Forza del destino venne rappresentata a San Pietroburgo il 10 novembre 1862 su libretto di Francesco Maria Piave. Il 27 febbraio 1869 la Scala di Milano, ossia l’impresa Ricordi, che la gestiva e che non poteva non riconciliarsi con Verdi propose al pubblico una edizione ampiamente rimaneggiata su libretto di Antonio Ghislanzoni. E’ questa versione milanese che con tagli e aggiusti di tradizione viene correntemente rappresentata e serve per formare la base dell’analisi e del giudizio critico sul lavoro verdiano. Idea del tutto condivisibile perché Verdi mai più dopo la prima milanese propose la versione del 1862, che rimane prodotto per filologi musicali o per operazioni festivaliere.
Circa il rapporto fra le due versioni ci sarà altra ed apposita puntata di questa “Verdi Edission”. Non solo: atteso che il titolo, nonostante la fama jettatoria ed i nomignoli come “la maledetta”, “la malefica”, “l’opera innominabile” e “l’opera mai scritta”, che l’accompagnano gode di costante e continua diffusione, avremo anche una puntata dedicata alla Forza a 78 giri.
Questa riflessione su Forza del destino, cui seguiranno più o meno altre quaranta, tutte dedicate al catalogo verdiano vuole offrire l’intera opera, o quasi, utilizzando differenti edizioni dal vivo di rilievo ed interesse. In positivo, visto che appartengono al passato, anche recente ed a quanto pare noi col passato secondo alcuni, con la qualità, secondo noi, abbiamo un rapporto privilegiato.
Forza venne scelta da Verdi come argomento per il proprio esordio russo dopo la proposizione di un altro titolo, Ruy Blas. Il debutto a San Pietroburgo, stando alla corrispondenza di Giuseppe e Giuseppina Verdi era tenuto in grande considerazione. Anche per motivi economici. Non dimentichiamoci che nel 1862 all’indomani dell’unità d’Italia non vi erano in Italia più le cinque o sei capitali, egualmente interessate ad avere un teatro d’opera di rinomanza, i rapporti con la Scala erano interrotti per nuovi titoli dal 1844 e, quindi, a Verdi o restava Parigi, dove era d’obbligo il grand-opéra e dove operava Meyerbeer e Gounod era l’astro nascente o cercava altre piazze di prestigio e disponibili a secondarne le richieste non solo economiche.
Anche i grandi sono ed erano soggetti alle leggi del mercato.
La scelta del titolo da musicare cadde su un dramma ( drammone?) di Angel de Saavedra de Rivas del 1835 intitolato Don Alvaro o la Fuerza del Sino. L’originale venne adattato, in particolare riducendo ad uno solo i fratelli della disonorata Leonora (originariamente don Alfonso e don Carlos), secondo la disponibilità di prime parti. La riduzione dei fratelli vindici importò la ulteriore complicazione della vicenda e degli inseguimenti, perché nel testo originale un Calatrava opera in Spagna e l’altro in Italia.
La prima versione, però, restava più aderente al testo originale prevedendo anche la morte di don Alvaro, che scagliati i rituali anatemi contro la sorte, si getta da una rupe adiacente lo speco di Leonora. Insomma il classico “tutti morti”.
La fonte letteraria di trent’anni anteriore la riduzione in musica è sempre stata ritenuta il trapasso nella letteratura spagnola dal teatro classico a quello romantico. Tardivo trapasso se consideriamo che il conte di Carmagnola è del 1820 e l’Adelchi del 1822, tanto per rimanere alla, non certo pionieristica, Italia. Ma il “polpettone” spagnolo è ricco e denso, oltre che di spunti drammatici, di scene di colore, tipiche della cultura spagnola (si pensi in pittura al Goya), ispirate ai drammi di Schiller e Victor Hugo e assai utili per le trasposizioni in musica.
Però non è tutto: come nel grand-opéra la protagonista occulta è sempre la Storia, che dà origine al grande affresco ove inserire i drammi personali d’amore: in questo titolo vero protagonista è il fato. Avverso, naturalmente che inizia a colpire dal colpo partito accidentalmente dalla pistola di don Alvaro, che vorrebbe consegnarsi al marchese di Calatrava, sino agli incontri nei luoghi più lontani, spesso sotto mentite o travestite spoglie, sino al ritrovarsi dei protagonisti del dramma per consumarne il cruento epilogo. Facile con questo protagonista l’aver, nel corso del tempo, appioppato certi nomignoli all’opera, che sopra richiamavamo.
Nessuna presunzione in queste riflessioni da insegnare alcunché. Ricchissima infatti la bibliografia su Verdi e sul titolo. Quindi al massimo qualche spunto di riflessione.
Parto da una frase del Budden, che nel secondo volume della propria monografia, dedicata a Verdi assume che l’opera italiana fosse alla metà dell’Ottocento “smarrita”.
A conforto dell’assunto indica le produzioni coeve al Verdi maturo ovvero Cagnoni, Petrella e Ponchielli e l’opinione appare ancor più fondata quando si ascolti qualche pagina, anche quelle di puro mestiere di Pacini o Mercadante o anche Donizetti per capire dove fosse andata a finire l’opera italiana.
Era in realtà la crisi dell’opera a numeri chiusi, aggravata da scarsezza di idee e tecnica compositiva, che spesso aveva salvato insieme all’arte italiana del canto i melodrammi.
Di questa crisi risente anche Verdi, se non sotto il profilo dell’idea musicale, sotto quello del rapporto con la forma perché Forza del destino cerca di superare l’opera a numeri chiusi, ma, poi, nel numero chiuso, spesso di grande qualità ed inventiva finisce. Sia chiaro non è un limite, non che il dramma musicale valga più del melodramma, è solo una constatazione, alla luce della produzione successiva.
I personaggi di Forza del destino fanno ancora ampio ricorso a forme chiuse, in particolare a strette di sapore cabalettistico. Tutte di grande efficacia e presa teatrale.
Non per nulla la tradizione critica rievoca il precedente delle donizettiane “Arpe Angeliche” per la chiusa del duetto Leonora-Alvaro all’atto primo, ma questo modello più sotto il profilo drammaturgico che musicale pervade anche la stretta del lungo duetto Leonora-Padre Guardiano all’atto secondo. A strutture cabalettistiche o quanto meno a strette Verdi ricorre per il turbinoso finale dell’aria di don Carlos all’atto terzo o per il terzo duetto fra i duellanti Alvaro e don Carlos al convento.
Il dubbio è ed offre uno spunto di riflessione se Verdi abbia operato la scelta assolutamente in scia della tradizione o se la scelta fosse precisa, magari pure una sorta di operazione di omaggio al passato. Aggiungo alla considerazione la scena di Mastro Trabuco che è un “impresto” molto evidente dalla Gazza Ladra di Rossini, o la predica, sempre al terzo atto di Fra’ Melitone.
Quanto alle strette di sapore donizettiano ho il dubbio che rispondesse ad un desiderio del protagonista della prima Enrico Tamberlick, paradigma del tenore di forza, Poliuto e Manrico celeberrimo. A maggior ragione depone per questa interpretazione il fatto che nella versione di San Pietroburgo si chiudesse con una aria con cabaletta di Don Alvaro, modellata sulla “pira” del Trovatore, con tanto di do acuto scritto in chiusa. Il tutto smentisce o ridimensiona la tradizione di un Verdi contrario agli arbitri dei cantanti e che la scelta fosse pro Tamberlick è confermata dal fatto che nelle immediate riprese del lavoro, anteriori il rifacimento milanese, la cabaletta venne abbassata di un tono per soccorrere i tenori non dotati dello squillo di Tamberlick.
Quanto alla scena di mastro Trabuco e la predica di Melitone con scioglilingua e giochi di parole ed assonanze può essere letta come un omaggio alla tradizione, come il ricorrere ad un tradizionale ed indiscusso modello per le scene di carattere o comiche. In riferimento a Melitone, il solito Budden evoca un’ascendenza od un rapporto con i lavori del Fratelli Ricci, ultimo baluardo della tradizione napoletana. Però come non sentire soprattutto nella predica l’anticipazione degli incrociati cicaleggi di comari e mister dell’ultimo titolo verdiano?
In realtà e siamo ad un altro elemento su cui riflettere tutti questi problemi riguardano il terzo atto, che subì il maggior rifacimento nel raffronto fra le due edizioni, con l’esigenza di inserire numeri di colore e comici per compensare l’eliminazione della aria di Don Alvaro alla chiusa e dare alternanza, ovvero simulare il decorso del tempo, fra i ripetuti incontri e scontri dei due antagonisti, campioni della legge dell’onore, del rango e della cavalleria.
È la prima volta nella propria produzione che Verdi gestisce il colore del personaggio di Preziosilla, zingara, indovina e anche altro, -cui sono affidati due numeri solistici tutt’altro che facili sotto il duplice profilo vocale ed interpretativo- , le reclute con i loro patetici addii, i questuanti, il colore del campo militare il comico, in senso stretto, di Trabuco e Melitone. Il problema ossia la gestione di tutto questo, ben più variegato anche di certe situazioni del grand-opéra, diviene un problema di direzione d’orchestra e di concertazione. Alla ricerca dell’interprete di Preziosilla per la ripresa milanese Verdi scrisse che l’interprete scritturata doveva essere esperta e rodata, di contro a Leonora, che poteva essere anche una debuttante. In realtà ritengo che il problema non investa solo Preziosilla, ma in primo luogo il direttore d’orchestra che nel terzo atto deve essere in grado di guidare orchestra e masse in tutti i trapassi di situazione. Non per nulla le scene militaresche e di colore del terzo atto emergono nella direzione di Bruno Walter, che legato alle tradizioni viennesi e del Singspiel si trova perfettamente a suo agio nell’esprimere il pittoresco con misura e vivacità al tempo stesso. Nella medesima situazione, ad esempio, il rigore di Riccardo Muti mostra i propri limiti, mentre reggono meglio e colgono la situazione e la carica teatrale un Levine o di un Schippers.
Ma genere comico ed dovizia di colore locale non sono le sole novità di Forza del destino, dove Verdi per la prima volta affronta, sotto diverse angolazioni il rapporto con la religione e la Chiesa.
Intendiamoci bene non è la prima volta che nei lavori verdiani abbiano spazio scene e situazioni religiose (si pensi ai Lombardi o alla apparizione addirittura del romano Pontefice nell’Attila), molti personaggio verdiani pregano ed implorano, ma nella Forza per la prima volta i personaggi si confrontano direttamente con Dio e la Fede, ovvero incontrano e vivono l’istituzione ecclesiastica, che media incontro con Dio e la Fede. Ben due conversioni o almeno avvicinamento a Dio vediamo sulla scena: quella spettacolare, di chiaro colore spagnolo di Leonora con confessione di orribili peccati e scelta, radicale, di espiazione eremitica. Più sofferta e, vorrei dire, più moderna quella di don Alvaro, già in nuce nell’incontro del terzo atto con il mancato cognato, e sempre in lotta fra il mondo esterno ed il mondo claustrale. A confermare la differenza di avvicinamento a Dio i toni trionfalistici della stretta del duetto con il Guardiano e la seguente ispirata scena della vestizione; per don Alvaro i toni dimessi e supplici di chi vive in contrasto e sa con la mente più che con il cuore quali siano i valori, che devono ispirarlo. Donde, musicalmente il tono umile e contrito di “Le minacce i fieri accenti”, la resistenza alle accuse di don Carlos contrapposte allo slancio della stretta quando il tenore ritorna ad essere un uomo d’arme. La conversione di don Alvaro è progressiva anche nell’opera perché il don Alvaro del 1862 chiude l’opera, rinnegando Dio ed abito monastico, nel 1869, invece, accetta a fatica l’invito del Superiore alla accettazione della volontà di Dio.
Il Padre Guardiano, altro elemento su cui pensare perché il superiore del convento è il rappresentante dell’istituzione religiosa, che si presenta ai penitenti e sofferenti.
Quale fosse l’atteggiamento verso l’istituzione religiosa ed il potere temporale ecclesiastico Verdi, con il supporto di Schiller, lo dichiara apertamente nell’Inquisitore del don Carlos.
Inquisitore e Guardiano a distanza di pochi anni rappresentano due Chiese la prima del rigore e della imposta penitenza, l’altra quella della misericordia e del perdono e se della penitenza, come mezzo e non come fine.
A chi politicamente “chiede il signor di Posa”, Verdi contrappone il religioso che accoglie, confessa, conforta.
Il tutto quale conseguenza, secondo una tradizione della biografia verdiana, di un momento essenziale della vita dell’uomo Verdi ossia l’incontro con Alessandro Manzoni, avvenuto a Milano nel 1868, grazie agli uffici della Contessa Maffei. Sono note le parole entusiastiche di Verdi verso il Manzoni e la venerazione, che lo stesso gli ispirava, tanto è che da sempre la critica con riferimento alla Chiesa, rappresentata nella Forza del destino, fa chiaro riferimento alla chiesa del romanzo manzononiano. Scontato, quindi, il parallelo fra il Padre Guardiano e Padre Cristoforo, ma si possono nel Superiore verdiano vedere taluni tratti del letterario Federigo Borromeo (quello della storia era altro, ossia un nobile che lottava con nobili), come don Alvaro richiama sia pure nella rapidità del melodramma la conversione dell’Innominato, che sia detto è il paradigma della conversione.
La rappresentazione dello spirito religioso, dell’ansia di espiazione, conversione non è il solo tratto di Forza, che più di ogni altra opera verdiana ha messo in scena la più vasta e percettibile gamma dei sentimenti dell’uomo e il maggior numero delle situazioni, che nel corso della vita ogni essere umano affronta. Certo con una buona dose di retorica ed enfasi, prima che melodrammatica, ottocentesca. Nell’odio, nell’amore, nel disperato desiderio di ritrovare amore o di ottenere soddisfazione piuttosto che nella teoria di figure e figurette che si incontrano nella vita sta la forza della Forza.
E sta, credo, il motivo per cui l’opera pur con riconosciute cadute, incongruenze drammaturgiche non certo musicali sino al passato recente ha incontrato l’ininterrotto amore e favore del pubblico. Sino al passato remoto perché anche Forza deve oggi fare i conti con la carenza di cantanti e direttori. Non è un caso che, nonostante la scelta di attingere a registrazioni live, e la presenza attuale del titolo sulle scena ci siamo fermati a registrazioni di almeno trent’anni or sono o qualcuno di più.
L'immagine in apertura è a cura di Marianne Brandt
Giuseppe Verdi
La forza del destino
Ouverture - Dimitri Mitropoulos (1960)
Atto I
Buona notte, mia figlia....Me pellegrina ed orfana (Enrico Campi, Leyla Gencer - Votto - 1957)
M'aiuti signorina...Ah! Per sempre, o mio bell'angiol (Vera Magrini, Ilva Ligabue & Carlo Bergonzi - Gavazzeni - 1965)
Bonus: Ah! Per sempre, o mio bell'angiol (Richard Tucker & Renata Tebaldi - Schippers - 1960)
Vil seduttor, infame figlia! (Giuseppe Modesti, Elisabetta Barbato, Beniamino Gigli - Votto - 1951)
Atto II
Holà, holà, holà!...Al suon del tamburo (Carlo Tagliabue, Maria Caniglia, Giuseppe Nessi, Ebe Stignani - Marinuzzi - 1941)
Padre Eterno Signor (Cornell MacNeil, Martina Arroyo, Paul Franke, Nedda Casei - Levine - 1975)
Viva la buona compagnia!...Son Pereda, son ricco d'onore (Aldo Protti, Piero de Palma, Fedora Barbieri - Mitropoulos - 1953)
Son giunta! Grazie, o Dio!...Madre, pietosa Vergine (Leontyne Price - Molinari-Pradelli - 1963)
Chi siete?...Or siam soli...Infelice, delusa, reietta (Heinz Blankenburg, Raina Kabaivanska, Martti Talvela - Bohumil - 1971)
Il santo nome di Dio Signore (Ezio Pinza - Walter - 1943)
La Vergine degli Angeli (Renata Tebaldi - Mitropoulos - 1953)
Atto III
Attenti al gioco, attenti...La vita è inferno all'infelice...O tu, che in seno agli angeli (Franco Corelli - Molinari-Pradelli - 1958)
Bonus: La vita è inferno all'infelice...O tu, che in seno agli angeli (Beniamino Gigli - Votto - 1951)
Al tradimento...Solenne in quest'ora (Leonard Warren, Richard Tucker, George Cehanovsky - Stiedry - 1956)
Morir! Tremenda cosa!...Urna fatale del mio destino (Carlo Tagliabue, Ernesto Dominici - Marinuzzi - 1941)
Compagni sostiamo (Metropolitan Opera Chorus - Schippers - 1960)
Nè gustare m'è dato (Richard Tucker, Mario Sereni - Schippers - 1960)
Lorchè pifferi e tamburi...Venite all'indovina...A buon mercato chi vuol comprare? (Irra Petina, Alessio de Paolis - Walter - 1943)
Bonus: Venite all'indovina (Ebe Stignani - Marinuzzi - 1943)
Pane, pan per carità (Coro dell'Opera di Vienna, Joy Davidson - Muti - 1974)
Nella guerra è la follia...Toh, toh! Poffare il mondo! (Saturno Meletti, Ebe Stignani - Marinuzzi - 1943)
Rataplan, rataplan (Ebe Stignani - Marinuzzi - 1943)
Atto IV
Fate la carità, fate la carità (Sesto Bruscantini, Cesare Siepi - Muti - 1974)
Auf! Pazienza non v'ha che basti...Del mondo i disinganni (Saturno Meletti, Tancredi Pasero - Marinuzzi - 1943)
Giunge qualcun...Invano Alvaro...Le minacce, i fieri accenti (Agostino Ferrin, Domenico Trimarchi, Piero Cappuccilli, Carlo Bergonzi - Previtali - 1971)
Pace, pace mio Dio! (Anita Cerquetti - Sanzogno - 1957)
Bonus: Pace, pace mio Dio! (Renata Tebaldi - Mitropoulos - 1953)
Io muoio! Confession!...Non imprecare, umiliati (Carlo Tagliabue, Galliano Masini, Maria Caniglia, Tancredi Pasero - Marinuzzi - 1943)
Circa il rapporto fra le due versioni ci sarà altra ed apposita puntata di questa “Verdi Edission”. Non solo: atteso che il titolo, nonostante la fama jettatoria ed i nomignoli come “la maledetta”, “la malefica”, “l’opera innominabile” e “l’opera mai scritta”, che l’accompagnano gode di costante e continua diffusione, avremo anche una puntata dedicata alla Forza a 78 giri.
Questa riflessione su Forza del destino, cui seguiranno più o meno altre quaranta, tutte dedicate al catalogo verdiano vuole offrire l’intera opera, o quasi, utilizzando differenti edizioni dal vivo di rilievo ed interesse. In positivo, visto che appartengono al passato, anche recente ed a quanto pare noi col passato secondo alcuni, con la qualità, secondo noi, abbiamo un rapporto privilegiato.
Forza venne scelta da Verdi come argomento per il proprio esordio russo dopo la proposizione di un altro titolo, Ruy Blas. Il debutto a San Pietroburgo, stando alla corrispondenza di Giuseppe e Giuseppina Verdi era tenuto in grande considerazione. Anche per motivi economici. Non dimentichiamoci che nel 1862 all’indomani dell’unità d’Italia non vi erano in Italia più le cinque o sei capitali, egualmente interessate ad avere un teatro d’opera di rinomanza, i rapporti con la Scala erano interrotti per nuovi titoli dal 1844 e, quindi, a Verdi o restava Parigi, dove era d’obbligo il grand-opéra e dove operava Meyerbeer e Gounod era l’astro nascente o cercava altre piazze di prestigio e disponibili a secondarne le richieste non solo economiche.
Anche i grandi sono ed erano soggetti alle leggi del mercato.
La scelta del titolo da musicare cadde su un dramma ( drammone?) di Angel de Saavedra de Rivas del 1835 intitolato Don Alvaro o la Fuerza del Sino. L’originale venne adattato, in particolare riducendo ad uno solo i fratelli della disonorata Leonora (originariamente don Alfonso e don Carlos), secondo la disponibilità di prime parti. La riduzione dei fratelli vindici importò la ulteriore complicazione della vicenda e degli inseguimenti, perché nel testo originale un Calatrava opera in Spagna e l’altro in Italia.
La prima versione, però, restava più aderente al testo originale prevedendo anche la morte di don Alvaro, che scagliati i rituali anatemi contro la sorte, si getta da una rupe adiacente lo speco di Leonora. Insomma il classico “tutti morti”.
La fonte letteraria di trent’anni anteriore la riduzione in musica è sempre stata ritenuta il trapasso nella letteratura spagnola dal teatro classico a quello romantico. Tardivo trapasso se consideriamo che il conte di Carmagnola è del 1820 e l’Adelchi del 1822, tanto per rimanere alla, non certo pionieristica, Italia. Ma il “polpettone” spagnolo è ricco e denso, oltre che di spunti drammatici, di scene di colore, tipiche della cultura spagnola (si pensi in pittura al Goya), ispirate ai drammi di Schiller e Victor Hugo e assai utili per le trasposizioni in musica.
Però non è tutto: come nel grand-opéra la protagonista occulta è sempre la Storia, che dà origine al grande affresco ove inserire i drammi personali d’amore: in questo titolo vero protagonista è il fato. Avverso, naturalmente che inizia a colpire dal colpo partito accidentalmente dalla pistola di don Alvaro, che vorrebbe consegnarsi al marchese di Calatrava, sino agli incontri nei luoghi più lontani, spesso sotto mentite o travestite spoglie, sino al ritrovarsi dei protagonisti del dramma per consumarne il cruento epilogo. Facile con questo protagonista l’aver, nel corso del tempo, appioppato certi nomignoli all’opera, che sopra richiamavamo.
Nessuna presunzione in queste riflessioni da insegnare alcunché. Ricchissima infatti la bibliografia su Verdi e sul titolo. Quindi al massimo qualche spunto di riflessione.
Parto da una frase del Budden, che nel secondo volume della propria monografia, dedicata a Verdi assume che l’opera italiana fosse alla metà dell’Ottocento “smarrita”.
A conforto dell’assunto indica le produzioni coeve al Verdi maturo ovvero Cagnoni, Petrella e Ponchielli e l’opinione appare ancor più fondata quando si ascolti qualche pagina, anche quelle di puro mestiere di Pacini o Mercadante o anche Donizetti per capire dove fosse andata a finire l’opera italiana.
Era in realtà la crisi dell’opera a numeri chiusi, aggravata da scarsezza di idee e tecnica compositiva, che spesso aveva salvato insieme all’arte italiana del canto i melodrammi.
Di questa crisi risente anche Verdi, se non sotto il profilo dell’idea musicale, sotto quello del rapporto con la forma perché Forza del destino cerca di superare l’opera a numeri chiusi, ma, poi, nel numero chiuso, spesso di grande qualità ed inventiva finisce. Sia chiaro non è un limite, non che il dramma musicale valga più del melodramma, è solo una constatazione, alla luce della produzione successiva.
I personaggi di Forza del destino fanno ancora ampio ricorso a forme chiuse, in particolare a strette di sapore cabalettistico. Tutte di grande efficacia e presa teatrale.
Non per nulla la tradizione critica rievoca il precedente delle donizettiane “Arpe Angeliche” per la chiusa del duetto Leonora-Alvaro all’atto primo, ma questo modello più sotto il profilo drammaturgico che musicale pervade anche la stretta del lungo duetto Leonora-Padre Guardiano all’atto secondo. A strutture cabalettistiche o quanto meno a strette Verdi ricorre per il turbinoso finale dell’aria di don Carlos all’atto terzo o per il terzo duetto fra i duellanti Alvaro e don Carlos al convento.
Il dubbio è ed offre uno spunto di riflessione se Verdi abbia operato la scelta assolutamente in scia della tradizione o se la scelta fosse precisa, magari pure una sorta di operazione di omaggio al passato. Aggiungo alla considerazione la scena di Mastro Trabuco che è un “impresto” molto evidente dalla Gazza Ladra di Rossini, o la predica, sempre al terzo atto di Fra’ Melitone.
Quanto alle strette di sapore donizettiano ho il dubbio che rispondesse ad un desiderio del protagonista della prima Enrico Tamberlick, paradigma del tenore di forza, Poliuto e Manrico celeberrimo. A maggior ragione depone per questa interpretazione il fatto che nella versione di San Pietroburgo si chiudesse con una aria con cabaletta di Don Alvaro, modellata sulla “pira” del Trovatore, con tanto di do acuto scritto in chiusa. Il tutto smentisce o ridimensiona la tradizione di un Verdi contrario agli arbitri dei cantanti e che la scelta fosse pro Tamberlick è confermata dal fatto che nelle immediate riprese del lavoro, anteriori il rifacimento milanese, la cabaletta venne abbassata di un tono per soccorrere i tenori non dotati dello squillo di Tamberlick.
Quanto alla scena di mastro Trabuco e la predica di Melitone con scioglilingua e giochi di parole ed assonanze può essere letta come un omaggio alla tradizione, come il ricorrere ad un tradizionale ed indiscusso modello per le scene di carattere o comiche. In riferimento a Melitone, il solito Budden evoca un’ascendenza od un rapporto con i lavori del Fratelli Ricci, ultimo baluardo della tradizione napoletana. Però come non sentire soprattutto nella predica l’anticipazione degli incrociati cicaleggi di comari e mister dell’ultimo titolo verdiano?
In realtà e siamo ad un altro elemento su cui riflettere tutti questi problemi riguardano il terzo atto, che subì il maggior rifacimento nel raffronto fra le due edizioni, con l’esigenza di inserire numeri di colore e comici per compensare l’eliminazione della aria di Don Alvaro alla chiusa e dare alternanza, ovvero simulare il decorso del tempo, fra i ripetuti incontri e scontri dei due antagonisti, campioni della legge dell’onore, del rango e della cavalleria.
È la prima volta nella propria produzione che Verdi gestisce il colore del personaggio di Preziosilla, zingara, indovina e anche altro, -cui sono affidati due numeri solistici tutt’altro che facili sotto il duplice profilo vocale ed interpretativo- , le reclute con i loro patetici addii, i questuanti, il colore del campo militare il comico, in senso stretto, di Trabuco e Melitone. Il problema ossia la gestione di tutto questo, ben più variegato anche di certe situazioni del grand-opéra, diviene un problema di direzione d’orchestra e di concertazione. Alla ricerca dell’interprete di Preziosilla per la ripresa milanese Verdi scrisse che l’interprete scritturata doveva essere esperta e rodata, di contro a Leonora, che poteva essere anche una debuttante. In realtà ritengo che il problema non investa solo Preziosilla, ma in primo luogo il direttore d’orchestra che nel terzo atto deve essere in grado di guidare orchestra e masse in tutti i trapassi di situazione. Non per nulla le scene militaresche e di colore del terzo atto emergono nella direzione di Bruno Walter, che legato alle tradizioni viennesi e del Singspiel si trova perfettamente a suo agio nell’esprimere il pittoresco con misura e vivacità al tempo stesso. Nella medesima situazione, ad esempio, il rigore di Riccardo Muti mostra i propri limiti, mentre reggono meglio e colgono la situazione e la carica teatrale un Levine o di un Schippers.
Ma genere comico ed dovizia di colore locale non sono le sole novità di Forza del destino, dove Verdi per la prima volta affronta, sotto diverse angolazioni il rapporto con la religione e la Chiesa.
Intendiamoci bene non è la prima volta che nei lavori verdiani abbiano spazio scene e situazioni religiose (si pensi ai Lombardi o alla apparizione addirittura del romano Pontefice nell’Attila), molti personaggio verdiani pregano ed implorano, ma nella Forza per la prima volta i personaggi si confrontano direttamente con Dio e la Fede, ovvero incontrano e vivono l’istituzione ecclesiastica, che media incontro con Dio e la Fede. Ben due conversioni o almeno avvicinamento a Dio vediamo sulla scena: quella spettacolare, di chiaro colore spagnolo di Leonora con confessione di orribili peccati e scelta, radicale, di espiazione eremitica. Più sofferta e, vorrei dire, più moderna quella di don Alvaro, già in nuce nell’incontro del terzo atto con il mancato cognato, e sempre in lotta fra il mondo esterno ed il mondo claustrale. A confermare la differenza di avvicinamento a Dio i toni trionfalistici della stretta del duetto con il Guardiano e la seguente ispirata scena della vestizione; per don Alvaro i toni dimessi e supplici di chi vive in contrasto e sa con la mente più che con il cuore quali siano i valori, che devono ispirarlo. Donde, musicalmente il tono umile e contrito di “Le minacce i fieri accenti”, la resistenza alle accuse di don Carlos contrapposte allo slancio della stretta quando il tenore ritorna ad essere un uomo d’arme. La conversione di don Alvaro è progressiva anche nell’opera perché il don Alvaro del 1862 chiude l’opera, rinnegando Dio ed abito monastico, nel 1869, invece, accetta a fatica l’invito del Superiore alla accettazione della volontà di Dio.
Il Padre Guardiano, altro elemento su cui pensare perché il superiore del convento è il rappresentante dell’istituzione religiosa, che si presenta ai penitenti e sofferenti.
Quale fosse l’atteggiamento verso l’istituzione religiosa ed il potere temporale ecclesiastico Verdi, con il supporto di Schiller, lo dichiara apertamente nell’Inquisitore del don Carlos.
Inquisitore e Guardiano a distanza di pochi anni rappresentano due Chiese la prima del rigore e della imposta penitenza, l’altra quella della misericordia e del perdono e se della penitenza, come mezzo e non come fine.
A chi politicamente “chiede il signor di Posa”, Verdi contrappone il religioso che accoglie, confessa, conforta.
Il tutto quale conseguenza, secondo una tradizione della biografia verdiana, di un momento essenziale della vita dell’uomo Verdi ossia l’incontro con Alessandro Manzoni, avvenuto a Milano nel 1868, grazie agli uffici della Contessa Maffei. Sono note le parole entusiastiche di Verdi verso il Manzoni e la venerazione, che lo stesso gli ispirava, tanto è che da sempre la critica con riferimento alla Chiesa, rappresentata nella Forza del destino, fa chiaro riferimento alla chiesa del romanzo manzononiano. Scontato, quindi, il parallelo fra il Padre Guardiano e Padre Cristoforo, ma si possono nel Superiore verdiano vedere taluni tratti del letterario Federigo Borromeo (quello della storia era altro, ossia un nobile che lottava con nobili), come don Alvaro richiama sia pure nella rapidità del melodramma la conversione dell’Innominato, che sia detto è il paradigma della conversione.
La rappresentazione dello spirito religioso, dell’ansia di espiazione, conversione non è il solo tratto di Forza, che più di ogni altra opera verdiana ha messo in scena la più vasta e percettibile gamma dei sentimenti dell’uomo e il maggior numero delle situazioni, che nel corso della vita ogni essere umano affronta. Certo con una buona dose di retorica ed enfasi, prima che melodrammatica, ottocentesca. Nell’odio, nell’amore, nel disperato desiderio di ritrovare amore o di ottenere soddisfazione piuttosto che nella teoria di figure e figurette che si incontrano nella vita sta la forza della Forza.
E sta, credo, il motivo per cui l’opera pur con riconosciute cadute, incongruenze drammaturgiche non certo musicali sino al passato recente ha incontrato l’ininterrotto amore e favore del pubblico. Sino al passato remoto perché anche Forza deve oggi fare i conti con la carenza di cantanti e direttori. Non è un caso che, nonostante la scelta di attingere a registrazioni live, e la presenza attuale del titolo sulle scena ci siamo fermati a registrazioni di almeno trent’anni or sono o qualcuno di più.
L'immagine in apertura è a cura di Marianne Brandt
Giuseppe Verdi
La forza del destino
Ouverture - Dimitri Mitropoulos (1960)
Atto I
Buona notte, mia figlia....Me pellegrina ed orfana (Enrico Campi, Leyla Gencer - Votto - 1957)
M'aiuti signorina...Ah! Per sempre, o mio bell'angiol (Vera Magrini, Ilva Ligabue & Carlo Bergonzi - Gavazzeni - 1965)
Bonus: Ah! Per sempre, o mio bell'angiol (Richard Tucker & Renata Tebaldi - Schippers - 1960)
Vil seduttor, infame figlia! (Giuseppe Modesti, Elisabetta Barbato, Beniamino Gigli - Votto - 1951)
Atto II
Holà, holà, holà!...Al suon del tamburo (Carlo Tagliabue, Maria Caniglia, Giuseppe Nessi, Ebe Stignani - Marinuzzi - 1941)
Padre Eterno Signor (Cornell MacNeil, Martina Arroyo, Paul Franke, Nedda Casei - Levine - 1975)
Viva la buona compagnia!...Son Pereda, son ricco d'onore (Aldo Protti, Piero de Palma, Fedora Barbieri - Mitropoulos - 1953)
Son giunta! Grazie, o Dio!...Madre, pietosa Vergine (Leontyne Price - Molinari-Pradelli - 1963)
Chi siete?...Or siam soli...Infelice, delusa, reietta (Heinz Blankenburg, Raina Kabaivanska, Martti Talvela - Bohumil - 1971)
Il santo nome di Dio Signore (Ezio Pinza - Walter - 1943)
La Vergine degli Angeli (Renata Tebaldi - Mitropoulos - 1953)
Atto III
Attenti al gioco, attenti...La vita è inferno all'infelice...O tu, che in seno agli angeli (Franco Corelli - Molinari-Pradelli - 1958)
Bonus: La vita è inferno all'infelice...O tu, che in seno agli angeli (Beniamino Gigli - Votto - 1951)
Al tradimento...Solenne in quest'ora (Leonard Warren, Richard Tucker, George Cehanovsky - Stiedry - 1956)
Morir! Tremenda cosa!...Urna fatale del mio destino (Carlo Tagliabue, Ernesto Dominici - Marinuzzi - 1941)
Compagni sostiamo (Metropolitan Opera Chorus - Schippers - 1960)
Nè gustare m'è dato (Richard Tucker, Mario Sereni - Schippers - 1960)
Lorchè pifferi e tamburi...Venite all'indovina...A buon mercato chi vuol comprare? (Irra Petina, Alessio de Paolis - Walter - 1943)
Bonus: Venite all'indovina (Ebe Stignani - Marinuzzi - 1943)
Pane, pan per carità (Coro dell'Opera di Vienna, Joy Davidson - Muti - 1974)
Nella guerra è la follia...Toh, toh! Poffare il mondo! (Saturno Meletti, Ebe Stignani - Marinuzzi - 1943)
Rataplan, rataplan (Ebe Stignani - Marinuzzi - 1943)
Atto IV
Fate la carità, fate la carità (Sesto Bruscantini, Cesare Siepi - Muti - 1974)
Auf! Pazienza non v'ha che basti...Del mondo i disinganni (Saturno Meletti, Tancredi Pasero - Marinuzzi - 1943)
Giunge qualcun...Invano Alvaro...Le minacce, i fieri accenti (Agostino Ferrin, Domenico Trimarchi, Piero Cappuccilli, Carlo Bergonzi - Previtali - 1971)
Pace, pace mio Dio! (Anita Cerquetti - Sanzogno - 1957)
Bonus: Pace, pace mio Dio! (Renata Tebaldi - Mitropoulos - 1953)
Io muoio! Confession!...Non imprecare, umiliati (Carlo Tagliabue, Galliano Masini, Maria Caniglia, Tancredi Pasero - Marinuzzi - 1943)
6 commenti:
Innanzitutto grazie di aver messo una mia fotografia! ;-)
Interessante articolo...
Sicché nell'edizione del 1862 l'opera si chiudeva con una cabaletta del tenore poi eliminata nel rifacimento successivo. Ma esistono registrazioni della prima edizione? Confesso di essere curioso di sentire quella chiusa...
E un'altra domanda: perché, anche in edizioni non sospette, si preferiva tagliare il secondo duetto tra Don Alvaro e Don Carlos?
Infine devo dire che mi sorprende che Verdi abbia pensato che per il ruolo di Leonora potesse andare bene una debuttante.
Caro Tamberlick, la prima redazione della Forza del Destino, sarà oggetto di una prossima disanima. Rispondo però brevemente alle tue domande:
1) la cabaletta di Alvaro chiudeva non l'opera, ma l'atto III, secondo questo schema
- Romanza di Alvaro: "O tu che in seno agli angeli",
- Battaglia,
- Scena di Carlo: "Urna fatale",
- Rataplan
- Duetto Carlo/Alvaro,
- Aria e cabaletta di Alvaro.
Verdi, poi, inverte le due scene e mette il duetto dopo l'"Urna fatale", inframezzati dalla magnifica Ronda (di nuova composizione) e chiude l'atto col Rataplan.
2) Registrazioni: ce ne sono ben 2.
- Matheson (OPERA RARA, 1981)
- Gergiev (PHILIPS, 1996)
Complimenti per questa splendida presentazione di un'opera non è molto apprezzato. Proprio oggi per commemorare i 110 anni della morte del maestro.
Sia la versione originale come la seconda versione meritano di essere rappresentate più spesso.
La Registrazione Gergiev Phillips 1996 è magnifica.
Ho visto dal vivo molte volte rappresentata in molti teatri europei la seconda versione, e mai la prima versione;Oserei dire che non è mai stata mostrata in nessun teatro in Europa o nel resto del mondo, tranne, naturalmente, a San Pietroburgo, dove si può vederer anno per fortuna.
Se non sbaglio, penso che la compagnia teatrale Mariinski con Valery Gergiev è venuta con la prima versione alla Scala nel 2001, un paio di anni dopo le funzioni della seconda versione della Forza di Riccardo Muti nel 1999.Speriamo che i direttori artistici dei teatri europei siano incoraggiati a programmare la prima versione.
Non ho parole per ringraziare le registrazione che avete offerto, sono senza dubbio veri gioielli.GRAZIE
Grazie Duprez!
grazie per i complimenti agli ascolti
posso però assicurare he la forza a 78 giri sarà ben meglio!!!
Non vedo l'ora di ascoltarla.
Colgo l'occasione per due note ancora sugli ascolti.
Prima di tutto Mario Sereni: una delle voci che mi fecero scoprire l'opera, mene fecero innamorare da ragazzino (Gerard nello Chenier con Corelli e la Stella della EMI). Mi piacerebbe tra l'altro sapere che fine ha fatto questo ottimo baritono, spesso lasciato immeritatamente in secondo piano.
In seconda battuta... Gigli: che piglio drammatico nel cantare l'aria di Alvaro: davvero notevole!
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