Impossibilitati per ragioni di lavoro a partecipare alla prima di Tosca al Regio di Parma, e incuriositi dalle reazioni contrastanti suscitate dallo spettacolo, accolto da ovazioni e reiterate e prontamente esaudite richieste di bis in teatro, aspramente stigmatizzato e in taluni casi perfino sbeffeggiato in Internet, ci siamo recati nella città di Maria Luigia per verificare con i nostri occhi e soprattutto con le nostre orecchie. Da un comodo posto di parapetto in galleria centrale abbiamo assistito alla replica pomeridiana di sabato 11, quarta rappresentazione del ciclo.
Un plauso va, prima di ogni altra considerazione, al direttore, Massimo Zanetti, che senza avere a disposizione un’orchestra impeccabile ha condotto in porto una Tosca di buon livello, tesa ma quasi mai fracassona, e a dispetto di qualche attacco sporco ha saputo rendere dignitosamente i toni e le atmosfere sempre cangianti di questa musica, accompagnando inoltre al meglio i solisti. Una sana routine, insomma, cui non è sembrata estranea neppure la regia di Alberto Fassini, proveniente da Bologna e rivista per l’occasione da Joseph Franconi Lee, regia caratterizzata da una semplicità quanto mai apprezzabile, in tempo di tagli al Fus. La scena, sostanzialmente unica, è costituita da una grande scalinata, dominata man mano da elementi diversi, connotanti i differenti luoghi dell’azione: il quadro della Maddalena al primo atto, una grande tela raffigurante la crocifissione di San Pietro apostolo al secondo, la sagoma dell’Angelo al terzo. Belli i costumi, persino eccessiva la sobrietà degli arredi scenici, massime al secondo atto, in cui il povero Cavaradossi di fresco torturato non ha a disposizione neppure un canapè e deve distendersi a terra.
Tosca era Micaela Carosi. Fin dalla sortita la voce, di buon volume (visti anche i magri tempi che corrono) ma senza particolari attrattive timbriche, è risultata priva dello spessore drammatico richiesto, segnatamente nei gravi, spesso letteralmente inghiottiti dall’orchestra. Le cose vanno meglio nel registro medio, sebbene la scelta di aprire sistematicamente i centri per guadagnare un poco in sonorità conduca a sbracamenti in perfetto stile verista, o meglio, paraverista, e comprometta in più punti anche la tenuta dell’intonazione (e per dimostrarlo basta sentire la frasetta “Ma falle gli occhi neri”, con l’attacco sul fa/fa diesis centrale calante due volte su due). Gli acuti sono semplicemente delle urla, a volte intonate (il do della lama), spesso e volentieri calanti, in tutti i casi suoni assai inappropriati, anche a voler considerare Tosca niente più che una donnina allegra che meriti tutto sommato extra artistici hanno portato a cantare per re e cardinali. L’incipit del “Vissi d’arte” riassume bene le difficoltà incontrate dalla cantante: l’attacco sul mi bemolle centrale è calante, il legato inesistente, il tentativo di accentare il secondo mi bemolle lo trasforma in un suono forzato e porta la voce a spegnersi nelle note successive, e l’effetto si ripresenta poche battute dopo, al la bemolle di “quante miserie”. La signora Carosi tenta a più riprese di fraseggiare, sia pure in modo decisamente scolastico, e persino di rispettare i segni di espressione scritti (specie nel “Vissi d’arte” e nel duetto finale, molto meno nel dolente assolo “Ed io venivo a lui tutta dogliosa”, piatto e quasi buttato via), ma la voce è sgangherata – e ciò, va ribadito, non per deficienze naturali ma per carenze tecniche – e i fiati di così scarsa consistenza che i piani risultano falsettini, e il canto non possiede dolcezza né morbidezza e neppure imperiosità, in questo complice una condotta scenica da principiante, per giunta enfatizzata da gesti plateali che, lungi dall’infondere pathos, sono semplicemente ridicoli (il lancio del ventaglio dopo l’invettiva contro l’Attavanti richiama recenti e funesti lanci di seggiole, mentre l’uccisione di Scarpia sembra presa di peso da uno spettacolo di marionette) e trasformano Tosca, da esaltazione della Diva operistica, a sua parodia involontaria. E si taccia dei parlati al secondo atto, privi di eleganza quanto di incisività.
Marcelo Alvarez, fattosi annunciare indisposto, ha cantato il primo atto in modo più sorvegliato del solito, con voce sempre bellissima ma come alleggerita e impoverita rispetto a quanto ricordavamo. In particolare ci hanno colpito la precarietà del registro acuto, non solo privo di squillo ma a più riprese decisamente faticoso, e la difficoltà nel legare i suoni. Molto generico il fraseggio, ma questa non è certo una sorpresa. Al secondo atto il “Vittoria! Vittoria!” vede il tenore argentino arrivare al la diesis e tenerlo con maggiore resistenza, ma sempre con la voce come bloccata sul palcoscenico, priva di proiezione e mordente. Non vanno meglio le cose al terzo atto: la romanza, marcatamente centrale, è caratterizzata da suoni duri e da un’intonazione sempre al limite. Ma il peggio arriva nel duetto con Tosca: l’attacco di “O dolci mani” è stimbrato e la frase, per la quale Puccini abbonda in indicazioni quali “teneramente” e “dolcissimo”, si chiude con una marcata afonia, mentre il passaggio “Amaro sol per te m’era il morire”, che l’autore indica “dolcissimo” e il librettista precisa “colla più tenera commozione”, fa pensare piuttosto a una canzone da osteria. L’annunciata indisposizione non può fare dimenticare, come abbiamo avuto modo di osservare a proposito dei Puritani bolognesi di Celso Albelo, che proprio nelle serate di minore forma fisica è o dovrebbe essere la tecnica la maggiore alleata del cantante.
Scarpia era Marco Vratogna. Voce legnosetta, povera nel grave e limitata in acuto, fa pensare a un tenore non sfogato piuttosto che a un autentico baritono. Visto anche lo scarso peso vocale, sembra opportuna la scelta di rendere un Barone mellifluo e insinuante, ma questo approccio al personaggio è contraddetto non solo dalle urla cui ogni tanto il cantante si abbandona (segnatamente nel secondo atto), ma anche da una linea di canto sistematicamente malferma e da un’intonazione assai precaria.
Resta da dire del pubblico, che ha accolto i protagonisti, soprattutto la Carosi, con vere e proprie manifestazioni di entusiasmo, chiedendo e ottenendo il bis di “Vissi d’arte”. Un paio di mesi fa riferimmo delle accese reazioni suscitate in Parma dalla Lucia di Lammermoor di Désirée Rancatore. Ebbene, alla luce del trionfo della Carosi e, in misura minore, di Alvarez (che pure è un beniamino del pubblico parmense), la signora Rancatore avrebbe, a conti fatti, ogni motivo di dolersi dell’accoglienza riservatale, considerato che, a parità di prestazioni canore, le reazioni del pubblico dovrebbero essere, se non le stesse, per lo meno comparabili. Non è comprensibile che si censuri aspramente la performance, imbarazzante, della Rancatore e si porti poi alle stelle la prova, altrettanto imbarazzante seppur condotta con voce un poco più fresca e sonora, della Carosi. Un successo di cortesia sarebbe stato meno stridente e avrebbe suscitato minori sospetti di favoritismi e “doppi binari”. È vero che il loggione di Parma ha la tendenza a sopportare a lungo e in silenzio, prima di esplodere in contestazioni clamorose come quelle riservate alla Vassileva nella Giovanna d’Arco o alla Rancatore in Lucia, ma abbiamo la sensazione che taluni inspiegabili successi minino la credibilità di un pubblico più di certi clamorosi tonfi, che altri, dimentichi o forse ignari di storia e tradizioni teatrali, additano a sommo malcostume dei nostri giorni.
Gli ascolti
Puccini - Tosca
Atto I
Tre sbirri, una carrozza - Renato Bruson (1976)
Atto II
Vissi d'arte - Rosetta Pampanini (1939), Virginia Gordoni (1967)
Pérez Freire - Ay ay ay - Miguel Fleta (1930)
Un plauso va, prima di ogni altra considerazione, al direttore, Massimo Zanetti, che senza avere a disposizione un’orchestra impeccabile ha condotto in porto una Tosca di buon livello, tesa ma quasi mai fracassona, e a dispetto di qualche attacco sporco ha saputo rendere dignitosamente i toni e le atmosfere sempre cangianti di questa musica, accompagnando inoltre al meglio i solisti. Una sana routine, insomma, cui non è sembrata estranea neppure la regia di Alberto Fassini, proveniente da Bologna e rivista per l’occasione da Joseph Franconi Lee, regia caratterizzata da una semplicità quanto mai apprezzabile, in tempo di tagli al Fus. La scena, sostanzialmente unica, è costituita da una grande scalinata, dominata man mano da elementi diversi, connotanti i differenti luoghi dell’azione: il quadro della Maddalena al primo atto, una grande tela raffigurante la crocifissione di San Pietro apostolo al secondo, la sagoma dell’Angelo al terzo. Belli i costumi, persino eccessiva la sobrietà degli arredi scenici, massime al secondo atto, in cui il povero Cavaradossi di fresco torturato non ha a disposizione neppure un canapè e deve distendersi a terra.
Tosca era Micaela Carosi. Fin dalla sortita la voce, di buon volume (visti anche i magri tempi che corrono) ma senza particolari attrattive timbriche, è risultata priva dello spessore drammatico richiesto, segnatamente nei gravi, spesso letteralmente inghiottiti dall’orchestra. Le cose vanno meglio nel registro medio, sebbene la scelta di aprire sistematicamente i centri per guadagnare un poco in sonorità conduca a sbracamenti in perfetto stile verista, o meglio, paraverista, e comprometta in più punti anche la tenuta dell’intonazione (e per dimostrarlo basta sentire la frasetta “Ma falle gli occhi neri”, con l’attacco sul fa/fa diesis centrale calante due volte su due). Gli acuti sono semplicemente delle urla, a volte intonate (il do della lama), spesso e volentieri calanti, in tutti i casi suoni assai inappropriati, anche a voler considerare Tosca niente più che una donnina allegra che meriti tutto sommato extra artistici hanno portato a cantare per re e cardinali. L’incipit del “Vissi d’arte” riassume bene le difficoltà incontrate dalla cantante: l’attacco sul mi bemolle centrale è calante, il legato inesistente, il tentativo di accentare il secondo mi bemolle lo trasforma in un suono forzato e porta la voce a spegnersi nelle note successive, e l’effetto si ripresenta poche battute dopo, al la bemolle di “quante miserie”. La signora Carosi tenta a più riprese di fraseggiare, sia pure in modo decisamente scolastico, e persino di rispettare i segni di espressione scritti (specie nel “Vissi d’arte” e nel duetto finale, molto meno nel dolente assolo “Ed io venivo a lui tutta dogliosa”, piatto e quasi buttato via), ma la voce è sgangherata – e ciò, va ribadito, non per deficienze naturali ma per carenze tecniche – e i fiati di così scarsa consistenza che i piani risultano falsettini, e il canto non possiede dolcezza né morbidezza e neppure imperiosità, in questo complice una condotta scenica da principiante, per giunta enfatizzata da gesti plateali che, lungi dall’infondere pathos, sono semplicemente ridicoli (il lancio del ventaglio dopo l’invettiva contro l’Attavanti richiama recenti e funesti lanci di seggiole, mentre l’uccisione di Scarpia sembra presa di peso da uno spettacolo di marionette) e trasformano Tosca, da esaltazione della Diva operistica, a sua parodia involontaria. E si taccia dei parlati al secondo atto, privi di eleganza quanto di incisività.
Marcelo Alvarez, fattosi annunciare indisposto, ha cantato il primo atto in modo più sorvegliato del solito, con voce sempre bellissima ma come alleggerita e impoverita rispetto a quanto ricordavamo. In particolare ci hanno colpito la precarietà del registro acuto, non solo privo di squillo ma a più riprese decisamente faticoso, e la difficoltà nel legare i suoni. Molto generico il fraseggio, ma questa non è certo una sorpresa. Al secondo atto il “Vittoria! Vittoria!” vede il tenore argentino arrivare al la diesis e tenerlo con maggiore resistenza, ma sempre con la voce come bloccata sul palcoscenico, priva di proiezione e mordente. Non vanno meglio le cose al terzo atto: la romanza, marcatamente centrale, è caratterizzata da suoni duri e da un’intonazione sempre al limite. Ma il peggio arriva nel duetto con Tosca: l’attacco di “O dolci mani” è stimbrato e la frase, per la quale Puccini abbonda in indicazioni quali “teneramente” e “dolcissimo”, si chiude con una marcata afonia, mentre il passaggio “Amaro sol per te m’era il morire”, che l’autore indica “dolcissimo” e il librettista precisa “colla più tenera commozione”, fa pensare piuttosto a una canzone da osteria. L’annunciata indisposizione non può fare dimenticare, come abbiamo avuto modo di osservare a proposito dei Puritani bolognesi di Celso Albelo, che proprio nelle serate di minore forma fisica è o dovrebbe essere la tecnica la maggiore alleata del cantante.
Scarpia era Marco Vratogna. Voce legnosetta, povera nel grave e limitata in acuto, fa pensare a un tenore non sfogato piuttosto che a un autentico baritono. Visto anche lo scarso peso vocale, sembra opportuna la scelta di rendere un Barone mellifluo e insinuante, ma questo approccio al personaggio è contraddetto non solo dalle urla cui ogni tanto il cantante si abbandona (segnatamente nel secondo atto), ma anche da una linea di canto sistematicamente malferma e da un’intonazione assai precaria.
Resta da dire del pubblico, che ha accolto i protagonisti, soprattutto la Carosi, con vere e proprie manifestazioni di entusiasmo, chiedendo e ottenendo il bis di “Vissi d’arte”. Un paio di mesi fa riferimmo delle accese reazioni suscitate in Parma dalla Lucia di Lammermoor di Désirée Rancatore. Ebbene, alla luce del trionfo della Carosi e, in misura minore, di Alvarez (che pure è un beniamino del pubblico parmense), la signora Rancatore avrebbe, a conti fatti, ogni motivo di dolersi dell’accoglienza riservatale, considerato che, a parità di prestazioni canore, le reazioni del pubblico dovrebbero essere, se non le stesse, per lo meno comparabili. Non è comprensibile che si censuri aspramente la performance, imbarazzante, della Rancatore e si porti poi alle stelle la prova, altrettanto imbarazzante seppur condotta con voce un poco più fresca e sonora, della Carosi. Un successo di cortesia sarebbe stato meno stridente e avrebbe suscitato minori sospetti di favoritismi e “doppi binari”. È vero che il loggione di Parma ha la tendenza a sopportare a lungo e in silenzio, prima di esplodere in contestazioni clamorose come quelle riservate alla Vassileva nella Giovanna d’Arco o alla Rancatore in Lucia, ma abbiamo la sensazione che taluni inspiegabili successi minino la credibilità di un pubblico più di certi clamorosi tonfi, che altri, dimentichi o forse ignari di storia e tradizioni teatrali, additano a sommo malcostume dei nostri giorni.
Gli ascolti
Puccini - Tosca
Atto I
Tre sbirri, una carrozza - Renato Bruson (1976)
Atto II
Vissi d'arte - Rosetta Pampanini (1939), Virginia Gordoni (1967)
Pérez Freire - Ay ay ay - Miguel Fleta (1930)
4 commenti:
> Resta da dire del pubblico, che ha accolto i protagonisti, soprattutto la Carosi, con vere e proprie manifestazioni di entusiasmo... non è comprensibile che si censuri aspramente la performance, imbarazzante, della Rancatore e si porti poi alle stelle la prova, altrettanto imbarazzante seppur condotta con voce un poco più fresca e sonora, della Carosi. Un successo di cortesia sarebbe stato meno stridente
Eh, parole sante...
ma la verità è questa:
l'uditorio parmigiano, di cui mi pregio di far parte (e a cui in Rete si sommano - di volt' in volta compatti - gli amicali gruppi in Facebook di questa e quella cantante), ascolta oramai sippoca varietà di registrazioni, ed intervengono a sittanto pochi spettacoli fuori provincia, da essersi allineati al piatto ascolto critico di ogni altro, italico, teatrino di provincia.
Torri d'avorio, siamo:
lei, io e tanti altri, ascoltiamo TROPPE registrazioni, interveniamo a o ci informiamo su TROPPI spettacoli, italiani ed esteri, per poter accettare che il gusto critico odierno sia quello della maggioranza osannante: cinque, massimo dieci spettacoli l'anno, ascoltano peraltro da una vita la medesima registrazione di Tosca, o di Rigoletto, di Cavalleria rusticana o di...
Caro Marullo,
ti pubblichiamo volentieri perché la censura è un procedimento che non ci appartiene. Anche perché tante volte l'abbiamo subita.
Grazie per il link al video. Ti invito a confrontare l'esecuzione della Carosi con l'interpretazione di Virginia Gordoni, che proprio a Parma cantò la Tosca da noi proposta in appendice. Ogni ulteriore commento, da parte mia, è superfluo. Ciao. AT
> pubblichiamo volentieri perché la censura è un procedimento che non ci appartiene.
Stando così le cose, correggerò perlomeno la maldestra ortografia espressa, completando altresì il senso del - prematuro - commento iniziale. Un'aggiunta di poche parole, nondimeno essenziali:
l'uditorio parmigiano, di cui mi pregio di far parte, ascolta oramai sippoca varietà di registrazioni, ed interviene a sittanto pochi spettacoli fuori provincia, da essersi allineato al fiacco ascolto acritico di ogni altro, italico, teatrino di provincia.
Torri d'avorio, siamo:
lei, io e tanti altri, ascoltiamo TROPPE registrazioni, interveniamo a o ci informiamo su TROPPI spettacoli, italiani ed esteri, per poter accettare per ascolto critico, critico, l'odierno ottundimento della maggioranza osannante: cinque, massimo dieci spettacoli l'anno, ascoltando peraltro da 'na vita la medesima registrazione di Tosca, o di Rigoletto, di Cavalleria rusticana o di...
...
inutili torri.
> Ti invito a confrontare l'esecuzione della Carosi con l'interpretazione di Virginia Gordoni
Oh, sì...
possiedo anch'io, la registrazione de la Tosca del '67; e rimanendo in tema di confronti, rilancio di Raina del '76.
Infine, avendo dapprima corretto indi compitato, mi avvio a concludere:
nell'ultimo anno e mezzo, interpretazioni dal vivo a parte, ho visionato ascoltato & comparato 39.000 registrazioni... una più una meno; sarebbe quindi un po' difficile, quantomeno ingeneroso, presumere di cogliermi facilmente in fallo.
Ma va bene così;
un saluto
Sono impressionato.
Detto questo, quali sono le tue riflessioni sulla Gordoni comparata alla Carosi e viceversa? Mi interessano, davvero.
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