Pomeridiana di mistero nella sala del Bibiena. Andrea Concetti ha appena eseguito l’aria del catalogo, quando risuonano dalla galleria voci, che invitano a disattivare l’amplificazione artificiale del suono. Microfoni al Comunale, dunque?
L’impianto scenografico, concepito da Pier Luigi Pizzi, prevede una scena di profondità non indifferente e sostanzialmente vuota, delimitata da specchi e pareti di velluto, da casa di tolleranza che ha visto giorni migliori. Eppure nel primo atto i cantanti, che si trovino sul fondo del palco ovvero al proscenio, risultano sempre ugualmente udibili, invariabilmente sonorissimi, mentre si produce un effetto di riverbero che riguarda non solo i suoni emessi dei solisti, ma anche i loro movimenti in scena (dal rumore dei passi al “Pst, pst” di Leporello). La stessa orchestra, di turgore quasi wagneriano (e l’assetto della buca non era certo da opera tardoromantica), fa supporre una qualche forma di manipolazione acustica. Impressione che si accresce allorché, al finale primo, si deve constatare come le voci fuori scena risuonino quasi altrettanto penetranti di quelle presenti sul palco. Permane parimente inspiegabile come il tenore Juan Francisco Gatell, udito meno di un anno fa nel medesimo teatro e altrove in Italia, possa sfoggiare una voce di volume almeno doppio rispetto al recente passato, e questo sia all’inizio del recitativo che precede il duetto, cantato sul fondo della scena, sia nell’aria del primo atto, che il cantante intona supino su un letto collocato nella parte posteriore del décor, volgendo le spalle al pubblico, forse emulo della divina Olivero alle prese con la berceuse della Dama di picche. Peraltro nel secondo atto (aperto da rinnovate proteste di una porzione sicuramente minoritaria del pubblico) l’effetto è risultato man mano sempre meno pronunciato, fino a scomparire del tutto nelle ultime scene dello spettacolo. Insomma, non erano Duracell le pile dei cantanti.
L’impressione prodotta è quella di un poco riuscito scherzo carnascialesco, o forse di un esperimento, che in qualche modo potesse ovviare alla scarsa attenzione dimostrata dallo scenografo, costumista e regista Pizzi nei confronti delle ragioni del canto. Il problema di queste operazioni, al di là delle ovvie implicazioni morali (rese ancora più cogenti dalle dimensioni tutto sommato modeste della sala bolognese), è che richiedono una preparazione non meno che perfetta, onde evitare che il tutto scivoli nel grottesco, vale a dire in una realizzazione che, uniformando i volumi e i piani sonori, renda di fatto bidimensionale lo spazio scenico. Signori, il cinema con i suoi effetti, impiegati ormai anche nella più modesta delle produzioni, non ha insegnato proprio nulla?
In tutto questo non era certo banale il compito del direttore Tamás Pál, che si è trovato a lottare, con poca fortuna, per tenere assieme orchestra e palco. I problemi in questo senso sono emersi fin dal quartetto, per comparire al massimo grado alla chiusa del primo atto, poi ancora nel sestetto e nel finale dell’opera. Praticamente ad ogni ensemble degno di questo nome. Peraltro nei due finali le orchestre previste in scena suonavano in quinta, così come il coro, nei suoi parchi interventi, era confinato nel golfo mistico. Di mistico c’era ben poco. Peccati veniali o quasi di fronte a una lettura pomposa e manierata, spesso letargica nello stacco del tempi (per poi correre a più non posso in una pagina come “Mi tradì”, in partitura Allegretto), incapace di esprimere, se non con un’esplosione sonora, il clima di orrore sovrannaturale che dovrebbe accompagnare l’ingresso del Commendatore al finale secondo. Nessun colore, nessun brio, neppure una traccia del “bel suono” di certa tradizione magari un poco deteriore, ben pochi brividi e nessun trasalimento, per un’opera che è tutto fuorché monotona e tediosa.
Protagonista era il baritono panamense Nmon Ford, alla cui prestanza fisica, sicuramente mirabile, non corrisponde adeguata preparazione vocale e musicale. Voce in natura piuttosto generosa, ma emessa tutta di gola, mostra i propri limiti nella serenata, in cui tenta di cantare piano e quindi sistematicamente spoggia e sfalsetta. Ma forse è preferibile questo approccio all’exploit del finale secondo, in cui il canto si tramuta in grido purissimo, in un discutibile approccio espressionista a una musica riconducibile a tutt’altra temperie poetica.
Male anche Leporello, il già nominato Concetti, che segue la tradizione del buffo caricato e quindi spesso e volentieri parla e non canta. Peccato che Leporello sia parte da basso cantante, come ci ricordano i soliti Hesch, Kipnis e Lazzari.
Malino William Corrò (Masetto), in fondato sospetto di tenore non sfogato, ma se non altro, rispetto ai colleghi, un poco più controllato come gusto. Malissimo Christian Faravelli (Commendatore), tonitruante e trucibaldo, davvero degno della tradizione che vede nel padre di donn’Anna un tiranno e non piuttosto l’ambiguo messaggero del destino di morte, che incalza il protagonista.
Tutto sommato positiva la prova del già nominato Gatell, che ha cantato con garbo, evitando anche, specie nelle arie, le svenevolezze tipiche degli Ottavio “light”. Il legato è perfettibile, soprattutto ne “Il mio tesoro intanto”, ma rispetto ai compagni di palcoscenico, la prova del tenor tanguero ha quasi del prodigioso.
Vocina acida e querula Manuela Bisceglie, incapace di legare due suoni nella scrittura rigorosamente centrale di Zerlina. Carmela Remigio (passata ormai definitivamente ad Elvira, dopo lunga ma non fortunata militanza quale Anna) avrebbe anche una voce adatta alla bisogna (certamente più adatta a questo Mozart che non al Devereux). Se si sforzasse di adottare un’emissione meno ingolfata, il canto di agilità ne trarrebbe sicuro giovamento e anche gli acuti, parsimoniosamente distribuiti, non risulterebbero, come ora, di volta in volta falsettati o ghermiti.
Zuzana Marková approda alla parte di Anna avendo affrontato, nella nativa Repubblica Ceca, quella di Zerlina e, inoltre, Susanna e Papagena. Praticamente il repertorio della soubrette mozartiana di cabotaggio centrale. Il programma di sala la indica fra gli interpreti dell’Aureliano in Palmira in cartellone al prossimo festival di Martina Franca. Basandoci sulla prova bolognese, avremmo delle remore ad affidarle il ruolo della seconda donna. La voce è di soprano leggero, com’è ormai costume per le interpreti di questa parte, ma la tecnica è meno che da principiante, portando l’avvenente soprano a singhiozzare sul passaggio di registro (scena della scoperta del cadavere del padre), a falsettare la grande aria del primo atto e a pigolare il rondò, specie nella sezione conclusiva (un plauso alla professionalità con cui Gatell ascolta, a pochi centimetri di distanza e nella più totale immobilità, un simile esempio di malcanto). Ancora peggio il duettino al finale secondo (“Or che tutti o mio tesoro”), sistematicamente calante d’intonazione. Praticamente inesistente nelle scene d’assieme, la signora Marková è il vero punto interrogativo della produzione.
Un interrogativo che va esteso allo spettacolo firmato, o meglio, griffato Pier Luigi Pizzi. I nostri detrattori amano dipingerci quali entusiastici ammiratori della piatta illustrazione librettistica. Pizzi dovrebbe quindi costituire il non plus ultra del nostro modo d’intendere la regia d’opera. E così è stato per spettacoli come la celebre Semiramide di Aix. Ma in questo Don Giovanni non c’è nulla, neppure il conforto di una lussuosa confezione, quella che la premiata ditta Pizzi spesso offre anche nelle sue ciambelle senza buchi. L’imbarazzante minimalismo (un onnipresente letto sfatto, qualche sedia, un canapè, gli specchi, le tende nere e stop) si accompagna a un’altrettanto imbarazzante assenza di direzione di attori, sostituita da una presenza costante di comparse, giovani e piacenti, d’ambo i sessi, che si accarezzano promiscuamente, in una sorta di “Don Giovanni delle pari opportunità” che potrà suscitare scandalo e magari altro esclusivamente nei membri più attempati del pubblico. Significativa in questo senso la scena finale, in cui il protagonista è assalito da un branco di spiriti seminudi e cosparsi di gesso (o forse borotalco), che evocano un Inferno a metà strada fra l’horror alla Lucio Fulci e il softcore. Quanto all’esaltazione della fisicità di un cast di cantanti “giovani e belli”, come qualcuno certo li definirà, non possiamo fare a meno di osservare come certi dettagli anatomici consiglino non già la pubblica esibizione degli stessi, ma un rapido ritorno a una minore ostentazione e a un rapporto più frequente e fruttuoso con massaggiatori e personal trainer.
Nonostante i compri scandalizzati, morigerate contestazioni.
Gli ascolti
Mozart - Don Giovanni
Atto I
Madamina, il catalogo è questo - Virgilio Lazzari (1937)
Fin ch'han dal vino - Samuel Ramey (1987)
Atto II
Vedrai carino - Lucrezia Bori (1937)
In quali eccessi, o Numi...Mi tradì quell'alma ingrata - Ilva Ligabue (1970)
Non mi dir, bell'idol mio - Karin Ott (1981)
L’impianto scenografico, concepito da Pier Luigi Pizzi, prevede una scena di profondità non indifferente e sostanzialmente vuota, delimitata da specchi e pareti di velluto, da casa di tolleranza che ha visto giorni migliori. Eppure nel primo atto i cantanti, che si trovino sul fondo del palco ovvero al proscenio, risultano sempre ugualmente udibili, invariabilmente sonorissimi, mentre si produce un effetto di riverbero che riguarda non solo i suoni emessi dei solisti, ma anche i loro movimenti in scena (dal rumore dei passi al “Pst, pst” di Leporello). La stessa orchestra, di turgore quasi wagneriano (e l’assetto della buca non era certo da opera tardoromantica), fa supporre una qualche forma di manipolazione acustica. Impressione che si accresce allorché, al finale primo, si deve constatare come le voci fuori scena risuonino quasi altrettanto penetranti di quelle presenti sul palco. Permane parimente inspiegabile come il tenore Juan Francisco Gatell, udito meno di un anno fa nel medesimo teatro e altrove in Italia, possa sfoggiare una voce di volume almeno doppio rispetto al recente passato, e questo sia all’inizio del recitativo che precede il duetto, cantato sul fondo della scena, sia nell’aria del primo atto, che il cantante intona supino su un letto collocato nella parte posteriore del décor, volgendo le spalle al pubblico, forse emulo della divina Olivero alle prese con la berceuse della Dama di picche. Peraltro nel secondo atto (aperto da rinnovate proteste di una porzione sicuramente minoritaria del pubblico) l’effetto è risultato man mano sempre meno pronunciato, fino a scomparire del tutto nelle ultime scene dello spettacolo. Insomma, non erano Duracell le pile dei cantanti.
L’impressione prodotta è quella di un poco riuscito scherzo carnascialesco, o forse di un esperimento, che in qualche modo potesse ovviare alla scarsa attenzione dimostrata dallo scenografo, costumista e regista Pizzi nei confronti delle ragioni del canto. Il problema di queste operazioni, al di là delle ovvie implicazioni morali (rese ancora più cogenti dalle dimensioni tutto sommato modeste della sala bolognese), è che richiedono una preparazione non meno che perfetta, onde evitare che il tutto scivoli nel grottesco, vale a dire in una realizzazione che, uniformando i volumi e i piani sonori, renda di fatto bidimensionale lo spazio scenico. Signori, il cinema con i suoi effetti, impiegati ormai anche nella più modesta delle produzioni, non ha insegnato proprio nulla?
In tutto questo non era certo banale il compito del direttore Tamás Pál, che si è trovato a lottare, con poca fortuna, per tenere assieme orchestra e palco. I problemi in questo senso sono emersi fin dal quartetto, per comparire al massimo grado alla chiusa del primo atto, poi ancora nel sestetto e nel finale dell’opera. Praticamente ad ogni ensemble degno di questo nome. Peraltro nei due finali le orchestre previste in scena suonavano in quinta, così come il coro, nei suoi parchi interventi, era confinato nel golfo mistico. Di mistico c’era ben poco. Peccati veniali o quasi di fronte a una lettura pomposa e manierata, spesso letargica nello stacco del tempi (per poi correre a più non posso in una pagina come “Mi tradì”, in partitura Allegretto), incapace di esprimere, se non con un’esplosione sonora, il clima di orrore sovrannaturale che dovrebbe accompagnare l’ingresso del Commendatore al finale secondo. Nessun colore, nessun brio, neppure una traccia del “bel suono” di certa tradizione magari un poco deteriore, ben pochi brividi e nessun trasalimento, per un’opera che è tutto fuorché monotona e tediosa.
Protagonista era il baritono panamense Nmon Ford, alla cui prestanza fisica, sicuramente mirabile, non corrisponde adeguata preparazione vocale e musicale. Voce in natura piuttosto generosa, ma emessa tutta di gola, mostra i propri limiti nella serenata, in cui tenta di cantare piano e quindi sistematicamente spoggia e sfalsetta. Ma forse è preferibile questo approccio all’exploit del finale secondo, in cui il canto si tramuta in grido purissimo, in un discutibile approccio espressionista a una musica riconducibile a tutt’altra temperie poetica.
Male anche Leporello, il già nominato Concetti, che segue la tradizione del buffo caricato e quindi spesso e volentieri parla e non canta. Peccato che Leporello sia parte da basso cantante, come ci ricordano i soliti Hesch, Kipnis e Lazzari.
Malino William Corrò (Masetto), in fondato sospetto di tenore non sfogato, ma se non altro, rispetto ai colleghi, un poco più controllato come gusto. Malissimo Christian Faravelli (Commendatore), tonitruante e trucibaldo, davvero degno della tradizione che vede nel padre di donn’Anna un tiranno e non piuttosto l’ambiguo messaggero del destino di morte, che incalza il protagonista.
Tutto sommato positiva la prova del già nominato Gatell, che ha cantato con garbo, evitando anche, specie nelle arie, le svenevolezze tipiche degli Ottavio “light”. Il legato è perfettibile, soprattutto ne “Il mio tesoro intanto”, ma rispetto ai compagni di palcoscenico, la prova del tenor tanguero ha quasi del prodigioso.
Vocina acida e querula Manuela Bisceglie, incapace di legare due suoni nella scrittura rigorosamente centrale di Zerlina. Carmela Remigio (passata ormai definitivamente ad Elvira, dopo lunga ma non fortunata militanza quale Anna) avrebbe anche una voce adatta alla bisogna (certamente più adatta a questo Mozart che non al Devereux). Se si sforzasse di adottare un’emissione meno ingolfata, il canto di agilità ne trarrebbe sicuro giovamento e anche gli acuti, parsimoniosamente distribuiti, non risulterebbero, come ora, di volta in volta falsettati o ghermiti.
Zuzana Marková approda alla parte di Anna avendo affrontato, nella nativa Repubblica Ceca, quella di Zerlina e, inoltre, Susanna e Papagena. Praticamente il repertorio della soubrette mozartiana di cabotaggio centrale. Il programma di sala la indica fra gli interpreti dell’Aureliano in Palmira in cartellone al prossimo festival di Martina Franca. Basandoci sulla prova bolognese, avremmo delle remore ad affidarle il ruolo della seconda donna. La voce è di soprano leggero, com’è ormai costume per le interpreti di questa parte, ma la tecnica è meno che da principiante, portando l’avvenente soprano a singhiozzare sul passaggio di registro (scena della scoperta del cadavere del padre), a falsettare la grande aria del primo atto e a pigolare il rondò, specie nella sezione conclusiva (un plauso alla professionalità con cui Gatell ascolta, a pochi centimetri di distanza e nella più totale immobilità, un simile esempio di malcanto). Ancora peggio il duettino al finale secondo (“Or che tutti o mio tesoro”), sistematicamente calante d’intonazione. Praticamente inesistente nelle scene d’assieme, la signora Marková è il vero punto interrogativo della produzione.
Un interrogativo che va esteso allo spettacolo firmato, o meglio, griffato Pier Luigi Pizzi. I nostri detrattori amano dipingerci quali entusiastici ammiratori della piatta illustrazione librettistica. Pizzi dovrebbe quindi costituire il non plus ultra del nostro modo d’intendere la regia d’opera. E così è stato per spettacoli come la celebre Semiramide di Aix. Ma in questo Don Giovanni non c’è nulla, neppure il conforto di una lussuosa confezione, quella che la premiata ditta Pizzi spesso offre anche nelle sue ciambelle senza buchi. L’imbarazzante minimalismo (un onnipresente letto sfatto, qualche sedia, un canapè, gli specchi, le tende nere e stop) si accompagna a un’altrettanto imbarazzante assenza di direzione di attori, sostituita da una presenza costante di comparse, giovani e piacenti, d’ambo i sessi, che si accarezzano promiscuamente, in una sorta di “Don Giovanni delle pari opportunità” che potrà suscitare scandalo e magari altro esclusivamente nei membri più attempati del pubblico. Significativa in questo senso la scena finale, in cui il protagonista è assalito da un branco di spiriti seminudi e cosparsi di gesso (o forse borotalco), che evocano un Inferno a metà strada fra l’horror alla Lucio Fulci e il softcore. Quanto all’esaltazione della fisicità di un cast di cantanti “giovani e belli”, come qualcuno certo li definirà, non possiamo fare a meno di osservare come certi dettagli anatomici consiglino non già la pubblica esibizione degli stessi, ma un rapido ritorno a una minore ostentazione e a un rapporto più frequente e fruttuoso con massaggiatori e personal trainer.
Nonostante i compri scandalizzati, morigerate contestazioni.
Gli ascolti
Mozart - Don Giovanni
Atto I
Madamina, il catalogo è questo - Virgilio Lazzari (1937)
Fin ch'han dal vino - Samuel Ramey (1987)
Atto II
Vedrai carino - Lucrezia Bori (1937)
In quali eccessi, o Numi...Mi tradì quell'alma ingrata - Ilva Ligabue (1970)
Non mi dir, bell'idol mio - Karin Ott (1981)
24 commenti:
se iniziamo a mettere microfoni anche in sale piccole come quella del comunale di Bologna siamo davvero alla frutta
Ho letto opinioni discordanti...pare che in platea non si sentisse un tubo! Credo che, per questi squilibri acustici, si debba "ringraziare" il presunto genio Pizzi..lo scenografo arredatore che taluni scambiano per regista (e che da anni, ormai, allestisce sempre la stessa sala, cambiando giusto qualche articolo)..
Duprez, verrebbe da dire: fortunata la platea! del resto certamente ricorderai il "pasticciaccio brutto" dello Chénier madrileno dell'anno scorso, con la famosa amplificazione, gabellata dal teatro come "incidente di percorso", cagionato dai riporti "inavvertitamente" attivati, che avevano trasformato Vratogna in un novello Galeffi... purtroppo solo nel volume! ebbene, anche in quel caso la protesta era partita dal loggione (il solito loggione di m***a, come ebbe a scrivere, a proposito di altro loggione, un critico musicale subito ripiombato - buon per lui - nell'anonimato), proprio perché ai piani alti l'amplificazione risultava massimamente evidente e, quindi, più fastidiosa che altrove...
Sì sì, ricordo...ho solo riportato quanto ho letto: peraltro tutti concordano sul "livello" dello spettacolo...in particolare sulla bacchetta.
Piccola divagazione sul canto e l’erotismo…
Quando Mattia Battistini canta la serenata, si intuisce perfettamente il perché Don Giovanni piacesse tanto alle donne.
Ascoltando invece quelli che oggi dovrebbero essere i continuatori dell’arte del baritono romano (sottolineo: dovrebbero), sorge il sospetto, più che fondato, che l’unica dote di cui Don Giovanni disponga per sedurre le sue amanti, sia la violenta costrizione fisica…
Poi però, si ascolta cantare anche quelle graziose donnette di cui gli odierni Don Giovanni dovrebbero far violenta preda. E così, fugata l’ipotesi della seduzione, si cancella pure ogni minimo sospetto di violenza. E' chiaro trattarsi solo di banali prestazioni a pagamento.
Morale della favola…
Il malcanto non può evocare in alcun modo la potenza erotica di Don Giovanni, né può rappresentare il sentimento di cui tale potenza in-forma le sue prede.
Dal malcanto, che è la prostituzione del canto vero, possono scaturire solo sentimenti falsi, vuoti, mercenari.
Qui il link per ascoltare la diretta web del Don Giovanni bolognese, alle 19:45 domani sera:
http://www.magazzini-sonori.it/
Ero a teatro domenica pomeriggio. Conosco bene l'acustica del Bibiena e buona parte dei cantanti scritturati, che ho sentito più volte anche dal vivo. Confermo quindi le perplessità - ai fatti, certezze - sollevate da Tamburini. In loggione, oltre al rimbombo, ho sentito un Gatell trasformato per l'occasione in un nuovo Licitra (mi auguro per lui di no), un'orchestra tonitruante come mai l'ho udita prima, passi e altri rumori di palco come bombe, frasi sussurrate e recitativi emessi con una proiezione fantasiosa, etc. Tutto ciò fino a metà secondo atto, quando l'amplificazione è stata spenta dopo ripetute richieste da parte di un paio di spettatori e il tutto è purtroppo ripiombato nella solita afonia a cui siamo ahinoi da tempo avvezzi.
Anch'io immagino sia stato un evento occasionale, una sorta di esperimento. Resta il fatto che l'amplificazione è stata attivata. Sappiamo poi bene che il Comunale non è nuovo a scherzetti del genere: qualcuno ricorderà bene che nel 2001, durante l'ultima prova d'assieme dell'Aida a firma Gatti/De Ana, si sentì un evidente CRACK durante l'esecuzione. E non era di certo un acuto della protagonista.
Saluti a tutti
sono stata mille volte a teatro a Bologna ma che ci fosse bisogno di correggere l'acustica MAI!
mi domando anche come sia possibile che una scenografia possa alterare gli equilibri sonori...sono assai perplessa
Opinioni, Mancini: spesso - quando si abusa di sovrastrutture ideologiche - si fa dire alla realtà quello che si vorrebbe sentire, adattandola così alle proprie idee e manipolando i dati a seconda del vantaggio (c'è già stato chi, in un triste passato, ha sostenuto che sono le circostanze a doversi adattare alle idee e non il contrario). Nello specifico poi, la lentezza estenuante, i portamenti sgradevoli, le libertà eccessive nel fraseggio e nel testo, oltre ad un gusto assai discutibile, non mi sembra dimostrino un bel nulla... Comunque questo tipo di Mozart (liquoroso e pieno di melassa) non ha veramente più nulla da dire (oltre ad essere poco corretto).
Tralasciando per un attimo il gusto, potresti dirmi, Duprez, quali fra i baritoni di oggi sono in grado di fare una messa di voce sul fa diesis acuto, come Battistini nella serenata?
Poi, venendo al gusto: quale richiamo erotico più soave, ma anche più diretto, di quell'elegante puntatura? ma davvero preferisci i suoni spoggiati, perché mai sul fiato, di un Hampson o di un Keenlyside?
... od i suoni ingolfati, perché nello stomaco, di un D'Arcangelo?
Caro Antonio, della nota in sé mi curo assai poco (anzi nulla). Quella Serenata è, oggettivamente, slentata e piena di portamenti (sgradevoli), taccio poi delle eccessive libertà testuali (non è un'aria con "da capo", le varianti non sono previste, non aggiungono nulla, anzi, tolgono alla struttura coerenza ed equilibrio, oltre ad annacquare la linea musicale). In tutto ciò c'è pure una bella messa di voce? Va bene, e allora? L'opera non è una palestra o un circo... Io sento solo un Mozart zuccheroso e melenso che nulla c'entra con la scrittura mozartiana, con l'estetica del tempo e con il senso del personaggio. Può piacere (non lo contesto affatto), ma da qui a imporlo come modello "ce ne corre". Anche perché se io oggi a teatro sentissi una "roba" del genere mi alzerei sghignazzando..e probabilmente non sarei il solo! E non credo di essere né sordo né idiota né impreparato. Vedi, il fatto non è che Mancini o tu o chiunque altro abbiate gusti differenti dai miei, ma il presupporre - in modo assolutistico e arrogante - che questo sia CANTO e tutto il resto MALCANTO o PROSTITUZIONE addirittura (utilizzo l'ingiuriosa espressione di Mancini invitandolo NUOVAMENTE ad astenersi da queste considerazioni, utilizzando un frasario più civile, o, in caso contrario firmarsi con nome e cognome, onde assumersi la piena responsabilità - civile e penale - delle sue iperboli). Il fatto poi che si mettano a confronto incisioni ufficiali (seppur tecnicamente rudimentali) con frammenti estrapolati da spettacoli dal vivo, magari in modo precario, scegliendo accuratamente la performance meno riuscita (in modo da "dimostrare" che A è meglio di B), denota solo malafede, pregiudizio ed uso scorretto dei dati.
Mi chiedi qualche altro Don Giovanni attuale che faccia quella messa di voce? Non mi importa chi la esegue - le vivisezioni vocali (e non) mi fanno orrore e sono fini a sé stesse - ma come viene cantata l'intera opera e come viene interpretato il personaggio. E di migliori Don Giovanni ne ho sentiti diversi: posso dirti Siepi, Ramey, Mattei...ma la lista è lunga.
Non pretendo di convincere nessuno, né è mia intenzione farlo (il proselitismo non rientra tra i miei interessi), semplicemente constato che il pregiudizio "antimoderno" impedisce l'onestà di giudizio: nello specifico parlare di "suoni ingolfati e stomacali (o stomachevoli?)" per D'Arcangelo significa eccedere nello zelo giacobino di chi ritiene che fuori dai cilindri di cera o dai 78 giri vi sia solo "la perdizione". Temo che la vera "colpa" di D'Arcangelo, agli occhi, rectius orecchi, di Mancini sia il fatto che incida per una casa discografica importante, che abbia successo, e che non sia nato prima della breccia di Porta Pia.
E poi perché mettermi in bocca cose che mai ho sostenuto? Perché porre l'alternativa tra Battistini e Hampson? Come se non ci fosse altro? Quando mai ho scritto di preferire Hampson o Keenlyside
Caro Antonio, della nota in sé mi curo assai poco (anzi nulla). Quella Serenata è, oggettivamente, slentata e piena di portamenti (sgradevoli), taccio poi delle eccessive libertà testuali (non è un'aria con "da capo", le varianti non sono previste, non aggiungono nulla, anzi, tolgono alla struttura coerenza ed equilibrio, oltre ad annacquare la linea musicale).
La Canzonetta è un'aria strofica. Le variazioni non sono solo consentite, sono richieste dalla struttura e difatti molti direttori filologi le adottano. Idem dicasi per le libertà ritmiche (è una serenata, mica una marcetta).
In tutto ciò c'è pure una bella messa di voce? Va bene, e allora? L'opera non è una palestra o un circo... Io sento solo un Mozart zuccheroso e melenso che nulla c'entra con la scrittura mozartiana, con l'estetica del tempo e con il senso del personaggio.
Quale estetica? L'estetica del secolo della galanteria, dell'erotismo di Laclos e di Fragonard? Tutto questo ti sembra così lontano dal Don Giovanni di Mozart e da quello di Battistini?
Può piacere (non lo contesto affatto), ma da qui a imporlo come modello "ce ne corre". Anche perché se io oggi a teatro sentissi una "roba" del genere mi alzerei sghignazzando..e probabilmente non sarei il solo! E non credo di essere né sordo né idiota né impreparato.
Certo, dopo cinquanta e passa anni di canto baritonale di tutt'altra specie, non fatico a crederlo.
Vedi, il fatto non è che Mancini o tu o chiunque altro abbiate gusti differenti dai miei, ma il presupporre - in modo assolutistico e arrogante - che questo sia CANTO e tutto il resto MALCANTO o PROSTITUZIONE addirittura (utilizzo l'ingiuriosa espressione di Mancini invitandolo NUOVAMENTE ad astenersi da queste considerazioni, utilizzando un frasario più civile, o, in caso contrario firmarsi con nome e cognome, onde assumersi la piena responsabilità - civile e penale - delle sue iperboli). Il fatto poi che si mettano a confronto incisioni ufficiali (seppur tecnicamente rudimentali) con frammenti estrapolati da spettacoli dal vivo, magari in modo precario, scegliendo accuratamente la performance meno riuscita (in modo da "dimostrare" che A è meglio di B), denota solo malafede, pregiudizio ed uso scorretto dei dati.
Quindi non si può confrontare Battistini, o Renaud, con Petri o Wächter, solo perché degli ultimi due esistono incisioni complete del ruolo, e dei primi due no? O non è forse anche questa malafede, pregiudizio e uso scorretto (o non uso) dei dati?
Mi chiedi qualche altro Don Giovanni attuale che faccia quella messa di voce? Non mi importa chi la esegue - le vivisezioni vocali (e non) mi fanno orrore e sono fini a sé stesse - ma come viene cantata l'intera opera e come viene interpretato il personaggio. E di migliori Don Giovanni ne ho sentiti diversi: posso dirti Siepi, Ramey, Mattei...ma la lista è lunga.
Ma quella dei Don Giovanni attualmente in attività si riduce a uno, par di capire...
Non pretendo di convincere nessuno, né è mia intenzione farlo (il proselitismo non rientra tra i miei interessi), semplicemente constato che il pregiudizio "antimoderno" impedisce l'onestà di giudizio: nello specifico parlare di "suoni ingolfati e stomacali (o stomachevoli?)" per D'Arcangelo significa eccedere nello zelo giacobino di chi ritiene che fuori dai cilindri di cera o dai 78 giri vi sia solo "la perdizione". Temo che la vera "colpa" di D'Arcangelo, agli occhi, rectius orecchi, di Mancini sia il fatto che incida per una casa discografica importante, che abbia successo, e che non sia nato prima della breccia di Porta Pia.
La vera "colpa" di D'Arcangelo è quella di cantare un Don Giovanni di voce artificiosamente larga e bitumata, e quindi poco sonoro e ancor meno espressivo, come ti basterà appurare la prima volta che lo sentirai dal vivo.
E poi perché mettermi in bocca cose che mai ho sostenuto? Perché porre l'alternativa tra Battistini e Hampson? Come se non ci fosse altro? Quando mai ho scritto di preferire Hampson o Keenlyside[?]
Hai ragione, fra Battistini e Hampson (o Keenlyside) non c'è alternativa possibile. O almeno plausibile.
"[...]Vedi, il fatto non è che Mancini o tu o chiunque altro abbiate gusti differenti dai miei, ma il presupporre - in modo assolutistico e arrogante - che questo sia CANTO e tutto il resto MALCANTO o PROSTITUZIONE addirittura (utilizzo l'ingiuriosa espressione di Mancini invitandolo NUOVAMENTE ad astenersi da queste considerazioni, utilizzando un frasario più civile, o, in caso contrario firmarsi con nome e cognome, onde assumersi la piena responsabilità - civile e penale - delle sue iperboli).[...]"
Per cortesia, leggi con più attenzione quello che ho scritto. La mia è una metafora, il malcanto come prostituzione del canto vero. Non travisare quello che dico.
1) La "canzonetta" è un'aria strofica, certo, ma non è un'aria col da capo, Don Giovanni non è Opera Seria metastasiana, Mozart non è Handel. L'ornamentazione nelle opere mozartiane, è questione delicata, l'interprete non ha le stesse libertà che si può prendere con l'opera barocca. Lo stesso ambiente culturale lo suggerisce (l'influenza della "riforma" gluckiana e gli influssi dell'illuminismo musicale sono evidenti). Nel Don Giovanni vi sono pochi spazi in cui è possibile inserire cadenze, ma nessuno di questi si trova nella canzonetta. Il fatto che molti "direttori filologi" le concedono che ci importa? Ti sei convertito ai dogmi baroccari?
2) il Mozart galante, tanto caro alle dame da pasticceria rococò, è una pura invenzione dovuta alla degenerazione romantica dell'approccio alla musica settecentesca: una lettura superficiale, molle e zuccherosa che ben si addice a quei cantanti asettici e sbiancati di scuola anglosassone (o viennese) che interpretano Mozart come se fosse soprammobile di cattivo gusto! Ridurre il XVIII secolo ai minuetti di Boccherini mi sembra operazione di scarsissimo livello. Ma poi quale erotismo si percepisce da quella serenata di Battistini? I portamenti sono eccessivi, lo sbiascicare idem, la lentezza è esasperante: ma di cosa stiamo parlando? Di ascolto o di fantasie sull'ascolto? Tutta la mia ammirazione al "re dei baritoni", ma questa serenata non mi sembra un omaggio molto riuscito alla sua arte...
3) le apocalissi annunciate sono elucubrazioni che lasciano il tempo che trovano: mi sembra assurdo definire "spazzatura" tutto il canto baritonale post battistini... Poi tu sei liberissimo di pensare quel che vuoi, io rivendico il medesimo diritto e gradire - per questo - non essere considerato un coglione!
4) circa l'uso dei documenti non farmi dire ciò che non penso: è ovvio che il confronto sia strumento sacrosanto, ma va praticato con onestà. Paragonare una registrazione ufficiale (fatta con tutti i crismi) con frammenti estrapolati in modo precario dal vivo, magari selezionando le performance meno riuscite, e assolutizzare i risultati è DISONESTO. Sarebbe come giudicare Lauri-Volpi dalla sue ultime incisioni, o dai frammenti dal vivo della seconda parte di carriera - dov'era STONATO COME UNA CAMPANA E A TRATTI INASCOLTABILE - e suggerire che Lauri-Volpi cantasse sempre così male. O mettere a confronto l'ultima Sutherland (decisamente discutibile) con qualsiasi incisione di un'interprete presa agli inizi di carriera... Che cosa dimostrano questi confronti farlocchi?? Nulla, sembrano i sondaggi del TG4: costruiti ad arte e manipolati in funzione ideologica.
5) circa i Don Giovanni in attività: non mi risulta che Battistini calchi ancora le scene.
6) D'Arcangelo non ti piace: AMEN. A me piace: AMEN. L'ho sentito dal vivo e non lo trovo affatto "bitumato"...opinioni: io rispetto la tua, gradirei avere lo stesso trattamento. Ho solo il sospetto che vi sia un pregiudizio dovuto all'innegabile successo che riscuote...
7) l'alternativa tra Battistini e Hampson la fai solo tu: io ho semplicemente scritto che MAI ho detto di preferire Hampson o Keenlyside. E non comprendo per quale ragione il non apprezzare quella serenata equivalga all'apprezzamento di Hampson: mi sembra l'atteggiamento del presidente del consiglio che ritiene tutti coloro che non gli strisciano ai piedi, dei comunisti...
Purtroppo ho letto, Mancini, e ho ben compreso...del resto non mi stupisce il livello delle tue metafore. Sai bene cosa mi evoca il tuo linguaggio e l'integralismo delle tue posizioni. Non ho molto interesse a confrontarmi con predicatori o mullah...
Per sbugiardare le tue posizioni, Duprez, basta fare un confronto con ciò che tu stesso hai scritto nel nostro recente “duello”, e verificare così la disarmante contraddittorietà del tuo pensiero, che a questo punto si appalesa solo come un non-pensiero, o meglio, come mera smania, violenta e fine a se stessa, di contraddire sempre, saccentemente, i punti di vista altrui… fino al punto di contraddirti tu stesso (sbaglio o te l’hanno fatto notare anche in altri fori?).
Precisamente, ecco a cosa mi riferisco:
“[…]Nello specifico poi, la lentezza estenuante, i portamenti sgradevoli, le libertà eccessive nel fraseggio e nel testo, oltre ad un gusto assai discutibile, non mi sembra dimostrino un bel nulla... Comunque questo tipo di Mozart (liquoroso e pieno di melassa) non ha veramente più nulla da dire (oltre ad essere poco corretto)."
Quando, però, osai IO parlare di un Mozart “non corretto”, a proposito di Glenn Gould, ecco come tu mi incalzasti:
“[…]Ma che cosa significa il Mozart corretto o il Beethoven corretto? Chi attribuisce tali "patenti"? Chi dice che Liszt vada suonato proprio così? Ovviamente non parlo di mera meccanica, parlo di interpretazione. Quando ascolto un brano è ovvio che si ascolta, in realtà, il modo in cui tale brano viene interpretato, e quindi non ascolto Beethoven e basta (che esiste solo su carta), ma Pollini, Lewis, Horowitz, Pletnev, Gould... Se un interprete è anonimo non mi interessa neppure ascoltarlo: basta fare un giro ad un qualsiasi saggio di conservatorio o - se si conosce la musica - acquistare lo spartito. Gould aveva una tecnica diversa - lo ammetti anche tu - e quindi? Poi il resto è solo opinione e gusto personale (atteso che nessuno sbaglia le scale o gli accordi: ma è mera meccanica).”
Poi io ti risposi pure, ma dovetti subire la tua inquisitoria censura e riprovazione… col che intesi che proseguire era inutile.
Ora, da tutte queste tue arringhe pretestuose e contraddittorie, devo dedurre, per fugare il sospetto di malafede, che tu sia l’araldo depositario del verbo mozartiano, e che la risposta alla domanda su chi attribuisca la “patente di correttezza”, sia Gilbert Louis Duprez: l’unico legittimato all’interpretazione della lettera mozartiana…
Per rispondere, poi, all’accusa di malafede che mi hai rivolto – pare di essere a processo -, a proposito del confronto tra i cimeli “ufficiali” - in cilindro od a 78 giri - ed i più recenti “frammenti estrapolati in modo precario dal vivo” (selezionati, a tuo dire, secondo le situazioni più sfavorevoli), ti faccio presente che Battistini incide i suoi dischi ad età avanzata, e che il video da me scelto del tuo diletto D’Arcangelo, è un filmato ufficiale di un live trasmesso dal canale televisivo “Sky Classica”. Niente di precario o di sfavorevole. E’ curioso, peraltro, come il quarantenne D’Arcangelo dimostri nella voce vent’anni di più del collega – cinquantenne – Battistini.
Infine, se tu non hai molto interesse a confrontarti con chi ti fa comodo bollare come “integralista” “predicatore”o “ mullah”, sappi che nemmeno io intendo perder tempo a discutere con chi parla di Battistini come di una “roba” su cui “sghignazzare”… Ne ho già abbastanza degli stupri che sopportano le mie orecchie ogni volta che mi reco a teatro a sentire i cani odierni, non intendo subire pure le tue apologie del malcanto e le tue insinuazioni mistificatrici sul canto vero. Che D’Arcangelo ti piaccia o meno, non mi riguarda. Che sia un esempio di malcanto, non è affatto un’opinione, è un dato oggettivo. Così come è oggettivo che, ai più, oggi il malcanto piaccia.
Ovviamente, Mancini, non hai capito nulla: non ti biasimo, del resto chi deve rendere conto ad un’ideologia si guarda bene dall’utilizzare il cervello e dall’esercitare la propria ragione (se ne dispone). E’ più comodo ripetere “a pappagallo” la lezioncina appresa (con fatica), fraintendendone, magari, gli aspetti critici. Ma ti compatisco per questo: non sei il primo e non sarai l’ultimo a mettere sotto chiave autonomia di pensiero e intelletto (se fornito), solo – ti avverto – che non c’è nessuna ricompensa per tale cieca abnegazione, nessun “Premio Stalin” per il servizio alla causa.
Detto questo – e tralasciando il fatto che il tuo commento rimane pubblicato solo per il fatto che IO non sono un fascista e, pur tra tentennamenti dovuti all’approccio ingiurioso nei miei confronti, ha prevalso il mio senso profondamente democratico – rispondo nel merito.
La contraddittorietà a cui tu accenni, in realtà non esiste affatto: si tratta di discorsi differenti e riguardano prospettive differenti. Io – che sono laico – non parlo MAI di dogmi esecutivi: al contrario di quanto fai tu quotidianamente, arrovellandoti nel distinguere il bene dal male e attribuendo patenti di canto e malcanto, scambiando i tuoi gusti per verità assolute (e indimostrabili, ma è tipico di ogni approccio fideistico).
E’ evidente come le libertà di fraseggio di Gould non vadano a compromettere il tessuto musicale mozartiano. Al contrario di una visione zuccherosa e leziosa che riduce Mozart ad un pasticcino. Ma anche in questo caso il mio atteggiamento non è impositivo: non ho scritto certo che esecuzioni diverse da quelle che mi soddisfano siano eresie o bestemmie. Semplicemente non mi piacciono, non le trovo coerenti con quelli che sono i dati ricavabili da una partitura o da uno studio critico sull’autore. Non le ritengo, quindi, corrette alla luce della nostra sensibilità, né oggi, riproponibili. Non nego che esistano o che abbiano avuto una legittimità. Tu, invece, bolli tutto ciò che esula da un modus esecutivo prebellico come sacrilego. Elevi una tradizione (vecchia e superata storicamente) a totem, a idolo e ad essa sacrifichi tutto. A prescindere: per te l’unico Mozart è quello di Battistini, non ponendoti neppure il dubbio sulla veridicità dell’assunto e fregandotene del fatto che in 100 anni percezione, ricerche, stili, gusti, approcci siano mutati. E non in peggio.
Io i gusti non li discuto: non discuto i tuoi, semplicemente non li condivido. Tu invece dici che i miei sono sbagliati. Ma come ti permetti? Quale autorità vanti in materia? Dall’alto del tuo analfabetismo musicale, forse: non elenco, ora, i tuoi tanti precedenti strafalcioni (anche se sarebbe divertente ed istruttivo).
A mio gusto, dunque, Battistini (che preferisco in altri repertori) canta una “serenata” slentata e stentata, con evidenti portamenti (molto brutti peraltro), con libertà eccessive e che si giustificano solo perché in sede concertistica. Quel che tu chiami erotismo è, al mio gusto, un’affettazione melensa...che non biasimo, stante l’epoca di registrazione, ove Mozart era così frainteso. Tu, probabilmente sei fermo lì, a 100 anni fa, quando la musica mozartiana era romanticizzata, wagnerizzata o assimilata ad una galanteria da minuetto di Boccherini. Ti piace? Accomodati. E’ un tuo gusto, ma di oggettivo non c’è nulla!
Su D’Arcangelo (che tu sicuramente non hai MAI ascoltato dal vivo: ma non ne hai bisogno...c’è sempre chi ascolta per te e SOPRATTUTTO pensa per te) posso dirti che evidentemente abbiamo percezioni diverse: il rappresentarlo però come fai tu è indice di pura mala fede (sono sicuro che se io prendessi un suo file audio e ne manipolassi il suono rendendolo assimilabile ai residuati bellici che tanto ti piacciono, diresti che è magnifico: conosco bene quelli che “ragionano” come te...si fanno condizionare dall’etichetta o dal marchio!). Il fatto che tu reputi una tua opinione, essere fatto oggettivo, mi conferma solo la tua ignoranza, la tua presunzione, e la tua arroganza. Così come definire le mie opinioni un “non-pensiero”.
Io, infine, non faccio nessuna apologia del malcanto...sei tu a fare una crociata dell’assurdo! Peraltro non confortata da nessun dato di esperienza, dato che il 99% dei cantanti di cui sparli e che insulti, manco li hai sentiti...al massimo ne hai sentito parlare. Oppure ne ascolti brevi lacerti presi da youtube (col suono compresso e spesso riferiti ad esecuzioni precarie), selezionando tra le performance peggiori, per trovare conferme dei tuoi dogmi di fede. E’ un metodo disonesto! Potrei trovare facilmente un numero elevato di frammenti dove Lauri-Volpi stona come una campana, e da questo “dimostrare” che cantasse da cani: ma sarebbe giusto? No, eppure tu lo fai costantemente. E’ un giochino poco astuto e di scarsissimo pregio. Per questo non sei credibile e non sei attendibile.
E poi, se non vuoi subire “stupri” o molestie, perché vai a teatro? Te lo ordina il medico? Perché non vai da un robivecchi, recuperi un grammofono e ti chiudi in una cantina ad ammuffire insieme ai portamenti, gli svolazzi liberty e i picchettati che ti piacciono tanto?
Ero indeciso se replicare, in quanto alle cattiverie ed alle insinuazioni offensive di carattere personale, sono solito non rispondere. Oltretutto, chi quando si parla di musica tira in ballo il proprio “profondo senso democratico”, dandomi così del fascista (affermazione diffamatoria, ben più di quel frasario, in uso da secoli, con cui si dà dei “cani” ai cattivi cantanti), normalmente non merita la mia attenzione ma solo la mia commiserazione.
E invece, messe da parte la retorica e le ingiurie (e siamo ad un buon 80 % del tuo intervento), rispondo, solo per questa volta, a quel che rimane – poco – del tuo commento.
Prima di tutto, i soliti fraintendimenti, che chiaramente, dopo le mie passate e reiterate spiegazioni, non sono affatto fraintendimenti, ma solo meschinità in malafede. Sì, perché tu continui a farmi dire cose che io neanche ho pensato, e su cui ci siamo già spiegati più e più volte. E quindi, per l’ennesima volta, ti ripeto che non è lo stile esecutivo di Battistini che voglio riproporre, ma è la sua tecnica di canto. Non "elevo a totem" nessuna tradizione esecutiva, pretendo solo un canto tecnicamente corretto e garbato, in base a quei principi che per secoli si sono tramandati, fino all’altro ieri.
I gusti, poi, per definizione sono soggettivi e quindi né giusti, né sbagliati. Così, ciò che tu descrivi come “slentato, stentato, zuccheroso e melenso”, per me è dolce, trasognato, sensuale e seducente, pertinente alla musica ed alla situazione, mentre i portamenti “brutti” sono invece musicali ed espressivi. Allo stesso modo, le libertà di fraseggio di Gould – insieme alle sue assurde scelte nei tempi, ed all’omissione sistematica dei da capo – per te non compromettono il tessuto musicale mozartiano, per me invece lo ignorano.
Tuttavia, parlare, come tu fai, di un Mozart “frainteso” (cioè sbagliato) a proposito di Battistini, significa, in re ipsa, assolutizzare il proprio punto di vista, e dire così che l’unico Mozart giusto è quello ispirato ai propri canoni e gusti. E poi sarei io quello che dice che i gusti degli altri sono sbagliati?
E’ invece oggettivo, e non c’entra niente né col gusto mio, né col tuo, che la voce di D’arcangelo non galleggia alta e leggera sul fiato, ma è ingolfata in una posizione bassa che la allarga e scurisce artificiosamente, compromettendo così squillo, legato e sfumature a mezzavoce. La tecnica è un fatto oggettivo. Oggi si canta con questa tecnica? Io non lo approvo! A te invece sta bene? Beh, non sei l’unico.
La contraddittorietà delle tue posizioni su Battistini e Glenn Gould, e quel concetto di correttezza a cui fai ricorso solo quando ti serve, mi fanno dire che il tuo è un non-pensiero, perché si annulla da sé, affermando prima una cosa, e poi il suo contrario. Semplice applicazione del principio di non contraddizione.
"conosco bene quelli che “ragionano” come te...si fanno condizionare dall’etichetta o dal marchio!"
=================================
Duprez, c'entra qui per caso la lettura che ho dato in senso, come dire... "majoristico", del cd di Kaufmann? Avendo ritrovato lo stesso lessico, mi sono sentita chiamata in causa.
Personamente credo che, dando per assodati alcuni capisaldi del marketing - non solo quello musicale - ossia unicità del prodotto (nella fattispecie, la baritonalizzazione artificiale del mezzo) e radicamento pubblicitario nello spazio mediatico (tra cui, comparsate televisive, partecipazioni a eventi extramusicali, etc), il successo del fenomeno Kaufmann possa essere ben ricondotto, perché no, in una dinamica "etichettara". E poi, siccome siam tutti d'accordo che di patacca si tratta, sia sul versante esecutivo che su quello interpretativo, può succedere che qualche appassionato possa anche incazzarsi se magari in provincia gli capita di sentire un tenore più garbato di quello di griffe.
Certo, il discorso rimane senza dubbio complesso. Detto questo, non trovo nulla di catastroficamente horkeimeriano se mi chiedo: a farsi "condizionare", come dici tu, dal marchio è davvero chi rileva tali logiche promozionali - peraltro risapute - o chi invece questi dischi li acquista? Che poi ognuno possa avere gusti propri e faccia shopping come meglio crede, questo è un altro discorso.
Assolutamente no Carlotta: io mi riferisco esclusivamente a certo atteggiamento di Mancini.
Per inciso quel prodotto kauffmaniano è aldilà del buon gusto...e condivido ogni riga della recensione.
Il discorso "etichettatura" si riferisce a chi (ieri, oggi e, purtroppo, domani) giudica un prodotto dal nome, dal marchio e dalla copertina. Chi non distingue il prosecco dallo champagne, ad esempio, ma che discetta di bollicine francesi come fosse un sommelier. O chi applaude A PRESCINDERE il gran nome. O chi lo fischia a prescindere. Penso alle ultime performance della Bartoli. E' un atteggiamento molto diffuso purtroppo, che impedisce di ascoltare e giudicare onestamente. E su questo gli esperti di marketing fanno leva... Purtroppo i gonzi che ci cascano ci sono. Ma ci sono gonzi pure nel senso opposto, per cui tutto ciò che proviene da una major è "sterco del diavolo".
Dire che il passato è sempre migliore del presente è atteggiamento di puro reazionariato (e c'è sempre stato, in ogni epoca, chi ha fantasticato su presunte età dell'oro), che impedisce un ascolto critico e onesto. Oggi i problemi sono diversi, ma anche 50 anni fa non era tutto così bello (basta pensare a come certi repertori venivano martoriati).
Il culto del nome (da Domingo alla Callas, dalla Freni a Lauri-Volpi, sino a Battistini) impedisce un ascolto imparziale. Impedisce, ad esempio, di sentire certe brutture, impedisce di notare, nella serenata di Battistini, tutti quei portamenti sgradevoli o quei tempi slentati, o il fraseggio melenso. Battistini non è un'icona sacra, non è un marchio intoccabile. Va valutato nel bene e nel male.
Mettiamo a confronto la serenata di Battistini con quella di Schlusnus (ad esempio) e vediamo le differenze di stile, fraseggio e linea musicale.
Tutto qui.
Ps: purtroppo su youtube non si trova la serenata di Schlusnus e mi spiace non poterla allegare. Ma veramente siamo su di un altro pianeta.
E parlo di Schlusnus: non credo sia apologia di malcanto, come mi attribuisce Mancini.
Posta un commento