sabato 4 dicembre 2010

I giorni della Valchiria - Prima giornata: atto I

In “Die Walküre” si crea l’uomo: lo si analizza, lo si fa amare e soffrire, gli si dona la speranza, lo si usa come mezzo, lo si uccide, gli si regala un insperato futuro.
Wotan crea e distrugge, per amore, per capriccio, per burocrazia, per smania di potere e perché divorato dal proprio ego, per un potere che è desiderio, ma anche voglia non tanto inconscia, di annullamento.
Wotan è il dio che non sa fare il dio, vorrebbe essere libero, ma è inchiodato ai “patti”, probabilmente vorrebbe essere un uomo, e fa di tutto per trovare la redenzione, ma in realtà fa di tutto per sbagliare e soffrire, peggio di un essere umano.
E due sono gli esseri umani di cui vi parlerò: Siegmund e Sieglinde, gemelli, figli di Wotan, destinati a separarsi da bambini e a riconoscersi da adulti, entrambi prigionieri di qualcosa o qualcuno, entrambi desiderosi di riscattarsi e di amarsi, anche contro le leggi naturali.

Siegmund, nato e cresciuto all’ombra di Wotan, il Wälse/Wolfe che successivamente evocherà in aiuto, si trova fuggiasco a cercare riparo, “casualmente”, nella capanna di Hunding.
Avrebbe voluto salvare una donna da nozze non volute, lo stesso destino della moglie di Hunding, Sieglinde, verso la quale sente nascere in se un sentimento che prima gli era precluso, ma ora è braccato dai suoi nemici e lo stesso padrone di casa si rivelerà tale quando affermerà la propria appartenenza a quel gruppo di uomini che gli sta dando la caccia e lo sfida a duello per l’indomani.
Fuori dalla capanna, nella notte primaverile, la tempesta iniziale sembra placata. Al suo interno invece solo, disarmato, offeso dal destino, Siegmund medita, pensa, e cerca una speranza…

E’ palpabile nell’aria la minaccia ed il senso di angoscia che lo opprimono, il pensiero del nemico riecheggia nelle sue e nostre orecchie sottoforma del tema di Hunding, ma diverso, più “largo”, più lento; si fa strada un’altra idea, un’ idea che nasce dal passato di Siegmund: la Spada, che ora viene evocata dall’ orchestra e, in crescendo, quasi si sostituisce al motivo precedente.
“Ein Schwert verhiess mir der Vater, ich fänd es in höchster Noth, Una Spada mi era stata promessa dal padre, da trovare nel momento di supremo pericolo”, frase prorompente, la quale si apre ad un declamato insistente in una estensione compresa tra il Re sotto al rigo ed il Fa e che nell’impianto ricorda da molto vicino il saluto trionfale che Wotan compie nei confronti della rocca del Walhalla al termine del “Rheingold”; comunanza data dal fatto che in quel preciso momento il dio sta già pensando alla “creazione” dell’eroe libero dai patti, che potrebbe riconquistargli l’anello grazie anche a quella spada che egli stesso ha costruito, incantato e infisso nel frassino per il figlio.
Ed è infatti il motivo della Spada, variato, citato continuamente, mischiato nel flusso costante dei temi, a fungere da asse portante del canto e del volere di Siegmund: e se l’oscuro tema di Hunding ricompare, come base musicale, l’eroe si scioglie in un cantabile più dolce e centrale al pensiero di Sieglinde: “Ein Weib sah ich, wonnig und hehr: entzückend Bangen zehrt mein Herz. Zu der mich nun Sehnsucht zieht, die mit süssem Zauber mich sehrt, im Zwange hält sie der Mann, der mich Wehrlosen höhnt, Ho visto una donna bella e nobile, un ansia piena di delizia consuma il mio cuore. Verso di lei mi trae la passione, che con dolce incanto mi incatena; in schiavitù la tiene quell’uomo, che mi irride indifeso.”. Il tema dell’Amore, con dolcezza, si fa spazio nell’angoscia ed è un momento di sospensione dato dal violoncello, che prende il posto dei corni, delle trombe, dei violini.
Sul nuovo crescendo orchestrale Siegmund allora prorompe nel “Wälse! Wälse! Dov’è la tua spada? La salda spada, che brandisca nella tempesta, erompe nel mio petto, ciò che il furente cuore chiude ancora in se.” una preghiera nervosa e disperata nella quale Siegmund implora finalmente un aiuto tangibile da quel padre che lo ha abbandonato e che gli promise la salvezza, coronato da due salti d’ottava (due Sol bemolle seguiti da due Sol diesis).
La tromba, l’oboe ed il flauto descrivono la fiamma della brace che illumina il punto in cui per prima Sieglinde aveva fissato lo sguardo, ovvero quell’elsa che ora riluce nel frassino accompagnata nuovamente dal tema della spada, prepotentemente ripetuto, accompagnato poi dall’accenno al tema dei Welsunghi e del canto della primavera, perché pur vedendo la spada, Siegmund non può fare altro che pensare alla sua Sieglinde, identificando il bagliore della spada stessa con lo sguardo fiammeggiante della donna, mentre l’arpa, il clarinetto, l’oboe i corni, stendono un cantabile placido, levigato, arrivando a rendere sensuale il tema stesso della spada, quasi fratello al tema dell’amore.
Quando il sonno prende il sopravvento, su un’ormai tranquillizzato e innamorato Siegmund (sia la spada, sia Sieglinde ormai sono a sua portata), torna minaccioso il tema di Hunding da cui il monologo era partito, ed anche la tessitura lentamente si inabissa, diventando più baritonale, più cupa fino al Do sotto al rigo mentre il legato, le forcelle e la richiesta di addolcire compiono un contrasto efficace con il tema dominante.
A legare il riposo di Siegmund con l’arrivo di Sieglinde, ci pensa dapprima il tema di Hunding a cui segue l’Eroismo dei Walsidi suonato dall’oboe e dai violoncelli.
I due si riconoscono, lei per lui ha narcotizzato il marito, lui si batterà anche per lei.
Sieglinde inizia il racconto delle sue nozze infauste e la storia della spada: Wotan viene evocato dal tema del Walhalla, ma variato nella seconda parte ed è un rincorrensi di tre temi dominanti Walhalla, Spada e eroismo dei Walsunghi.
Il racconto di Sieglinde, in Mi minore lungamente sostenuto, è tutto incentrato sulle note comprese tra il Do centrale ed il Si sotto al rigo. Un canto teso, sottovoce che alle parole “ein Fremder trat da herein: ein Greis in blauem Gewand ecco entrare uno straniero: un vecchio in grigia veste” il tema del Walhalla ci rivela, anche con le sue successive variazioni, chi sia quel veglio misteriosamente intervenuto alle nozze. Il cantabile diventa più rilassato e malinconico, mentre la tessitura sale fino a toccare il Sol naturale ed alle parole “das stiess er nun in der Esche Stamm, bis zum Heft haftet' es drin, ed ecco ora infiggerla nel fusto del frassino, sprofondata fino all’elsa” torna prepotente il tema della spada in fortissimo. Al termine del racconto la donna con le parole “O fänd' ich ihn heut' und hier, den Freund, Oh! Lo trovassi qui e oggi l’amico” si torna al tema della spada ed al tema dell’amore dei Welsi; Sieglinde illumina il suo canto di speranza e suggerisce con passione a Siegmund di essere colui per cui il padre ha lasciato la spada.

A benedire tale unione innaturale, la natura stessa, colei che, forse, falsamente matrigna ha spinto Siegmund nella capanna di Sieglinde, ed ora illumina con i colori notturni della primavera il loro amore.
La natura prorompe in casa, travolgendo i sentimenti dei due attraverso un intrecciarsi di ottoni e fiati, e quando Siegmund tranquillizza Sieglinde “Siehe, der Lenz lacht in den Saal, Ammira, la primavera sorride nella casa.” sono gli archi che variando il tema della tempesta, illuminano i due ed introducono lo struggente canto della primavera “Winterstürme” in cui Siegmund descrivendo la natura che rinasce esprime in realtà lo stato d’animo di entrambi ed il loro lento riconoscersi nell’altro, un brevissimo, per loro, ritorno alla vita: Sieglinde dalla prigionia di Hunding, Siegmund dalla sua pellegrinazione raminga e solitaria. Un monologo, moderatamente mosso in Si bemolle maggiore che si lega, con continuità poeticissima a quello immediatamente successivo di Sieglinde. Il canto viene dominato da un legato perfetto attraverso intere frasi da dire con un controllo del fiato rigoroso contando su una estensione che va da Re al Sol naturale.
La scrittura prevede ff e diminuendi, un controllo assoluto della dizione ed una seconda parte in cui il cantabile deve essere scandito, ma mantenersi soave.
Rientrano i temi dell’amore e della primavera, ovviamente variati anche nel canto di Sieglinde in Mi bemolle maggiore, con una estensione prevista dal Do sotto il rigo al La naturale, che richiede un canto sfumato, dolcissimo accompagnato da archi e flauti.

A questo punto inizia un vero e proprio dialogo tra i due, i cui perni sono le sensazioni di Sieglinde a cui Siegmund risponde con un tappeto sonoro che rielabora con colori nuovi e arditi i temi precendenti ed in cui, romanticamente, anche i due personaggi si trovano gemellati nel cantare sui medesimi motivi cromatici. Siegmund e Sieglinde percorrono i loro visi, si perdono negli sguardi, si slanciano in fugaci abbracci e percorrono con le dita i volti ora sempre più familiari ed in orchestra si sente Freia, si sente il Walhalla, dominati dalla primavera e dall’amore e dell’eroismo dei Wälsi, tutto poggiato sull’arpeggio degli archi, dei corni e dei fiati.
Torna nelle frasi di Sieglinde il tema del Walhalla (già espresso nel monologo precedente per identificare Wotan), in questo caso utile nell’ identificare Siegmund e dargli finalmente un nome.
L’uomo, accompagnato dagli ottoni e dai flauti, accetta il proprio nome sul tema dell’eroismo dei Wälsi
Ma sulle parole “Heiligster Minne höchste Noth sehnender Liebe sehrende Not brennt mir hell in der Brust, drängt zu Tat und Tod” D'un sacro amore suprema angoscia, d'un bramoso amore consumante angoscia,chiara m'arde nel petto, mi spinge ad agire ed a morire”, Wagner reintroduce il tema della rinuncia, lo stesso cantato da Woglinde nella prima scena del “Rheingold” (“Solo a colui a cui è negato il potere dell’amore...”) e che ritroveremo anche nelle parole di Brunnhilde al I atto di “Götterdämmerung” ,quando difenderà i sentimenti per Siegfried e l’anello dalla sorella Waltraute.
Probabilmente Wagner pone questo tema, in questo preciso punto, perché, oltre a configurarsi come presagio negativo di ciò che aspetta i due nell’atto successivo, rappresenta anche il momento in cui Siegmund si impossessa dell’arma che è stata creata e incantata da Wotan.
Con tale gesto, con tale possesso, non è più il libero eroe che Wotan ha creato e atteso, ma è dunque anche Siegmund, soggetto alle leggi ed ai patti divini; Si dovrà attendere Siegfried che ricostruirà i frammenti dell’arma e ne farà uno strumento umano e non più divino, quindi senza nessuna costrizione ai patti della lancia, che infatti, ormai inutile, si frantumerà.
Siegmund è dunque portato al bivio della scelta: la gloria eterna del Walhalla e rinunciare all’amore di Sieglinde oppure stare accanto alla donna senza poter ritrovare il padre?
Un preludio, dunque, dell’annuncio di morte seguente, in cui la rinuncia, appunto, sarà protagonista.

Appare il tema di Nothung, due Mi prima e successivamente due Fa, ampliato e ripreso in futuro nella grande scena della forgiatura nel “Siegfried”.Il montante magma dell’orchestra travolge tutto e si colora ancora di più di scale cromatiche, arpeggi, dell' incalzare dei fiati e degli ottoni, in armonico equilibrio tra loro, a suggellare il trionfo di Siegmund, dei Wälsi e dell’amore tra i due ben sostenuti dagli archi e dai fiati. Fiorisce letteralmente il sangue dei Wälsi (pesantissimo il La naturale del tenore posto su “Wälsungen blut”); l’orchestra diventa furiosa con gli archi in primissimo piano avvolti dal suono guizzante degli ottoni e dei flauti, i quali ripetono, in agogica strettissima, i temi della fuga, dell’amore, il tutto a coronamento di una stretta mozzafiato.

Nel 1950 la Scala mise in scena un “Ring” completo che diventerà leggendario grazie alla bacchetta epica, mitologica di un gigante del calibro di Wilhelm Furtwängler e la presenza nel ruolo della figlia di Wotan della statuaria Kirsten Flagstad.
Günther Treptow ed Hilde Konetzni affrontarono Siegmund e Sieglinde, coppia che ripeteranno anche nel magnifico “Ring” diretto da Rudolf Morald.
Treptow e la Konetzni erano voci entrambe robuste soprattutto nei registri centro-grave, dotate di grande senso della scansione della parola e di bella proiezione.
All’epoca dovevano fare certo grande impressione, nonostante risultassero decisamente opachi nel fraseggio e nella gestione degli acuti. Lei gran voce, ma molto matronale e con aperture di suono un po’ fastidiose, ed un accento monocorde, senza attrattive o languori, che si farà più sfumato e sensibile solo con Moralt; lui rigido, tutto d’un pezzo, monolitico, sempre molto eroico, molto virile, molto tragico, molto aulico, con acuti vibrati. Anche Treptow con Moralt saprà trovare ripiegamenti di maggiore intensità e carisma.

Nel 1955 e nel ’58 toccherà a Otto Ackermann e Herbert von Karajan ricevere l’eredità di Furtwängler, schierando cast straordinari con cantanti di provata fede bayreuthiana: con Ackermann agirono la Brünnhilde di Martha Mödl, i Wotan di Hans Hotter e Ludwig Hoffmann, la Fricka di Grace Hoffmann, l’ Hunding di Ludwig Weber e come velsunghi Wolfgang Windgassen, e Leonie Rysanek; Karajan richiamò Hotter e la Rysanek e completò la locandina con Birgit Nilsson, Jean Madeira e Gottlob Frick.
Siegmund non è mai stato un ruolo che, paradossalmente, una voce come quella di Windgassen riuscisse a padroneggiare con perizia: si sente, infatti, con quanta cautela lo affronti ed è chiaro come il fraseggio e l’accento prediligano più i momenti eroici e malinconici a discapito di quelli amorosi in cui l’interpretazione si fa meno sfaccettata; ma che voce! Splendido timbro solare, saldo, giovane, pieno di slancio e omogeneo, controllato con cura (e risparmio!) impreziosito da una interpretazione, nei momenti eroici, piena di sottigliezze e stupori (basterebbe ascoltare il momento in cui la brace illumina l’elsa della spada, o il battesimo di Nothung per farsi un’idea dell’intelligenza artistica).
Suthaus, rispetto a Windgassen, non ha un timbro altrettanto comunicativo ed una tecnica che gli permettava un controllo maggiore dell’intonazione, sempre precaria nel passaggio e negli acuti che suonano sovente fibrosi o spoggiati, ma l’artista è di razza: intenso, selvaggio, passionale, voce robusta, fortemente drammatica, non bella, ma espressiva e virile, così il personaggio, soprattutto nel travolgente duetto con Sieglinde, emerge con prorompente vitalità.
La Rysanek è partner ideale più di Suthaus che del placido Windgassen.
Soliti i problemi di intonazione sia nel registro centrale che negli acuti, eppure la voce si presenta ovunque brunita, morbida, immediatamente connaturata alla bruciante e rinata sensualità di Sieglinde. Grande ed insistito lo sfoggio di tale femminilità, che finalmente si libera dalla prigionia di Hunding, elegante eppure vibrante di selvaggia passione, culmine, purtroppo o per fortuna, l’urlaccio diventato famigerato, scagliato quando Siegmund ha estratto la spada che contagerà fino ai giorni nostri molte altre interpreti. Nonostante i problemi, una grande caratterizzazione.

André Cluytens proporrà nel ‘63, per l’ultima volta alla Scala (!!!) un “Ring” completo in una unica stagione. Stellare il cast che poteva vantare nuovamente Hotter (per la terza volta!) e la Nilsson, ma anche Regina Resnik nei panni di Fricka, Arnold van Mill in quelli di Hunding e validi cantanti come Sebastian Feiersinger, Siegmund, e la voce chiara e penetrante di Liane Synek e quella più problematica di Jutta Meyfarth in quelli di Sieglinde.

Georges Prêtre nel ’68 dirigerà l’opera per ben due volte e con cast sensibilmente diversi: Ludmila Dvořáková, Amy Shuard e Gladys Kuchta alternate come protagonista, i bassi David Ward ed il grande Martti Talvela rispettivamente Wotan e Hunding, la squisita Fricka di Josephine Veasey, ben tre Siegmund, James King, Jon Vickers e lo squillante, duttile Charles Craig e due Sieglinde Régine Crespin e la soave, adamantina, delicata voce della croata Božena Ruk Fočić.
James King, Jon Vickers e Régine Crespin arrivavano forti di incisioni storiche (Solti, Böhm, Karajan) e serate in importantissimi teatri.
King e Vickers marchiarono a fuoco il ruolo di Siegmund in quegli anni: il primo sfoggiava voce piena, scura, estesa, con qualche rigidità negli acuti, non molto incline ad un fraseggio bruciante, ma dalla sensibilità spiccatissima e dalla grande intelligenza. King dipinge un Siegmund venato dalla malinconia, portatore dell’ombra tragica e consapevole della propria morte fin dal suo apparire, che trova un breve attimo di luce grazie a Sieglinde; ma mai il lato umano e romantico del personaggio vengono mai meno in questa visione pessimista.
Vickers invece non potendo contare sul timbro, mai stato baciato dagli dei e piuttosto legnoso, spinge sul pedale dell’interpretazione: un Siegmund che si costruisce a poco a poco, che rinasce parallelamente a Sieglinde, che si riscopre uomo e riscopre la volontà di provare sentimenti solo accanto alla sua donna. Allora le sfumature dell’invocazione al padre o del canto della primavera non si contano, il fraseggio viene scolpito parola per parola, con più d’un sospetto di cervellotico manierismo, eppure in pochi nel dopoguerra riusciranno a rendere così palpabile l’evoluzione psicologica di Siegmund, vero eroe epico e decadente del “Ring”.
La Crespin contendeva alla Rysanek il trono di Sieglinde: e a ragione secondo me, perché il timbro più luminoso esprimeva già perfettamente la sensualità connaturata a Sieglinde, forte anche di un registro grave vellutato e sonoro, senza quei bagliori metallici che inquinavano il registro acuto.
Partner ideale di entrambi poi, perché il fraseggio sapeva scavare nel significato della parola e adattarsi perfettamente ad interpretazioni così diverse. Come per Vickers, anche nel suo caso emerge qualche sospetto di manierismo, ma la sua Sieglinde così fragile e impetuosa al contempo, sospesa tra le seduzioni di Venus e l’astazione sognante di Elsa diventa un personaggio ideale.

Ronconi e Pizzi, quando erano davvero grandi registi d’opera, proposero nel ’74 una visone rivoluzionaria e borghese della “Walküre”, esatta gemella di quella ideata da Chéreau due anni dopo a Bayreuth. Grande fu lo scandalo sia nel mondo artistico, sia nel pubblico che nella critica, tanto che il progetto si fermò al “Siegfried” e lo stesso Maestro Wolfgang Sawallisch si oppose, con forza, un po’ cieca invero, ai due artefici. Lo spettacolo fu rimontato con enorme successo, e qualche cambiamento in meglio, a Firenze diretto da un ispirato Zubin Mehta.
Il soprano Marita Napier comparve sia a Milano, sia a Firenze. Alla Scala fu affiancata da Jon Andrew (Siegmund), Donald McItyre (Wotan), Ingrid Bjoner (Brünnhilde), Ruza Baldani (Fricka) e Thomas Tomaschke (Hunding).Di Jon Andrew purtroppo non ho trovato nessuna testimonianza, ma per Marita Napier abbiamo due interessantissimi live da Bayreuth del ’74 e ’75.
Voce potente, molto chiara alla maniera di una Silja, ma meno acida e aperta e con minori problemi di intonazione, la Napier incarnava una Sieglinde veemente, virago, ma capace di flautati pianissimi (non sempre centrati tuttavia), stupendo l’ascoltatore soprattutto con l’espressività di alcune singole frasi (Sieglinde che rivede il volto del fratello specchiandosi nell’acqua, ad esempio). Bisogna tuttavia considerare la sordità del registro grave a la fissità di certi Sol e La, difetti che rendono purtroppo la voce disuguale.

Placido Domingo e Waltraud Meier avevano debuttato i rispettivi ruoli all’inizio degli anni ’90 e già erano insieme nel ’92 a Vienna al debutto di Domingo in Siegmund.
Una coppia che si è via via consolidata e negli anni ’90, fino al 2000, praticamente irrinunciabile.
Alla Scala, a mio parere diedero una prova maiuscola, nonostante un cast di contorno parecchio problematico (Gabriele Schnaut, Monte Pederson, Marjana Lipovšec e Matthias Hölle), ed una direzione di Riccardo Muti molto precisa, attenta alle sfumature prescritte da Wagner, impeccabile nella ricerca di un suono magnifico, ma anche secca, prosciugata, appesa ad un’ agogica dilatata e molte volte pesante che denunciava la poca dimestichezza del Maestro con tale repertorio.
I difetti di Domingo e della Meier sono sempre i medesimi; lui nasale appena la nota tocca il Sol o il La, sfoggia qualche ingolatura nell’emissione ed una dizione “esotica”; lei gutturale in basso e dall’emissione vibrata già sul La acuto.
Malgrado tali difetti entrambi furono magnifici. Il timbro virile di Domingo fa tesoro dell’interpretazione di King, anche se meno drammatica, prediligendo i naturali colori caldi della voce ed una eroismo più rilassato, ma volitivo. Splendida, allora, la Meier; timbro voluttuoso potendo contare su un registro centrale di grande solidità e sull’intelligenza dell’interprete che ci offre una Sieglinde dapprima introversa, tutta ripiegata nel suo vittimismo, che solo la vicinanza con Siegmund la incoraggia a prendere coscienza di se, della violenza subita e del proprio volere, fino ad abbandonarsi totalmente all’abbraccio del fratello-amante.



































15 commenti:

pietro bagnoli ha detto...

Bel lavoro, Mariannina. Complimenti davvero.
Ricordo anch'io Marita Napier, anche se non in questi ruoli.
Per quanto riguarda Muti, la mia sensazione è sempre stata di una sua sostanziale estraneità alla poetica wagneriana in genere, e quella del Ring in particolare (il Parsifal mi aveva convinto un filo di più).
Vickers è tuttora, a distanza di anni, il "mio" Siegmund.
Complimenti, Mariannina, dal tuo vecchio "nemico" Pietro

Marianne Brandt ha detto...

Pietruccio!
Ti ringrazio per avermi letto e per i complimenti.

Concordo sull'estraneità di Muti alla poetica wagneriana, si sente lo sforzo di dire qualcosa di più personale, ma il risultato è una cosa ibrida, sospesa, bella da ascoltare, ma che non porta da nessuna parte; poi al fianco del titanismo di Furt, della ricercatezza di Karajan, della scientificità di Sawallisch, Muti fa la figura di un rigido democristiano in doppiopetto.

Il Parsifal convinse anche me un filino di più, ma dovrei riascoltarlo.
Ho letto che Muti stia preparando Tristan und Isolde e non so se definire ciò una buona notizia...

A rileggerci caro "nemico" (ma no :-) )Pietruccio

Marianne Brandt

pietro bagnoli ha detto...

Riccardo sta preparando il Tristano? Veramente? Alla larga...
Tornando al Ring, in questo periodo mi sto riascoltando Bohm a Bayreuth. Mi sono ricordato che amavo pazzamente la Rysanek, nonostante quell'urlaccio (che poi hanno imitato in tante). Io amo molto anche Adam, che invece credo non incontri i favori tuoi né di nessun altro qui, su queste pagine. Lo trovo molto "soggetto, predicato, complemento oggetto", ma mi rendo conto che il suo canto, arido e privo di armonici, è la negazione di quanto affermato qui sopra.
D'altra parte, come sai, io sono un appassionato anche della mitica coppia Hotter-Varnay e di tutti quegli altri magici cantanti che, dal 1952 in poi, con la Neue Bayreuth hanno cambiato "quel" modo di interpretare Wagner: quello, cioè, che veniva celebrato sul Colle.
Voi qui amate altri cantanti, altri moduli espressivi; vi vada, ovviamente, il mio massimo rispetto. D'altra parte anch'io sono pieno di dischi di Flagstad, Traubel, Leider, Melchior, Lehmann e...compagnia cantante! E anche molto più antichi, se è solo per quello...

Ti leggo sempre con piacere, Mariannina!
Devotamente tuo,
Pietro

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Sul Wagner di Muti resto sempre scettico: ho ascoltato il suo Olandese (che sulla carta poteva essere il più convincente, attesa la maggior riconducibilità del titolo alla categoria più "classica" dell'opera romantica di stampo weberiano) e non mi piacque; il Parsifal era decisamente più ispirato, ma traspariva quel senso di eccessiva reverenza, di timore, di aridità; il Ring, non mi convinse per nulla (mancava di un disegno interpretativo "forte"). Oltretutto pesava un'orchestra "disabituata" al suono wagneriano (all'epoca la compagine scaligera, pur se tecnicamente assai progredita - grazie alla "cura Muti" e alla precedente "cura Abbado" - era, per scelta, più avvezza ad altro tipo di repertorio). Un Tristan di Muti? Mmmm...non mi convince (poi, probabilmente, mi piacerebbe ascoltarlo). Mi chiedo però con quale orchestra affrontare una partitura tra le più ostiche (non credo si possa avventurare in ciò con i complessi romani...).

Sul Ring: sono sempre più scettico sul Wagner di Barenboim, lo trovo sorpassato (anche rispetto a Furtwangler). Mi sembra, scusandomi per l'irriverenza del paragone, una rimasticatura virtule di un ipotetico Ring di Klemperer (lento, pesante, sontuoso). Non vi è nulla di Furtwangler in Barenboim (come pure è stato indicato tra i suoi modelli), al contrario di Thielemann. Io comunque preferisco il Ring di Karajan (per me inarrivabile), Krauss e Moralt.

Quello di Bohm mi ha sempre lasciato freddo, quasi come Sawallisch: mi sembra che non si discostino molto dal ruolo di onesti kappelmeister.

Che ne pensate del Ring di Boulez? Parlo del solo aspetto direttoriale, non della storica messinscena di Chereau.

pietro bagnoli ha detto...

Io penso che la direzione di Boulez non sia scindibile dallo spettacolo di Chèreau-Peduzzi proprio per il lavoro gomito a gomito che è stato fatto fra direttore, regista, scenografo e, ovviamente, cantanti. Boulez lo conosciamo bene. Per esempio, mi sembra che il suo Parsifal - antecedente di una decina d'anni - sia molto diverso dal Ring. C'è una maggior trasparenza di suoni, molto più vaporosi e aerei; il Ring è più "complesso" nella sua evoluzione, anche se alcuni cantanti (King, McIntyre e, soprattutto, Gwyneth Jones) erano già presenti nel Parsifal.
Quanto a Bohm, mi permetto di dissentire con Gilberto: il suo Ring è uno di quelli "soggetto-predicato-complemento oggetto". Oltre a ciò ci sono dentro alcuni cantanti che a me vanno molto a gemio: Theo Adam, per esempio. Asciutto, corrusco, declamatore allo stato puro: era l'inevitabile portato dopo tutti gli anni di dominio di Hotter. Un imitatore del grande Hans avrebbe fatto ridere; Adam impone al personaggio uno stile completamente diverso. A me piace molto proprio per la sua asciutta essenzialità. C'è la Rysanek, la "mia" Sieglinde; c'è la Nilsson, bravissima anche se Brunnhilde per me "è" Astrid Varnay, altra cantante che qui non trova molti applausi; c'è Wohlfart (spero di averlo scritto giusto); ma soprattutto c'è Bohm, grandissimo narratore. Poi, d'accordo: Clemens Krauss è stato più personale e, nel 1953, narrare il Ring in quel modo non era proprio cosa banale...
Non oso pensare al monologo di Re Marke nelle mani di Muti... :-)

ლუკა ნახუცრიშვილი ha detto...

A me la direzione di Boulez nel Ring piace molto. Sono in generale d'accordo con le sue scelte di tempi piuttosto veloci (salve quando si tratta del motivo della fede nel Parsifal!). E' sempre molto misurato ed non manca mai ad avere l'orecchio per l'accento giusto per qualsiasi momento drammatico.

Con Karajan ho qualche problema. Trovo che il suo Rheingold è orchestralmente il migliore che fosse inciso, perche nessun altro riesce a fare risuonare con tanta chiarezza e richezza sonora la dimensione celestiale, sospesa, mitica e "féerique" di quest'opera. L'intero Rheingold suona come un sogno di un dio, con un tocco perfettamente etereale.
La sua Valchiria la trovo noiosa e piatta, poi le sue scelte vocali trovo spesso molto inadeguate.
Il Siegfried ha ancora una volta questo carattere favoloso, pieno di colori, sempre molto poetico (il suo "Waldweben" è fra i più morbidi e commoventi). Ma è anche epico ed agressivo (l'inizio del terzo atto) e passa a una sonorità quasi mai più sentita nella scena finale.
La sua Goetterdaemmerung, come la Valchiria, trovo troppo lento, letargico e piatto. Sembra che Karajan non avesse avuto un vero senso per il latto essenzialmente tragico della tetralogia. Secondo me, è drammaticamente convincente solo nelle parti favolose-mitiche (quindi piuttosto in Rheingold e Siegfried). Ma il suono dell'orchestra è comunque sempre ammirevole.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Certamente il Ring di Boulez è difficilmente scindibile dalla sua componente scenica (per me quello di Chereau è semplicemente IL RING: faccio fatica ad immaginarlo con altre soluzioni sceniche..pure ascoltando la Flagstad o Furtwangler non riesco proprio a figurarmi il kitsch di fondali dipinti, pelli di orso, elmi con le corna e lance brandite come coltelli da bistecca e roteate in modo grottesco nell'aria al ritmo del "hojoto"). Mi chiedevo, però, dal punto di vista della lettura orchestrale, quali fossero i giudizi su Boulez. Io condivido quello di Giuditta: una lettura che asciuga la retorica eccessiva, il suono pesante e sontuoso, la riduzione di Wagner a stereotipi truculenti. Su questa direttrice, però, trovo insuperato Karajan: che propone un Wagner più lirico, più decadente, più malinconico...alla fine più moderno. Il problema del cast, con Karajan, non si pone: si possono muovere tante critiche per certa mancanza di ortodossia (ma ortodossia di che???), ma nella visione direttoriale e grazie al lavoro orchestrale non c'è nulla fuori posto, tutto è perfetto e congeniale all'interpretazione, creando una narrazione unitaria, continua e convincente.

Bohm è un buon narratore, verissimo, e non voglio togliergli nulla...ma in un Ring mi aspetto qualcosa di più della mera correttezza grammaticale. Devo dire che gli interpreti di Bohm mi piacciono, pure Adam che, a fronte di innegabili durezze, mostra grande intelligenza nel fraseggio.

Marianne Brandt ha detto...

@Pietruccio:

Considero Boehm un grande narratore di storie, un direttore che sapeva sostenere i cantanti e l'orchestra con grande devozione e autorità, conosceva bene il suo mestiere ed i suoi autori, non si perdeva in paranoie, non faceva l'intellettuale, ma era pragmatico e teatrale. Tanto di cappello!

Adam lo ammiro come artista, meno come cantante, ma non è solo un mero fatto tecnico: il timbro chiaro e, come giustamente scrivi, secco mi dice poco, ma mi irrita molto la sua mestizia, il suo farsi mettere i piedi in testa, questo Wotan passivo e arrendevole (video di Tokio soprattutto) è interessante, ma non mi convince.
Anche a me piace molto la coppia Hotter-Varnay (la Varnay, come la Moedl solo negli anni '50 però) e piacciono altrettanto molti altri cantanti dell'era Wieland e post Wieland, non mi faccio mancare nulla nella discografia ;-)

@Duprez: Amo il Ring pessimista e cupo di Barenboim ('92 ovvio, con l'immancabile spettacolo di kupfer), anche il suo allontanarsi dal titanismo di Furt, per fare del Ring una riflessione sulla colpa in cui non c'è posto per la redenzione. Eppure gli dei restano dei pieni di rimorsi e gli uomini creature fragili e impaurite.
Thielemann è assieme ad Eschembach una delle figure cardine del Ring di inizio millennio, uno per la modernità dello spirito antico, l'altro perchè riesce a essere poetico e astratto nella magniloquenza wagneriana.
Concordo sui ring di Kraus, Moralt (grande scoperta) e Karajan.
Sawallisch è un freddo scienziato, calcolatore rigoroso.

Per esperienza il Ring di Boulez funziona anche senza il video.
Ho provato ad ascoltare sia l'edizione '80, sia quella del '78 e sono rimasta sorpresa: Boulez rende l'orchestra come ovattata, asciutta, ma non secca, stringata, ma non a doppia velocità. Boulez volle compiere un percorso filologico con tempi e sonorità giuste, non Wagneriane-con-incrostazioni. Come Sawallisch, ma con maggiore sensibilità e fantasia.

Marianne Brandt

mozart2006 ha detto...

Il dibattitoè di grande interesse e mi permetto, benchè indegnamente, di aggiungere il mio contributo. Secondo me, il Ring di Boulez è una diretta conseguenza di quello di Karajan, fatta salva naturalmente la diversità del risultato finale. Intendo dire che Boulez sviluppa e porta alle estreme conseguenze la tesi del Wagner ripulito dalla retorica, nata secondo me dalle intuizioni di Clemens Krauss e poi enunciata da Karajan con coerenza e lucidità, anche a costo di rinunciare a qualcosa sul piano della grandiosità epica.
Io ho recentemente riascoltato il Ring di Böhm insieme ad altre suer egistrazioni wagneriane e penso che su questo direttore, che Celletti, per me a torto, riteneva solo un onesto Kapellmeister, il discorso critico andrebbe riaperto.
Ma permettete, amici: nessuno parla di Knappertsbusch? e di Solti?

Saluti a tutti, compreso l´amico Pietro.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Voglio lanciare una provocazione (o meglio uno spunto di discussione): ma davvero il Ring di Furtwangler è "titanico"? Mi spiego: in questi giorni - trascinato dal fermento scaligero - mi sto facendo una "scorpacciata" wagneriana, e ovviamente non poteva mancare il Wagner di Furtwangler (non limitato al Ring, rectius ai Ring, e neppure limitato a Wagner: quando ascolto Furtwangler finisco per "prenderci la mano", e indulgere nell'ascolto delle tante testimonianze della sua cospicua discografia). Più l'ascolto, però, e meno mi convinco della assimilazione del grande direttore ad esponente del Wagner mitico, epico, iper romantico. Più ascolto Furtwangler più mi sembra antitradizionale. Le sue interpretazioni nulla concedono al turgore del suono, all'edonismo retorico. La stessa scelta dei tempi lo testimonia: non sono generalmente lenti o sontuosi, ma di dinamica variabilissima (lo stesso Furtwangler, in effetti, riteneva che ogni singola misura o gni singola battuta fosse un "discorso a sé" con una sua identità ritmica ed espressiva). Le sue direzioni sono estremamente mobili, varie, frastagliate, drammatiche. Al contrario di un Klemperer (direttore che, per me, è invecchiato malissimo, e che oggi mi piace sempre meno) con le sue programmatiche pesantezze e il suo suono granitico e ieratico (il suo Bach è insopportabile, mentre quello di Furtwangler è modernissimo), ma anche di un Keilberth (kappelmeister che non si scosta dal Wagner monumentalizzato), di un Knappertsbusch (che seppur sublimandola resta sostanzialmente legato ad una tradizione mitica dell'interpretazione wagneriana). Per non parlare di Solti, Levine e Barenboim. Anche lo stesso Thielemann: si spreca molto il nome di Furtwangler per definire le sue interpretazioni. Io non vedo questa ascendenza, anzi, in Thielemann riconosco piuttosto una derivazione che risale al periodo precedente (quello del Wagner nazionalsocialista, per intenderci - mi riferisco alle concezioni estetiche, nessun riferimento politico - tragico e messianico).

Marianne Brandt ha detto...

Dipende secondo me cosa si intende per "Wagner tradizionale" nei confronti del Ring: quello assimilabile ad una fucilazione del Leinsdorf anni '40, oppure Szell, oppure quello sublime che anticipa la poetica di Moralt, Karajan e certa contemporaneità di Bruno Walter, o quello massiccio e inchiostrato di Elmendorff, o ancora più indietro Karl Muck, o Siegfried Wagner, etc...

Marianne Brandt

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ecco, in Thielemann ritrovo quel Wagner massiccio alla Elmendorff (quello sì, titanico, "eroico" e mitologico, funzionale ad una certa visione politica e all'attribuzione di una vera e propria "missione" alla civiltà germanica). In Furtwangler sento una svolta ben precisa, un approccio problematico, moderno, drammatico: si sente l'urgenza della tragedia, il pessimismo, la caduta.
Sul Wagner del Met, però, ho più difficoltà: a fronte di interpretazioni vocali maiuscole (non tutte però), vi è una modestia orchestrale e interpretativa che mortifica Wagner e l'ascoltatore. A parte la mediocre qualità dell'orchestra, è proprio la lettura chiassosa, anonima, sbiadita dei direttori che me lo rende indigesto: i vari Bodanzky, Leinsdorf, Stiedry e pure Szell...direttori rinunciatari che pensano a Wagner come taluni battisolfa nostrani pensano al melodramma.

Tapir Hurlant ha detto...

Scopro questo blog nel corso di un vagabondaggio internautico alla ricerca di notizie sulla "Walkuere" di Barenboim, dato che ho potuto ascoltarne solo la diretta radio su Rai3. Complimenti, un lavoro di ricerca di prim'ordine, mi sa tanto che tornerò spesso da queste parti, brava!!!

Domenico Donzelli ha detto...

ciao e ben venuto
aspettiamo i tuoi commenti......ma lo sai che dicono che questo sia un posto poco raccomandabile perchè non neghiamo l'esistenza della flagstd o della leider nonchè di herr furtwangler!!!!

Tapir Hurlant ha detto...

Grazie del benvenuto, Domenico, ma davanti a cotanta competenza i miei commenti non possono portare un contributo all'altezza. Per rendervene conto, considerate che il "mio" Wagner è quello di Solti e che da ieri mi vado sparando tutti i video di Youtube sulla Valchiria scaligera del '94, ascoltando Monte Pederson come una rivelazione (non sapevo né chi fosse né che fosse morto da tempo, finché non mi sono "acculturato" un poco sulla Rete!). Che capire un po' meglio i testi wagneriani sia stata la mia principale motivazione a imparare il tedesco spero risollevi un pochino la mia immagine! ;-)