Diretta televisiva tra le ultime nevi di stagione in montagna e poi seconda recita dal vivo.
Un Flauto Magico incardinato sull’allestimento di un famosissimo artista contemporaneo, William Kentridge, che da solo ha prodotto tutto quanto avesse da dire questo spettacolo, sul piano musicale abbastanza incolore e noioso, atto II soprattutto.
Siamo stati attratti e distratti dalla produzione pensata con abbondanza di trovate dal signor Kentridge, che ha fondato il suo allestimento sull’adozione di retroproiezioni sui fondali avanti ai quali si svolge l’azione. Con le immagini Kentridge ha individuato l’essenza del pensiero del XVIII secolo: l’immagine scenica moderna trova la sua antenata negli albori del cinema alla Lumière, prima ancora nei dagherrotipi e nella camera oscura, prima ancora nei principi dell’ottica e nella rivoluzione scientifica newtoniana. Proprio l’Opticks era stata la vera via di divulgazione della moderna concezione dell’universo nel XVII secolo, quella del sistema solare più volte proiettato sul fondale, che attraverso l’illustrazione di saperi accessori, dai principi dell’ottica, proiettati subito in coincidenza della presenza in scena di una camera oscura e poi di dagherrotipi, giungeva a far corrispondere gli intervalli di colore con l’ottava musicale. La massoneria “retropresente” nel Flauto è rappresentata senza mezzi termini dal regista con un coro e Sarastro in abiti borghesi, e l’allusione è ai circoli intellettuali e laicizzati di mezza Europa. L’uomo illuminista scruta con un cannocchiale lo spazio del cielo, perché finalmente può cogliere razionalmente lo spazio e dominare la natura infinita, mentre la sfera celeste ove appare la Regina ritorna come nelle immagini della prima dell’opera, alla Schinkel. Dopo i confini della scienza, l’uomo moderno, Tamino, esploratore in abiti ma, soprattutto, per attitudine mentale, si spinge lontano, nell’antico delle origini, quindi le proiezioni di templi neogreci e neoegizi, altro topos dell’architettura settecentesca, ma anche nell’oriente esotico vero e proprio, quindi i palmizi e Monostatos non più nero, ma con fez e frustino, come i mercanti di schiavi, sino alla proiezione della caccia grossa in bianco e nero.
Il primo atto dell’opera di fatto esaurisce l’idea brillante e sapiente del regista, che non trova però altrettanta forza in quello successivo. Non manca l’occhio massonico entro la piramide nella scena dei monaci, citazione obbligatoria per la metafora del rito massonico che si svolge in scena, ma poi le proiezioni perdono la pregnanza precedente, per divenire mero movimento di fondo, bella e scenografica ripetizione. Molto garbata e graziosa la regia, con piccole gag e trovate simpatiche mai eccessive. In definitiva, una bella idea ben realizzata anche se non sull’intero arco dell’opera.
Certo, il regista non ha trovato nel maestro Böer un compagno di viaggio all’altezza. Con buona pace delle grandi parole per lui spese dal sovrintendente Lissner nell’intervista televisiva, il maestro Böer non ha fatto nulla che fosse degno di nota, a meno di aprire lentamente la valvola del gas e narcotizzarci con la sua noiosa concezione di Mozart. Chi scrive non vive nel dogma dell’assolutezza ed immensità del genio salisburghese, men che meno dell’indiscutibile perfezione del Flauto Magico, ma sono ben lontana dall’accettare che questa opera venga restituita con tale piattezza, monotonia ed assenza di fantasia. Al contrario, credo che Mozart cristallizzi in sé tutte le mille diverse facce del tardo settecento, e parecchio del poi e del prima, catalizzati da una fantasia creatrice senza limiti e da una speciale capacità di scrivere grande musica per ogni situazione drammaturgica e genere, cambiando continuamente da una scena all’altra.
La bacchetta di questa produzione, però, latita non riuscendo a trovare colori e differenze tra le scene, al punto di sbagliare proprio la cifra dell’opera nella seconda parte, trasformando il clima dell’azione scenica in quello delle farsette comiche della scuola napoletana (….si veda incredibilmente la scena delle prove di Tamino e Pamina ). E’ vero che Mozart ha messo in musica una favola, ma una favola assai speciale, metafora del divenire uomini in senso intellettuale e massonico. Laddove la favola và oltre e diventa simbolo, per noi oggi coglibile forse solo in parte, il clima da farsetta napoletana non si dà, perché cori di monaci, riti di iniziazione e prove, simbologie ed allusioni tanto pregnanti e rilevanti per l’epoca, non appartengono all’opera napoletana. Il ridotto coro di una dozzina di signori in panciotto ( i massoni dichiarati dal regista..) accompagnato da una orchestra di grandi dimensioni è una contraddizione in termini di rapporti sonori che tradisce il significato magico e mistico della scena, tanto per esemplificare….
Non so quanto l’estetica moderna baroccara inquini effettivamente le esecuzioni contemporanee di Mozart o se si tratti proprio di una nostra moderna concezione di questo musicista, quale manierato cicisbeo asfittico ed esangue, concezione riduttiva ed errata dell’epoca come del musicista, tra l’altro in netto contrasto con i riferimenti colti e puntuali espressi del regista. E’ abituale oggi udire meccanici e nevrotici plin plin nei momenti veloci, noia e torpore nei tempi larghi anziché respiro o lirismo o solennità. L’azione non è mai sostenuta con nerbo dall’orchestra, le scene scorrono l’una identica all’altra. Vi vorrei invitare all’ascolto di quel capolavoro di archeologia musicale che è il Flauto salisburghese di Toscanini per risentire una direzione davvero vitale, fantasiosa, varia e “di tocco” ……..
Questo è un Mozart filologico o un Mozart mal eseguito? O frainteso? O tradito? Perché a me pare che troppo spesso oggi si tenda a dare il nome di “filologia” a cattive o mediocri esecuzioni, come quella cui abbiamo assistito questa sera.
Quanto al canto, non si decampa dallo stesso quesito retorico: filologia o malcanto?
Che Tamino sia quella creatura eunucoide e senza personalità che i moderni tenori “specialisti” ci obbligano a sentire, con le loro voci falsettanti e gli acuti bianchi ed indietro, è cosa tutta da dimostrare. Anzi, è cosa falsa, dato ciò che si cela ( mica poi troppo!) dietro il principe della favola, ossia l’uomo moderno. Per me Tamino deve avere un’identità sessuale nota e chiara, essere un principe della ragione e non sospirare come una servetta innamorata. Tamino canta, con lirismo e stile. Canta come Roswaenge o Wunderlich, non come il signor Pirgu e affini, con la sua affettazione esagerata, o come il signor Davislim, che avrebbe un mezzo in natura più adatto al ruolo ma non sapendo affatto girare gli acuti tutta sera si arrabatta falsettando pure lui.
E con lui anche Pamina, la signora Kühmeier, garbata ma ahimè pure lei manierata e terribilmente fissa, priva di colori e di un minimo di vitalità vocale, un mezzo naturale minimo, cui bastano i quattro passaggi di “Ah, ich fühl’s ” per metterla in difficoltà.
Meglio il signor Esposito Papageno, forse il solo del cast che si ricorda di essere vivo, che cerca sempre un senso e delle intenzioni in ciò che canta. Lo fa con un bel tedesco ma con un mezzo che poco realizza il canto legato e l’emissione corretta, ma comunque meglio degli altri, pur non abbandonando il suo ampio repertorio mimico gestuale già visto all’identique nel Leporello.
La Regina della Notte della signora Shagimuratova mi è piaciuta più alla seconda rappresentazione che in televisione. Ha bei sopracuti, mediocre coloratura, buon suono al centro che si assottiglia molto in alto. Le manca però l’ampleur della Regina, eseguendo velocissimamente la prima aria con poco mordente nelle agilità, quindi …di fatto una Regina buona, per nulla terribile.
Insignificante il Sarastro del signor Groissböck, che canta correttamente e compostamente con un mezzo modesto, di bassa sonorità e senza fraseggio. E con lui Papagena, e gli altri rimanenti. Vocine.
Un Flauto Magico incardinato sull’allestimento di un famosissimo artista contemporaneo, William Kentridge, che da solo ha prodotto tutto quanto avesse da dire questo spettacolo, sul piano musicale abbastanza incolore e noioso, atto II soprattutto.
Siamo stati attratti e distratti dalla produzione pensata con abbondanza di trovate dal signor Kentridge, che ha fondato il suo allestimento sull’adozione di retroproiezioni sui fondali avanti ai quali si svolge l’azione. Con le immagini Kentridge ha individuato l’essenza del pensiero del XVIII secolo: l’immagine scenica moderna trova la sua antenata negli albori del cinema alla Lumière, prima ancora nei dagherrotipi e nella camera oscura, prima ancora nei principi dell’ottica e nella rivoluzione scientifica newtoniana. Proprio l’Opticks era stata la vera via di divulgazione della moderna concezione dell’universo nel XVII secolo, quella del sistema solare più volte proiettato sul fondale, che attraverso l’illustrazione di saperi accessori, dai principi dell’ottica, proiettati subito in coincidenza della presenza in scena di una camera oscura e poi di dagherrotipi, giungeva a far corrispondere gli intervalli di colore con l’ottava musicale. La massoneria “retropresente” nel Flauto è rappresentata senza mezzi termini dal regista con un coro e Sarastro in abiti borghesi, e l’allusione è ai circoli intellettuali e laicizzati di mezza Europa. L’uomo illuminista scruta con un cannocchiale lo spazio del cielo, perché finalmente può cogliere razionalmente lo spazio e dominare la natura infinita, mentre la sfera celeste ove appare la Regina ritorna come nelle immagini della prima dell’opera, alla Schinkel. Dopo i confini della scienza, l’uomo moderno, Tamino, esploratore in abiti ma, soprattutto, per attitudine mentale, si spinge lontano, nell’antico delle origini, quindi le proiezioni di templi neogreci e neoegizi, altro topos dell’architettura settecentesca, ma anche nell’oriente esotico vero e proprio, quindi i palmizi e Monostatos non più nero, ma con fez e frustino, come i mercanti di schiavi, sino alla proiezione della caccia grossa in bianco e nero.
Il primo atto dell’opera di fatto esaurisce l’idea brillante e sapiente del regista, che non trova però altrettanta forza in quello successivo. Non manca l’occhio massonico entro la piramide nella scena dei monaci, citazione obbligatoria per la metafora del rito massonico che si svolge in scena, ma poi le proiezioni perdono la pregnanza precedente, per divenire mero movimento di fondo, bella e scenografica ripetizione. Molto garbata e graziosa la regia, con piccole gag e trovate simpatiche mai eccessive. In definitiva, una bella idea ben realizzata anche se non sull’intero arco dell’opera.
Certo, il regista non ha trovato nel maestro Böer un compagno di viaggio all’altezza. Con buona pace delle grandi parole per lui spese dal sovrintendente Lissner nell’intervista televisiva, il maestro Böer non ha fatto nulla che fosse degno di nota, a meno di aprire lentamente la valvola del gas e narcotizzarci con la sua noiosa concezione di Mozart. Chi scrive non vive nel dogma dell’assolutezza ed immensità del genio salisburghese, men che meno dell’indiscutibile perfezione del Flauto Magico, ma sono ben lontana dall’accettare che questa opera venga restituita con tale piattezza, monotonia ed assenza di fantasia. Al contrario, credo che Mozart cristallizzi in sé tutte le mille diverse facce del tardo settecento, e parecchio del poi e del prima, catalizzati da una fantasia creatrice senza limiti e da una speciale capacità di scrivere grande musica per ogni situazione drammaturgica e genere, cambiando continuamente da una scena all’altra.
La bacchetta di questa produzione, però, latita non riuscendo a trovare colori e differenze tra le scene, al punto di sbagliare proprio la cifra dell’opera nella seconda parte, trasformando il clima dell’azione scenica in quello delle farsette comiche della scuola napoletana (….si veda incredibilmente la scena delle prove di Tamino e Pamina ). E’ vero che Mozart ha messo in musica una favola, ma una favola assai speciale, metafora del divenire uomini in senso intellettuale e massonico. Laddove la favola và oltre e diventa simbolo, per noi oggi coglibile forse solo in parte, il clima da farsetta napoletana non si dà, perché cori di monaci, riti di iniziazione e prove, simbologie ed allusioni tanto pregnanti e rilevanti per l’epoca, non appartengono all’opera napoletana. Il ridotto coro di una dozzina di signori in panciotto ( i massoni dichiarati dal regista..) accompagnato da una orchestra di grandi dimensioni è una contraddizione in termini di rapporti sonori che tradisce il significato magico e mistico della scena, tanto per esemplificare….
Non so quanto l’estetica moderna baroccara inquini effettivamente le esecuzioni contemporanee di Mozart o se si tratti proprio di una nostra moderna concezione di questo musicista, quale manierato cicisbeo asfittico ed esangue, concezione riduttiva ed errata dell’epoca come del musicista, tra l’altro in netto contrasto con i riferimenti colti e puntuali espressi del regista. E’ abituale oggi udire meccanici e nevrotici plin plin nei momenti veloci, noia e torpore nei tempi larghi anziché respiro o lirismo o solennità. L’azione non è mai sostenuta con nerbo dall’orchestra, le scene scorrono l’una identica all’altra. Vi vorrei invitare all’ascolto di quel capolavoro di archeologia musicale che è il Flauto salisburghese di Toscanini per risentire una direzione davvero vitale, fantasiosa, varia e “di tocco” ……..
Questo è un Mozart filologico o un Mozart mal eseguito? O frainteso? O tradito? Perché a me pare che troppo spesso oggi si tenda a dare il nome di “filologia” a cattive o mediocri esecuzioni, come quella cui abbiamo assistito questa sera.
Quanto al canto, non si decampa dallo stesso quesito retorico: filologia o malcanto?
Che Tamino sia quella creatura eunucoide e senza personalità che i moderni tenori “specialisti” ci obbligano a sentire, con le loro voci falsettanti e gli acuti bianchi ed indietro, è cosa tutta da dimostrare. Anzi, è cosa falsa, dato ciò che si cela ( mica poi troppo!) dietro il principe della favola, ossia l’uomo moderno. Per me Tamino deve avere un’identità sessuale nota e chiara, essere un principe della ragione e non sospirare come una servetta innamorata. Tamino canta, con lirismo e stile. Canta come Roswaenge o Wunderlich, non come il signor Pirgu e affini, con la sua affettazione esagerata, o come il signor Davislim, che avrebbe un mezzo in natura più adatto al ruolo ma non sapendo affatto girare gli acuti tutta sera si arrabatta falsettando pure lui.
E con lui anche Pamina, la signora Kühmeier, garbata ma ahimè pure lei manierata e terribilmente fissa, priva di colori e di un minimo di vitalità vocale, un mezzo naturale minimo, cui bastano i quattro passaggi di “Ah, ich fühl’s ” per metterla in difficoltà.
Meglio il signor Esposito Papageno, forse il solo del cast che si ricorda di essere vivo, che cerca sempre un senso e delle intenzioni in ciò che canta. Lo fa con un bel tedesco ma con un mezzo che poco realizza il canto legato e l’emissione corretta, ma comunque meglio degli altri, pur non abbandonando il suo ampio repertorio mimico gestuale già visto all’identique nel Leporello.
La Regina della Notte della signora Shagimuratova mi è piaciuta più alla seconda rappresentazione che in televisione. Ha bei sopracuti, mediocre coloratura, buon suono al centro che si assottiglia molto in alto. Le manca però l’ampleur della Regina, eseguendo velocissimamente la prima aria con poco mordente nelle agilità, quindi …di fatto una Regina buona, per nulla terribile.
Insignificante il Sarastro del signor Groissböck, che canta correttamente e compostamente con un mezzo modesto, di bassa sonorità e senza fraseggio. E con lui Papagena, e gli altri rimanenti. Vocine.
29 commenti:
Secondo me, è proprio una questione di concezione interpretativa. La peste baroccara ormai ha infettato anche le esecuzioni condotte con gli strumenti tradizionali. E sentire un´orchestra moderna che si autocastra secondo me è ancora più ridicolo, se possibile.
Mi spiace, ma sulla direzione d'orchestra non sono affatto d'accordo: né con la recensione, né con il commento che mi precede.
Non è questione di "peste baroccara" (espressione orribile e ingiusta), ma di diverso approccio interpretativo.
La filologia non è un "nemico" a cui attribuire nefandezze o scempi: è strumento essenziale e benvenuto per qualsiasi repertorio.
Per ciò che riguarda l'interpretazione mozartiana, oggi si sono fatti passi da giganti, abbandonando FINALMENTE sia i turgori tardoromantici (tipici della scuola storica tedesca, con tutto il suo carico di falsificazioni e pesantezze assortite, atte solo ad annacquare con tonnellate di suono, ondate di archi che vibravano più che in una sinfonia di Bruckner, ottoni e timpani, tempi tra il letargico e il morchioso) sia la leggerezza superficiale e compita di un Mozart rococò (consueto a certa scuola storica inglese e viennese) più adatto ad allietare l'ozio di educate signore borghesi in una sala da tè anglosassone, piuttosto che suggerire vera vita teatrale.
Ovviamente entrambe le tradizioni hanno prodotto (a volte, non sempre) dei risultati eccellenti, seppur discutibili. Oggi però ha poco senso replicare un passato glorioso riproducendolo acriticamente: tra la brutta copia di un Furtwangler e Furtwangler, preferisco il secondo. Se devo ascoltare, dunque, una interpretazione che scimiotti quelle di 60 anni fa, non vado neppure a teatro, metto su un disco e amen.
Oggi Mozart si esegue diversamente. Si deve eseguire diversamente: tempi più spediti (senza eccessi), suono più trasparente, ripensamento generale nell'equilibrio tra archi e fiati, ridimensionamento del vibrato (piaccia o meno, non si può eseguire Mozart come Brahms). Si ascolti il Mozart di Harding, di Abbado, di De Billy, di Mackerras, di Rattle (per fare pochi esempi)...si scopre un mondo diverso, più affascinante, vivo e vitale rispetto alla marmorea staticità di Muti (o alle wagnerizzazioni tardive dei troppi vedovi di Furtwangler e Klemperer). E nel passato si pensi a Bruno Walter o Fricsay (in alternativa al gigantismo nibelungico che ha afflitto il teatro mozartiano).
Quello che azzardatamente viene definita "peste baroccara" è, in realtà, il lascito storico più importante del movimento barocchista: la capacità di leggere un repertorio secondo una diversa ottica senza però eccedere in quel dogmatismo che affligeva i primi esperimenti "baroccari". Un'orchestra che "cambia" il suo modo di suonare da Dvorak a Mozart non si autocastra! Anzi...si vivifica.
Oggi il modo migliore di eseguire Mozart è quello delle orchestre moderne che "pensano all'antica". Il Mozart più interessante e originale. E se si riflette non diverso è il Bach di Chailly.
Forse è questione di abitudine, però bisognerebbe sforzarsi a non considerare abitudini per verità esecutive. Non è detto che il Mozart che si suonava 60 anni fa fosse il più giusto e che sviare da quei superatissimi parametri sia comunque scorretto.
A dirla tutta, il Flauto Magico inteso come oratorio massonico misticheggiante, pesante e ponderoso, coi ritmi ieratici e un'ipertrofia sonora wagneriana, ha fatto GRAZIE A DIO, il suo tempo.
Ho sentito via TV questo Flauto e le uniche cose degne di nota erano proprio la direzione e la regia.
Caro Duprez,
il difetto di questa direzione, come l'ho percepita dal vivo ieri sera, era soprattutto la sua completta monotonia. Ho apprezzato (come nella trasmissione radiofonica della prima) la sinfonia, ma dopo quella tutte le scene erano uguali, noiose e prive di qualsiasi eloquenza orchestrale. Basta solo l'esempio della scena di Tamino con il coro invisibile verso la fine del primo atto "O ewge Nacht".
TRa il signor Boer e i direttori di cui tu parli c'è una differenza abissale.
Baroccaro è termine dipregiativo, che sai bene alludere all'involuzione di certi concetti.
Ti suggerisco il riascolto del II atto, davvero soporifero e senza tinte...
Ma che tinte si devono mai ricercare? Che colori? Mozart non è Massnet o Zandonai. Non mi dire quegli elementi di esotismo e orientalismo, o di folklore locale, che nulla c'entrano con il razionalismo settecentesco. Il teatro mozartiano (che io ritengo invece assoluto e immenso, più di qualsiasi altro repertorio operistico) è essenzialmente illuminista e la musica non dipinge bozzetti o quadretti. E poi - se andiamo nel passato più o meno glorioso - davvero è più noioso Boer di Klemperer, che trasforma il Flauto in un lungo oratorio, in una specie di opera sacra e serissima? O Furtwangler (che è uno dei miei direttori favoriti) nella cui edizione ti aspetti, da un momento all'altro, l'arrivo di Brunhilde a cavallo di Grane? O il soporifero Muti: classicissimo, levigatissimo, ma statico come il marmo di Canova? Ma non è neppure questione di passato e presente: la prima incisione di Karajan (la seconda è imbarazzante) è leggera, essenziale, viva. Così Walter o Fricsay.
Ps: mi riferico all'espressione "peste baroccara", non agli eccessi dei baroccari (che sai bene quanto deplori). Oggi certi estremismi appaiono finalmente superati, e se ci sono orchestre moderne che applicano un suono diverso nell'eseguire Mozart ben vengano. Tra l'altro se è giusto - come credo lo sia - rifarsi a modelli di correttezza tecnica nell'eseguire taluni repertori, riferendosi a trattati vocali d'epoca che ben mostrano il modo corretto di cantare certo tipo di musica, intendendoli a volte come dogmi esecutivi assoluti, perché mai lo stesso atteggiamento non viene riservato alla pratica strumentale? Criticare un cantante che esegue Handel senza rispettare certe regole che si trovano in manuali stracitati (Garcia, Mancini etc...) e poi, invece, accettare un Mozart con orchestre adatte alla Nona di Mahler, con un vibrato che pare quello di Bruckner, con 50 violini, con trombe e timpani furiosi, ritmi lentissimi e senza la presenza del fortepiano a "puntellare" il continuo, beh, mi sembra scorretto. Oggi ben sappiamo qual'era l'uso del vibrato, così come la formazione tipo dell'orchestra mozartiana. Non è sbagliato ripensare ad un certo repertorio, né è un peccato distaccarsi da Mitropoulos o Beecham. E qualcosa sarebbe da dire anche su scelte di diapason. Naturalmente senza fare le guerre di religione dei baroccari più estremisti, ma che vi sia un problema con un LA che è mezzo tono più alto rispetto ai tempi di Mozart (assolutamente documentato) è indubbio.
Insomma, la grande scuola tedesca e viennese ci ha dato grandissime interpretazioni, ma da considerare secondo il loro tempo: oggi riprodurle è follia. Sarebbe come se un pittore dipingesse come Raffaello. Sarebbe una pallida imitazione, una copia, e le copie sono sempre meno interessanti dell'originale.
Mi sembra che tu ci stia facendo dire cose che non abbiamo detto affatto.
se la noia e la monotonia ti vanno bene in mozart, ok.
non mi pare che nella direzione sentita ieri sera vi fosse alcunchè delle operazioni sul suono e sulla velocità di cui tu parli in relazione ad Harding ed altri di cui tu parli...
c'era una orchestra che ha avuto monotonia di tempo, suono moderno per nulla affine a quelle sonorità di limitata vibrazione ( sentite per ex nell'Idomeneo proprio di Harding) etc..che tu giustamente indichi come migliore qualità esecutiva del presente.
Tu parli di tipi di direzione per nulla affini a quella di ieri sera. Se poi ti è piaciuta lo stesso, va bene.
Personalmente condivido il giusdizio anche con altre persone anche estranee al blog....de gustibus.
Guarda, io ho sentito la diretta TV e ti riporto le mie sensazioni. Per quel che sono, attraverso uno strumento (la TV) che non è certo il massimo per restituire l'esperienza teatrale. I tempi mi sono piaciuti e pure la brillantezza e trasparenza dell'accompagnamento. Certo gli elogi, per mio conto, si fermano qui...dato che la compagnia schierata non poteva certo offrire molto.
Non mi sogno certo di paragonare Boer ad Abbado o Harding, ma rispetto a certo Mozart di Muti mi è sembrato più vivido e teatralmente vitale. Una boccata d'ossigeno nell'autoreferenzialità scaligera. Del resto mi attendo il peggio dalla paventata direzione mozartiana di Barenboim (è esattamente a lui che penso quando parlo di imitatori di Klemperer etc...fuori tempo massimo).
Mi sono dimenticato di aggiungere (mi rivolgo in particolare a Mozart2006), che il fenomeno che lui chiama "peste baroccara" (paventando quasi un'infezione) io lo interpreto nella maniera opposta. Il fatto che orchestre moderne assumano un'atteggiamento "antico" nell'interpretazione di taluni repertori, sconfessa e scardina in modo inesorabile quei dogmi e quegli estremismi che caratterizzavano il movimento "baroccaro": l'illusione per cui sarebbe bastata una filologia meramente "tecnica" (ossia limitata alla tipologia di strumento) per ricreare "prassi esecutive più rispettose", si sfalda di fronte alla filologia "stilistica" per cui lo strumeno è solo un mezzo che, di per sé, non può garantire nulla. Le orchestre moderne che suonano "pensando antico" non si autocastrano affatto, anzi dimostrano come un violoncello moderno o una tromba con i pistoni, non necessariamente debba suonare come in una sinfonia di Mahler. Non a caso i maggiori "avversari" di queste nuove modalità esecutive sono proprio i "duri e puri" dell'estremismo baroccaro! Del resto o si ritorna a fare l'Handel o il Bach di Klemperer (inaccettabile) o si "regala" l'intero repertorio alle compagini specialistiche (coi loro pregi e i loro difetti), privando così grandi orchestre e grandi direttori, della frequentazione di gran parte della musica precedente al romanticismo musicale, o costringendo gli stessi a relegarsi uno spazio marginale e retrogrado nel riprodurre sciattamente un passato non più riproducibile.
Sono perfettamente d'accordo con la recensione di Giulia Grisi, ha colto tutte le impressioni che ho avuto anche io. In particolare, anche a me il secondo atto è sembrato floscio sia musicalmente, sia scenicamente, vista la ripetitività delle idee...
Mi ha preso un colpo però quando ho letto che il signor Groissböck cantarebbe "correttamente e compostamente". Penso invece che la grandezza ridotta della voce sia dovuta ad una organizzazione vocale completamente sbagliata, dal momento che non si tratta di un basso vero ma molto più probabilmente di un baritono (chiaro). Davvero osceno, non solo è tutt'altro che corretto, ma nemmeno arriva ad essere definibile "cantante". I FA gravi erano orrendi rantoli di gola inudibili persino in televisione: lo scarico otturato di un lavandino sporco... Il legato è precario per non dire assente, dato che la voce non è sul fiato ma è incastrata in gola come un cibo cattivo andato di traverso... Chi non lega, NON canta. Ne esce un Sarastro del tutto privo di mistero, di autorità e di credibilità... pareva un turista cotto dal sole, in viaggio nella terra dei Faraoni...
Lo stesso discorso vale per Esposito, il quale però se la cava bene con i suoi espedienti da saltimbanco, e grazie a questi fa meglio dei suoi colleghi uomini. Va bene Papageno, ma resta un mistero come questo "cantante" possa essere regolarmente scritturato nelle parti da basso rossiniano...
Meglio le donne, a parte l'oscena Papagena.
Il problema evidenziato nella recensione in merito al personaggio di Tamino è, in effetti, ciò che maggiormente affligge l'interpretazione del repertorio mozartiano. Più che nell'odierna specializzazione, però, le cause vanno rintracciate nel Mozart in salsa british, che da sempre ci propone tenori sbiancati e slavati. E che si è imposto ad ogni livello (ovviamente tutti questi Tamini esangui cadono miseramente nell'aria del primo atto).
Circa Sarastro: premesso che dalla diretta TV è impossibile valutare il volume di una voce o la sua grandezza (grazie anche ad una ripresa audio artefatta che tende ad uniformare le dimensioni vocali e ad amplificarle sull'orchestra), tuttavia erano ben percepibili le difficoltà nelle discese e i traballamenti vocali (evidenziati da un microfono praticamente in bocca che rendeva palese ogni più piccola incertezza). Se si pensa che la parte scritta da Mozart richiederebbe un basso vero e profondo (il primo interprete, Franz Xaver Gerl, cantò pure il ruolo di Osmin nel Ratto) appare ancora più infelice la scelta scaligera. Non si tratta tanto del timbro chiaro (Sarastro non è un orco nibelungico), ma della palese mancanza di autorità interpretativa, oltre alle inevitabili difficoltà di un registro basso non saldo. Aggiungo che se si riflette sul fatto che il diapason in uso nella Vienna di Mozart era circa di mezzo tono più grave, mi chiedo come i tanti Sarastro che scippano ai veri bassi il ruolo, potrebbero cantare se - per assurdo (ma con auspicio) - ci si decidesse a rivedere la frequenza del LA. Forse si assisterebbe alla riappropriazione del ruolo da parte di cantanti dal registro coerente alla tessitura...
Per quanto Mozart sia un illuminista, il suo illuminismo non è certo la vaghezza insignificante che s'è udita. E' puttosto l'epoca in cui si scherza e si gioca anche coi sentimenti più grandi dell'uomo, è Goethe che sa variare dal Faust ad afflati classicisti. E' vivo insomma, e i colori ci vanno, DUprez, eccome. Il Flauto di Walter che citi sta lì a dimostrarlo. I colori e le dinamiche e un'orchestra non in sordina.
Caro Duprez, quante volte l'ho sentito il tuo discorso! E lo splendido Wagner di Thielemann? Non è forse autentico? In verità io credo che qualsiasi riproposizione, se è fatta con talento, non si limiti a riprendere tale e quale un certo indirizzo, ma lo aggiorni. Tant'è che Thielemann non è ignaro di Karajan o di Krauss, pur riprendendo Knappertsbusch. E poi, venendo all'attività creatrice, i "Quattro Ultimi Lieder" di Strauss (1947) adottano un linguaggio che gà nel 1880 poteva considerarsi arretrato. Eppure sono uno dei vertici della musica del Novecento e noi sentiamo che potevano prodursi solo dopo un'esperienza devastante com'era il secondo dopoguerra. E allora? Io credo che non si debba dire a priori che una certa esperienza creativa o interpretativa è superata. Se viene riproposta con autenticità, questo vuol dire che si sono create le condizioni storiche perché questo avvenisse.
E in quel momento l'esperienza è autentica, come lo è lo stupendo Beethoven sempre di Thielemann, così diverso da chi lo esegue su orchestre moderne pensando all'esperienza filologica.E' sbagliato voler indicare a priori dove va la storia e decidere che cosa ha un futuro di vita e che cosa invece è irrimediabilmente morto.
Marco Ninci
Inudibile Groissböck. Non tanto per le mende tecniche (indietro le facili ed esigue incursioni in zona acuta, intonazione traballante negli scarti tra i registri, attacchi stimbrati, etc) quanto appunto per il volume, a dir poco spettrale, spesso segno di un'emissione poco felice che va a discapito della proiezione. In queste condizioni, l'effetto è quello di un Sarastro che nega autorevolezza e soprattutto credibilità al suo ruolo di guida(i versi dell'aria del secondo atto, di trasparenza e verità quasi ataviche, se cantati in modo sciatto rischiano lo stereotipo e il populismo...).
A proposito di Ratto e di tenorismo mozartiano formato Ace Gentile, ricordo l'orrido Belmonte di Ian Bostridge (per non parlare della Konstanze di Patricia Petibon) nell'edizione diretta da Christie col complesso barocco Les Arts Florissants. Un "tenore" che magari funziona in opere britteniane, le cui peculiarità vocali erano dichiarate dallo stesso compositore, non certo in parti come Tamino o Don Ottavio, in cui non riesce nemmeno a suggerire una parvenza di linea vocale. Eppure spopola.
Carlotta...anch'io ebbi - tempo fa - la sventurata idea di ascoltare quel Ratto (convinto anche dal bel Flauto inciso dallo stesso direttore e dal suo complesso: ma con altro cast)...peraltro è pure piuttosto tagliato! Ecco, Bostridge è il classico esempio di come la scuola anglosassone (e chi si fa influenzare da essa) intenda il tenore mozartiano... Io lo trovo insopportabile. E ha persino inciso Idomeneo!!!
Tornando a Sarastro: pur nei limiti del solo ascolto televisivo la mancanza di autorevolezza era il difetto più evidente. E questo solo basta a comprometterne l'interpretazione.
Per carità, Ninci, ogni interpretazione è legittima, certo è che se diventa sterile riproposizioni di modelli compiuti diventa assai poco interessante. Il resto è questione di gusti. L'esempio di Strauss, però, non è attinente credo. Mentre il caso di Thielemann è discutibile. Certo è grande interprete, ma effettivamente poco originale (in Wagner: dove io preferisco altro genere di approccio). Sul suo Beethoven, invece, vi sarebbe molto da dire, atteso che il suo rifarsi ad una visione tardoromantica (con la sfacciata adozione di vecchie edizioni ottocentesche, invece delle nuove edizioni critiche di Del Mar) corrisponde ad un pregiudizio ideologico e ad un intento di "inutile provocazione" che mi sembra assolutamente fine a sé stesso.
Perché l'esempio di Strauss non è attinente?
Marco Ninci
Perché riguarda l'aspetto compositivo e creativo, non il modo di interpretare. E comunque anche in quel caso non è uno scimmiottare stili passati.
Ma il linguaggio è proprio quello passato; anzi, trapassato.
Marco Ninci
Di inudibile non c'era nessuno...forse le fissità della Kuhmeier perchè ieri calava pure...
Sarastro era...trasparente....bello ma senza nessuna ieraticità o solennità. Canta una musica straordinaria, ma è come se non ci fosse. Meglio di un "ruttone" sgaarbato,ma la voce rimane poca cosa dunque....
Credo che la mia idea di Mozart sia meno musicologica della vostra, figlia di una pratica sul settencento di altri generi d'arte. Per me a Mozart si tolgono parcchie componenti che sono del suo ambiente culturale, artistico ed intellettuale, posto che il settecento è talmente veloce nella circolazione del sapere che è difficle localizzare una idea o una istanza artistica. Tutto circola vorticosamente come mai prima di allora, dunque.......
Quello che tu dici del Mozart neoclassico di Muti l'ho sempre pensato ma per vie diverse dalla tua.....come poteva un uomo che viveva tra Salisburgo, Vienna e Praga avere una concezione tanto classicista della musica quando tutto intorno a lui era profondamente anticlassico e davvero.... tardobarocco? Domanda che mi sono sempre posta davanti al mozart a volte straordinario a volte noioso di Muti.....
...però i miei non sono i percorsi di un musicologo...ci tengo a sotolinearlo per onestà. Nelle idee del regista, invece,mi sono ritrovata immediatamente, al contrario...
Il "problema" (o meglio la fortuna), sta nel fatto che Mozart è artista così grande da rendere difficile classificarlo rigidamente in un ordine. Secondo me esprime alla perfezione il senso di curiosità intellettuale del secolo dei Lumi: l'apertura verso mondi sconosciuti (e la rilettura del passato più o meno recente) facendosi guidare dall'unica guida "a misura d'uomo", ossia la ragione. Con la quale esorcizzare le paure, le superstizioni, i dolori, le avversità. La curiosità musicale di Mozart non trova paragoni ed eguali: gioca con l'ambiguità e con le forme (scardinandole o rielaborandole) in una costruzione formale tanto raffinata e complessa, quanto naturale e (all'apparenza) semplice. Se devo fare un paragone letterario/filosofico penso a Voltaire (più che a Goethe, come scrive Silvio).
Il Mozart di Muti, invece, è una fotocopia (più geniale) di Gluck. Alcuni risultati sono buoni, ma altri sono solo noia pura, in cui il teatro e la vita sono espulsi con modi seriosi, per favorire la bianca levigatezza di un marmo muto e immobile.
Non è, tuttavia, un buon servizio sostituire il marmo bianco con il fuoco delle fucine nibelungiche o le severe idealizzazioni di un romanticismo titanico.
Poi, per carità, io di questo Flauto ho visto solo la diretta TV, e di essa ho apprezzato - per una volta - un Mozart concettualmente diverso da quello dell'orchestra di Muti...certo, la strada è ancor lunga. Noto però - con dispiacere - che invece di proseguire la via, si avrà un brusco cambio di rotta col prossimo 7 di dicembre (se le indiscrezioni verranno confermate). Peccato...
ecco, ti ho mandato un link nella posta...proprio per questo tema..chè vorrei una tua opinione.
io però ci vedo anche il mondo tardobarocco di praga e vienna...qualcosa di meno francese di voltaire e di più italiano, dato che è il barocco italiano, anzi romano, alla base dell'arte di quelle zone. come pre l'eclettismo di Fisher von Erlach....davvero dai un occhio a quel link...
Mi permetto di riportare qui il contenuto di una interessante discussione avvenuta questa mattina in chat (in modo, così, da non perderne i contenuti e - chissà - proseguirne lo sviluppo).
Si parlava delle modalità esecutive di Mozart (e della musica tra '700 e '800), prendendo spunto da alcune questioni sorte in merito al Flauto scaligero: in particolare le scelte di Boer.
Tra le tante questioni (strumenti moderni o antichi o moderni che "pensano" all'antica, tempi, dinamica, organici) ho sollevato la questione del diapason.
E' un dato di fatto che vi sia stato tra '800 e '900 una "corsa" in acuto dell'intonazione del LA, sino ad arrivare all'attuale compromesso dei 440 Hz (anche se alcune orchestre ancora tendono ad alzare: si bisbigliò pure che Muti, in Scala fosse arrivato ai 444 Hz, per favorire la brillantezza del suono).
Si sa benissimo che tale frequenza suscita e ha suscitato polemiche (dalla Tebaldi a Bergonzi, in molti si sono lamentati di questa gara all'acuto, che, seppur non facilmente percepibile affatica inutilmente il cantante).
Verdi stesso scrisse, a metà '800 (interrogato sulla possibilità di introdurre per legge un calmiere e un parametro comune), che sarebbe stato auspicabile un LA a 430 Hz. Del medesimo avviso erano Rossini e Berlioz (quando il parlamento francese volle regolamentare il LA: alla fine optarono per una soluzione più acuta a 435 Hz).
E' noto che il diapason "di Mozart" (quello in uso nel mondo absburgico) fosse attestato sui 420/422 Hz, quasi mezzotono più basso dell'attuale.
Ovviamente questa frequenza permette una maggiore "comodità" ai cantanti. Oltre ad essere più "corretta" in assoluto.
Peraltro si eviterebbero molte forzature: Mancini/Belcanto parlava, giustamente, della voce di basso "vero". Oggi, molti ruoli scritti per basso, vengono usurpati da cantanti che veri bassi non sono. Si parlava di Sarastro, ormai divenuto, appannaggio di baritoni corti (si prenda ad esempio il Sarastro di Ramey, possibile solo - e con larghi patteggiamenti in zona bassa - proprio in virtù di un LA più acuto: col LA a 420 Hz sarebbe stato impossibile, Kipnis, al contrario, non avrebbe avuto alcun problema con un mezzotono sotto). Un LA riportato a livelli umani, eviterebbe, forse, taluni di questi abusi, giacché un vero basso non avrebbe problemi ad eseguire la parte un mezzotono, circa, sotto. Lo stesso si potrebbe dire per ogni registro (dove si ascoltano strozzature e difficoltà sul passaggio), che riceverebbero notevoli vantaggi da tale abbassamento.
Nel repertorio belcantista e barocco (ma anche il melodramma), il problema si fa più evidente, giacché il particolare stile vocale (virtuoso e fiorito) venne calibrato proprio per un diapason più basso. Oggi, dopo un secolo e mezzo di "dimenticanza" questo repertorio è stato rivitalizzato, ma sbattuto dentro un'intonazione troppo alta (almeno in funzione delle esigenze vocali richieste).
Credo, infatti, che molti dei problemi odierni - oltre a carenze didattiche e stilistiche - derivino anche da un diapason che sforza troppo la voce e rende più difficoltosi passaggi e colorature (i grandi cantanti storici non praticavano questo repertorio, se non per brani isolati e con pesanti rimaneggiamenti).
Un discorso analogo andrebbe affrontato per gli organici strumentali: con un riequilibrio nel rapporto tra archi e fiati. Mozart, ad esempio, attribuisce un ruolo predominante a questi ultimi che vengono quasi sempre soffocati, oggi e ieri, in compagini brahmsiane con sovrabbondanza di archi dal vibrato degno di una sinfonia di Bruckner. L'obiezione per cui, l'organico andrebbe calibrato sul luogo di esecuzione, è per me, mal posta: non si possono infatti triplicare i violini (dato che i fiati e i legni resterebbero nel medesimo numero) né aumentare tutti gli strumenti (con una valanga di suono che coprirebbe inevitabilmente le voci). Peraltro le sale in cui si eseguiva quella musica sono esattamente le stesse di oggi (per cui non ha senso parlare di "teatri bomboniera"). I rapporti vanno mantenuti sempre.
Ma è discorso lungo....
D'accordo al 101%: prevale una grande noia per la direzione e il fastidio per i cantanti. Un Flauto Magico da dimenticare. Ridicolo contaminare con varie macchiette una grande favola 'seria' e scimiottare il peggor 'barocchismo' in una opera che non ha nulla a che vedere con il barocco.
Silvano: meglio forse il Flauto wagnerizzato??? Suvvia...
Certo che no !
Rimango in attesa di vedere Cencic (in travesti) nel prossimo Flauto della Scala nel ruolo di Astrifiammante ;)
A parte gli scherzi (?!), ricordo un Flauto 'barocco' a Bologna, anni '80, diretto da Bruggen, con la sua orchestra: non fu noioso, era fresco, interessante, sbagliato, ma vivo !
Devo anche dire che sono tra quelli che, dopo Alessandrini, Biondi, Harnoncourt (i primi che mi vengono in mente) non possono più ascoltare le Quattro Stagioni da Karajan o da I Musici. Ma il Flauto Magico...
Beh, scherzi a parte (controtenori e falsettisti nella Regina della Notte sono giochi e burle - e neppure si può buttare in burletta tutta una seria ricerca musicologica sul modus esecutivo di Mozart).
Due domande però:
1) se ti quel Flauto diretto da Bruggen ti è piaciuto, perché definirlo "sbagliato"?
2) perché differenzi Le Stagioni dal Flauto? A dirti la verità, ascolto volentieri sia le incisioni di Karajan che quelle di Biondi!
Io, ti confesso, traggo molto più piacere nelle edizioni discografiche più recenti del Flauto, rispetto a quelle storiche di Klemperer o Furtwangler (con l'eccezione di Fricsay, che ritengo assolutamente superiore nell'ambito di queste). Le trovo vive, teatrali, interessanti... Poi mi inchino di fronte a certe edizioni con certi cantanti, ovvio, ma mi interessano meno. Io personalmente non credo che il Flauto sia soltanto una parabola filosofica dai contenuti altissimi. Questione di preferenze.
Per curiosità, qual'è l tua edizione discografica preferita? (amo fare questi sondaggi)
ho acceso la TV (sono all'estero) sperando di vedere un Flauto bello e piacevole da ascolare e vedere. Dopo poco dall'inizio mi sono accorto che era uno spettacolo assolutamente noioso e con voci neppure interessanti. Ho ripescato in discoteca (quella che porto in viaggio) il Flauto in svedese di Bergman ed ho goduto per questo spettacolo che ritengo portentosament riuscito. Scene di cartapesta e dipintee che danno forza alla favola mozartiana.Voci belle seppure no eccezionali. Anche bei volti, belle figure, che migliorano il tutto. Poi le inquadrature di Bergman dei volti degli spettatori....Miracolo di un genio del cinema. In fondo l'opera è uno spettacolo che il pubblico deve vedere con piacere e divertimento. Quando è noia non è piu' spettacolo. E questo Flauto era noioso. Altro buco nell'acqua della Scala. Troppi ormai e ahimè.
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