Tosca, ruolo simbolo della cantante attrice di epoca liberty, è un personaggio a tinte forti, capace di grande lirismo come di intensa forza tragica, talora eccessivo, come spesso accade nel teatro di Belle-Epoque. Con Tosca il soprano incarna se stesso, o meglio, si trova ad cantare e a recitare alcuni degli stereotipi che compongono l’immagine comune della primadonna, la gelosia, la passionalità, la volitività e l’ingenuità, la sensualità.
Stereotipi, ripeto, piuttosto che aspetti caratteriali veri e propri, perché nello snodarsi della vicenda il personaggio pare attraversare mutevoli stati d’animo, rapide successioni di umori e pensieri, senza una plausibilità e veridicità consona al nostro modo di concepire un personaggio. L’enfasi non abbandona mai Tosca, quasi sempre al di sopra delle righe, a delineare una primadonna incapace di vivere senza recitare la realtà. La primadonna recita nell’arrivo in chiesa, con i fiori in mano, rappresentazione esaltata della devota; recita la sua fede cristiana davanti all’altare della Madonna; recita nell’invitare l’amante nella loro casetta nel bosco, dipingendo con il canto i luoghi e l’incontro amoroso; recita nel manifestare la propria gelosia, forse il tratto caratteriale più veritiero del personaggio, lanciando esagitata il ventaglio contro il ritratto dell’Attavanti; recita davanti a Scarpia nel ritorno in chiesa, per dissimulare timori e gelosia; recita nella cantata fuori scena al secondo atto; recita nell’allestimento del corpo di Scarpia prima di uscire da palazzo Farnese, il momento meno credibile e realistico del dramma; recita il racconto dello scontro e del delitto di Scarpia con sottolineato orrore; recita nel momento del suicidio, teatralissimo lancio nel vuoto da Castel Sant’Angelo. Tutto sopra le righe, fatto salvo lo scontro con Scarpia, dove però la diva non manca di minacciare che piuttosto che cedere si getterà dal finestrone.
Un soggetto per noi oggi datato, nella misura in cui certa enfasi, anzi certa retorica del teatro come della letteratura dell’epoca, sono da noi lontani, e non incontrano il nostro moderno “Kunstwollen”, per dirla con certi storici dell’arte della Vienna contemporanea al capolavoro pucciniano. Per questo chi scrive comprende benissimo la poca simpatia di una Callas o di una Kabaivanska di fronte a questo personaggio, che si presta ad esagerazioni fino al ridicolo, sebbene abbia loro portato grande fortuna e merito. E per questo motivo risulta ben comprensibile che il personaggio abbia subito una sensibile evoluzione nel gusto interpretativo, negli stilemi espressivi, soprattutto da parte delle grandi fraseggiatrici moderne, allontanandola dagli eccessi tipici del canto verista.
Puccini, un genio nel creare climi ed atmosfere, incardina il dramma entro una cornice fortemente romana, ricca di colori e suggestioni, che anche senza l’ausilio della scena rendono la città, la sua sensualità, la sua opulenza barocca, il suo sfondo agreste lontano, viva e presente, chiaramente percettibili allo spettatore, che vi si trova immerso sempre e comunque. Il paesaggio dell’azione non è mai cambiato di fatto, mentre il personaggio ha vissuto in modi diversi tali da staccare Tosca dagli eccessi del teatro di inizio novecento, per conferirle una veridicità drammatica ed una intensità emotiva più congeniale al teatro moderno.
L’interrogarsi sul senso profondo delle parole e del fraseggio di Tosca da parte delle primedonne moderne è stato il contraltare del fascino esercitato dal ruolo, un fascino legato alla grande invenzione di Puccini come al protagonismo assoluto del personaggio all’interno dell’opera, cui solo Scarpia può opporsi in alcuni momenti dell’azione. La primadonna amministra e gestisce la scena incontrastata, l’allestimento dell’opera si giustifica per la sua presenza, lo spazio per esprimersi è comunque ampio. Al di là della vocalità, del peso oggettivo che il concitato secondo atto implica, terreno d’elezione delle voci spinte, la grandezza di una Tosca si misura oggi nella capacità di fraseggiare e dar vita al personaggio con “gusto”, perché il personaggio con gran facilità può trasformarsi in “parodia” della primadonna.
Cantante – attrice, si dice di Tosca, ossia artista in grado di unire fraseggio e recitazione in un binomio che raramente si è riscontrato perfettamente bilanciato in un’artista. Un lato poteva prevalere sull’altro perché la presenza fisica, statuarietà e bellezza, non sempre implicava qualità attoriali, perlomeno come le intendiamo noi oggi; sul piano del canto, poi, vi sono state grandi Tosche “di timbro” a fronte di grandi fraseggiatrici “di cesello”. Qualità attoriali che, al pari del tipo di fraseggio, sono mutate nell’arco del secolo scorso, perché grandissima è la distanza maturata dal gusto liberty ad oggi.
La storia delle interpretazioni di Tosca alla Scala esemplifica bene i modi in cui il personaggio è stato interpretato in passato, anche se dalla lista dei nomi mancano alcune cantanti che hanno fatto la storia del ruolo, come l’Olivero, la Callas o la Price, tanto per nominare esempi preclari.
Proprio la prima interprete del ruolo, Hariclea Darclée, Tosca a Milano nel 1900, sotto la bacchetta di Toscanini subito dopo le prime rappresentazioni romane, era ritenuta nel suo tempo una grandissima cantante, di grande fascino timbrico e scenico oltre che elegante sul piano interpretativo. La Darclée, però, era una cantante dal gusto ancora molto contenuto, poco propensa agli eccessi temperamentali tipici che fecero di un'altra voce lirica, Emma Carelli, la diva verista per autonomasia. Alla Scala Tosca trovò da subito anche interpreti dalla voce spinta, avvezze al repertorio pesante: Eugenia Burzio fu Tosca sempre con la direzione di Toscanini, nella prima ripresa del 1907.
L’opera attese poi circa un ventennio prima di essere riproposta, nel 1928, con la più grande cantante attrice del tempo, Claudia Muzio, modernissima e tutt’oggi attuale nei suoi modi interpretativi, in alternanza ad un soprano da lei assai diverso, Bianca Scacciati, quindi, l’anno dopo da Gilda Dalla Rizza, e di nuovo da una voce spinta, nel 1931, l’elegantissima ( ed anomala anche lei nel suo tempo ) Giuseppina Cobelli.
L’ascolto di quanto rimane di queste interpreti, a meno della Muzio, rivela in modo tangibile il cambiamento avvenuto successivamente nel gusto, e forse ad alcune protagoniste non rende nemmeno giustizia, come nel caso della Dalla Rizza, tanto amata per le sue qualità attoriali e, soprattutto, musicali da Puccini e Mascagni, ma la cui incisione dell’aria è scadente. Il gusto è per un canto con i centri aperti e bianchi, non esagerato oltre misura come la Carelli nella nota incisione con Sanmarco, ma comunque vario nell’accento, anche quando per noi datato, con momenti di canto composto alternati a passi concitati, esagerati per noi oggi, come ben documenta l’incisione integrale della Scacciati. Gli eccessi venivano variamente amministrati dalle dive veriste anche secondo lo specifico tonnellaggio vocale di ognuna, in forma di leziosaggini, nei duetti con Mario, o in forma di “vis tragica” nel secondo e nel terzo atto, tornando periodicamente all’ortodossia dell’emissione nel registro acuto o in certe frasi melodiche dell’aria o dei duetti.
Claudia Muzio appare, dunque, come una anomalia per il gusto contenuto, compostissimo, l’emissione mai volgare, ed il fraseggio straordinariamente vario e ricco di inventiva, depurato da ogni enfasi. Della “divina” ci restano due “Vissi d’arte”, il migliore quello del 1935, ed il notissimo live del primo atto di San Francisco con Borgioli e Gandolfi. Basta la battuta finale dell’uscita dalla scena con Scarpia, “egli vede ch’io piango”, con la frase troncata repentinamente per il pianto, a descrivere l’artista ed il suo peculiare senso del canto. Nessuna esteriorità o luogo comune è nella Tosca di Claudia Muzio, ma una sorpresa continua, battuta per battuta, quasi un’opera nuova, la “sua” Tosca, come accade per i grandi artisti, quelli che hanno qualcosa di vissuto nell’anima da cantare. Il suo fraseggio era molto vario, e soprattutto spontaneo, ma sempre e comunque verista, per quel fremito, quella nevrosi che segna certe frasi, come “Ah quegli occhi”…E’ probabile che quella della Muzio sia stata, almeno in ambito italiano, la prima Tosca “moderna”, cioè più donna vera e meno diva, meno “soprano”, dato che anche l’ultima diva del verismo, Magda Olivero, fraseggiò poi il ruolo parola per parola, in modo perfino ridondante, ma sempre con connotazioni enfatiche da grande diva liberty.
Anche senza analizzare casi di grandi interpreti straniere, come la Jeritza o la Lehmann, si deduce come il ruolo da subito sia stato praticato sia da soprani lirici, più o meno virtuosi nel fraseggio, che da soprani spinti quando non drammatici. Il necessario aplomb scenico corrispondeva sia a quello dell’attrice recitante come a quello della bella donna, dalla presenza fisica statuaria.
Alla Scala, dagli anni ’30 in poi, il ruolo venne affidato a voci di soprani spinti, dapprima la Pacetti, in due produzioni, nel ’34 e nel ’40, quindi due volte alla Caniglia, nel ’37 e nel ’50, in alternanza con la Milanov, quindi alla Cigna, nel ’39, poi a cantanti di secondo piano, come la Carbone, la Di Giulio e la Sacchi negli anni ’40. Di queste ci restano solo le testimonianze di Caniglia e Milanov, con incisioni in studio e live, mentre della Cigna nemmeno un frammento che io sappia. Sono tutte più composte delle voci spinte del periodo verista. Il loro grado di “matronalità” e l’enfasi del loro fraseggio è variabile, ma sono modi espressivi riconducibile in parte al retaggio verista ma in parte all’aulicità del fraseggio del soprano pesante del tempo.
Le loro voci importanti e piene, di timbro sontuoso, si accompagnavano a un fraseggio certo più sobrio ma anche meno vario di quello che caratterizzò alcune grandi Tosche del dopoguerra: la qualità del mezzo aveva grandissimo peso nella costruzione del personaggio. E’ chiaro dunque come la Tosca per autonomasia del dopoguerra scaligero, Renata Tebaldi, protagonista di quattro riprese dal 1953 al 1960, si inserisse nella scia di queste voci spinte. Il suo lirismo e la grande dolcezza del bellissimo timbro nel canto a fior di labbro, unitamente alla presenza giunonica, furono le prerogative su cui costruì il suo amatissimo personaggio. Una Tosca all’opposto di quelle molto fraseggiate di una Olivero o di una Callas, ancora screziata da una certa enfasi verista ( si pensi al modo in cui era solita pronunciare “sogghigno di demone”…), destinata comunque a sopravvivere in talune frasi anche nelle interpreti recenti, perchè componente specifica del personaggio.
Di qui la Tosca elegantissima, molto fraseggiata e plausibile di Raina Kabaivanska, figlia delle grandi dicitrici Muzio, Olivero e Callas, forte di una bellissima presenza scenica e di una acuta intelligenza interpretativa, protagonista delle produzioni del 1975 e del 1980. Autobiografica la sua Tosca, perlomeno nell'intepretazione della diva affascinante, intelligente e volitiva.
Al 1975 appartiene anche la prova di Grace Bumbry, numerose volte Tosca in carriera, dal canto non rifinitissimo ma dal personaggio forte ed aggressivo, primadonna forte e sensuale.
Gli ascolti
Giacomo Puccini
Tosca
Atto I
Mario! Mario! Mario! - Renata Tebaldi & Richard Tucker (1955)
Or tutto è chiaro...Ed io veniva a lui - Claudia Muzio & Alfredo Gandolfi (1932)
Atto II
Ed or fra noi parliam - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929), Leonardo Warren, Renata Tebaldi & Richard Tucker (1955)
Orsù Tosca, parlate - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)
Basta, Roberti! - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)
Nel pozzo del giardino! - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)
Se la giurata fede debbo tradir - Enrico Molinari & Bianca Scacciati (1929)
Vissi d'arte - Maria Caniglia (1941), Zinka Milanov (1956)
Atto III
Ah! Franchigia a Floria Tosca!...Com'è lunga l'attesa - Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929), Grace Bumbry & Placido Domingo (1982)
Stereotipi, ripeto, piuttosto che aspetti caratteriali veri e propri, perché nello snodarsi della vicenda il personaggio pare attraversare mutevoli stati d’animo, rapide successioni di umori e pensieri, senza una plausibilità e veridicità consona al nostro modo di concepire un personaggio. L’enfasi non abbandona mai Tosca, quasi sempre al di sopra delle righe, a delineare una primadonna incapace di vivere senza recitare la realtà. La primadonna recita nell’arrivo in chiesa, con i fiori in mano, rappresentazione esaltata della devota; recita la sua fede cristiana davanti all’altare della Madonna; recita nell’invitare l’amante nella loro casetta nel bosco, dipingendo con il canto i luoghi e l’incontro amoroso; recita nel manifestare la propria gelosia, forse il tratto caratteriale più veritiero del personaggio, lanciando esagitata il ventaglio contro il ritratto dell’Attavanti; recita davanti a Scarpia nel ritorno in chiesa, per dissimulare timori e gelosia; recita nella cantata fuori scena al secondo atto; recita nell’allestimento del corpo di Scarpia prima di uscire da palazzo Farnese, il momento meno credibile e realistico del dramma; recita il racconto dello scontro e del delitto di Scarpia con sottolineato orrore; recita nel momento del suicidio, teatralissimo lancio nel vuoto da Castel Sant’Angelo. Tutto sopra le righe, fatto salvo lo scontro con Scarpia, dove però la diva non manca di minacciare che piuttosto che cedere si getterà dal finestrone.
Un soggetto per noi oggi datato, nella misura in cui certa enfasi, anzi certa retorica del teatro come della letteratura dell’epoca, sono da noi lontani, e non incontrano il nostro moderno “Kunstwollen”, per dirla con certi storici dell’arte della Vienna contemporanea al capolavoro pucciniano. Per questo chi scrive comprende benissimo la poca simpatia di una Callas o di una Kabaivanska di fronte a questo personaggio, che si presta ad esagerazioni fino al ridicolo, sebbene abbia loro portato grande fortuna e merito. E per questo motivo risulta ben comprensibile che il personaggio abbia subito una sensibile evoluzione nel gusto interpretativo, negli stilemi espressivi, soprattutto da parte delle grandi fraseggiatrici moderne, allontanandola dagli eccessi tipici del canto verista.
Puccini, un genio nel creare climi ed atmosfere, incardina il dramma entro una cornice fortemente romana, ricca di colori e suggestioni, che anche senza l’ausilio della scena rendono la città, la sua sensualità, la sua opulenza barocca, il suo sfondo agreste lontano, viva e presente, chiaramente percettibili allo spettatore, che vi si trova immerso sempre e comunque. Il paesaggio dell’azione non è mai cambiato di fatto, mentre il personaggio ha vissuto in modi diversi tali da staccare Tosca dagli eccessi del teatro di inizio novecento, per conferirle una veridicità drammatica ed una intensità emotiva più congeniale al teatro moderno.
L’interrogarsi sul senso profondo delle parole e del fraseggio di Tosca da parte delle primedonne moderne è stato il contraltare del fascino esercitato dal ruolo, un fascino legato alla grande invenzione di Puccini come al protagonismo assoluto del personaggio all’interno dell’opera, cui solo Scarpia può opporsi in alcuni momenti dell’azione. La primadonna amministra e gestisce la scena incontrastata, l’allestimento dell’opera si giustifica per la sua presenza, lo spazio per esprimersi è comunque ampio. Al di là della vocalità, del peso oggettivo che il concitato secondo atto implica, terreno d’elezione delle voci spinte, la grandezza di una Tosca si misura oggi nella capacità di fraseggiare e dar vita al personaggio con “gusto”, perché il personaggio con gran facilità può trasformarsi in “parodia” della primadonna.
Cantante – attrice, si dice di Tosca, ossia artista in grado di unire fraseggio e recitazione in un binomio che raramente si è riscontrato perfettamente bilanciato in un’artista. Un lato poteva prevalere sull’altro perché la presenza fisica, statuarietà e bellezza, non sempre implicava qualità attoriali, perlomeno come le intendiamo noi oggi; sul piano del canto, poi, vi sono state grandi Tosche “di timbro” a fronte di grandi fraseggiatrici “di cesello”. Qualità attoriali che, al pari del tipo di fraseggio, sono mutate nell’arco del secolo scorso, perché grandissima è la distanza maturata dal gusto liberty ad oggi.
La storia delle interpretazioni di Tosca alla Scala esemplifica bene i modi in cui il personaggio è stato interpretato in passato, anche se dalla lista dei nomi mancano alcune cantanti che hanno fatto la storia del ruolo, come l’Olivero, la Callas o la Price, tanto per nominare esempi preclari.
Proprio la prima interprete del ruolo, Hariclea Darclée, Tosca a Milano nel 1900, sotto la bacchetta di Toscanini subito dopo le prime rappresentazioni romane, era ritenuta nel suo tempo una grandissima cantante, di grande fascino timbrico e scenico oltre che elegante sul piano interpretativo. La Darclée, però, era una cantante dal gusto ancora molto contenuto, poco propensa agli eccessi temperamentali tipici che fecero di un'altra voce lirica, Emma Carelli, la diva verista per autonomasia. Alla Scala Tosca trovò da subito anche interpreti dalla voce spinta, avvezze al repertorio pesante: Eugenia Burzio fu Tosca sempre con la direzione di Toscanini, nella prima ripresa del 1907.
L’opera attese poi circa un ventennio prima di essere riproposta, nel 1928, con la più grande cantante attrice del tempo, Claudia Muzio, modernissima e tutt’oggi attuale nei suoi modi interpretativi, in alternanza ad un soprano da lei assai diverso, Bianca Scacciati, quindi, l’anno dopo da Gilda Dalla Rizza, e di nuovo da una voce spinta, nel 1931, l’elegantissima ( ed anomala anche lei nel suo tempo ) Giuseppina Cobelli.
L’ascolto di quanto rimane di queste interpreti, a meno della Muzio, rivela in modo tangibile il cambiamento avvenuto successivamente nel gusto, e forse ad alcune protagoniste non rende nemmeno giustizia, come nel caso della Dalla Rizza, tanto amata per le sue qualità attoriali e, soprattutto, musicali da Puccini e Mascagni, ma la cui incisione dell’aria è scadente. Il gusto è per un canto con i centri aperti e bianchi, non esagerato oltre misura come la Carelli nella nota incisione con Sanmarco, ma comunque vario nell’accento, anche quando per noi datato, con momenti di canto composto alternati a passi concitati, esagerati per noi oggi, come ben documenta l’incisione integrale della Scacciati. Gli eccessi venivano variamente amministrati dalle dive veriste anche secondo lo specifico tonnellaggio vocale di ognuna, in forma di leziosaggini, nei duetti con Mario, o in forma di “vis tragica” nel secondo e nel terzo atto, tornando periodicamente all’ortodossia dell’emissione nel registro acuto o in certe frasi melodiche dell’aria o dei duetti.
Claudia Muzio appare, dunque, come una anomalia per il gusto contenuto, compostissimo, l’emissione mai volgare, ed il fraseggio straordinariamente vario e ricco di inventiva, depurato da ogni enfasi. Della “divina” ci restano due “Vissi d’arte”, il migliore quello del 1935, ed il notissimo live del primo atto di San Francisco con Borgioli e Gandolfi. Basta la battuta finale dell’uscita dalla scena con Scarpia, “egli vede ch’io piango”, con la frase troncata repentinamente per il pianto, a descrivere l’artista ed il suo peculiare senso del canto. Nessuna esteriorità o luogo comune è nella Tosca di Claudia Muzio, ma una sorpresa continua, battuta per battuta, quasi un’opera nuova, la “sua” Tosca, come accade per i grandi artisti, quelli che hanno qualcosa di vissuto nell’anima da cantare. Il suo fraseggio era molto vario, e soprattutto spontaneo, ma sempre e comunque verista, per quel fremito, quella nevrosi che segna certe frasi, come “Ah quegli occhi”…E’ probabile che quella della Muzio sia stata, almeno in ambito italiano, la prima Tosca “moderna”, cioè più donna vera e meno diva, meno “soprano”, dato che anche l’ultima diva del verismo, Magda Olivero, fraseggiò poi il ruolo parola per parola, in modo perfino ridondante, ma sempre con connotazioni enfatiche da grande diva liberty.
Anche senza analizzare casi di grandi interpreti straniere, come la Jeritza o la Lehmann, si deduce come il ruolo da subito sia stato praticato sia da soprani lirici, più o meno virtuosi nel fraseggio, che da soprani spinti quando non drammatici. Il necessario aplomb scenico corrispondeva sia a quello dell’attrice recitante come a quello della bella donna, dalla presenza fisica statuaria.
Alla Scala, dagli anni ’30 in poi, il ruolo venne affidato a voci di soprani spinti, dapprima la Pacetti, in due produzioni, nel ’34 e nel ’40, quindi due volte alla Caniglia, nel ’37 e nel ’50, in alternanza con la Milanov, quindi alla Cigna, nel ’39, poi a cantanti di secondo piano, come la Carbone, la Di Giulio e la Sacchi negli anni ’40. Di queste ci restano solo le testimonianze di Caniglia e Milanov, con incisioni in studio e live, mentre della Cigna nemmeno un frammento che io sappia. Sono tutte più composte delle voci spinte del periodo verista. Il loro grado di “matronalità” e l’enfasi del loro fraseggio è variabile, ma sono modi espressivi riconducibile in parte al retaggio verista ma in parte all’aulicità del fraseggio del soprano pesante del tempo.
Le loro voci importanti e piene, di timbro sontuoso, si accompagnavano a un fraseggio certo più sobrio ma anche meno vario di quello che caratterizzò alcune grandi Tosche del dopoguerra: la qualità del mezzo aveva grandissimo peso nella costruzione del personaggio. E’ chiaro dunque come la Tosca per autonomasia del dopoguerra scaligero, Renata Tebaldi, protagonista di quattro riprese dal 1953 al 1960, si inserisse nella scia di queste voci spinte. Il suo lirismo e la grande dolcezza del bellissimo timbro nel canto a fior di labbro, unitamente alla presenza giunonica, furono le prerogative su cui costruì il suo amatissimo personaggio. Una Tosca all’opposto di quelle molto fraseggiate di una Olivero o di una Callas, ancora screziata da una certa enfasi verista ( si pensi al modo in cui era solita pronunciare “sogghigno di demone”…), destinata comunque a sopravvivere in talune frasi anche nelle interpreti recenti, perchè componente specifica del personaggio.
Di qui la Tosca elegantissima, molto fraseggiata e plausibile di Raina Kabaivanska, figlia delle grandi dicitrici Muzio, Olivero e Callas, forte di una bellissima presenza scenica e di una acuta intelligenza interpretativa, protagonista delle produzioni del 1975 e del 1980. Autobiografica la sua Tosca, perlomeno nell'intepretazione della diva affascinante, intelligente e volitiva.
Al 1975 appartiene anche la prova di Grace Bumbry, numerose volte Tosca in carriera, dal canto non rifinitissimo ma dal personaggio forte ed aggressivo, primadonna forte e sensuale.
Gli ascolti
Giacomo Puccini
Tosca
Atto I
Mario! Mario! Mario! - Renata Tebaldi & Richard Tucker (1955)
Or tutto è chiaro...Ed io veniva a lui - Claudia Muzio & Alfredo Gandolfi (1932)
Atto II
Ed or fra noi parliam - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929), Leonardo Warren, Renata Tebaldi & Richard Tucker (1955)
Orsù Tosca, parlate - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)
Basta, Roberti! - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)
Nel pozzo del giardino! - Enrico Molinari, Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929)
Se la giurata fede debbo tradir - Enrico Molinari & Bianca Scacciati (1929)
Vissi d'arte - Maria Caniglia (1941), Zinka Milanov (1956)
Atto III
Ah! Franchigia a Floria Tosca!...Com'è lunga l'attesa - Bianca Scacciati & Alessandro Granda (1929), Grace Bumbry & Placido Domingo (1982)
3 commenti:
Bellissimo post, davvero!
Ma mi sapete dire cos'ha a che fare con quello che succederà tra poco a Milano nel "tempio"?
E.. grazie della "chicca" da San Francisco che comunque vuole dimostrare un'altra volta che all'epoca non sapevano fare l'opera lirica e che noi dobbiamo solo ringraziare i teatri di oggi che "ce la danno" così appetitosa.
caro Just, anche qui si darà la Tosca....almeno sulla carta.
quanto alla chicca di san francisco, prima o poi publicheremo anche il duetto con mario, una intepretazione straordinaria. abbi fede.
a presto
Cara Giulia,
Ma sei sicura che si darà "Tosca"?
QUELLA Tosca della quale parlate nel blog?
No. Come al solito sbagliate.
Non sarà la Tosca con le grandi interpreti di una volta e le grandi interpretazioni personalissime ma pucciniane, quella data nel "tempio" milanese.
Sarà la solita presa in giro laudato come miracolo dell'interpretazione intellettuale di geni odierni.
Come dice Barnaba alla fine della Gioconda, "Baaaahhh....!"
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