Nell’ottobre dello scorso anno la DECCA ha messo sul mercato internazionale la quarta “personale” di Jonas Kaufmann in poco più di due anni. Dopo una selezione di “arie romantiche”, dall’accezione aggettivale a dir poco allargata (impensabile l’assenza di Puccini), una raccolta edificata sui brani operistici più celebri del repertorio tedesco e una Bella mugnaia con Helmut Deutsch, arriva puntuale una selezione di pagine tratte dal nostro repertorio verista, dirette da Antonio Pappano con l’ensemble orchestrale e corale dell’Accademia di Santa Cecilia.
Scelta che si è dimostrata più che discutibile, prima ancora negli scontati presupposti antologici che nella resa esecutiva, senza dubbio di non minor prevedibilità. Tant’è che non mi sarei presa l’onere di ascoltare la raccolta se non fosse stata la curiosità, tutta femmina, di misurare l’esecuzione discografica con la recente “prova-palco” – nuova declinazione operistico-divistica dell’estiva “prova-costume” – nei panni del Maurizio cileano al Covent Garden (unica opera portata in scena tra quelle proposte nella collezione). E di acquisire, perché no, qualche indicazione di massima sul prossimo debutto, almeno stando a quanto dichiarato dallo stesso Kaufmann, come Turiddu, Canio e Chénier.
Il confronto, appunto, tra la registrazione live dell’Adriana e le due arie incise in studio (“La dolcissima effigie” e “L’anima ho stanca”) stimola subito una considerazione. Si paventava, in epoca di microsolco avanzata, il ricorso alla ben nota “banca degli acuti”, una sorta di salvadanaio in cui i versi più alti e ardui, in vista di una naturale usura del mezzo, venivano ibernati in giovane età, per poter essere poi scongelati una volta che l’artista avrebbe desiderato incidere l’opera intera da lì a qualche anno («Quando si tratta di truffare il consumatore, perfino i cantanti robot diventano fantasiosi», sosteneva a proposito Celletti, qualche lustro fa). L’idea alla base era quella per cui la correttezza di esecuzione e l’esibizione di un bagaglio tecnico efficiente dovessero comunque rappresentare il passepartout irrinunciabile per essere ammessi all’olimpo del cantante lirico, a costo di contraffazioni, aggiustamenti, turlupinature. Il know-how, o presunto tale, dell’artista – per usare non a caso un vocabolo mutuato dal marketing – restava miraggio a cui tendere, conquista per potersi esibire (in scena) e per essere esibiti (in disco). E la frizione tra palco e vinile restava evidentemente inevitabile e per certi versi accettata, poiché due o tre sbavature in un Don Carlo o in un Tristano conferivano sembianze umane agli artisti (al di là della perfezione marmorea di alcuni live che continuiamo ad amare).
Con Kaufmann, e con lui, pur con minor evidenza, i vari Villazon, Grigolo, etc., il discorso prende un’altra piega. Perché tra l’ascolto di un’aria estrapolata da una registrazione dal vivo e una traccia della stessa aria incisa in studio non v’è alcuna differenza. Lo strumento Kaufmann sembra quasi diventare la celebrazione infinita e insperabile della perfetta congruenza tra palco e tracklist, tra platea e salotto di casa. Non c’è più cosmesi (ecco che ritorna in secondo grado la profezia robotecnica di Celletti…). E non importa quindi che questo Maurizio non abbia idea di cosa sia il vero slancio lirico (inqualificabile quel «Bella tu sei», nell’aria dell’”effigie”, che la partitura suggerirebbe di prendere in piano e che invece nelle corde kaufmann(ar)iane diventa un bofonchiamento retroflesso; così come di nuova, misteriosa lega pare la messa di voce in chiusura al pezzo); non importa che ignori i rudimenti di quella “dinamica sfumata” che lo assolverebbe dalla condanna quale rude Mangiafuoco (il guaito, fisso e calante, su «Amor mi fa poeta» distrugge il paesaggio sonoro pennellato dall’arpa e dagli archi perché privo della levità di una vera mezzavoce); non importa nemmeno una certa stereotipia fuori tempo massimo (la retorica dei singulti su «promessa al vincitor»), poiché un conto è l’afflato mediterraneo, magari non elegantissimo, peculiare a un tardo Gigli, un altro è il singhiozzo, tutto esteriore, esibito con la sola funzione di ovviare a un trasporto passionale che invece latita.
…ma in questo caso l’accomodamento in studio sarebbe oramai tecnica sorpassata, artigianale, rozza e fuori misura. Molto meglio allora agire direttamente alla base, mischiare le carte, ribaltare la prassi nell’eccezione e far passare il limite per la caratteristica, la menda per il carattere, il difetto per la cifra (dinamica piuttosto diffusa, ma che con Kaufmann credo abbia preso piede in maniera particolare…). E ciò è successo, da una parte, per una critica togata che ha fatto – e continua a fare – della mistificazione dell’oggettivo la propria missione, dall’altra per la necessità – con ovvie ragioni di product placement e quindi, per definizione, legate alla casa discografica – di rendere il divo un prodotto unico, singolare, vendibile per qualche elemento distintivo che potesse imporsi. Allora dev’essere andata così: perché non artificializzare l’emissione e ottenere così un’individualità timbrica di facile presa? Se ascoltiamo Kaufmann nella Manon di Monaco del ’93 a fianco di Natalie Dessay, o anche, in misura molto minore, il Jaquino del Fidelio di Stoccarda nel ’98, nonostante sia già presente la tendenza a sbiancare certe note sul passaggio, possiamo sentire una voce chiara e ben emessa, in particolare al centro. C’erano senza dubbio tutti i presupposti per una probabile carriera da “tenore di grazia”, compresa una certa limitatezza nell’estensione superiore. La baritonalizzazione di Kaufmann – intesa come opacizzazione forzata, poiché di tutto si tratta fuorché di un bartitono considerata l’ottusità dei gravi – richiama in qualche modo il solito patto faustiano: ad onta di suoni sgradevoli, poco naturali e di scarsa omogeneità, ecco in moto la macchina per una nuova suggestione di facile presa! Per andare lontano, è un po’ quel che successe, chiaramente con risultati diversi, a Francesco Albanese, la cui grana vocale era di tutto rispetto prima di essere baritonalizzata. Ma, sappiamo bene, pure lo stesso Caruso partì con una morbidezza che rimandava al “tenorismo di grazia” – accezione del resto molto diversa da quella che se ne dà oggi – per poi scurire e guadagnare in terza ottava.
Caruso è stato però anche il primo interprete di Federico nell’Arlesiana di Cilea, e quindi ideale pietra di paragone per i candidati al ruolo. Il tenore napoletano, in particolare quello di inizio carriera, pur considerati i limiti in acuto che le cronache riportano, riusciva a sfumare e modulare con l’accento perfetto dell’autentico amoroso verista. Tutto ciò che manca a Jonas Kaufmann. Alla lucentezza, allo scatto, al velluto, al virile vigore baritonale di Caruso, il tenore tedesco sostituisce volgari stimbrature anche nei passaggi più centrali («c’è nel sonno l’oblio»), su cui basterebbe il corretto immascheramento per “portare a casa” l’elegia sottesa. Prive dell’appoggio professionale anche le note che preparano il passaggio su «CERCANDO io vo’», prima dell’acuto durissimo, benché stabile, su «VO’». Prego risentire, a questo punto, quale dolcezza d’accento esibisce invece De Muro Lomanto in questa pagina di Cilea.
Suscita non poche perplessità anche l’annunciato debutto nello Chénier. La trasposizione su pentagramma dell’eroica figura del letterato e giornalista francese richiede, già dall’arioso in entrata dell’“Improvviso”, una solida capacità di destreggiarsi nel registro acuto e di sostenere ampi squarci di puro lirismo. Ma la difficoltà a padroneggiare la corretta respirazione lo porta a calare «QUAL poema» - altro punto “di passaggio” – e tutto il verso successivo («è la parola Amor»), mentre legnosa più del solito, perché mai sul fiato, è la salita su «serviva di scrigno». La sezione intermedia del pezzo, strutturata su un declamato di sapore esclusivamente narrativo, è pura pece, sia per la stopposità con cui fatica a dispiegare la tessitura centrale, sia per la solita tinta scura con cui artificialmente sporca l’emissione. Grottesca, infine, la ripresa, nella coda (“O giovinetta bella”), del canto spiegato, con cui Giordano prepara con dovizia la distensione naturale degli accenti corretti, che con Kaufmann diventa solo esibizione di turbolenza erettile o vanteria fallica, peraltro accentuate da una dizione approssimativa tale da evocare perfino il pecoreccio involontario (quell’«anima e FITA» in chiusa, peraltro meno imbarazzante del pucciniano «E non ho amato mai tanto la FITA»). Impossibile non rimpiangere allora la maschia vigoria di un Pertile o di un Corelli, o la sensualità trattenuta di uno Zanelli o di un Tamagno over cinquanta.
Ma ciò che più non convince nell’approccio di Kaufmann con la musica di Giordano, riverberandosi quindi non solo in Chénier ma anche nel breve arioso della Fedora, è la difficile gestione del sinfonismo distaccato tipico del compositore. L’orchestra di Giordano non raddoppia mai la scrittura vocale e librettistica, rischiando effetti di ridondanza, ma al massimo la commenta, la ridefinisce, ne suggerisce nuove definizioni. Se il pentagramma dell’interprete non trova la sua indipendenza, se non riesce, in altre parole, a stemperarsi in una dose di carnalità e affettuosità che mai dovrebbe mancare a un interprete verista con di alta pretesa, allora la struttura cade. Quando ascolto “Amor ti vieta” cantato da Kaufmann sento mancare quella varietà di colori e dell’accento indispensabili per esprimere tutti i sentimenti che la pagina musicale sottende. Il carattere di Loris può sprigionarsi solo se il fraseggio arriva a suggerire la sicurezza malcelata della conquista, l’istinto che si acuisce attraverso una seduzione febbrile che non conosce ancora la sicurezza del suo compimento. L’opera verista, e il corpus di Giordano in particolare, non può essere subordinata in toto alla sua esecuzione scenica. Quando l’orchestra emerge nella sua indipendenza descrittiva, è la melodia vocale, con tutte le sue infinite possibilità espressive, a dover render conto delle passioni, degli umori e degli amori di chi sul palco li vive. La vociferazione ferina di Kaufmann declinata nella scrittura di Giordano diventa la negazione non solo del canto professionale – l’emissione costantemente tubata e le sguaiatezze in corrispondenza del sol4 su «NON amar» e del la4 accentato su «T’Amo» - ma anche di qualsiasi tentativo di resa “drammatica” considerata nella sua coerenza stilistica.
Purtroppo, va da sé, possiamo ben applicare queste considerazioni al resto delle tracce della compilation, in cui spiccano per particolare demerito le due arie di Faust dal Mefistofele boitiano, quelle dalla Cavalleria Rusticana, mal dirette da un Pappano roboante oltre che poco ispirato, e, ancor di più, la “Testa adorata” dalla Bohème di Leoncavallo. Basti, per puro gusto comparativo, riascoltare la restituzione che invece dà di quest’ultima aria Salvatore Fisichella, l’antidivo per eccellenza, in un concerto a Solingen nell’85.
Alla luce di tali considerazioni, rimane un piccolo interrogativo. Cosa potrà mai frenare gli indefessi sostenitori di Kaufmann dal celebrarlo quale nuovo Warhol della lirica? Abbiamo un marchio (la major…) e il quotidiano (siamo tutti cantanti…) che si fanno opera d’arte. Perché limitarlo a mero testimonial della “Coloreria Italiana”?
Scelta che si è dimostrata più che discutibile, prima ancora negli scontati presupposti antologici che nella resa esecutiva, senza dubbio di non minor prevedibilità. Tant’è che non mi sarei presa l’onere di ascoltare la raccolta se non fosse stata la curiosità, tutta femmina, di misurare l’esecuzione discografica con la recente “prova-palco” – nuova declinazione operistico-divistica dell’estiva “prova-costume” – nei panni del Maurizio cileano al Covent Garden (unica opera portata in scena tra quelle proposte nella collezione). E di acquisire, perché no, qualche indicazione di massima sul prossimo debutto, almeno stando a quanto dichiarato dallo stesso Kaufmann, come Turiddu, Canio e Chénier.
Il confronto, appunto, tra la registrazione live dell’Adriana e le due arie incise in studio (“La dolcissima effigie” e “L’anima ho stanca”) stimola subito una considerazione. Si paventava, in epoca di microsolco avanzata, il ricorso alla ben nota “banca degli acuti”, una sorta di salvadanaio in cui i versi più alti e ardui, in vista di una naturale usura del mezzo, venivano ibernati in giovane età, per poter essere poi scongelati una volta che l’artista avrebbe desiderato incidere l’opera intera da lì a qualche anno («Quando si tratta di truffare il consumatore, perfino i cantanti robot diventano fantasiosi», sosteneva a proposito Celletti, qualche lustro fa). L’idea alla base era quella per cui la correttezza di esecuzione e l’esibizione di un bagaglio tecnico efficiente dovessero comunque rappresentare il passepartout irrinunciabile per essere ammessi all’olimpo del cantante lirico, a costo di contraffazioni, aggiustamenti, turlupinature. Il know-how, o presunto tale, dell’artista – per usare non a caso un vocabolo mutuato dal marketing – restava miraggio a cui tendere, conquista per potersi esibire (in scena) e per essere esibiti (in disco). E la frizione tra palco e vinile restava evidentemente inevitabile e per certi versi accettata, poiché due o tre sbavature in un Don Carlo o in un Tristano conferivano sembianze umane agli artisti (al di là della perfezione marmorea di alcuni live che continuiamo ad amare).
Con Kaufmann, e con lui, pur con minor evidenza, i vari Villazon, Grigolo, etc., il discorso prende un’altra piega. Perché tra l’ascolto di un’aria estrapolata da una registrazione dal vivo e una traccia della stessa aria incisa in studio non v’è alcuna differenza. Lo strumento Kaufmann sembra quasi diventare la celebrazione infinita e insperabile della perfetta congruenza tra palco e tracklist, tra platea e salotto di casa. Non c’è più cosmesi (ecco che ritorna in secondo grado la profezia robotecnica di Celletti…). E non importa quindi che questo Maurizio non abbia idea di cosa sia il vero slancio lirico (inqualificabile quel «Bella tu sei», nell’aria dell’”effigie”, che la partitura suggerirebbe di prendere in piano e che invece nelle corde kaufmann(ar)iane diventa un bofonchiamento retroflesso; così come di nuova, misteriosa lega pare la messa di voce in chiusura al pezzo); non importa che ignori i rudimenti di quella “dinamica sfumata” che lo assolverebbe dalla condanna quale rude Mangiafuoco (il guaito, fisso e calante, su «Amor mi fa poeta» distrugge il paesaggio sonoro pennellato dall’arpa e dagli archi perché privo della levità di una vera mezzavoce); non importa nemmeno una certa stereotipia fuori tempo massimo (la retorica dei singulti su «promessa al vincitor»), poiché un conto è l’afflato mediterraneo, magari non elegantissimo, peculiare a un tardo Gigli, un altro è il singhiozzo, tutto esteriore, esibito con la sola funzione di ovviare a un trasporto passionale che invece latita.
…ma in questo caso l’accomodamento in studio sarebbe oramai tecnica sorpassata, artigianale, rozza e fuori misura. Molto meglio allora agire direttamente alla base, mischiare le carte, ribaltare la prassi nell’eccezione e far passare il limite per la caratteristica, la menda per il carattere, il difetto per la cifra (dinamica piuttosto diffusa, ma che con Kaufmann credo abbia preso piede in maniera particolare…). E ciò è successo, da una parte, per una critica togata che ha fatto – e continua a fare – della mistificazione dell’oggettivo la propria missione, dall’altra per la necessità – con ovvie ragioni di product placement e quindi, per definizione, legate alla casa discografica – di rendere il divo un prodotto unico, singolare, vendibile per qualche elemento distintivo che potesse imporsi. Allora dev’essere andata così: perché non artificializzare l’emissione e ottenere così un’individualità timbrica di facile presa? Se ascoltiamo Kaufmann nella Manon di Monaco del ’93 a fianco di Natalie Dessay, o anche, in misura molto minore, il Jaquino del Fidelio di Stoccarda nel ’98, nonostante sia già presente la tendenza a sbiancare certe note sul passaggio, possiamo sentire una voce chiara e ben emessa, in particolare al centro. C’erano senza dubbio tutti i presupposti per una probabile carriera da “tenore di grazia”, compresa una certa limitatezza nell’estensione superiore. La baritonalizzazione di Kaufmann – intesa come opacizzazione forzata, poiché di tutto si tratta fuorché di un bartitono considerata l’ottusità dei gravi – richiama in qualche modo il solito patto faustiano: ad onta di suoni sgradevoli, poco naturali e di scarsa omogeneità, ecco in moto la macchina per una nuova suggestione di facile presa! Per andare lontano, è un po’ quel che successe, chiaramente con risultati diversi, a Francesco Albanese, la cui grana vocale era di tutto rispetto prima di essere baritonalizzata. Ma, sappiamo bene, pure lo stesso Caruso partì con una morbidezza che rimandava al “tenorismo di grazia” – accezione del resto molto diversa da quella che se ne dà oggi – per poi scurire e guadagnare in terza ottava.
Caruso è stato però anche il primo interprete di Federico nell’Arlesiana di Cilea, e quindi ideale pietra di paragone per i candidati al ruolo. Il tenore napoletano, in particolare quello di inizio carriera, pur considerati i limiti in acuto che le cronache riportano, riusciva a sfumare e modulare con l’accento perfetto dell’autentico amoroso verista. Tutto ciò che manca a Jonas Kaufmann. Alla lucentezza, allo scatto, al velluto, al virile vigore baritonale di Caruso, il tenore tedesco sostituisce volgari stimbrature anche nei passaggi più centrali («c’è nel sonno l’oblio»), su cui basterebbe il corretto immascheramento per “portare a casa” l’elegia sottesa. Prive dell’appoggio professionale anche le note che preparano il passaggio su «CERCANDO io vo’», prima dell’acuto durissimo, benché stabile, su «VO’». Prego risentire, a questo punto, quale dolcezza d’accento esibisce invece De Muro Lomanto in questa pagina di Cilea.
Suscita non poche perplessità anche l’annunciato debutto nello Chénier. La trasposizione su pentagramma dell’eroica figura del letterato e giornalista francese richiede, già dall’arioso in entrata dell’“Improvviso”, una solida capacità di destreggiarsi nel registro acuto e di sostenere ampi squarci di puro lirismo. Ma la difficoltà a padroneggiare la corretta respirazione lo porta a calare «QUAL poema» - altro punto “di passaggio” – e tutto il verso successivo («è la parola Amor»), mentre legnosa più del solito, perché mai sul fiato, è la salita su «serviva di scrigno». La sezione intermedia del pezzo, strutturata su un declamato di sapore esclusivamente narrativo, è pura pece, sia per la stopposità con cui fatica a dispiegare la tessitura centrale, sia per la solita tinta scura con cui artificialmente sporca l’emissione. Grottesca, infine, la ripresa, nella coda (“O giovinetta bella”), del canto spiegato, con cui Giordano prepara con dovizia la distensione naturale degli accenti corretti, che con Kaufmann diventa solo esibizione di turbolenza erettile o vanteria fallica, peraltro accentuate da una dizione approssimativa tale da evocare perfino il pecoreccio involontario (quell’«anima e FITA» in chiusa, peraltro meno imbarazzante del pucciniano «E non ho amato mai tanto la FITA»). Impossibile non rimpiangere allora la maschia vigoria di un Pertile o di un Corelli, o la sensualità trattenuta di uno Zanelli o di un Tamagno over cinquanta.
Ma ciò che più non convince nell’approccio di Kaufmann con la musica di Giordano, riverberandosi quindi non solo in Chénier ma anche nel breve arioso della Fedora, è la difficile gestione del sinfonismo distaccato tipico del compositore. L’orchestra di Giordano non raddoppia mai la scrittura vocale e librettistica, rischiando effetti di ridondanza, ma al massimo la commenta, la ridefinisce, ne suggerisce nuove definizioni. Se il pentagramma dell’interprete non trova la sua indipendenza, se non riesce, in altre parole, a stemperarsi in una dose di carnalità e affettuosità che mai dovrebbe mancare a un interprete verista con di alta pretesa, allora la struttura cade. Quando ascolto “Amor ti vieta” cantato da Kaufmann sento mancare quella varietà di colori e dell’accento indispensabili per esprimere tutti i sentimenti che la pagina musicale sottende. Il carattere di Loris può sprigionarsi solo se il fraseggio arriva a suggerire la sicurezza malcelata della conquista, l’istinto che si acuisce attraverso una seduzione febbrile che non conosce ancora la sicurezza del suo compimento. L’opera verista, e il corpus di Giordano in particolare, non può essere subordinata in toto alla sua esecuzione scenica. Quando l’orchestra emerge nella sua indipendenza descrittiva, è la melodia vocale, con tutte le sue infinite possibilità espressive, a dover render conto delle passioni, degli umori e degli amori di chi sul palco li vive. La vociferazione ferina di Kaufmann declinata nella scrittura di Giordano diventa la negazione non solo del canto professionale – l’emissione costantemente tubata e le sguaiatezze in corrispondenza del sol4 su «NON amar» e del la4 accentato su «T’Amo» - ma anche di qualsiasi tentativo di resa “drammatica” considerata nella sua coerenza stilistica.
Purtroppo, va da sé, possiamo ben applicare queste considerazioni al resto delle tracce della compilation, in cui spiccano per particolare demerito le due arie di Faust dal Mefistofele boitiano, quelle dalla Cavalleria Rusticana, mal dirette da un Pappano roboante oltre che poco ispirato, e, ancor di più, la “Testa adorata” dalla Bohème di Leoncavallo. Basti, per puro gusto comparativo, riascoltare la restituzione che invece dà di quest’ultima aria Salvatore Fisichella, l’antidivo per eccellenza, in un concerto a Solingen nell’85.
Alla luce di tali considerazioni, rimane un piccolo interrogativo. Cosa potrà mai frenare gli indefessi sostenitori di Kaufmann dal celebrarlo quale nuovo Warhol della lirica? Abbiamo un marchio (la major…) e il quotidiano (siamo tutti cantanti…) che si fanno opera d’arte. Perché limitarlo a mero testimonial della “Coloreria Italiana”?
5 commenti:
Ho ascoltato Kaufmann in "Le Nozze Di Figaro" e - pur registrando numerose incertezze - l'avevo giudicato un discreto esecutore; adesso è una sorta di orco che nel maldestro tentativo di risultare elegante riesce solo ad esplorare nuove dimensioni del grottesco.
Ringrazio per la divertente e pressoché definitiva analisi di un ennesimo rigurgito cadaverico dell'industria d'intrattenimento angloidiota. Saluti.
superbo!
...e benvenuto..
La cosa più fastidiosa - in questo prodotto che è riuscito nella "mirabile" impresa di scontentare tutti: sia i fan che i detrattori di Kauffman - è il coinvolgimento di Pappano e dell'Accademia di Santa Cecilia. Forse "trascinati" dalla performance del tenore "a la page" si producono in una performance disastrosa!!!
Grazie!
Ma...nelle Nozze di Figaro cantava Don Basilio e la sua splendida aria "Il capro e la capretta"?
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