marco, io ritengo Muti uno dei direttori piu' tagliagole, egomane ed egocentrico della storia dell'opera. Il re del "Basto io"....e infatti si era ridotto che qui non veniva piu' nessuno.
una delle cose che di Muti mi sono sempre domandata è come facesse mai ad amare tanto l'opera senza amare il canto e non capendone un fico secco!
...cmq c'era l'errore nella frase, ma grazie lo stesso della magnanimità
Tuttavia, Giulia, se alla Scala nell'epoca di Muti non veniva più nessuno, stando alle vostre cronache adesso di buoni cantanti ne vengono ancora meno. Ancora stando alle vostre cronache, dappertutto o quasi. E allora? Che c'entra Muti? Il faro che viene dal Corriere della Grisi non può illuminare dall'Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno. Una buona parte del mondo rimane ancora al buio.
Passando ad altro, continuo a pensare che nella tua frase non ci sia alcun errore. Sai, sono testardo. Ho consultato alcuni amici che lavorano all'Accademia della Crusca e mi hanno detto che la tua frase era correttissima.
Ciao
Marco Ninci
Poi, sai, se così stanno le cose, che le bacchette siano grandi o piccole conta poco. E' tutto un troiaio, si dice dalle mie parti.
Marco ninci
Buon pomeriggio a tutte e a tutti, mi attacco qui sicuramente a sproposito, ma sono ancora pressato dall'urgenza di condividere in qualche modo l'emozione che ho provato qualche ora fa, ascoltando in auto alcuni brani dal Ring di Furtwängler e Flagstad del 1950 alla Scala, e scusate la banalità, ma nonostante le condizioni d'ascolto e l'inevitabile apppiattimento sonoro della registrazione mono sono ancora sconvolto dalla bellezza di quel che ho udito.
grazie tapir....siamo tutti con te! sono esperienze rigeneranti
pienamente d'accordo con donna Giulia, solo specificherei che di un certo sordo germanismo si tratta, e non di tutta la tradizione tedesca... sto ascoltando le incisioni di Patzak degli anni venti e c'è di che rimanere allibiti... raramente ho udito un tenore lirico di questo calibro. Ancora più nobile e sfumato di quel che si poteva immaginare a partire dai suoi tardi lasciti. E un canto, soprattutto, italianissimo e solare pur nella sua nobile sobrietà.
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