Trovandomi a Londra per motivi personali, ho avuto modo di assistere a due spettacoli d’opera: “Lucrezia Borgia” alla English National Opera e “Die Zauberflöte” alla Royal Opera House, Covent Garden. Si è trattato di una decisione estemporanea o quasi, favorita dal felice meccanismo dei last minute, conforto di ogni melomane privo di biglietto e disposto, pur di assistere a uno spettacolo, a stazionare nei pressi del botteghino in attesa del fatidico tagliando. L’attesa è stata premiata e posso quindi condividere con gli amici del blog la duplice esperienza londinese.
La principale attrattiva della “Borgia” allestita al Coliseum era lo spettacolo di Mike Figgis, regista britannico reso celebre da un mediocre film statunitense (“Via da Las Vegas”) che gli valse due nomination agli Oscar. Essendo Londra una delle piazze in cui trionfa il cosiddetto teatro di regia, unica igiene del mondo dell’opera (almeno a sentire certe campane), la curiosità appariva fondata, anche per l’ampio risalto dato alla scelta del regista di introdurre e punteggiare l’azione con una serie di cortometraggi appositamente realizzati, dedicati alla descrizione della corte di Alessandro VI. Molto rumore per nulla, perché al di là delle volonterose e pedanti citazioni pittoriche (Francis Bacon, Bronzino) il risultato non è poi molto dissimile dalle varie fiction ambientate nel Rinascimento, tra discinte fanciulle che raccontano (in italiano) gli orrori e le perversioni dei Borgia quasi fossero il dietro le quinte di un reality show e qualche siparietto un po’ perverso (ma non troppo) volto a illuminare il lato umano (ma non troppo) della futura duchessa d’Este. Quanto al testo musicale, viene stravolto solo il prologo, che inizia con il dialogo (pesantemente sforbiciato) fra Lucrezia e Gubetta e prosegue poi con il coro d’introduzione, mentre nel secondo atto si aggiunge, come è tradizione, la romanza scritta per Ivanoff e il finale ripensato per Moriani, prima dell’irrinunciabile “cazzaccio” preteso dalla Méric-Lalande. Il libretto viene proposto, come è costume all’ENO, in una libera traduzione inglese, che semplifica alquanto l’argomento (specie nel racconto di Gennaro nel prologo e nella scena del vandalismo nel primo atto) e trasforma, per motivi che permangono oscuri, Maffio Orsini in una donna (sorta di Lady Oscar alla corte di Ferrara). Fatte salve le parentesi filmiche, alquanto tediose specie nell’ultimo atto, la regia non si discosta dal minimalismo oggi imperante, con scene perennemente buie e deserte e frequenti scivoloni nel ridicolo, dagli invitati al ballo veneziano in abito da frate (se c’era un intento anticlericale, l’effetto è comunque un po’ poverello, perché sembra quasi che tutti i gentiluomini della Serenissima si vestano non dico dallo stesso sarto, ma alla Standa), alle donnine allegre in cappa da vampiro che tendono un agguato a Gennaro bastonandolo come Sganapino mentre ruotano attorno a lui come le geishe dell’Iris, ai convitati della Negroni in posa stile Cenacolo leonardesco. Il grottesco va benissimo, ma occorre padroneggiarlo, per non finirne vittima. L’effetto complessivo non era lunge dalla Borgia, assai meno blasonata, vista pochi anni fa a Bergamo.
Quanto al resto, archiviato senza troppi patemi il fracasso prodotto in buca da Paul Daniel (un direttore che deve essere persuaso, al pari di molti suoi colleghi, dello scarso valore musicale del melodramma italiano, visto che nulla fa se non, appunto, battere la solfa e produrre una conveniente dose di rumore orchestrale), atteso che Elizabeth DeShong quale Maffio è il solito sopranino leggero che ingola in basso e risulta, di conseguenza, inesistente nei gravi e stridula in acuto, confermata l’assoluta estraneità di Alastair Miles al canto e al melodramma italiano (non che il Viaggio a Reims scaligero lasciasse adito a dubbi, ma questo duca Alfonso parente stretto dei cattivi di Gilbert & Sullivan dà da pensare), resta da dire dei protagonisti. La madre, Claire Rutter, condivide con molti dei soprani che oggi affrontano il ruolo (Devia e Gruberova in primis) una natura vocale agli antipodi di quella richiesta dal personaggio e dalla scrittura donizettiana. Per non girarci attorno, la voce sarebbe da Adina o al più da Manon di Massenet, se fosse un poco meglio proiettata e quindi un poco più sonora. Resta invece tragicamente in bocca e quindi risulta larvale al centro, tirata e spesso stonata in acuto. A ciò si aggiunga un’esecuzione a dir poco precaria dell’abbonante coloratura prevista dal ruolo e un accento perennemente querulo, anche e soprattutto nelle scene di furia. Con simili premesse, il risultato complessivo si colloca ben al di sotto dei modelli testé evocati. Il figlio, Michael Fabiano, è il tipico tenore che ha l’oro in gola: voce timbricamente splendida, argentina, con una naturale propensione per il canto di agilità (facile e sgranato il trillo posto alla fine del recitativo che precede l’aria del secondo atto), dà prova di belle intenzioni musicali, sforzandosi di cantare piano e di accentare appropriatamente (sia pure con poca varietà). Come per molti altri cantanti, giovani e di belle speranze, i guai cominciano sul secondo passaggio di registro, in cui la voce diviene a tratti opaca e chévrotante, soprattutto nella seconda parte dello spettacolo, mentre gli acuti sono risolti più con la generosa natura che con l’ausilio della tecnica, e la linea di canto, purtroppo, ne risente. È comunque una bella voce che potrebbe diventare, se ben guidata, un buon cantante, quanto mai necessario specie in un repertorio, come quello del primo Ottocento, in cui oggi più che mai il canto soffre e stenta.
E veniamo al “Flauto magico” allestito al Covent Garden, una ripresa del celebre spettacolo di David McVicar, immortalato anche in dvd. Anche qui si stentano a comprendere le ragioni del primato (tutto supposto e interamente da dimostrare) del teatro di regia: lo spettacolo è gradevole, funziona, intrattiene piacevolmente, ma con i suoi costumi settecenteschi (a parte una Papagena in minigonna), le scene che richiamano architetture classiche e i movimenti piuttosto goffi delle comparse richiama paurosamente certi vetusti spettacoli di Ronconi, magari su bozzetti di Pier Luigi Pizzi. Certo il miglior Pizzi non avrebbe tollerato dettagli, come la gigantesca forma di emmenthal che rotola in scena alla fine dell’opera a simboleggiare il trionfo del Sole sulle tenebre incarnate da una Regina molto democratica, visto che si muove sempre a piedi e ha poco o nulla di quel lugubre fasto tradizionalmente associato al personaggio. Certo gli aficionados delle regie moderne avranno da osservare che non si può giudicare la regia di McVicar da questa ripresa, curata da Lee Blakeley. A costoro potremmo rispondere che certi spettacoli di Ponnelle e Zeffirelli, per tacere di Visconti, funzionavano e in alcuni casi funzionano tuttora benissimo, anche in assenza dei rispettivi creatori.
Nelle ultime repliche di questo ciclo della “Zauberflöte” il titolare Sir Colin Davis ha ceduto la bacchetta a David Syrus, che si distingue fin dall’ouverture per il suono secco e vetroso degli archi, il clangore degli ottoni, i tempi stringati e i colori smunti tipici del “baroccò” all’inglese. Il palco è perfettamente adeguato all’accompagnamento orchestrale. Joseph Kaiser (Tamino) ha voce microbica, che sarebbe di bel timbro se non fosse per le strozzature che regolarmente si producono sul passaggio. Kate Royal fa sembrare uno scoglio insormontabile una parte elementare come quella di Pamina, strillando e falsettando ogni volta che la voce abbandona la comoda (benché poco o punto sonora) fascia centrale. Improprio parlare di legato. Cornelia Götz induce a riflettere quanto il ruolo della Königin, sovracuti a parte, insista sul registro medio ed esiga un soprano di vocalità ben differente dai vari usignoli o passerotti che regolarmente ci vengono proposti. Stupisce poi che una cantante che si esibisce regolarmente e con successo quale Astrifiammante non possieda, almeno in alto, assoluta precisione d’intonazione. Sarà bello tacere dell’intubato Sarastro di Franz-Josef Selig (ovviamente rinomato esecutore wagneriano!), mentre il Papageno di Christopher Maltman avrebbe anche la voce, non fosse che l’assunzione di Dietrich Fischer-Dieskau quale unico e solo modello canoro limita molto le potenzialità dello strumento e induce il cantante a frequenti stimbrature e a una costante imitazione del parlato, non solo nelle scene a ciò destinate. Molto male anche i comprimari, capitanati da un trio di fanciulli cantori, che rendono il travesti femminile un obbligo in questo e in ogni altro titolo del repertorio operistico.
Nel complesso, il piacevole weekend londinese del vostro Tamburini ha evocato, per molti aspetti, un celebre romanzo di Orwell. Mancavano solo le pecore, ma quelle, si sa, abbondano ad altre latitudini.
Gli ascolti
Mozart - Die Zauberflöte
Atto II
Der Hölle Rache - Beverly Sills (1966)
Donizetti - Lucrezia Borgia
Prologo
Com'è bello, quale incanto - Beverly Sills (1976)
La principale attrattiva della “Borgia” allestita al Coliseum era lo spettacolo di Mike Figgis, regista britannico reso celebre da un mediocre film statunitense (“Via da Las Vegas”) che gli valse due nomination agli Oscar. Essendo Londra una delle piazze in cui trionfa il cosiddetto teatro di regia, unica igiene del mondo dell’opera (almeno a sentire certe campane), la curiosità appariva fondata, anche per l’ampio risalto dato alla scelta del regista di introdurre e punteggiare l’azione con una serie di cortometraggi appositamente realizzati, dedicati alla descrizione della corte di Alessandro VI. Molto rumore per nulla, perché al di là delle volonterose e pedanti citazioni pittoriche (Francis Bacon, Bronzino) il risultato non è poi molto dissimile dalle varie fiction ambientate nel Rinascimento, tra discinte fanciulle che raccontano (in italiano) gli orrori e le perversioni dei Borgia quasi fossero il dietro le quinte di un reality show e qualche siparietto un po’ perverso (ma non troppo) volto a illuminare il lato umano (ma non troppo) della futura duchessa d’Este. Quanto al testo musicale, viene stravolto solo il prologo, che inizia con il dialogo (pesantemente sforbiciato) fra Lucrezia e Gubetta e prosegue poi con il coro d’introduzione, mentre nel secondo atto si aggiunge, come è tradizione, la romanza scritta per Ivanoff e il finale ripensato per Moriani, prima dell’irrinunciabile “cazzaccio” preteso dalla Méric-Lalande. Il libretto viene proposto, come è costume all’ENO, in una libera traduzione inglese, che semplifica alquanto l’argomento (specie nel racconto di Gennaro nel prologo e nella scena del vandalismo nel primo atto) e trasforma, per motivi che permangono oscuri, Maffio Orsini in una donna (sorta di Lady Oscar alla corte di Ferrara). Fatte salve le parentesi filmiche, alquanto tediose specie nell’ultimo atto, la regia non si discosta dal minimalismo oggi imperante, con scene perennemente buie e deserte e frequenti scivoloni nel ridicolo, dagli invitati al ballo veneziano in abito da frate (se c’era un intento anticlericale, l’effetto è comunque un po’ poverello, perché sembra quasi che tutti i gentiluomini della Serenissima si vestano non dico dallo stesso sarto, ma alla Standa), alle donnine allegre in cappa da vampiro che tendono un agguato a Gennaro bastonandolo come Sganapino mentre ruotano attorno a lui come le geishe dell’Iris, ai convitati della Negroni in posa stile Cenacolo leonardesco. Il grottesco va benissimo, ma occorre padroneggiarlo, per non finirne vittima. L’effetto complessivo non era lunge dalla Borgia, assai meno blasonata, vista pochi anni fa a Bergamo.
Quanto al resto, archiviato senza troppi patemi il fracasso prodotto in buca da Paul Daniel (un direttore che deve essere persuaso, al pari di molti suoi colleghi, dello scarso valore musicale del melodramma italiano, visto che nulla fa se non, appunto, battere la solfa e produrre una conveniente dose di rumore orchestrale), atteso che Elizabeth DeShong quale Maffio è il solito sopranino leggero che ingola in basso e risulta, di conseguenza, inesistente nei gravi e stridula in acuto, confermata l’assoluta estraneità di Alastair Miles al canto e al melodramma italiano (non che il Viaggio a Reims scaligero lasciasse adito a dubbi, ma questo duca Alfonso parente stretto dei cattivi di Gilbert & Sullivan dà da pensare), resta da dire dei protagonisti. La madre, Claire Rutter, condivide con molti dei soprani che oggi affrontano il ruolo (Devia e Gruberova in primis) una natura vocale agli antipodi di quella richiesta dal personaggio e dalla scrittura donizettiana. Per non girarci attorno, la voce sarebbe da Adina o al più da Manon di Massenet, se fosse un poco meglio proiettata e quindi un poco più sonora. Resta invece tragicamente in bocca e quindi risulta larvale al centro, tirata e spesso stonata in acuto. A ciò si aggiunga un’esecuzione a dir poco precaria dell’abbonante coloratura prevista dal ruolo e un accento perennemente querulo, anche e soprattutto nelle scene di furia. Con simili premesse, il risultato complessivo si colloca ben al di sotto dei modelli testé evocati. Il figlio, Michael Fabiano, è il tipico tenore che ha l’oro in gola: voce timbricamente splendida, argentina, con una naturale propensione per il canto di agilità (facile e sgranato il trillo posto alla fine del recitativo che precede l’aria del secondo atto), dà prova di belle intenzioni musicali, sforzandosi di cantare piano e di accentare appropriatamente (sia pure con poca varietà). Come per molti altri cantanti, giovani e di belle speranze, i guai cominciano sul secondo passaggio di registro, in cui la voce diviene a tratti opaca e chévrotante, soprattutto nella seconda parte dello spettacolo, mentre gli acuti sono risolti più con la generosa natura che con l’ausilio della tecnica, e la linea di canto, purtroppo, ne risente. È comunque una bella voce che potrebbe diventare, se ben guidata, un buon cantante, quanto mai necessario specie in un repertorio, come quello del primo Ottocento, in cui oggi più che mai il canto soffre e stenta.
E veniamo al “Flauto magico” allestito al Covent Garden, una ripresa del celebre spettacolo di David McVicar, immortalato anche in dvd. Anche qui si stentano a comprendere le ragioni del primato (tutto supposto e interamente da dimostrare) del teatro di regia: lo spettacolo è gradevole, funziona, intrattiene piacevolmente, ma con i suoi costumi settecenteschi (a parte una Papagena in minigonna), le scene che richiamano architetture classiche e i movimenti piuttosto goffi delle comparse richiama paurosamente certi vetusti spettacoli di Ronconi, magari su bozzetti di Pier Luigi Pizzi. Certo il miglior Pizzi non avrebbe tollerato dettagli, come la gigantesca forma di emmenthal che rotola in scena alla fine dell’opera a simboleggiare il trionfo del Sole sulle tenebre incarnate da una Regina molto democratica, visto che si muove sempre a piedi e ha poco o nulla di quel lugubre fasto tradizionalmente associato al personaggio. Certo gli aficionados delle regie moderne avranno da osservare che non si può giudicare la regia di McVicar da questa ripresa, curata da Lee Blakeley. A costoro potremmo rispondere che certi spettacoli di Ponnelle e Zeffirelli, per tacere di Visconti, funzionavano e in alcuni casi funzionano tuttora benissimo, anche in assenza dei rispettivi creatori.
Nelle ultime repliche di questo ciclo della “Zauberflöte” il titolare Sir Colin Davis ha ceduto la bacchetta a David Syrus, che si distingue fin dall’ouverture per il suono secco e vetroso degli archi, il clangore degli ottoni, i tempi stringati e i colori smunti tipici del “baroccò” all’inglese. Il palco è perfettamente adeguato all’accompagnamento orchestrale. Joseph Kaiser (Tamino) ha voce microbica, che sarebbe di bel timbro se non fosse per le strozzature che regolarmente si producono sul passaggio. Kate Royal fa sembrare uno scoglio insormontabile una parte elementare come quella di Pamina, strillando e falsettando ogni volta che la voce abbandona la comoda (benché poco o punto sonora) fascia centrale. Improprio parlare di legato. Cornelia Götz induce a riflettere quanto il ruolo della Königin, sovracuti a parte, insista sul registro medio ed esiga un soprano di vocalità ben differente dai vari usignoli o passerotti che regolarmente ci vengono proposti. Stupisce poi che una cantante che si esibisce regolarmente e con successo quale Astrifiammante non possieda, almeno in alto, assoluta precisione d’intonazione. Sarà bello tacere dell’intubato Sarastro di Franz-Josef Selig (ovviamente rinomato esecutore wagneriano!), mentre il Papageno di Christopher Maltman avrebbe anche la voce, non fosse che l’assunzione di Dietrich Fischer-Dieskau quale unico e solo modello canoro limita molto le potenzialità dello strumento e induce il cantante a frequenti stimbrature e a una costante imitazione del parlato, non solo nelle scene a ciò destinate. Molto male anche i comprimari, capitanati da un trio di fanciulli cantori, che rendono il travesti femminile un obbligo in questo e in ogni altro titolo del repertorio operistico.
Nel complesso, il piacevole weekend londinese del vostro Tamburini ha evocato, per molti aspetti, un celebre romanzo di Orwell. Mancavano solo le pecore, ma quelle, si sa, abbondano ad altre latitudini.
Gli ascolti
Mozart - Die Zauberflöte
Atto II
Der Hölle Rache - Beverly Sills (1966)
Donizetti - Lucrezia Borgia
Prologo
Com'è bello, quale incanto - Beverly Sills (1976)
19 commenti:
Per caso a Londra esiste quelche gruppo antibuatori, magari chiamato The Voice of the Galery?
Caro Antonio, credo che questo resoconto dei due spettacoli londinesi sia quanto di più gustoso abbia recentemente letto! La descrizione della Borgia all'ENO, poi...anzi, devo dire che fa venir voglia di vedere lo spettacolo (per ritrovare tutti quegli elementi che hai puntualmente descritto): velo pietoso sull'arbitrio delle manipolazioni musicali e sugli interpreti (Alastair Miles in primis). Quanto allo Zauberflote, mi spiace tu non abbia sentito Davis, che non sarà un mostro di originalità, ma Mozart lo mastica da sempre e oggi sta vivendo una rinnovata giovinezza artistica. La regia di McVicar non l'ho mai vista (conosco invece le Nozze di Figaro, bello spettacolo decisamente)...ma dalle fotografie di scena mi ha dato le stesse tue sensazioni (un mix tra Ronconi e Pizzi)... Quanto alle riprese delle regie: sono anni che al Piccolo riprendono l'Arlecchino di Strehler, e ogni volta si esce da teatro stupiti per la regia... E se qualcuno riprendesse il suo Don Giovanni o Nozze o Così fan tutte, farei la coda...anche se cantasse il peggior cane! A proposito di Maltman: mi spiace abbia preso le cose peggiori di Fischer-Dieskau...pensa che ha pure studiato con Bruscantini! :)
Anche Aronica e La Scola hanno studiato con Bergonzi... ;)
molto divertente:-).. esimio Duprez... l'allestimento del Don Giovanni firmato da Strehler & Co, è stato acquistato dal Teatro Lirico di Cagliari ( epoca Meli) ed è stato messo in scena nel 2000 e nel 2005.... si usa il sipario come sfondo per i concerti da camera... e tanto per fare un pettegolezzo.. l'attuale direttore amministrativo plurimansione avrebbe detto( così si vocifera): ma questo Don Giovanni, che lo teniamo a fare? non lo farete più. bruciamolo! io non posso giurare sulla veridicità di queste parole, ma è ciò che moltissimi del settore tecnico hanno riferito dopo una riunione,erano allucinati.. ecco.. Lei tornerebbe a vederlo volentieri.. e chi "dirige" un teatro lo vorrebbe eliminare... e poi ci lamentiamo che i teatri stanno chiudendo... saluti Maometto II
Personalmente ho assistito alla recita del 9 febbraio con Jessica Pratt e Sir Colin Davis. Per quanto riguarda la direzione di Davis, potrei fare lo stesso discorso che Tamburini ha fatto a proposito di David Syrus. In più, Sir Colin ha staccato tempi soporiferi. La Pratt ha cantato discretamente la prima aria, pur senza impressionare. Nella seconda aria, invece, mi ha deluso, complice la tessitura per lei forse troppo centrale. La voce è parsa ridotta di volume e non proiettatissima. Una bella delusione rispetto alla Sonnambula del novembre scorso, fermo restando che credo si tratti semplicemente di un ruolo al limite del suo repertorio. Non vedo invece l'ora di sentirla alla Fenice come Lucia di Lammermoor al fianco di Shalva Mukeria. D'altronde è confortante leggere qualcuno che non si spertichi nel lodare l'interpretazione di Maltmann, come hanno fatto praticamente tutti i forum inglesi da me letti. Oltre ai limiti tecnici, aggiungerei che l'attore è piuttosto grossolano e non fa altro che ridicolizzare il personaggio, ammiccando al pubblico come se non fosse in grado di capire. Del resto, niente da aggiungere.
Ma tutti usano il nome di Bergonzi come se fosse un grande insegante di canto...
Sappiamo che non è così e basta!
Beh, Om Siden...Davis è un fior di direttore...certo che se si pesa che gli unici Zauberflote "corretti" siano quelli di Klemperer e Furtwangler (pesanti e pachidermici, con tutti quegli archi che soffocano ogni linea musicale e il tono nibelungico...)
Anch'io ci sarò alla Lucia della Fenice, alla prima ma se ne varrà la pena magari anche a qualche altra recita. Sarebbe bello incontrarsi per non sentirsi troppo soli nell'oceano delle sordità interessate.... quanto a Davis, mi permetto di dire che non sempre il suo Mozart mi convince, anczi molto spesso lo trovo vetroso e poco dinamico, poco teatrale. Pur senza giungere agli estremi baroccari, beninteso. Furtwangler invece nel suo flauto magico mi sembra far tutto meno soffocare le linee melodiche, anche le più nascoste: c'è un'orchestra poderosa ma lo stile non mi sembra affatto così wagneriano, anzi mi è parso spesso sottolineare la cantabilità e la polifonia. Certamente non è un Bruno Walter, ma tacciarlo di stile pachidermico mi pare un po' eccessivo. COsa che invece magari si addice a Klemperer che registra anche una delle passioni secondo matteo, tanto per parlare di un altra cosa complessa frequentata da entrambi i direttori, che mi è sempre parsa inascoltabile...
Io credo che il modo di eseguire Mozart, oggi nel 2011, non possa più essere modellato su quanto facevano i Maestri della scuola tedesca negli anni'50. Il Mozart iper romantico, gonfio di archi, lento e dal suono poderoso, è giustamente improponibile oggi. Riprodurlo come se fossimo ancora fermi a 60 anni fa, sarebbe cosa ben poco interessante. Preferisco un suono più asciutto, dinamiche meno compiaciute, compagini orchestrali più rispettose della storia esecutiva (senza questo predominio di archi). Mi piace il Mozart di Harding e dell'ultimo Abbado. Far finta che non sia esistito il movimento di Pinnock, Gardiner etc...è puramente illusorio. Ha portato taluni eccessi, ma ha anche aperto nuove prospettive. Come sempre spetta alle singole capacità degli interpreti. Però, se voglio ascoltare un Mozart alla Furtwangler, ascolto direttamente Furtwangler: non mi sognerei mai di andare a teatro per ascoltare un suo imitatore fuori tempo massimo. Comunque concordo sulla pesantezza di Klemperer (in quasi ogni sua esecuzione del repertorio settecentesco: il suo Bach è inascoltabile), e spiego quella di Furtwangler. E' direttore diversissimo e a tratti sorprendentemente moderno (in quanto antitradizionalista e, fondamentalmente, antiromantico), ma il suo Flauto sconta l'interpretazione sacrale e mistica tipica del periodo: una specie di opera oratorio il salsa massonica, una specie di racconto filosofico dai contenuti ponderosi e mistici... Alla lunga stufa, stanca, e rivela quanto quella concezione sia superata. Per fare un confronto: negli stessi anni Karajan incideva un Flauto opposto a quello di Furtwangler.
Su Davis: è direttore che a me piace, soprattutto in Mozart...certo è figlio del Mozart anglosassone, abbastanza pulito ed educato (poco fantasioso certo)...non "raggiunge" la noiosissima superficialità del sopravvalutatissimo Beecham, però in quella storia interpretativa si inserisce.
Mah, vorrei prendere le difese di Otto Klemperer. Che viene inserito da Duprez e da Silvio nella categoria degli interpreti "pachidermici". In Klemperer non vi sarebbe trasparenza del tessuto orchestrale, con una totale invadenza degli archi; i tempi poi sarebbero insopportabilmente lenti, dal momento che a questo penso alluda l'aggettivo "pachidermico". Partiamo da quest'ultimo assunto. La lentezza dei tempi è unicamente una caratteristica del Klemperer della Philharmonia, l'orchestra fondata per lui alla fine degli anni Cinquanta da Walter Legge; ciò basterebbe per assicurare a quest'ultimo la riconoscenza eterna di tutti gli appassionati di musica. Tuttavia, se ci si rifà ad incisioni precedenti, e precedenti neppure di tantissimo tempo, la situazione si ribalta completamente. Per tutti gli anni Cinquanta i tempi di Klemperer sono furibondi, di una tale velocità da far passare Toscanini, il Toscanini della NBC, per un maniaco della lentezza. Basti pensare ad una Seconda di Mahler eseguita nel '51 ad Amsterdam con il Concertgebouw o alla stessa sinfonia incisa nel medesimo torno di tempo a Vienna con i Wiener Symphoniker. Analogo discorso per la Quarta di Bruckner, ancora con i Wiener Symphoniker. Velocità supersonica infine per il "Lohengrin" registrato durante una rappresentazione all'Opera di Budapest alla fine degli anni Quaranta; lo stesso discorso vale per il quinto Concerto Branderburghese, sempre a Budapest. Ora, che cosa significa prendere atto di queste variazioni? Per me tutto ciò vuol dire che, data per scontata la coerenza stilistica di un interprete così grande (perché sul fatto che sia grande non credo possano sorgere molte discussioni), è evidente che tali variazioni devono essere inserite in un contesto unitario, che dia loro un senso omogeneo.
Il senso omogeneo di cui parlavo prima penso possa essere dato da quelle che rimangono per me le esigenze fondamentali di Klemperer: la chiarezza e l'oggettività. Quando il direttore si pone davanti ad un'opera quello che gli interessa in primo luogo è stagliarne con assoluta limpidezza l'architettura, all'interno della quale però ogni particolare ha da assumere il massimo rilievo; con la conseguenza che la trasparenza dell'ordito strumentale non può soffrire cedimenti. A mia conoscenza, io non ho mai trovato un direttore che sia riuscito con un simile talento a coniugare il senso dell'insieme con una tale esasperata sensibilità per il singolo dettaglio strumentale. Questa è un'operazione che assume a mio parere il significato di un'autentica rivendicazione razionalistica, la rivendicazione del predominio della ragione su qualsiasi tentazione sentimentale ispirata ad una "sensiblerie" romantica. Non è a caso che Klemperer affibbiasse a Bruno Walter, a un direttore tanto diverso da lui, il nomignolo di "Bruno Walzer". E non è neppure a caso che una "walteriana" così autorevole come Kathleen Ferrier trovasse Klemperer assolutamente insopportabile, nei modi e personali e musicali.
All'interno di questa esigenza di pulizia e di rigore possono possono acquisire una loro coerenza le variazioni di tempo cui ho accennato prima. La velocità del Klemperer precedente alla direzione della Philharmonia è sostanzialmente il rifiuto di ogni cedimento sentimentale, legato a tempi indugianti; la lentezza delle esecuzioni con la Philharmonia si collega con la preoccupazione di Klemperer di tramandare una sorta di Pantheon della grande musica tedesca, epifenomeno di una ragione assoluta, collocata al di fuori del tempo. Ma sempre di razionalità e rigore si tratta, seppur nei due casi ispirati a criteri diversi. In questa prospettiva secondo me devono essere collocate le esecuzioni mozartiane e bachiane di Klemperer. Appartengono ad un'epoca prefilologica; non potrebbe essere diversamente. Ed è assurdo pensare di riproporle oggi; in questo convengo senza riserve con Duprez e Silvio. Ma secondo me la loro grandezza è incontestabile. Il "Flauto magico" non è pachidermico; è invece proiettato in una classicità fuori del tempo, quasi sbalzato ad una distanza tale che ci riesce più facile osservarne l'assoluta coerenza fra i particolari e l'insieme. E' ovvio che tante cose in questa visione si perdono: l'elemento popolare, la vivacità teatrale. Ma non è questo che importa. Perché si tratta di una prospettiva coerente e originalissima che, in quanto tale, ha la possibilità di parlare ai suoi contemporanei ed anche a noi. Prende spunto dalla "Nuova Oggettività" teorizzata da Hindemith e che Klemperer così bene incarnò negli anni berlinesi della Krolloper; ma va molto al di là di questa e suscita la nostra ammirazione. Così secondo me è per il suo Bach, in cui si realizza un apparente ossimoro, la tragicità della contemplazione. Così è per il "Don Giovanni" e persino per il "Così fan tutte", nel quale Klemperer riesce ad inserire inediti bagliori metafisici, echi di quella ragione superiore ed implacabile cui Klemperer ha sempre sacrificato ogni tentazione più corriva ed umana.
Il problema è che una simile arte, così poco accattivante, non era fatta per ingraziarsi i favori della comunità musicale. Il destino di Klemperer ne è una prova lampante. Quando arrivarono i nazisti come tanti altri dovette fare le valige ed emigrò negli Stati Uniti. Ma anche lì il suo destino non fu molto migliore di quello riservatogli in patria; ebbe per breve tempo la direzione dell'orchestra di Los Angeles e non molto di più. E' per questo che non si conoscono testimonianze discografiche di questo periodo, diversamente da quanto accade per esempio per Bruno Walter. Senza nulla togliere alla statura gigantesca di Walter, troppo più ardua e solitaria era l'arte del Nostro, sostanzialmente impercorribile il cammino della pura razionalità, un sentiero che per i più risulta tragicamente interrotto. E poi, dopo la guerra? Nazisti ed antinazisti, pur conservando le reciproche antipatie, si sono incontrati negli stessi luoghi, hanno frequentato gli stessi prestigiosi festival, hanno dimostrato una perfetta capacità di inserimento. Proprio quella che è mancata a Klemperer, costretto per poter lavorare ad accettare una sede provinciale come l'Opera di Budapest, in un paese che si incamminava a grandi passi verso lo stalinismo. A questi anni risale il suo "Lohengrin" in ungherese, di cui ho una registrazione completa. I cantanti sono piuttosto bravi, ma non dei fuoriclasse. Nonostante questo, si tratta senz'altro del più bel "Lohengrin" che io abbia mai ascoltato: teso, rapido, intenso, strumentalmente una meraviglia. Ogni cantante si inserisce nell'insieme senza problemi, e per i tempi e per il volume dell'orchestra. Ma anche da lì Klemperer dovette partire presto; il regime stava stretto a quella nuova incarnazione dell'ebreo errante. Non lo aveva amato nessuno, né i nazisti né i comunisti né i democratici americani.
Forse l'unico periodo di vera popolarità era stato quello stimolantissimo del primo dopoguerra tedesco, di Colonia, di Wiesbaden, di Berlino. Si ricorda ancora una testimonianza del grande filosofo Ernst Bloch il quale, ad una rappresentazione di "Carmen" alla Krolloper, così disse: "Nie brannten wir genauer" (non siamo mai arsi in modo più preciso). Non si poteva esprimere meglio l'ardua razionalità e nello stesso tempo l'intensità dell'esecuzione. Ma nel secondo dopoguerra non fu più così. Un così grande interprete wagneriano non fu mai invitato a Bayreuth e un solo concerto diresse a Salisburgo. A Vienna incise con i Symphoniker ma non con i Philharmoniker. La popolarità gli toccò solo nel periodo della Philharmonia, quando si potè trovare per lui l'etichetta rassicurante di "custode della tradizione"; ma, come sempre in questi casi, un'etichetta abbastanza insignificante. Il destino di Klemperer ricorda quello del grandissimo poeta Paul Celan, autore di quella "Todesfuge" (Fuga di morte) che rimane una delle testimonianze più commoventi sui campi di concentramento nazisti; perse i genitori in un Lager nazista ma l'arrivo dei sovietici non gli riservò un destino migliore.
Marco Ninci
Caro Marco, ti corrego una piccola svista storica. La Philharmonia Orchestra non fu assolutamente fondata per Klemperer e men che meno alla fine degli anni Cinquanta. Walter Legge la creò nel 1945 e il concerto di debutto fu diretto da Thomas Beecham. Poi, siccome Beecham non voleva assumersene la guida stabile, Legge affidò il complesso a Karajan che ne fu direttore stabile fino al 1956 quando Klemperer gli subentrò.
Molto interessante, Ninci. Finalmente torna a parlarci di musica.
Grazie e saluti.
Ti ringrazio moltissimo, Gianguido, per aver segnalato il mio errore. Come se io non conoscessi il Rosenkavalier o il Falstaff diretti da Karajan ben prima dell'arrivo di Klemperer. Ma tale è la mia passione per il direttore tedesco che l'inizio dell'ultima fase della sua attività l'ho fatto coincidere con la fondazione dell'orchestra. Una svista molto interessante.
Ciao
Marco
Molto interessante, Marco, vorrei però precisare alcune questioni.
Mai dubitato della grandezza della visione musicale di Klemperer (anche dal punto di vista "filosofico"), tuttavia la trovo più legata alle contingrnze ideologiche che la sostengono.
Non è questione di filologia o prefilologia (ovvio che, all'epoca, lo studio delle fonti fosse meno approfondito), ma proprio di approccio ideologizzato.
In Klemperer, più che il razionalismo e la classicità senza tempo, riconosco, piuttosto, un'ansia tipicamente "hegeliana" nell'evidenziare una determinata struttura, da inserire in un "sistema" tanto complesso e grandioso, quanto artefatto e opprimente.
Purtroppo - mentre nel grande repertorio romantico un approccio siffatto non è incongruente - in Mozart (ma pure in Bach e in Handel), produce una generale ponderosità artificiosa: un intellettualismo compiaciuto, molto retorico e molto statico. Il suo Flauto, ad esempio, rinuncia all'ambiguità e alla "leggerezza" illuminista (come una sorta di favola filosofica alla Voltaire), e sposa una visione mistica e mitica, trasformando l'opera in un oratorio etico, grandioso e titanico, in cui le architetture musicali vengono sottolineate "per accrescimento", in una sorta di immensa cattedrale, teatro dell'eterna lotta tra bene e male. Per usare una metafora letteraria e filosofica, Klemperer trasforma il Candide nelle Fenomenologia dello Spirito! Stessa cosa vale per il suo Don Giovanni.
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