In questa puntata del nostro ciclo dedicato al primo secolo di vita e arte di Magda Olivero, Carlotta Marchisio ci parla di alcuni dei principali ruoli veristi affrontati dal soprano piemontese. Nella selezione non è compresa Adriana, alla quale dedicheremo una puntata monografica. Buona lettura.
Abbiamo più volte suggerito come la personalità e la qualità artistica di Maria Maddalena Olivero non possono essere studiate se non inserite in un certo contesto culturale, prima ancora che musicale, ben individuabile, e come la definizione di un repertorio nei primi decenni del Novecento fosse tendenzialmente condizionata dagli stilemi di una vocalità drammatica che, se ci concedete una piccola dose di approssimazione, possiamo continuare a chiamare “verista”, pur “avanti lettera” in qualche caso. In altre parole, così come la signora Magda, più nel bene che nel male, rimane ugola e figlia prediletta del suo tempo, Mefistofele, Iris, Francesca da Rimini e Fedora restano, al di là dei soliti snobismi di sorta, quattro grandissime espressioni del teatro d’opera a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Sintomo della congruenza tra la sensibilità della virtuosa di Saluzzo e il celestiale intimismo della Margherita boitiana è una data: 20 settembre ‘39. Al teatro “Donizetti” di Bergamo Magda Olivero debutta il ruolo a fianco di Tancredi Pasero, Galliano Masini e Lina Bruna Rasa, un ruolo, benché di rilevanza secondaria nell’economia dell’opera, assimilato e fatto proprio fin dalla giovane età e destinato a diventare cruciale nella futura carriera della signora. Prova ne sarà la continua, costante presenza della grande aria “L’altra notte in fondo al mar” nella più parte dei concerti in carriera, primo di una lunga serie quello all’EIAR di Torino del 7 luglio ‘33, a poco più di sei mesi dal debutto ufficiale in palcoscenico.
Ma il rigore espressivo e la saldezza della tecnica, che come ben sappiamo sono elementi essenziali per la salvaguardia dello strumento e contrassegni primari del soprano in questione, fanno sì che nel ’72 allo Sferisterio di Macerata i fortunati spettatori si godano un’Olivero sessantaduenne in freschissima forma vocale – anche il tubo ne dà testimonianza – nonostante la direzione del poco ispirato Nello Santi. Già nel duetto con Faust (Giorgio Merighi), in apertura di secondo atto, la signora comincia a tratteggiare una Margherita consapevolmente ingenua, ben definita sia dalla notevole inflessione di lucida mestizia sulla prima strofa «Cavaliero illustre e saggio, / come mai vi può allettar / la fanciulla del villaggio / col suo rustico parlar», sia poco oltre sui due versi «Dimmi se credi, Enrico / nella religione», che sembrano suggerire, più che un rapporto sensuale, e quindi terreno, col “redigiovane” Faust, una sentita devozione spirituale che si riverbera nel credo stesso della cantante, che mai ha fatto mistero del suo sempre vivo sentimento religioso. Da qui, due riconferme che si alimentano a vicenda: da una parte la Margherita della Olivero, presupponendo con la sua interpretazione un rapporto dialogico con l’ultraterreno, ridefinisce il Mefistofele quale opera che si struttura come “scena verticale” (Alewyn), o, più semplicemente, asseconda i tratti distintivi del “meraviglioso” di cui parla Dahlhaus. Dall’altra attesta l’estrema perizia con cui ogni volta il soprano piemontese approccia lo studio di un nuovo personaggio, che può trarre senso solo se vicino alla sensibilità e dell’artista e della persona. Insomma, l’ennesima esemplificazione, se ce ne fosse ancora bisogno, di un’etica che si fa estetica (e viceversa). Roba d’altri tempi…
Ma il meglio, in particolare dal punto di vista strettamente esecutivo, arriva di nuovo nella celebre aria del terzo atto, attaccata con autentico accento drammatico, fondamentale per poter fraseggiare con fantasia e pertinenza d’interprete. E la Olivero lo fa intuendo l’essenza teatrale sottesa a ogni verso, a ogni parola, fino alla discesa al doppio re grave, raggiunto con una copertura del suono di alta scuola – lontana dalle “sbracature”, in quella zona del pentagramma, di tanti soprani in carriera – tale da rimandare a una spirale angosciosa, alla disperazione di una mente non più lucida alle prese con un infanticidio di cui non può che rigettarne, quale genitrice del bimbo, la responsabilità. Poco oltre, la serie di biscrome, che rimanda alla lievità del passero («vola, vola, vola») che si libra in aria come l’anima della protagonista, è risolta con un vocalizzo di lucentezza diamantina tale da avvalorare sempre più la tesi di chi avrebbe voluto un’Olivero belcantista. Impressionante poi in chiusura l’esecuzione della sestina («DEL bosco») che porta alla corona sul si naturale acuto, altitudine certamente impervia da cui attaccare una messa di voce esemplare nella sua intelligente contenutezza, che resta coerente perché in linea con la dimensione raccolta, quasi conventuale, del momento solistico in questione.
La Francesca da Rimini è altra opera che può vantare una prestigiosa frequentazione con l’arte di Magda Olivero. Anzi, la sinergia tra il soprano e il titolo di Zandonai sancisce forse una rarissima eccezione, se non un unicum nella storia del teatro lirico. Debuttata il 29 maggio ‘40 al “Teatro della moda” di Torino – con un cast che vedeva tra gli altri Alessandro Ziliani e Carlo Tagliabue nei ruoli dei due protagonisti maschili, il primo Paolo “il bello”, il secondo suo fratello il “Gianciotto” – la parte di Francesca a firma Olivero è rimasta a buon diritto non solo tra le interpretazioni più riuscite di tutto il Novecento discografico, per altro portata in scena solo tre volte in tutta la carriera, ma anche una compagna di vita per quasi settant’anni, fino all’ultima, toccante esibizione a Palazzo Cusani nell’aprile dello scorso anno.
Sono sufficienti tuttavia le due registrazioni di cui siamo in possesso – l’una live del ’59, l’altra in forma di highlights del ’69, entrambe a fianco di Mario Del Monaco – per render conto di come l’Olivero sia stata coinvolta dalle vicende della tragica eroina ravennate. Dalla prima si staglia il breve duetto tenore-soprano del secondo atto, quando Francesca si appresta a soccorrere Paolo, credendolo ferito. Qui la saldezza del registro acuto di entrambi gli interpreti, rinforzato da quell’impeto davvero drammatico, quasi violento che continua a caratterizzarne la cifra artistica, viene fuori in quei momenti apparentemente transitori ma altresì fondamentali per tracciare le linee guida per una buona comprensione dei caratteri in scena. Dopo aver presentito la catastrofe che si rivelerà incompiuta, Francesca ripete per l’ultima volta «Paolo! Paolo!» esibendo una cavata e una capacità polmonare forse inaudita, e le stesse invocazioni a concedere una tregua alla battaglia (nitidi e lucenti quegli «Inginocchiati!») sono precedute da due acuti strabilianti per la padronanza della corretta respirazione e per l’incisività radiosa dovuta alla felice scoperta («Salvo, salvo e puro!»). Notevole è poi anche il duetto al quarto atto col Gianciotto (Giampiero Malaspina), in cui Francesca sottopone al marito le perplessità sull’indole poco pacifica di Malatestino, suo cognato. Se le qualità di un cantante si misurano non solo dalla capacità di fraseggiare, ma anche dalla gamma delle diverse soluzioni da adattare a ogni situazione scenica, qui la Olivero estremizza l’accento dimesso della giovane sposa, esibendo autentiche mezze voci, sempre calibrate in senso espressivo e mai figlie di un gratuito virtuosismo.
Dalla registrazione in studio del ’69 è possibile invece rilevare singoli versi, che per la particolarissima inflessione determinano non solo il ritratto di una valida interpretazione, ma arrivano a reinventare addirittura le dipendenze reciproche tra personaggi e senso del tempo (elemento centrale dell’opera). Quel secondo «Chi sei tu?» in principio di secondo atto – qualcuno, non visto da Francesca, sta salendo per la scala della torre, che porta a una botola – viene attaccato in pianissimo e sostenuto sempre con la stessa stabilità, con un’intensità di suono costante, priva della sua canonica espansione. In questo modo il “pianissimo” sembra quasi abbozzare non solo una certa voluttuosa attesa (aspettativa?), ma addirittura ne profetizza la sua effettiva realizzazione (è proprio Paolo a comparirle davanti!). La stessa smorzatura nel terzo atto, quando, in dialogo col giovane, Francesca gli racconta come le sue «donne» abbiano organizzato una ballata in onore della stagione primaverile, la splendida smorzatura su «salutare il marzo» pare suggerire invece la soavità della situazione che sta vivendo, di un godimento che però può passare solo attraverso l’abbraccio del “presente” (la tragedia incombe…), in una logica non troppo distante da quel faustiano «attimo arrestati, sei bello» (è sufficiente la presenza di Paolo…). Tant’è che non si tratta certo di casualità quando nel duetto “Paolo, datemi pace” – edizione in studio del ’69 – la Olivero prenda ancora in “pianissimo” quella «primavera» forse mai pienamente vissuta ma che già si definisce come passato da rievocare («Ahi! Che già sento all’arido fiato sfiorir la primavera nostra»). Voler poi a tutti i costi analizzare le prodezze vocali di questa pagina, così come quella del duetto conclusivo del quarto atto, sarebbe solo un gesto di facile agiografia. Basti però notare ogni volta la dolcezza degli attacchi, il raro equilibrio psichico e fisiologico, la scansione decisa dell’articolazione (altro che le linee dure, frammentarie e schizofreniche di tante divette correnti!), la fermezza dei suoni e la varietà dei colori. Non ultima la duttilità del fraseggio, provata da quell’indimenticabile piglio vezzoso con cui chiede a Paolo, da poco reduce da Cesena, di avvicinarsi alla finestra, sedersi, sentire i suoi racconti…
Le onoranze del ’51 dedicate a Mascagni, istituite a Livorno da un comitato nato appositamente per celebrare il compositore, alla cui presidenza compariva l’allora Capo dello Stato Giovanni Gronchi, hanno rappresentato l’occasione ideale per il primo debutto operistico di Magda Olivero dopo l’abbandono delle scene dieci anni prima. Inutile dire come il carattere simbolico del titolo, che smentisce ma allo stesso tempo conferma la necessità del “reale” come referente, si confaccia, nelle sue sfumature “decadentistico-floreali”, all’espressività “liberty” del canto del soprano in questione.
Noi possediamo la registrazione dal vivo del ’63, in cui la Olivero canta al fianco di Ottolini ed è diretta da Vernizzi. Una prova audio che garantisce senza remore la particolare raffinatezza degli svolazzi lirici della linea vocale, che esprimono con grande intelligenza la purezza, la trepidazione e l’ingenuo abbandono della musmé giapponese. E la celebre “aria della piovra” ne dà un valido esempio, non soltanto per il magnifico si naturale attaccato in “pianissimo” e rinforzato fino al “mezzoforte”, tale da produrre notevole risonanza e accelerazione in senso drammatico (pur senza quell’espansione portata a totale compimento, come invece abbiamo sentito in altre occasioni). Perché tutto l’assolo è teso, sostenuto, irrequieto nello spaziare frenetico e disinvolto tra le pieghe più alte e più basse della tessitura, raggiungendo con quelle vibrazioni strazianti – biglietto da visita del magistero della Olivero – un’acme di disperazione davvero inaudito.
Come Iris, anche Fedora rientra tra le opere studiate e debuttate dopo la lunga pausa decennale, sebbene già nel ’40 Pietro Ostali, proprietario della “Casa Musicale Sonzogno”, dopo i travolgenti successi di Traviata e Adriana, fa recapitare al soprano varie lettere con inviti a studiare la poliedrica parte della principessa Romazoff. Ma il debutto, come accennato, arriva solo il 25 novembre ’53 al teatro “Bellini” di Catania, salutato dalla critica locale con recensioni entusiastiche che sanciranno Fedora tra i cavalli di battaglia più significativi della carriera di Magda Olivero.
E il contesto borghese, signorile anzi, del soggetto sembra riflettersi nell’eleganza della sua linea musicale, brillante e leggera come un cristallo. Fedora è insomma un giallo da salotto, sostenuto in particolare nel primo atto da un canto di conversazione che Giordano sa calibrare con eccellente senso del teatro, attraverso l’affioramento incalzante di tasselli informativi che non solo arrivano a definire un certo colore locale – sono vicini gli echi di una “polifonia” da romanzo russo tardo-ottocentesco – ma definiscono anche il sostrato morboso su cui poggia il versante vocale. Possiamo forse definire l’opera una sorta di dramma schizoide dell’apparenza, in cui per l’interprete diventa importante la capacità di destreggiarsi con i continui cambi d’identità e le verità inconfessabili che adombrano il buon esito di un rapporto amoroso. E la Olivero coglie perfettamente questi aspetti, esibendo una linea vocale febbrile, nervosa, che spinge contro le pareti di una compostezza che continua a tendersi senza mai sfibrarsi o lacerarsi.
Il primo atto della registrazione in studio diretta da Gardelli nel ’69 è esemplare da questo punto di vista. Già i primi versi, con cui saluta l’entrata in scena («Assente è il capitan?» e «Lungamente l’attesi»), rivelano doti indiscusse nella ricerca dell’accento giusto, a metà strada tra l’irruento e il sospeso, indubbiamente carico di venature nobiliari, aristocratiche, che fin da subito appunto bastano a definire il carattere impetuoso della principessa Fedora. Di indubbio fascino anche quell’«O schiette labbra», attaccato in “pianissimo” e trattenuto, senza essere risolto con piena espansione, così come l’altra smorzatura in corrispondenza di «mi turba», nello stesso arioso, che sembra suggerire uno stupore quasi giovanile per la consapevolezza di un nuovo inizio («sento che qui comincia un’altra vita in me», dirà il verso successivo). Ma ciò che più impressiona della Fedora di Magda Olivero è, come indicato poco sopra, l’efficacia del canto di conversazione, che emerge con squarci di inaudita intensità espressiva e potenza d’accento. Da brividi il trasporto di «Ah! Vladimiro!», a commento dell’arrivo della slitta con l’amante ferito, così come «L’assassino dov’è?» e subito dopo «E’ lui, è lui, l’assassino!», quando lo stalliere ricorda che durante la mattinata un uomo è entrato in casa, ha scritto una lettera e se n’è andato al’improvviso. La simbologia cristiana e il giuramento di castità in chiosa di primo atto (“Son gente risoluta”), sancito dal soprano con particolare trasporto, non solo enfatizzano la sostanza religiosa della principessa Romazoff, in apparente opposizione all’impulsività vendicativa, quasi assolutista, che la contraddistingue un po’ quale Tosca mitteleuropea ante litteram – non per nulla la matrice letteraria proviene dalla stessa penna di Victorien Sardou – ma, dopo la devota Margherita boitiana, riconverte il discorso prima di tutto all’interno di quell’”affettività elettiva” – la professione di fede, appunto – che il soprano pretendeva da ogni incontro con un nuovo personaggio.
Il finale dell’opera, con la principessa che si avvelena per il senso di colpa e Loris che le dà il perdono, è uno tra i più alti momenti operistici, limitati a un certo repertorio, di tutto il Novecento. E la registrazione live del ’71 con Giacomini al “Teatro Sociale” di Como ne testimonia la grandezza. La capacità di cantare sfumato per l’intera durata della scena è prova insindacabile della padronanza del sostegno del fiato, che distoglie dalla linea vocale il rischio della pur minima stimbratura, conferendo anzi alla sua morte una dignità che – se già il libretto di certo non occulta – viene raddoppiata dalla preziosità e dall’eleganza del canto.
Come evocato in capo al pezzo, qualcuno potrà obiettare, non senza margine di ragione, che alcuni inquadramenti, in special modo quelli atti a definire un periodo storico o ancor più una corrente artistica, finiscono spesso per risultare sommari, limitanti, semplificatori. Sappiamo bene che parlare di “verismo” alla luce di questi titoli possa essere sembrato una facile forzatura, poiché nessuno dei quattro può essere considerato rappresentativo della corrente. E di questo chiediamo comprensione ai nostri lettori. Ma va pure detto che mai come nel caso di Magda Olivero possiamo giustificare la pertinenza di una declinazione più comprensiva. Una definizione – come dire - più allargata di aderenza al vero, che non presuppone una ricerca incondizionata di uno scorcio “realistico”, piuttosto lo svelamento di quella verità che, prima ancora di appartenere al personaggio, è parte integrante dell’artista e quindi della persona. È questo il “verismo” di Magda Olivero. La sua generosità d’interprete. La sua Stimmung. La sua apertura al mondo.
Carlotta Marchisio
Gli ascolti
Magda Olivero / 6
Boito - Mefistofele
Atto III
L'altra notte in fondo al mare (1962)
Spunta l'aurora pallida (1962)
Zandonai - Francesca da Rimini
Atto I
Amor le fa cantare...Francesca, dove andrai? (con Pinuccia Perotti - 1959)
Atto II
Qualcuno sale per la scala (con Mario del Monaco - 1959)
Atto III
Paolo, datemi pace! (1959)
Atto IV
Mia cara donna, voi m'attendevate? (con Giuseppe Malaspina - 1959)
Francesca! Paolo...Dammi la bocca (con Mario del Monaco & Giuseppe Malaspina - 1959)
Mascagni - Iris
Atto II
Un dì, ero piccina (1962)
Giordano - Fedora
Atto I
Assente è il Capitano?...O grandi occhi lucenti di fede...Su questa santa Croce (con Mario d'Anna & Pietro di Vietri - 1971)
Atto III
Fedora, quella donna è a Parigi!...Tutto tramonta (con Giuseppe Giacomini, Mario d'Anna & Elena Baggiore - 1971)
Abbiamo più volte suggerito come la personalità e la qualità artistica di Maria Maddalena Olivero non possono essere studiate se non inserite in un certo contesto culturale, prima ancora che musicale, ben individuabile, e come la definizione di un repertorio nei primi decenni del Novecento fosse tendenzialmente condizionata dagli stilemi di una vocalità drammatica che, se ci concedete una piccola dose di approssimazione, possiamo continuare a chiamare “verista”, pur “avanti lettera” in qualche caso. In altre parole, così come la signora Magda, più nel bene che nel male, rimane ugola e figlia prediletta del suo tempo, Mefistofele, Iris, Francesca da Rimini e Fedora restano, al di là dei soliti snobismi di sorta, quattro grandissime espressioni del teatro d’opera a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Sintomo della congruenza tra la sensibilità della virtuosa di Saluzzo e il celestiale intimismo della Margherita boitiana è una data: 20 settembre ‘39. Al teatro “Donizetti” di Bergamo Magda Olivero debutta il ruolo a fianco di Tancredi Pasero, Galliano Masini e Lina Bruna Rasa, un ruolo, benché di rilevanza secondaria nell’economia dell’opera, assimilato e fatto proprio fin dalla giovane età e destinato a diventare cruciale nella futura carriera della signora. Prova ne sarà la continua, costante presenza della grande aria “L’altra notte in fondo al mar” nella più parte dei concerti in carriera, primo di una lunga serie quello all’EIAR di Torino del 7 luglio ‘33, a poco più di sei mesi dal debutto ufficiale in palcoscenico.
Ma il rigore espressivo e la saldezza della tecnica, che come ben sappiamo sono elementi essenziali per la salvaguardia dello strumento e contrassegni primari del soprano in questione, fanno sì che nel ’72 allo Sferisterio di Macerata i fortunati spettatori si godano un’Olivero sessantaduenne in freschissima forma vocale – anche il tubo ne dà testimonianza – nonostante la direzione del poco ispirato Nello Santi. Già nel duetto con Faust (Giorgio Merighi), in apertura di secondo atto, la signora comincia a tratteggiare una Margherita consapevolmente ingenua, ben definita sia dalla notevole inflessione di lucida mestizia sulla prima strofa «Cavaliero illustre e saggio, / come mai vi può allettar / la fanciulla del villaggio / col suo rustico parlar», sia poco oltre sui due versi «Dimmi se credi, Enrico / nella religione», che sembrano suggerire, più che un rapporto sensuale, e quindi terreno, col “redigiovane” Faust, una sentita devozione spirituale che si riverbera nel credo stesso della cantante, che mai ha fatto mistero del suo sempre vivo sentimento religioso. Da qui, due riconferme che si alimentano a vicenda: da una parte la Margherita della Olivero, presupponendo con la sua interpretazione un rapporto dialogico con l’ultraterreno, ridefinisce il Mefistofele quale opera che si struttura come “scena verticale” (Alewyn), o, più semplicemente, asseconda i tratti distintivi del “meraviglioso” di cui parla Dahlhaus. Dall’altra attesta l’estrema perizia con cui ogni volta il soprano piemontese approccia lo studio di un nuovo personaggio, che può trarre senso solo se vicino alla sensibilità e dell’artista e della persona. Insomma, l’ennesima esemplificazione, se ce ne fosse ancora bisogno, di un’etica che si fa estetica (e viceversa). Roba d’altri tempi…
Ma il meglio, in particolare dal punto di vista strettamente esecutivo, arriva di nuovo nella celebre aria del terzo atto, attaccata con autentico accento drammatico, fondamentale per poter fraseggiare con fantasia e pertinenza d’interprete. E la Olivero lo fa intuendo l’essenza teatrale sottesa a ogni verso, a ogni parola, fino alla discesa al doppio re grave, raggiunto con una copertura del suono di alta scuola – lontana dalle “sbracature”, in quella zona del pentagramma, di tanti soprani in carriera – tale da rimandare a una spirale angosciosa, alla disperazione di una mente non più lucida alle prese con un infanticidio di cui non può che rigettarne, quale genitrice del bimbo, la responsabilità. Poco oltre, la serie di biscrome, che rimanda alla lievità del passero («vola, vola, vola») che si libra in aria come l’anima della protagonista, è risolta con un vocalizzo di lucentezza diamantina tale da avvalorare sempre più la tesi di chi avrebbe voluto un’Olivero belcantista. Impressionante poi in chiusura l’esecuzione della sestina («DEL bosco») che porta alla corona sul si naturale acuto, altitudine certamente impervia da cui attaccare una messa di voce esemplare nella sua intelligente contenutezza, che resta coerente perché in linea con la dimensione raccolta, quasi conventuale, del momento solistico in questione.
La Francesca da Rimini è altra opera che può vantare una prestigiosa frequentazione con l’arte di Magda Olivero. Anzi, la sinergia tra il soprano e il titolo di Zandonai sancisce forse una rarissima eccezione, se non un unicum nella storia del teatro lirico. Debuttata il 29 maggio ‘40 al “Teatro della moda” di Torino – con un cast che vedeva tra gli altri Alessandro Ziliani e Carlo Tagliabue nei ruoli dei due protagonisti maschili, il primo Paolo “il bello”, il secondo suo fratello il “Gianciotto” – la parte di Francesca a firma Olivero è rimasta a buon diritto non solo tra le interpretazioni più riuscite di tutto il Novecento discografico, per altro portata in scena solo tre volte in tutta la carriera, ma anche una compagna di vita per quasi settant’anni, fino all’ultima, toccante esibizione a Palazzo Cusani nell’aprile dello scorso anno.
Sono sufficienti tuttavia le due registrazioni di cui siamo in possesso – l’una live del ’59, l’altra in forma di highlights del ’69, entrambe a fianco di Mario Del Monaco – per render conto di come l’Olivero sia stata coinvolta dalle vicende della tragica eroina ravennate. Dalla prima si staglia il breve duetto tenore-soprano del secondo atto, quando Francesca si appresta a soccorrere Paolo, credendolo ferito. Qui la saldezza del registro acuto di entrambi gli interpreti, rinforzato da quell’impeto davvero drammatico, quasi violento che continua a caratterizzarne la cifra artistica, viene fuori in quei momenti apparentemente transitori ma altresì fondamentali per tracciare le linee guida per una buona comprensione dei caratteri in scena. Dopo aver presentito la catastrofe che si rivelerà incompiuta, Francesca ripete per l’ultima volta «Paolo! Paolo!» esibendo una cavata e una capacità polmonare forse inaudita, e le stesse invocazioni a concedere una tregua alla battaglia (nitidi e lucenti quegli «Inginocchiati!») sono precedute da due acuti strabilianti per la padronanza della corretta respirazione e per l’incisività radiosa dovuta alla felice scoperta («Salvo, salvo e puro!»). Notevole è poi anche il duetto al quarto atto col Gianciotto (Giampiero Malaspina), in cui Francesca sottopone al marito le perplessità sull’indole poco pacifica di Malatestino, suo cognato. Se le qualità di un cantante si misurano non solo dalla capacità di fraseggiare, ma anche dalla gamma delle diverse soluzioni da adattare a ogni situazione scenica, qui la Olivero estremizza l’accento dimesso della giovane sposa, esibendo autentiche mezze voci, sempre calibrate in senso espressivo e mai figlie di un gratuito virtuosismo.
Dalla registrazione in studio del ’69 è possibile invece rilevare singoli versi, che per la particolarissima inflessione determinano non solo il ritratto di una valida interpretazione, ma arrivano a reinventare addirittura le dipendenze reciproche tra personaggi e senso del tempo (elemento centrale dell’opera). Quel secondo «Chi sei tu?» in principio di secondo atto – qualcuno, non visto da Francesca, sta salendo per la scala della torre, che porta a una botola – viene attaccato in pianissimo e sostenuto sempre con la stessa stabilità, con un’intensità di suono costante, priva della sua canonica espansione. In questo modo il “pianissimo” sembra quasi abbozzare non solo una certa voluttuosa attesa (aspettativa?), ma addirittura ne profetizza la sua effettiva realizzazione (è proprio Paolo a comparirle davanti!). La stessa smorzatura nel terzo atto, quando, in dialogo col giovane, Francesca gli racconta come le sue «donne» abbiano organizzato una ballata in onore della stagione primaverile, la splendida smorzatura su «salutare il marzo» pare suggerire invece la soavità della situazione che sta vivendo, di un godimento che però può passare solo attraverso l’abbraccio del “presente” (la tragedia incombe…), in una logica non troppo distante da quel faustiano «attimo arrestati, sei bello» (è sufficiente la presenza di Paolo…). Tant’è che non si tratta certo di casualità quando nel duetto “Paolo, datemi pace” – edizione in studio del ’69 – la Olivero prenda ancora in “pianissimo” quella «primavera» forse mai pienamente vissuta ma che già si definisce come passato da rievocare («Ahi! Che già sento all’arido fiato sfiorir la primavera nostra»). Voler poi a tutti i costi analizzare le prodezze vocali di questa pagina, così come quella del duetto conclusivo del quarto atto, sarebbe solo un gesto di facile agiografia. Basti però notare ogni volta la dolcezza degli attacchi, il raro equilibrio psichico e fisiologico, la scansione decisa dell’articolazione (altro che le linee dure, frammentarie e schizofreniche di tante divette correnti!), la fermezza dei suoni e la varietà dei colori. Non ultima la duttilità del fraseggio, provata da quell’indimenticabile piglio vezzoso con cui chiede a Paolo, da poco reduce da Cesena, di avvicinarsi alla finestra, sedersi, sentire i suoi racconti…
Le onoranze del ’51 dedicate a Mascagni, istituite a Livorno da un comitato nato appositamente per celebrare il compositore, alla cui presidenza compariva l’allora Capo dello Stato Giovanni Gronchi, hanno rappresentato l’occasione ideale per il primo debutto operistico di Magda Olivero dopo l’abbandono delle scene dieci anni prima. Inutile dire come il carattere simbolico del titolo, che smentisce ma allo stesso tempo conferma la necessità del “reale” come referente, si confaccia, nelle sue sfumature “decadentistico-floreali”, all’espressività “liberty” del canto del soprano in questione.
Noi possediamo la registrazione dal vivo del ’63, in cui la Olivero canta al fianco di Ottolini ed è diretta da Vernizzi. Una prova audio che garantisce senza remore la particolare raffinatezza degli svolazzi lirici della linea vocale, che esprimono con grande intelligenza la purezza, la trepidazione e l’ingenuo abbandono della musmé giapponese. E la celebre “aria della piovra” ne dà un valido esempio, non soltanto per il magnifico si naturale attaccato in “pianissimo” e rinforzato fino al “mezzoforte”, tale da produrre notevole risonanza e accelerazione in senso drammatico (pur senza quell’espansione portata a totale compimento, come invece abbiamo sentito in altre occasioni). Perché tutto l’assolo è teso, sostenuto, irrequieto nello spaziare frenetico e disinvolto tra le pieghe più alte e più basse della tessitura, raggiungendo con quelle vibrazioni strazianti – biglietto da visita del magistero della Olivero – un’acme di disperazione davvero inaudito.
Come Iris, anche Fedora rientra tra le opere studiate e debuttate dopo la lunga pausa decennale, sebbene già nel ’40 Pietro Ostali, proprietario della “Casa Musicale Sonzogno”, dopo i travolgenti successi di Traviata e Adriana, fa recapitare al soprano varie lettere con inviti a studiare la poliedrica parte della principessa Romazoff. Ma il debutto, come accennato, arriva solo il 25 novembre ’53 al teatro “Bellini” di Catania, salutato dalla critica locale con recensioni entusiastiche che sanciranno Fedora tra i cavalli di battaglia più significativi della carriera di Magda Olivero.
E il contesto borghese, signorile anzi, del soggetto sembra riflettersi nell’eleganza della sua linea musicale, brillante e leggera come un cristallo. Fedora è insomma un giallo da salotto, sostenuto in particolare nel primo atto da un canto di conversazione che Giordano sa calibrare con eccellente senso del teatro, attraverso l’affioramento incalzante di tasselli informativi che non solo arrivano a definire un certo colore locale – sono vicini gli echi di una “polifonia” da romanzo russo tardo-ottocentesco – ma definiscono anche il sostrato morboso su cui poggia il versante vocale. Possiamo forse definire l’opera una sorta di dramma schizoide dell’apparenza, in cui per l’interprete diventa importante la capacità di destreggiarsi con i continui cambi d’identità e le verità inconfessabili che adombrano il buon esito di un rapporto amoroso. E la Olivero coglie perfettamente questi aspetti, esibendo una linea vocale febbrile, nervosa, che spinge contro le pareti di una compostezza che continua a tendersi senza mai sfibrarsi o lacerarsi.
Il primo atto della registrazione in studio diretta da Gardelli nel ’69 è esemplare da questo punto di vista. Già i primi versi, con cui saluta l’entrata in scena («Assente è il capitan?» e «Lungamente l’attesi»), rivelano doti indiscusse nella ricerca dell’accento giusto, a metà strada tra l’irruento e il sospeso, indubbiamente carico di venature nobiliari, aristocratiche, che fin da subito appunto bastano a definire il carattere impetuoso della principessa Fedora. Di indubbio fascino anche quell’«O schiette labbra», attaccato in “pianissimo” e trattenuto, senza essere risolto con piena espansione, così come l’altra smorzatura in corrispondenza di «mi turba», nello stesso arioso, che sembra suggerire uno stupore quasi giovanile per la consapevolezza di un nuovo inizio («sento che qui comincia un’altra vita in me», dirà il verso successivo). Ma ciò che più impressiona della Fedora di Magda Olivero è, come indicato poco sopra, l’efficacia del canto di conversazione, che emerge con squarci di inaudita intensità espressiva e potenza d’accento. Da brividi il trasporto di «Ah! Vladimiro!», a commento dell’arrivo della slitta con l’amante ferito, così come «L’assassino dov’è?» e subito dopo «E’ lui, è lui, l’assassino!», quando lo stalliere ricorda che durante la mattinata un uomo è entrato in casa, ha scritto una lettera e se n’è andato al’improvviso. La simbologia cristiana e il giuramento di castità in chiosa di primo atto (“Son gente risoluta”), sancito dal soprano con particolare trasporto, non solo enfatizzano la sostanza religiosa della principessa Romazoff, in apparente opposizione all’impulsività vendicativa, quasi assolutista, che la contraddistingue un po’ quale Tosca mitteleuropea ante litteram – non per nulla la matrice letteraria proviene dalla stessa penna di Victorien Sardou – ma, dopo la devota Margherita boitiana, riconverte il discorso prima di tutto all’interno di quell’”affettività elettiva” – la professione di fede, appunto – che il soprano pretendeva da ogni incontro con un nuovo personaggio.
Il finale dell’opera, con la principessa che si avvelena per il senso di colpa e Loris che le dà il perdono, è uno tra i più alti momenti operistici, limitati a un certo repertorio, di tutto il Novecento. E la registrazione live del ’71 con Giacomini al “Teatro Sociale” di Como ne testimonia la grandezza. La capacità di cantare sfumato per l’intera durata della scena è prova insindacabile della padronanza del sostegno del fiato, che distoglie dalla linea vocale il rischio della pur minima stimbratura, conferendo anzi alla sua morte una dignità che – se già il libretto di certo non occulta – viene raddoppiata dalla preziosità e dall’eleganza del canto.
Come evocato in capo al pezzo, qualcuno potrà obiettare, non senza margine di ragione, che alcuni inquadramenti, in special modo quelli atti a definire un periodo storico o ancor più una corrente artistica, finiscono spesso per risultare sommari, limitanti, semplificatori. Sappiamo bene che parlare di “verismo” alla luce di questi titoli possa essere sembrato una facile forzatura, poiché nessuno dei quattro può essere considerato rappresentativo della corrente. E di questo chiediamo comprensione ai nostri lettori. Ma va pure detto che mai come nel caso di Magda Olivero possiamo giustificare la pertinenza di una declinazione più comprensiva. Una definizione – come dire - più allargata di aderenza al vero, che non presuppone una ricerca incondizionata di uno scorcio “realistico”, piuttosto lo svelamento di quella verità che, prima ancora di appartenere al personaggio, è parte integrante dell’artista e quindi della persona. È questo il “verismo” di Magda Olivero. La sua generosità d’interprete. La sua Stimmung. La sua apertura al mondo.
Carlotta Marchisio
Gli ascolti
Magda Olivero / 6
Boito - Mefistofele
Atto III
L'altra notte in fondo al mare (1962)
Spunta l'aurora pallida (1962)
Zandonai - Francesca da Rimini
Atto I
Amor le fa cantare...Francesca, dove andrai? (con Pinuccia Perotti - 1959)
Atto II
Qualcuno sale per la scala (con Mario del Monaco - 1959)
Atto III
Paolo, datemi pace! (1959)
Atto IV
Mia cara donna, voi m'attendevate? (con Giuseppe Malaspina - 1959)
Francesca! Paolo...Dammi la bocca (con Mario del Monaco & Giuseppe Malaspina - 1959)
Mascagni - Iris
Atto II
Un dì, ero piccina (1962)
Giordano - Fedora
Atto I
Assente è il Capitano?...O grandi occhi lucenti di fede...Su questa santa Croce (con Mario d'Anna & Pietro di Vietri - 1971)
Atto III
Fedora, quella donna è a Parigi!...Tutto tramonta (con Giuseppe Giacomini, Mario d'Anna & Elena Baggiore - 1971)
6 commenti:
Ogni commento, a parte, "Mille grazie!", è sperfluo!
mille grazie signora olivero naturalmente
quando si scrive e si parla della signora Olivero e sempre un piacere leggere,e ascoltare..
Ascolti meravigliosi, toccanti le riflessioni di Carlotta.
Grazie.
Sai, Giambattista... quando a cantare sono voci di questo calibro, diventa automatico lasciarsi andare a speculazioni che risuterebbero improbabili per la più parte dei cantanti di oggi, più consoni al vano doccia della loro sala da bagno che ai palcoscenici di visibilità internazionale.
Auguriamo alla Signora Olivero di festeggiare almeno un altro centinaio di queste primavere.
E se non sarà lei a farlo "fisicamente", ci penserà la sua arte, a sotterrare, vive o morte, tutte le attuali divette del disco.
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