Serata tumultuosa alla Scala ieri sera, molti applausi e molti bu e fischi. Trionfo indiscusso per Daniel Harding e Luciana D’Intino, contestazioni poco giustificate per il regista Martone.
Daniel Harding, enfant prodige di scuola abbadiana, direttore sinfonico più che da opera, ha dato una lettura decisamente personale dei due capolavori, suscitando opinioni discordi. La sua interpretazione può piacere o meno, ma è restituita con autorevolezza, sicurezza e capacità tecnica. Personalmente ho trovato più convincenti i Pagliacci ed alterna la Cavalleria, con momenti coinvolgenti ed altri in cui ha suscitato perplessità, per le sonorità particolari e poco tradizionali. Il modo di condurre l’orchestra di Harding è pulito, preciso negli attacchi, dinamico ed anche cromaticamente vario, senza certi sbilanciamenti tra una sezione e l’altra dell’orchestra come ci è capitato più volte di sentire negli ultimi periodi. A fronte delle prove penose offerte nel repertorio da Barenboim, Dudamel, Gatti, per non parlare della schiera delle bacchette francofone dell’anno passato, Daniel Harding ha diretto con maggior precisione e continuità, facendo suonare l’orchestra decisamente al di sopra della media degli ultimi tempi, in modo sicuro anche se talora discutibile.
La sua peculiarità è parsa la ricerca, nei Pagliacci in particolare, di un’alternanza di momenti sinfonici tradizionali e di rimandi al di fuori della tradizione italiana, come pure di sprazzi di un novecento ancora di là da venire. In Cavalleria soprattutto è mancato quel sapore mediterraneo, quella passionalità tutta nostra che connota indubbiamente il capolavoro mascagnano, il più melodico tra i due titoli, perchè il distacco, o comunque la razionalizzazione dei momenti passionali o sensuali ( alludo alla sua Salomè, ad esempio ) è un tratto distintivo del modo di interpretare del maestro inglese. La compagnia di canto di Cavalleria, d’altro lato, era certamente superiore a quella di Pagliacci, quindi l’opera di Mascagni alla fine è parsa complessivamente la migliore delle due. Sappiamo anche che questa direzione è stata frutto di compromessi tra la volontà della bacchetta e quelle del cast, dunque è difficile capire quanto sia frutto dell’idea originale del maestro Harding e quanto sia derivato dal necessario compromesso che si genera alle ultime prove. Fatto sta che i tempi lentissimi di cui si favoleggiava nei giorni scorsi presso il teatro non si sono sentiti e la compagnia di canto, di basso livello, è parsa in difficoltà per ragioni proprie indipendenti dal maestro. Per farla breve, si ha la sensazione di essere sempre di fronte ad un direttore capace e di personalità, il più interessante tra i giovani perché sa sempre dare una cifra personale e ricca di stimoli per lo spettatore, ma che non ha ancora avuto il tempo di maturare il confronto tra le proprie idee e la storia dell’interpretazione del repertorio lirico. Il rapporto dialettico con il palco, cioè i cantanti, non credo si debba compiere all’ultimo minuto per forza di cose, ma debba nascere spontaneamente dalla comprensione del canto, delle possibilità di ciascun cantante e dalla conoscenza della tradizione, magari anche per arrivare a proporre letture nuove o fortemente personali. L’incoerenza tra i modi vecchi, in alcuni casi terribilmente provinciali ( ma di provincia brutta! ) di alcuni degli interpreti di ieri sera, cozzava violentemente con la lettura del direttore. Una grande produzione ( ieri non c’erano le basi minime per farlo, sia chiaro ) non può nascere per mera sommatoria di individualità bensì su una lettura unitaria di un’opera cui regista, direttore e cantanti devono per forza di cose tendere insieme. La compagnia di canto di ieri sera non è parsa mai governata o ispirata in alcuna intenzione musicale percepibile, fatto salvo l’autonoma prestazione della signora D’Intino, da un lato per il livello troppo basso, dall’altro perché i direttori d’orchestra da lungo tempo non sanno essere fonte di idee e guida dei cast.
Nei Pagliacci, primo dei due titoli ad essere proposto, si è udita una delle compagnie di canto peggiori mai esibitesi alla Scala. Fatti salvo il dolce Arlecchino di Celso Albelo, voce piccola ma garbata, ed il composto Silvio di Mario Cassi, dal sapore più tenorile che baritonale, abbiamo assistito alla prova senza infamia e senza lode di Ambrogio Maestri, in difficoltà non appena la tessitura sale e per nulla vario nel fraseggio, ed al naufragio della coppia protagonista.
I Pagliacci senza Canio, come ha detto un vecchio amico di loggione, non esistono. Josè Cura non canta certo da oggi in questo modo becero e volgare, stentoreo e fuori da ogni regola minimale del canto lirico, e per questo a Milano ha sempre avuto difficoltà a piacere. Per i vociomani come noi la sua carriera è inspiegabile sul piano del canto. Adesso la voce è anche consunta, improponibile la zona acuta come pure il procedere senza legato e con sforzo violento nel canto in zona centrale, a suon di note tubate, ingolate per non dire altro. Ha anticipato più volte il maestro, soprattutto nell’ultima scena, perché non gli bastava l’altissima velocità pur offertagli da Harding a non rimanere a corto di fiato. Il pubblico ha mostrato insofferenza continua per i versacci che giungevano dal palco durante la sua prova ed alle uscite singole è arrivata, puntuale, la pioggia dei fischi.
Oksana Dyka, nuova star del registro lirico spinto, già titolare del ruolo Aida nella recente tourneè scaligera a Buenos Aires, è stata altrettanto improponibile, perché non è stata all’altezza del semplice ruolo di Nedda, sia per gli impegni futuri che la vedono protagonista già annunciata anche a Milano come in altri teatri importantissimi. La signora non possiede né la voce importante decantata da certi portavoci d’agenzia, perché a ben ascoltarla è un soprano lirico piuttosto leggero che gonfia e forza i suoni, idonea a repertorio diverso da quello in cui si è avventurata, né la tecnica di base per affrontare anche un ruolo di modesto impegno quale Nedda. Il mezzo naturale suona costantemente impoverito ed involgarito perchè sempre “scoperto” al centro, dove suona chioccia ed acida; in difficoltà sin dai primi acuti, fissa e calante man mano che la tessitura sale; di petto e sgangherata, sgradevolissima nei gravi ( terribile la sua prova in tutta la scena finale..). Ne è uscita una Nedda sciatta ed ordinaria nell’emissione come nel fraseggio, priva dei requisiti necessari per esibirsi da titolare in un teatro come la Scala. Anche per lei all’uscita singola una pioggia di fischi.
Dopo un’ora e mezza nei più profondi gironi dell’inferno, ove il canto professionale è sconosciuto, Luciana D’Intino ha fatto la sua comparsa in scena, vestita di nero, dolente e sconfitta. E così la Scala si è finalmente trovata davanti ad una cantante seria, professionista capace ed esperta, sebbene a fine carriera per raggiunti limiti d’età vocale. Ha rasserenato il clima e ristabilito il senso delle cose. Si può cantare e portare a casa la serata anche con la testa e l’esperienza pur essendo male in arnese, e per questo la signora D’Intino si è imposta su tutti, ricavandone uno dei suoi maggiori successi scaligeri. Si è attaccata al fraseggio, alle intenzioni interpretative, offrendoci la sua Santuzza acciaccatissima vocalmente in ogni registro e con un lacerto del bel timbro di un tempo, ma sempre esatta e pertinente, persino struggente in alcuni momenti. Ci ha ricordato cosa sia un cantante degno di questo nome e che il recitar cantando sta nel dar senso alle frasi e nel toccare il cuore dello spettatore laddove la voce lo consente. Ha manovrato il suo mezzo con caparbietà, macchinando e lottando vistosamente tutta la sera per fare ciò che un cantante di razza deve fare, mettendo le distanze tra sè ed il resto del cast. Nel duetto con il signor Licitra, di certo quello dotato del mezzo di maggior freschezza timbrica e con un centro ancora di grande qualità, ha mostrato la differenza tra chi sa cosa sia il canto e chi non lo sa. Niente di più contrastante tra un tenorismo fatto di canto a squarciagola, stentoreo ed incolore, di contrazioni di gola che puntuali sono comparse nel canto del protagonista non appena la tessitura ha iniziato a salire, ossia al brindisi, ed il canto fatto di intenzioni liriche e, perché no?, di trucchi del mestiere per nascondere minimizzare gli acciacchi del tempo. Perciò il signor Licitra ha ricevuto, pure lui, una bella pioggia di bu e fischi e la signora D’Intino un trionfo di stima e di affetto, a riprova di come la pensa il pubblico della Scala. Bello da vedere il Compar Alfio di Claudio Sgura, un perfetto siciliano da olegrafia, anche se di emissione dura e greve. Esagerata negli effetti caricaturali la Mamma Lucia di Elena Zilio, applauditissima per affetto. Sobria nel gusto e bella da vedere, ma vocalmente povera la Lola di Giusi Piunti.
I due allestimenti di Martone hanno riscosso successo e dissensi da parte del pubblico, ma anche svariati buu, a mio modo di vedere ingiustificati. Il regista ha centrato entrambi i titoli, quello di Leoncavallo, modernamente ambientato nello squallore di una periferia metropolitana, un non-luogo sotto una tangenziale, tra prostitute e zingari, sorta di moderno remake de La Strada felliniana; quello di Mascagni, nella Sicilia di tradizione, evocata quando non semplicemente allusa, fatta di climi, costumi ed un apparato scenico semplice e minimale, seggiole, un crocefisso, un tronco d’albero, frammenti di un muro. A voler essere pignoli, il terzo simbolo, oltre alla chiesa ed all’osteria, su cui ha incardinato l’allestimento di Cavalleria, ossia il bordello, è sembrato forzato e fuori luogo, inutile passaggio di uno spaccato architettonico durante il preludio e che lo spettatore subito cancella dalla memoria, immergendosi nel clima del villaggio mediterraneo. Una forzatura dato che Cavalleria tratta di gelosie e tradimenti, di accese passioni e reazioni violente, ma non di sesso a pagamento, che, tra l’altro, nel paese Rusticano si acquistava in città, lontano dagli sguardi compaesani, e con il tacito assenso delle consorti. Talora pare che i registi odierni temano di sembrare senza idee, o di mancare di personalità se si trovano a percorrere letture semplicemente aderenti al testo. Eppure Martone non ha bisogno di forzare la mano ai soggetti, perché sa trovare gesti adeguati ed efficaci, restituendo ambienti e personaggi con chiarezza e senza banalità. A mio avviso una bella produzione, tra tradizione e modernità, senza alcuna pretesa di segnar e la storia dell’allestimento di questi due titoli, ma serenamente lontana dall’estetica dei “cappottoni” tedeschi o francesi, o dagli artifici di certi registi à la page che hanno invaso la Scala della gestione Lissner.
Daniel Harding, enfant prodige di scuola abbadiana, direttore sinfonico più che da opera, ha dato una lettura decisamente personale dei due capolavori, suscitando opinioni discordi. La sua interpretazione può piacere o meno, ma è restituita con autorevolezza, sicurezza e capacità tecnica. Personalmente ho trovato più convincenti i Pagliacci ed alterna la Cavalleria, con momenti coinvolgenti ed altri in cui ha suscitato perplessità, per le sonorità particolari e poco tradizionali. Il modo di condurre l’orchestra di Harding è pulito, preciso negli attacchi, dinamico ed anche cromaticamente vario, senza certi sbilanciamenti tra una sezione e l’altra dell’orchestra come ci è capitato più volte di sentire negli ultimi periodi. A fronte delle prove penose offerte nel repertorio da Barenboim, Dudamel, Gatti, per non parlare della schiera delle bacchette francofone dell’anno passato, Daniel Harding ha diretto con maggior precisione e continuità, facendo suonare l’orchestra decisamente al di sopra della media degli ultimi tempi, in modo sicuro anche se talora discutibile.
La sua peculiarità è parsa la ricerca, nei Pagliacci in particolare, di un’alternanza di momenti sinfonici tradizionali e di rimandi al di fuori della tradizione italiana, come pure di sprazzi di un novecento ancora di là da venire. In Cavalleria soprattutto è mancato quel sapore mediterraneo, quella passionalità tutta nostra che connota indubbiamente il capolavoro mascagnano, il più melodico tra i due titoli, perchè il distacco, o comunque la razionalizzazione dei momenti passionali o sensuali ( alludo alla sua Salomè, ad esempio ) è un tratto distintivo del modo di interpretare del maestro inglese. La compagnia di canto di Cavalleria, d’altro lato, era certamente superiore a quella di Pagliacci, quindi l’opera di Mascagni alla fine è parsa complessivamente la migliore delle due. Sappiamo anche che questa direzione è stata frutto di compromessi tra la volontà della bacchetta e quelle del cast, dunque è difficile capire quanto sia frutto dell’idea originale del maestro Harding e quanto sia derivato dal necessario compromesso che si genera alle ultime prove. Fatto sta che i tempi lentissimi di cui si favoleggiava nei giorni scorsi presso il teatro non si sono sentiti e la compagnia di canto, di basso livello, è parsa in difficoltà per ragioni proprie indipendenti dal maestro. Per farla breve, si ha la sensazione di essere sempre di fronte ad un direttore capace e di personalità, il più interessante tra i giovani perché sa sempre dare una cifra personale e ricca di stimoli per lo spettatore, ma che non ha ancora avuto il tempo di maturare il confronto tra le proprie idee e la storia dell’interpretazione del repertorio lirico. Il rapporto dialettico con il palco, cioè i cantanti, non credo si debba compiere all’ultimo minuto per forza di cose, ma debba nascere spontaneamente dalla comprensione del canto, delle possibilità di ciascun cantante e dalla conoscenza della tradizione, magari anche per arrivare a proporre letture nuove o fortemente personali. L’incoerenza tra i modi vecchi, in alcuni casi terribilmente provinciali ( ma di provincia brutta! ) di alcuni degli interpreti di ieri sera, cozzava violentemente con la lettura del direttore. Una grande produzione ( ieri non c’erano le basi minime per farlo, sia chiaro ) non può nascere per mera sommatoria di individualità bensì su una lettura unitaria di un’opera cui regista, direttore e cantanti devono per forza di cose tendere insieme. La compagnia di canto di ieri sera non è parsa mai governata o ispirata in alcuna intenzione musicale percepibile, fatto salvo l’autonoma prestazione della signora D’Intino, da un lato per il livello troppo basso, dall’altro perché i direttori d’orchestra da lungo tempo non sanno essere fonte di idee e guida dei cast.
Nei Pagliacci, primo dei due titoli ad essere proposto, si è udita una delle compagnie di canto peggiori mai esibitesi alla Scala. Fatti salvo il dolce Arlecchino di Celso Albelo, voce piccola ma garbata, ed il composto Silvio di Mario Cassi, dal sapore più tenorile che baritonale, abbiamo assistito alla prova senza infamia e senza lode di Ambrogio Maestri, in difficoltà non appena la tessitura sale e per nulla vario nel fraseggio, ed al naufragio della coppia protagonista.
I Pagliacci senza Canio, come ha detto un vecchio amico di loggione, non esistono. Josè Cura non canta certo da oggi in questo modo becero e volgare, stentoreo e fuori da ogni regola minimale del canto lirico, e per questo a Milano ha sempre avuto difficoltà a piacere. Per i vociomani come noi la sua carriera è inspiegabile sul piano del canto. Adesso la voce è anche consunta, improponibile la zona acuta come pure il procedere senza legato e con sforzo violento nel canto in zona centrale, a suon di note tubate, ingolate per non dire altro. Ha anticipato più volte il maestro, soprattutto nell’ultima scena, perché non gli bastava l’altissima velocità pur offertagli da Harding a non rimanere a corto di fiato. Il pubblico ha mostrato insofferenza continua per i versacci che giungevano dal palco durante la sua prova ed alle uscite singole è arrivata, puntuale, la pioggia dei fischi.
Oksana Dyka, nuova star del registro lirico spinto, già titolare del ruolo Aida nella recente tourneè scaligera a Buenos Aires, è stata altrettanto improponibile, perché non è stata all’altezza del semplice ruolo di Nedda, sia per gli impegni futuri che la vedono protagonista già annunciata anche a Milano come in altri teatri importantissimi. La signora non possiede né la voce importante decantata da certi portavoci d’agenzia, perché a ben ascoltarla è un soprano lirico piuttosto leggero che gonfia e forza i suoni, idonea a repertorio diverso da quello in cui si è avventurata, né la tecnica di base per affrontare anche un ruolo di modesto impegno quale Nedda. Il mezzo naturale suona costantemente impoverito ed involgarito perchè sempre “scoperto” al centro, dove suona chioccia ed acida; in difficoltà sin dai primi acuti, fissa e calante man mano che la tessitura sale; di petto e sgangherata, sgradevolissima nei gravi ( terribile la sua prova in tutta la scena finale..). Ne è uscita una Nedda sciatta ed ordinaria nell’emissione come nel fraseggio, priva dei requisiti necessari per esibirsi da titolare in un teatro come la Scala. Anche per lei all’uscita singola una pioggia di fischi.
Dopo un’ora e mezza nei più profondi gironi dell’inferno, ove il canto professionale è sconosciuto, Luciana D’Intino ha fatto la sua comparsa in scena, vestita di nero, dolente e sconfitta. E così la Scala si è finalmente trovata davanti ad una cantante seria, professionista capace ed esperta, sebbene a fine carriera per raggiunti limiti d’età vocale. Ha rasserenato il clima e ristabilito il senso delle cose. Si può cantare e portare a casa la serata anche con la testa e l’esperienza pur essendo male in arnese, e per questo la signora D’Intino si è imposta su tutti, ricavandone uno dei suoi maggiori successi scaligeri. Si è attaccata al fraseggio, alle intenzioni interpretative, offrendoci la sua Santuzza acciaccatissima vocalmente in ogni registro e con un lacerto del bel timbro di un tempo, ma sempre esatta e pertinente, persino struggente in alcuni momenti. Ci ha ricordato cosa sia un cantante degno di questo nome e che il recitar cantando sta nel dar senso alle frasi e nel toccare il cuore dello spettatore laddove la voce lo consente. Ha manovrato il suo mezzo con caparbietà, macchinando e lottando vistosamente tutta la sera per fare ciò che un cantante di razza deve fare, mettendo le distanze tra sè ed il resto del cast. Nel duetto con il signor Licitra, di certo quello dotato del mezzo di maggior freschezza timbrica e con un centro ancora di grande qualità, ha mostrato la differenza tra chi sa cosa sia il canto e chi non lo sa. Niente di più contrastante tra un tenorismo fatto di canto a squarciagola, stentoreo ed incolore, di contrazioni di gola che puntuali sono comparse nel canto del protagonista non appena la tessitura ha iniziato a salire, ossia al brindisi, ed il canto fatto di intenzioni liriche e, perché no?, di trucchi del mestiere per nascondere minimizzare gli acciacchi del tempo. Perciò il signor Licitra ha ricevuto, pure lui, una bella pioggia di bu e fischi e la signora D’Intino un trionfo di stima e di affetto, a riprova di come la pensa il pubblico della Scala. Bello da vedere il Compar Alfio di Claudio Sgura, un perfetto siciliano da olegrafia, anche se di emissione dura e greve. Esagerata negli effetti caricaturali la Mamma Lucia di Elena Zilio, applauditissima per affetto. Sobria nel gusto e bella da vedere, ma vocalmente povera la Lola di Giusi Piunti.
I due allestimenti di Martone hanno riscosso successo e dissensi da parte del pubblico, ma anche svariati buu, a mio modo di vedere ingiustificati. Il regista ha centrato entrambi i titoli, quello di Leoncavallo, modernamente ambientato nello squallore di una periferia metropolitana, un non-luogo sotto una tangenziale, tra prostitute e zingari, sorta di moderno remake de La Strada felliniana; quello di Mascagni, nella Sicilia di tradizione, evocata quando non semplicemente allusa, fatta di climi, costumi ed un apparato scenico semplice e minimale, seggiole, un crocefisso, un tronco d’albero, frammenti di un muro. A voler essere pignoli, il terzo simbolo, oltre alla chiesa ed all’osteria, su cui ha incardinato l’allestimento di Cavalleria, ossia il bordello, è sembrato forzato e fuori luogo, inutile passaggio di uno spaccato architettonico durante il preludio e che lo spettatore subito cancella dalla memoria, immergendosi nel clima del villaggio mediterraneo. Una forzatura dato che Cavalleria tratta di gelosie e tradimenti, di accese passioni e reazioni violente, ma non di sesso a pagamento, che, tra l’altro, nel paese Rusticano si acquistava in città, lontano dagli sguardi compaesani, e con il tacito assenso delle consorti. Talora pare che i registi odierni temano di sembrare senza idee, o di mancare di personalità se si trovano a percorrere letture semplicemente aderenti al testo. Eppure Martone non ha bisogno di forzare la mano ai soggetti, perché sa trovare gesti adeguati ed efficaci, restituendo ambienti e personaggi con chiarezza e senza banalità. A mio avviso una bella produzione, tra tradizione e modernità, senza alcuna pretesa di segnar e la storia dell’allestimento di questi due titoli, ma serenamente lontana dall’estetica dei “cappottoni” tedeschi o francesi, o dagli artifici di certi registi à la page che hanno invaso la Scala della gestione Lissner.
23 commenti:
veramente dei Pagliacci indegni della Scala ieri sera. Una sofferenza senza fine, con le uniche eccezioni segnalate in questo post. Quanto a Cavalleria, m'è bastata l'entrata di Sgura per non poterne più e spegnere la radio.... che ci volete fare?
Da sottoscrivere una ad una le parole della Divina Grisi: sia quelle d'elogio che quelle di critica. Davvero una serata tumultuosa. Devo dire che era da tempo che alla Scala non si sentiva un direttore d'orchestra degno della storia del teatro. Harding mi ha più che convinto, e mi è parsa ottima l'idea di affidargli il dittico verista (invece di qualche scipito, e "a prova di richi", lavoro di Janacek o Britten), troppo spesso ridotto ad occasione di sbracature ed effettacci (mentre almeno da quando li ha affrontati il sommo Karajan, questi titoli mostrano una vera dignità musicale, che è giusto far risaltare). Purtroppo è stata una delle poche idee felici della produzione. Una piccola postilla a quanto scritto da Giulia: non solo i vociomani dovrebbero scandalizzarsi per la prestazione indecorosa di Cura, bensì tutti coloro dotati di udito... Irritante, arrogante, volgare e rozzo. Sembrava non volesse (e non potesse) seguire il direttore ed il resto del palco: terribile il suo "ridi pagliaccio", pur facilitato da un tempo generosamente spedito, in cui sovente il tenore non riusciva a star dietro l'orchestra. Sembrava improvvisasse... Neanche nella peggior provincia si assiste a cose del genere (neppure negli spettacoli estivi organizzate in piazza o per le strade). I più grandi buuu andrebbero però rivolti a chi l'ha scritturato, ad una sovrintendenza incapace e arrogante! Terribile anche Licitra, con l'aggravante di sentir sprecato un bellissimo timbro, grazie a sconsiderata assenza di tecnica.
Davvero ingiuste le contestazioni al regista che, pur con talune ingenuità - proprio per quell'ansia di mostrare idee, come dice bene Giulia - riesce a creare due spettacoli convincenti e sensati: non il solito concerto in costume (sia esso in salsa tradizionale, sia in salsa di pseudo avanguardia)...l'unico appunto mi sento di attribuirlo ad un certo imbarazzo nella gestione delle masse corali nei Pagliacci (in ciò si rivela però la peculiarità di Martone, che resta un regista cinematografico: più avvezzo all'indagine individuale e alla gestione espressiva del singolo). Ingiustificati e ingiustificabili, però, i fischi a Harding dopo i Pagliacci.
Ultima cosa: collegamento RAI scandaloso...
Ho molto apprezzato la breve ed esatta recensione di RAI 3 Regione oggi all'ora di pranzo!!
Fischi e bu per i tenori, anche se troppo cattivi contro Cura (ci sono bu e fischi buoni?). Riportati i Bu ad Harding ( qualcuno a fine PAgliacci), ma opportuno silenzio di tomba sulla pioggia di fischi alla Dika ( prossima Tosca qui ), e dissensi al regista Marcone MARCONE ( chi è???). Trionfo per il soprano Luciana d'Intino, che non ha mai cantato da soprano in vita sua.
Qualche giornalista più oggettivo e competente lo possiamo avere nelle cronache scaligere o no?
Recensione molto equilibrata nel sottolineare aspetti positivi e negativi. A me Harding non ha convinto completamente, ma devo anche dire che con un simile cast era probabilmente impossibile fare di più. Su Martone non posso dir nulla perchè ho seguito la serata alla radio. Irritanti come sempre i soliti siti che tentano di far passare la serata come un trionfo pieno non turbato dalla presenza di quattro grisini...
Saluti
Ma, Duprez, ancora questa polemica stantia su Britten e Janacek? Oramai l'hanno capito tutti, ma proprio tutti, che si tratta si musicisti grandissimi. Secondo me questo provincialismo non giova a nessuno e sarebbe l'ora di lasciarlo alle ortiche.
Marco Ninci
Donna Grisi qualche parola sul coro,che nella ripresa televisiva non mi è sembrato che abbia cantato bene,nella sua coralita e nell'insieme,ma questo può dipendere anche da un pessimo posizionamento dei microfoni,quindi dal vivo che ascolto ha recepito?Questo anche per l'orchestra(non entro nel merito del direttore)perche in tv i suoni degli strumenti specie la sezione degli archi arrivava un suono abbastanza scarno e poco corposo
concordo sulla signora D’Intino già in chat ieri sera avevo scritto che mi era piaciuta se non altro perche ha cercato di entrare nel personaggio.
Nella cavalleria nell'intermezzo che a me (e non solo a me)e parso scipito senza quel trasporto di emozioni che deve dare (neanche un applauso)l'organo come si sentiva,perche all'ascolto televisivo sinceramente non mi sembra neanche che c'era
Per Pasquale: pure io ho notato l'assenza dell'organo nell'intermezzo. Credo sia dovuto alla pessima ripresa sonora della Rai, che ha privilegiato le voci dei protagonisti (purtroppo...) a scapito del coro e, soprattutto, dell'orchestra. Un prodotto adulterato, insomma, ma che si è rivolto contro gli stessi sofisticatori: tale ripresa ha evidenziato ancor di più gli enormi vizi vocali dei protagonisti! Spiacciono questi modi disinvolti nel riprodurre un suono che, atrimenti, dovrebbe essere riportato con maggior oggettività. A me è piaciuta molto la lezione di Harding, e mi piacerebbe verificarla dal vivo, magari con il secondo cast che ritengo non potrà che essere migliore del primo.
Per Marco: nessuna polemica su Britten e Janacek, nessun provincialismo (non riapriamo polemiche sterili), solo la considerazione del fatto che, finalmente si affida alle cure di un direttore d'estrazione più sinfonica un lavoro di grande repertorio - che spesso ha conosciuto trattamenti bandistici o meramente effettistici - puttosto che i soliti Janacek o Britten (ma potrei aggiungere tanti altri compositori, aldilà di meriti e gradimenti personali) che, causa una scarsa frequentazione da parte del grande pubblico, non comportano né grandi rischi, né grandi scelte di coraggio, né forti scelte interpretative (nel rifarsi o distaccarsi da una lunga tradizione). Tutto qui... Insomma, se ne è parlato ieri in chat: meglio Harding in Cavalleria e Pagliacci piuttosto che in Death in Venice, opera che offre meno stimoli per un confronto e meno coinvolgimento nelle discussioni (oltre a minor richiamo mediatico).
tutt'ora incredulo che qualcuno, anche non la Scala che è uno dei più importanti teatri al mondo, abbia lo stomaco di scrittura Cura.
Questo è il vero problema. Che poi Licitra, fino a quando non deve avvicinarsi al passaggio, suoni bene per doti naturali siamo d'accordo... ma il canto è ben altra cosa!
La D'Intino può spiccare lì dove terribili mende vocali e insipienze tecniche mettono in ombra i gravi guasti oramai conclamati nella sua voce. Purtroppo, essendo melodramma, uno non può bellamente distrarsi con l'orchestra e ignorare il palco....
Brevemente la mia
a) il direttore sinfonico o tale considerato spesso è solo un direttore che non sa capire il canto ed il fraseggio dei cantanti e di fondo non ama l'opera. Abbado ne è il paradigma.
b) poi abbiamo il più grande direttore da opera che è Mitropoulos che diresse dopo i 5o anni il melodramma. irrepetibile per idee e per capacità di coordinamento palco buca.
c)in genere il direttore sinfonico non sa cavare i cantanti dagli impicci. Per altro non li sapeva neppure cavare un direttore, che ha sempre professato amore per il melodramma come Muti. Anzi spesso era lui che cacciava nei guai i cantanti imponendo l'impossibile (per tutti la Guleghina ne "il ballo in maschera")
d) per altro per cavare d'impiccio autentici ferri da stiro e piombi come Cura, la Dika e Licitra non ci vuole un direttore d'orchestra, ma un miracolo e di quelli epocali.
con queste premesse:
a) cavare il colore al verismo che, particolarmente di pagliacci è il motivo della fama è un limite e non da poco.
b) ho avuto in teatro il contraltare ossia un'orchestra precisa, ben controllata e coordinata ( che non vuole affatto dire di bel suono !), un gesto sempre chiaro ed intellegibile della buca e la capacità di gestire almeno i cantanti più diligenti ed esperti come Luciana d'Intino ( che sia ben chiaro è nulla se ascolto l'inneggiamo di Ebe Stignani o il duetto con Alfio di Elisabeth Rethberg) e poco importa se scelta originale o compromesso palcoscenico-bacchetta posso essere ben lieto ed applaudire il direttore e la signora d'Intino
c) posso poi dettagliare che i pezzi di colore dei pagliacci erano compitati e non sentiti, che foia erotica in orchestra durante l'approccio di tonio, che languore e sensualità nel duetto con silvio difettavo; però devo anche applaudire lo slancio del finale privo in orchestra di effettacci ( se Harding avesse avuto Francesco Merli che succedeva ad esempio?), pesenti nel canto (?) di Cura, l'accompagnamento mesto e dolente a tutti gli interventi di Santuzza, la leggerezza del coro che accompagna la smargiassata di Alfio (ironico visto quello che accade in scena) o il brindisi e lo slancio davvero mozzafiato del finale.
Coi tempi che corrono mi va anche bene!
ciò nonostante DEVO coprire di fischi quei cantanti che MOLTI e non i soliti grisi e grisini hanno riprovato. Sono indecenti offendono la professionalità dei colleghi ( di una d'Intimo ad esempio), le prosciugate tasche dei contribuenti e qualificano per quelli che sono chi li ha scritturati
ciao dd.
Voglio prima di tutto ringraziare RAI 5 per la diretta televisiva. Evento importante in momenti di grandi fratelli e porcherie simili.
Molto bene il direttore, ma un Cura lo si protesta e sostituisce. Come pure Licitra. Voci del genere non vanno bene neppure in provincia. La stessa Nedda è completamente priva di buon gusto. E' una vociomane fastidiosa a sentirsi e non artista.
Il resto dei cast, D'Intino a parte che è riuscita a migliorare il risultato complessivo, non certo brillante.
La regia è concepita in modo nuovo, al di fuori della tradizione
ma in Pagliacci dava fastidio vedere i protagonisti girare in platea. Regie che andrebbero riviste per un giudizio piu' cauto. Ma ritorno a quanto detto prima, bisogna riprendere il metodo usato un tempo:il cantante in difetto va protestato per non creare danno all'intero spettacolo.
Cura poi, è invecchiato ed ingrassato al punto da non sopperire come in passato con il fisico prestante la bassa cultura musicale.
su cavalleria e pagliacci alla scala d'accordo sullo spettacolo indegno di una Scala;avrei voluto leggere però un giudizio più severo su Martone;alcune"trovate":il bordello, la messa sul palco mentre i personaggi cantano,inoltre alcune scelte davvero assurde:Santuzza alla fine pare soddisfatta dell'epilogo, ma il personaggio non è questo.Nei Pagliacci Silvio fugge in auto e canio lo insegue a piedi desistendo perchè "ei lo conosce bene quel sentiero"(ridicolo!)
Caro Otello, ridicolo sarebbe stato riproporre il carretto siciliano su cui entrava Alfio e tutti i cliché strabolliti del modo di rappresentare le due opere. A me la regia di MArtone è piaciuta molto. Del resto i fondali dipinti e le pose plastiche hanno fatto il loro tempo...ma per "gustarle" si possono sempre guardare i dvd delle zeffirellate...
caro Duprez,trovo l'argomentazione scontata e un po'trita; perchè chi non apprezza le trovate di Martone dovrebbe preferire il carretto e la frusta di Alfio? Non esiste altro? E' pertinente il bordello? Santuzza che alla fine appare soddisfatta dell'epilogo invece che condividere la tragedia con mamma lucia è nel personaggio?oppure il regista si può inventare ciò che vuole. quanto ai DVD futuri non credo andranno a ruba quelli con le martonate.doncarlo
PS:ho dovuto cambiare nome(non più otello)
Caro Don Carlo/Otello ( :) sempre Verdi rimane..), per carità, ognuno ha i propri gusti. A lei non è piaciuta la regia di Martone, a me e ad altri, invece, sì. Non credo che oggi sia più considerato un "delitto" il mancato rispetto del libretto. Trovo, anzi, che il lavoro si regia sull'opera sia importante, interessante e insostituibile. L'opera è teatro, non lo dimentichiamo, e così come non si rappresenta più Goldoni con le mossette e le smorfie, allo stesso modo il modo di intendere registicamente l'opera è vivaddio cambiato! L'importante è che il lavoro del regista sia ben fatto, poi per me vige la libertà assoluta, basta non andare contro la musica. Il regista si può inventare ciò che vuole? CERTO. Mi sembra puerile criticare una regia perché manca il carretto, perché Santuzza non si dispera chinata a terra con le mani aperte, perché Pagliacci sono trasposti ai giorni nostri. Non mi pare neppure il caso di "rimproverarci" perché non abbiamo criticato la regia: ci è piaciuta, perchè criticarla? E poi, TUTTI i più grandi registi hanno stravolto ambientazione e drammaturgia dei libretti d'opera (Ponnelle, Strehler e Visconti...tra tanti).
caro Duprez,tu dici puerile criticare perchè non c'è il carretto, ma chi l'ha detto?A me pare che oggi sia considerato un "delitto"non adeguarsi e non accettare le trasgressioni; i grandi registi citati non mi pare abbiano stravolto ambientazione e drammaturgia;ce ne fossero oggi;quanto a Martone il solo accostamento con i grandi del passato mi sembra esagerato
Certo che ognuno ha i suoi gusti, mala differenza oggi fra i due "schiaramenti"(se così si può dire)"tradizionalisti" e "modernisti"è che i primi crticano lo spettacolo e i secondi criticano chi ha criticato
grazie doncarlo
Strehler, Ponnelle e Visconti si sono presi - ovviamente in proprorzione alla rispettiva epoca - le stesse identiche libertà che si prendono oggi Martone, Carsen, Guth, McVickar etc... Solo che il "tradizionalista" a tutti i costi ha sempre qualcosa da rimpiangere: 30 anni fa si lamentava del Falstaff padano di Strehler, o del Monteverdi spostato di 7 o 8 secoli da Ponnelle, o dello "scandalo pornografico" della Traviata di Visconti. 30 anni fa - come oggi - le armi restano le stesse: il regista "osa" non rispettare le didascalie del libretto (delitto????), "osa" cambiare l'epoca storica, "osa" ridare vita a una tradizione stracotta e bollita, nella convinzione che anche l'opera sia teatro, e il teatro è vivo. I fondali dipinti e i cantanti immobili al proscenio saranno anche ricordi piacevoli di nonni e bisnonni, ma oggi - GRAZIE A DIO - il teatro si fa in altro modo (con buona pace di tutti) ed è molto più bello... Io non critico chi critica, critico solo il pregiudizio rassicurante di chi vuole vorrebbe vedere per i prossimi 50 anni le stesse identiche cose che si sono viste 50 anni fa.... E pensi che anche 50 anni fa c'era chi si lamentava delle "trasgressioni" che a lei oggi paiono intoccabile tradizione...eh sì, c'è sempre chi rimpiange Caffariello!
scusate ma non riesco più a inviare commenti nonostante sia registrato con google ; devo ogni volta registrarmi di nuovo con le stesse credenziali; come mai? potete aiutarmi? Grazie doncarlo
caro Duprez,non mi pare che Visconti e Strheler facessero ieri quello che oggi fanno Martone & co.
Ho potuto vedere il Falstaff di Strheler(agli Arcimboldi) e Don Carlo di Visconti e non solo li ho molto apprezzati ma non ho sentito critiche; sulla Traviata ho letto "prime alla Scala" di Montale e non non ho letto di scandalo di pubblico o di itica.Il Don Carlo di Visconti è stato riproposto in anni recenti a Roma non a caso.Chissà Martone fra 50 anni.In ogni modo non mi convincerò ad accettare il "diritto" dei registi ad "occupare" il palcoscenico usufruendo della colonna sonora dell'autore.Altro è l'innovazione e l'originalità sacrosanta altro è l'abuso. Sarai d'accordo che non basta innovare per emergere : la regia è buona o cattiva non "moderna " o "tradizionale".Di brutte regie tradizionali ne abbiamo viste tante così come purtroppo oggi si vedono tante brutte regie moderne.L'importante è non difenderle per partito preso. Grazie Doncarlo
05 febbraio 2011 11:04
Sul fatto che esistano solo regie buone o cattive, e non "moderne" o "tradizionali", sono d'accordissimo. L'importante è, però, non critcare per partito preso. Oggi, secondo me, si fanno regie mediamente migliori, certo ci sono tante porcate... Quello che non condivido è la considerazione che la regia sia elemento accessorio: l'opera è teatro, invece, e oggi il teatro è decisamente progredito con l'autonomia artistica della figura del regista. Per me l'importante è non forzare e scombinare i significati musicali. Martone, secondo me, ha fatto un ottimo lavoro registico: incentrato sul gesto, sul dramma, sulla forza visiva. E del resto l'attualizzazione di Pagliacci è perfettamente coerente alla musica originale e ai rapporti drammatici: i pagliacci/zingari di allora, sono i rom di oggi. E anche in Cavalleria - che ho trovato molto suggestiva, nella scelta simbolica: solo pochi elementi a suggerire atmosfere e suggestioni - la messa simboleggia la religiosità presente nella partitura e nella cultura di quel territorio (Santuzza non può entrare in chiesa, c'è la processione), il bordello è una strizzata d'occhio all'orizzonte cinematografico alla Tornatore (niente di male o di sgradevole: la società d'allora era maschilista e l'opera pone l'accento anche su questa realtà), il finale, poi, è un autentico colpo di genio teatrale: Santuzza FINALMENTE non si dispera (come da tradizione), ma scompare nella folla...ed è logico, se ci pensi, infatti è lei la causa di tutto...la causa della morte di Turiddu (non è la pia innocente, ma l'intrigante vendicativa, che fa dispetto all'ex amato...attraverso il sussurro, il pettegolezzo, il disonore...marchio d'infamia di una società chiusa e schiava di tradizioni e bigottismo).
Su Strehler, Visconti e Ponnelle: in raltà hanno fatto le stesse cose che fa oggi Martone o Livermore o Carsen o Pelly... Semplicemente oggi i tradizionalisti le accettano, perché diventati a loro volta "tradizione" (e il pubblico scaligero è il più conservatore e tradizionalista - a volte per vedovanze e partito preso - che ci sia). Ma se guardi bene la trasposizione delle opere di Monteverdi fatta da Ponnelle è assai più radicale del salto di 50 anni che Martone fa fare ai suoi Pagliacci; così pure il Falstaff padano di Strehler non c'entra nulla col libretto (ma quanto è più vero delle tante e tradizionalissime sceneggiate posticce dove un panzone cialtronesco si aggira per fasulle prospettive elisabettiane?), o il suo Don Giovanni palladiano (oggi certi irriducibili direbbero che manca la tinta spagnola: come se nella musica di Mozart ci fosse il flamenco!!!)... Il fatto è che spesso, seguire le indicazioni del libretto, significa esporsi al ridicolo di situazioni stereotipate e oggi poco accettabili...e soprattutto inadeguate alla grande musica che accompagnano. Ovviamente il grande regista sa dove e come intervenire, senza forzare l'aspetto musicale e i valori sottesi al pretesto drammatico. A volte, poi, la rivoluzione non sta tanto nell'aspetto visivo, quanto nel gesto, nella sfumatura, nel saper far recitare il personaggio. Certo occorrono grandi uomini di teatro: purtroppo non se ne vedono molti in giro.
caro Duprez, continuo a non essere d'accordo; per 200 anni nel teatro si sono seguite le indicazioni del libretto: tutti "ridicoli"?Nei Pagliacci basato sulle vicende di girovaghi saltimbanchi paragonati ai Rom di oggi mi chiedo: dove si è mai vista la tradizione di Rom che allestiscono recite paesane ispirate alle maschere tradizionali? Se è lecito modificare il carattere di Santuzza dobbiamo aspettarci anche il diritto di qualche regista a rappesentare Violetta come una brava donna? Grazie doncarlo
Ma 200 anni fa anche il teatro era diverso: oggi, volenti o nolenti, siamo passati nella modernità, c'è stato Ibsen, Strindberg, Brecht..ci sono state le teorizzazioni di Artaud e Stanislavskij, c'è stato Hoffmanshtal etc... Il mondo e la cultura progrediscono, cambiano, si evolvono (e con esse evolve il teatro), potrà piacere o meno, ma è così: oppure si rimpiangono i drammi di Shakespeare con gli uomini a interpretare personaggi femminili? O gli attori in maschera? O i capocomici? E poi il libretto non è certo un testo sacro (nell'opera seria settecentesca, ad esempio, se ne fregavano della verosimiglianza storica), e poi ci hai mai pensato che se si vuole essere integralisti e fedeli alla lettera di quei testi men che mediocri, Traviata dovrebbe essere ambientata nel 1600?
Ps: il carattere di Santuzza non è modificato affatto...si esplicita semplicemente quello che c'è già nella storia, è una legittima interpretazione (oppure bisogna pure seguire alla lettera le didascalie???). Ecco questo mi sembra davvero una reazione per partito preso: Strehler e Ponnelle e Visconti - RIPETO - se ne sono sempre fregati di quelle didascalie, poiché liberamente ricostruivano la drammaturgia.
Sui Rom/Pagliacci trovo il paragone azzeccatissimo...anche perché se utilizzi il metro del realismo quando mai una persona pugnalata a morte canta un rondò o un duetto, o si fa infinocchiare da 4 menzogne mal costruite (come succede in tutti i libretti dell'800)?
Gentilissima Sig.ra Giulia Grisi,
ho letto ultimamente la Sua critica riguardo gli spettacoli di Cavalleria Rusticana e Pagliacci dati al Teatro alla Scala e leggo sovente i Suoi articoli sul Corriere della Grisi. Dire complimenti per gli articoli redatti sarebbe usare un eufemismo e dunque mi limito col dirvi che ammiro con grande piacere il Suo operato e quello dei Suoi colleghi che con grande professionalità e totale indipendenza riuscite a dare (finalmente) una critica reale e culturale dei tanti spettacoli. Dico finalmente, perchè si è stufi di leggere questo e quel critico di parte che , quando soprattutto si tratta di un nome o di un amico di un amico, non sa far altro che parlar bene. Sono felicissimo che diate a Cesare ciò che è di Cesare senza tagliare molto per le corte e con grandissima indipendenza da un sistema oramai obsoleto. Questi sono quello che io chiamo attenti critici che fanno della propria penna arma non feroce ma di cultura. Chi le scrive è purtroppo un can tante ma le voglio dire un'ultima cosa e cioè che sarò ben lieto di finire un giorno sotto le vostre penne perchè bene o male che sarà il Vostro giudizio almeno sarà un giusto metro di misura con il quale confrontarsi, e sapere che non sarete di parte, sarà ben accetta qualunque cosa. Nel farmi perdonare per tanto disturbo, invio a Lei ed al Suo Corriere i migliori auguri.
Marcello Bedoni
Marcello Bedoni
www.marcellobedoni.com
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