Quello che vi proponiamo di fare oggi con la puntata dedicata al Trovatore a 78 giri in lingua italiana è un viaggio nella quarta dimensione del canto. Dimensione che nemmeno noi pensavamo potesse esistere, ma gli ascolti effettuati di circa 150 tra brani acustici ed elettrici di uno dei titoli più popolari e maggiormente eseguito dai cantanti antichi, ci hanno posto davanti un altro mondo, un’altra lirica.
L’intento era quello di documentare il Trovatore come si può ricostruire dai microsolchi dalle origini sino al periodo tra le due guerre, dando per assodati e trattati cantanti celeberrimi, veri monumenti della storia, come la Stignani, collocati a cavallo tra quel passato remoto e l’era moderna. Documentare significava, in questo caso, scegliere in modo mirato nel mare magnum dei documenti pervenuti sino a noi di voci storiche di prima seconda e terza “classe”, in modo da mettere a disposizione materiali rappresentativi della storia della vocalità, ossia tipi di voci e prassi esecutive. Impresa rivelatasi da un lato impossibile per via della difficoltà di scegliere tra tante esecuzioni eccezionali, dall’altro a causa della rarità di alcune incisioni e il disinteresse per certe parti dell’opera rispetto ad altre, fatto anche questo assai significativo perché documento chiaro della concezione che i cantanti antichi avevano di questa opera, e di cosa fosse per loro la grandezza dell’esecuzione del ruolo in cui si cimentavano. Impossibilità di scegliere? Certamente! E’ impossibile scegliere un numero limitato di esecuzioni significative perché il numero dei grandi esecutori e dei passi tramandatici è altissimo, e non per la popolarità dell’opera quanto per il livello altissimo, per noi oggi assolutamente inconcepibile, del canto espresso. Esemplifico: non esiste un solo tenore, di serie A, B o C che non squilli negli acuti, esecuzione della Pira in particolare. Fatto eclatante per noi, che viviamo in un presente in cui nessun tenore nel ruolo di Manrico sappia, non dico, squillare, ma eseguire correttamente gli acuti. Fatto ancor più eclatante perché l’ascolto seriale di questi materiali dimostra che anche tenori come Bergonzi o Corelli avrebbero stentato a reggere il confronto, per estensione, completezza di fraseggio e timbro con i Manrico dei 78 giri. Solo Richard Tucker sembra avere avuto tali e tante armi da poter competere con loro. Ma nel complesso, il dopoguerra pare essere stata un’età di svolta per la corda di tenore ed in parte per quella di soprano, svolta verso l’assoluta rarità di esponenti completi per il ruolo protagonistico maschile, eccezionalità di grandi protagoniste femminili, oggi come oggi estinte pure loro. La constatazione che vi sottopongo non è espressa a cuor leggero o senza riflessione, ma discende dagli ascolti che pure voi invito a fare. Ascolti che saranno ulteriormente rafforzati dalla prossima puntata, quella delle esecuzioni a 78 giri in lingua straniera, che completano il quadro delle grandi scuole di canto europee, che oggi come oggi possiamo solo dichiarare estinte. Dall’altro emerge gigantesca la constatazione che a fronte di innumerevoli artisti di statura storica non sono documentati che alcuni, pochissimi, nomi di direttori d’orchestra. Questi artisti sono sé stessi da soli, e non per le bacchette anche celeberrime, con cui lavorarono, da Toscanini a Mugnone etc..Ed il pensiero istintivo di chi, melomane come me, vive il presente, và alle moderne diciture: il Trovatore di Muti, il Trovatore di Temirkanov, di Pappano…Il Trovatore dei direttori, insomma. Possiamo avere tutti i geni della bacchetta che vogliamo, ma senza grandi cantanti non si può fare un grande Trovatore, nemmeno avvicinarsi ad una buona esecuzione. E questa concezione velleitaria è una delle più grandi storture del nostro presente sulla quale dovremmo riflettere al cospetto di questi ascolti straordinari, incommensurabili ed innavicinabili da parte nostra oggi.
Gli ascolti dei brani hanno tutti o quasi un denominatore comune, che li unisce e li differenzia dalle esecuzioni del dopoguerra, ossia il tempo, nella maggioranza dei casi più lento di quelli cui noi siamo avvezzi. Le arie in particolare sono eseguite con maggior larghezza, voci piene e varietà di fraseggio, conferendo agli andanti una espressione più marcata, insomma …un sapore più netto rispetto ad oggi. Quello del protagonista è certamente il ruolo “perduto”, ossia il ruolo che l’età moderna ha maggiormente alterato nel suo carattere come nella vocalità. Tutti gli interpreti con cui siamo venuti in contatto, a cominciare da Francesco Tamagno, già ritirato all’epoca dell’incisione della sua Pira, ai De Muro e Caruso sino ai più recenti Pertile e Lauri Volpi, inclusi tenori di secondo piano come Scampini o altri di fama ancora minore che qui abbiamo omesso come Biel, Garcia o Valls, tanto per fare dei nomi, erano dotati di squillo. Non solo di perfetto dominio del registro acuto, ma di squillo vero e proprio. E tanto per intenderci sul significato che sino al dopoguerra si è attribuito alla parola squillo, abbiamo incluso una Pira dalla voce di un tenore ritenuto poco squillante e dotato in zona acuta, ossia Beniamino Gigli, per noi oggi squillantissimo. Pira per la quale non si ammetteva l’esecuzione senza puntature, con buona pace della filologia moderna, a cominciare proprio da Tamagno. L’esecuzione abbassata era prassi accettata e diffusa per i tenori, che non potessero eseguire il do come ad esempio Pertile, mentre anche altre interpolazioni venivano eseguite come quelle oggi del tutto desuete nella scena del Miserere, come udiamo ad esempio nella bellissima incisione della scena di Celestina Bonisegna e Augusto Scampini, quelle della canzone di ingresso oppure quella, bruttissima a mio avviso, in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, ancora frequente nei 78 giri, o addirittura nella scena del convento da parte di De Muro. Acuti, ma anche un canto legato, a sostegno di un fraseggio più o meno articolato, funzionale alla creazione di un personaggio indiscutibilmente eroico, nobile, in alcuni casi malinconico, sempre virile. Colpisce in tal senso il modo di gestire la canzone di ingresso, Deserto sulla terra, eseguita con tempo lento, in alcuni casi lentissimo, come tradizione che va da Tamagno a Pertile. La malinconia pare essere un tratto prevalentemente moderno, di pochi, mentre i più preferivano conferire al brano il tratto di una nenia cantata da un eroe di guerra, come del resto ci dice il personaggio stesso. Il colore della voce di Manrico non era affatto prestabilita, variando da quella scurissima e baritonaleggiante di Caruso a quella chiara ed ampia di De Muro sino a quella adolescenziale e squillantissima di Lauri Volpi. Tutti sanno legare il suono con la voce, e, fatto per noi oggi assolutamente straordinario, legano anche i tenori di forza, legano e modulano il suono con assoluta facilità, mantenendo sempre un’emissione perfettamente composta e, soprattutto stilizzata. Stupisce la completa assenza di “fibra” o di sforzo in queste voci, che suonano sempre completamente libere ed astratte. Francesco Merli un prodigio vocale e di forza fisica, che ebbe questo ruolo in repertorio per trent’anni assieme a tutti i ruoli più pesanti del repertorio, canta con voce enorme, facile, legatissima e morbida, senza portamento alcuno al contrario di molti suoi epigoni, a cominciare da Franco Corelli, che finisce per essere un tenore di gusto deteriore al confronto. La lezione di Merli e di Pertile rappresenta la lettura toscaniniana del canto di Manrico, di un canto composto, sempre diretto sulle note, mai o comunque assai meno abusato e connotato da libertà esecutive quali quelle che si riscontrano in un Paoli, ad esempio, molto ottocentesco e “marconiano” nell’emissione dei suoni centrali come ben si percepisce nell’esecuzione dell’”Ah si ben mio”, seguito, peraltro, da una delle Pire di forza più impressionati dell’intero mondo dei 78 giri. Il loro è il canto cui noi siamo maggiormente abituati, mentre Paoli suona per noi arcaico e lontanissimo per gusto nell’esecuzione degli andanti, al contrario della cabaletta. Non è Caruso, dunque, a fare da spartiacque , come già altre volte, tra il tenore antico e quello moderno nell’evoluzione del gusto, forse anche perché cantò l’opera raramente. La sua incisione dell’aria, nel 1908, pare poco “carusiana” per il gusto, particolarmente varia per i suoi standard di fraseggio, e per nulla compiaciuta di certi vezzi tipici, il portamento soprattutto, che tanto fecero scuola tra i suoi epigoni. Il timbro scurissimo, piuttosto, in parte naturale in parte voluto, vera anomalia rispetto a tutti gli altri colleghi sino al secondo dopoguerra, sembra oggi la sola componente che lo accomuna a certi (malsani) esecutori di età moderna, che bitumano artificiosamente le loro voci. La sua Pira, va detto, pare essere il primo caso di manipolazione fraudolenta, in modo da far credere che Caruso eseguisse il brano in tono. Quanto poi alla seconda linea tenorile, quella più lirica e leggera che abbiamo visto in campo subito all’epoca della composizione dell’opera, trova ancora documentazione in voci come Piccaver o Dalmorès, famoso per l’esecuzione del trillo in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, che suonano comunque assai più liriche e piene di quanto non abbiamo sentito, ad esempio, da un Pavarotti. Trovare morbidezza e lirismo in un esecutore abituale di Donizetti come Piccaver non stupisce, mentre và oltre ogni nostra aspettativa sentire una qualità di canto che noi oggi non conosciamo nemmeno nel belcanto in un tenore solito a praticare il Verismo più spinto come Bernardo De Muro, che ricorda per molti aspetti il canto spinto all’estremo delle proprie risorse di Lauri Volpi, che, ad onta della sua planetaria fama come più grande Manrico di tutti i tempi, non ci ha lasciato una esecuzione di “Ah, si ben mio” e Pira cantante con quel timbro adolescenziale che tutti conosciamo attraverso i live della sua tarda età. L’incisione Brunswick del 1923, infatti, è quella del Lauri Volpi antecedente l’incontro con Maria Ros, quando il tenore ancora imitava apertamente i modi di Caruso di scurire il suono. L’esecuzione, comunque, resta straordinaria per accento e squillo. Per quanto concerne il personaggio di Leonora, fortemente caratterizzato da una componente belcantistica e da una tragica contrapposte, i 78 giri documentano assai limitatamente la prima. O meglio, la riscontriamo nel canto di primedonne tecnicamente straordinarie, dall’emissione perfettamente astratta almeno in zona centro acuta, in grado di amministrare con scioltezza i passi di agilità, complice la precoce affermazione della prassi del taglio della cabaletta successiva al Miserere, reintrodotta in età moderna. Si tratta, comunque, di soprani eccezionali anche per il gusto sobrio, modernissimo, come la Raisa, prima, la Russ o l’Arangi Lombardi o la stessa Muzio, che portarono in teatro un titolo come la Norma senza cadere nelle contaminazioni del gusto verista. Soprani che praticavano abitualmente il repertorio spinto o drammatico, e con loro anche la Rethberg, di cui ci resta solo il finale live con Martinelli dal Met, già pubblicato nella puntata precedente, capaci di accentare in modo composto ma vario, insomma di esprimere sempre solo con il canto. E’ in questa loro arcaica perfezione di tecnica unita a strumenti privilegiati per timbro ed estensione, le prime due in particolare, che risiede la peculiarità di un canto estraneo ad ogni inflessione di tipo naturalista destinato ad estinguersi di lì a poco. Soffrono entrambe nel registro grave, l’Arangi forse un po’ meno della Raisa (che però sale con straordinaria facilità al re bemolle), mentre di loro la più perfetta anche nei gravi fu certamente la Rethberg, ma fraseggiano con un pathos ed una poesia ( la Muzio poi, laddove non arriva con il suo strumento arriva con la spontanea ricercatezza ed fantasia del suo emozionante fraseggio ) che dopo di loro solo la Callas, la Cerquetti e la Gencer hanno saputo avvicinare. E’ la sola Amelita Galli Curci a rappresentare, nel mondo dei 78 giri, il filone del belcantismo puro, dato che all’incisione delle arie la Tetrazzini ( che esegue male, fra l’altro, la scena del quarto atto ) non diede alcun seguito con l’esecuzione dell’opera in teatro. La Galli Curci con la sua ampia voce cristallina da leggero purissimo, lascia la sensazione di trovarsi al cospetto di una grandissima artista diva piuttosto che di Leonora, una diva che voleva, in virtù della natura sonorissima del mezzo, cimentarsi al di là della propria natura vocale, antesignana dichiarata delle performances newyorkesi della Sutherland, ma non so in che misura aderente all’arcaico modello della più grande belcantista ottocentesca, cioè la Patti e la Grisi. Al loro fianco le voci stupende della Ponselle, più comuni, ma elegantemente amministrate di soprani spinti di secondo piano come la Spani, che esegue benissimo la cavatina, o di dive veriste al cento per cento come la Destinn, che nel Miserere offre una prova perfetta del modo sopra le righe e retorico di approcciare il passo più drammatico e di scrittura grave dell’opera. Arrivano i suoni aperti e sbiancati, le note di petto ed un fraseggio abbastanza esteriore. Meglio certe italiane, come la Bonisegna, estesissima nei gravi tanto da arrivare a cimentarsi anche con le incisioni delle scene di Azucena, oppure la Minghini Cattaneo, davvero poderosa in questa scena. Della Caniglia e della Cigna vi abbiamo già dato documentazione nella puntata precedente. La scena che, nel post Callas che ha fortemente liricizzato ed alleggerito il peso specifico del ruolo, non ha poi più trovato esecutrici in grado di amministrare la scena con la forza, a volte certamente esagerata per il nostro gusto, tipica dei soprani drammatici. Per quanto attiene il ruolo della zingara, i 78 giri in italiano documentano ancora mezzosoprani di caratura belcantistica come Eugenia Mantelli, Azucena numerose volte al Met alla fine dell’Ottocento e con Francesco Tamagno, o Ernestine Schumann-Heink, qui nella celeberrima incisione dell’ultima scena con Enrico Caruso, cui si affiancavano altre interpreti straniere che vedremo nel volume dedicato alle esecuzioni in lingua. Queste interpreti restituiscono la dimensione ottocentesca a metà tra retaggio belcantistico e nuova vocalità del mezzosoprano verdiano di cui parlammo nella prima puntata e che si perse nei primi decenni del novecento, a favore di un personaggio meno raffinato e rifinito sul piano vocale. Ne è un esempio Elvira Casazza, l’Azucena più famosa precedente “l’impero” di Ebe Stignani, che con il suo arrivò ripristinò stile, emissione perfetta ed eleganza esecutiva del personaggio. Nessuna di queste cantanti del pre Stignani si abbandona mai al canto sgangherato e volgare di Fedora Barbieri. Possono avere magari la voce con due registri non omogeneizzati, come la Casazza appunto, o cantare con ampio uso del registro di petto oltre il nostro gusto moderno come la Minghini Cattaneo, voce peraltro bellissima oltre che ampia, che canta disordinatamente il "Deh rallentate o barbari" o la Zinetti, che, al contrario, è volgare nel "Giorni poveri vivea" ma regge meglio la stretta della scena, mai si abbandonano ad una dimensione becera e volgare della zingara e che le moderne Azucene, vuoi per limiti tecnici vuoi per gusto deteriorato, sovente ci restituiscono. Quanto ai baritoni c’è assi poco da dire. Voci ampissime come pure voci di normale tonnellaggio si sono cimentati nell’incisione dell’aria del Conte di Luna, che non è esattamente un must che interessasse ai grandi cantanti incidere per documentare le proprie virtù canore. Mattia Battistini rappresenta il modo ottocentesco di eseguire il duetto con Leonora ( l’incisione dell’aria risulta perduta..), sempre composto, elegante, estraneo ad ogni truculenza moderna che da Tagliabue e MacNeil in poi ci viene regolarmente propinata ad ogni produzione di Trovatore, buona e non ultima quella parmigiana. Eppure come il re dei baritoni cantavano no solo le star, di mezzo limitato come De Luca o importante come Galeffi, ma anche, e soprattutto per noi oggi, le voci di secondo piano. Abbiamo già proposto nel leggendario video Giacomo Rimini, marito di Rosa Raisa, o una coppia più ruspante, la Poli Randaccio con Inghilleri. In questa puntata ho scelto un’esecuzione più tarda, anni ’30, di Enrico Molinari, che incise l’opera con Francesco Merli e Bianca Scacciati. Esecuzione strepitosa per il legato, la morbidezza di emissione, la facilità del canto, un canto fin troppo regale per la rozzezza del personaggio. Molinari canta porgendo ogni frase quasi si trattasse del Re di Favorita, eppure no toglie nulla al profilo drammaturgico del personaggio, che di fatto è caratterizzato da una psicologia, posticcia, falsa, come in una fiaba. Quanto al ruolo di Ferrando, si tratta di rare incisioni, quasi delle curiosità da parte di celebrità come Ezio Pinza, o Nazareno De Angelis, rari ma eccezionali interpreti della scena iniziale, la cui presenza in teatro poteva essere un lusso per produzioni particolari, ma più frequentemente una presenza legata ad altre in ruoli più rilevanti nelle tournée dei grandi teatri.
Gli ascolti Giuseppe Verdi Il trovatore
Atto I
Abietta zingara - Ezio Pinza (1923)
Tacea la notte placida...Di tale amor che dirsi -
Hina Spani (1919), Rosa Ponselle (1922), Maria Nemeth (1927), Claudia Muzio (1935)
Deserto sulla terra - Francesco Tamagno (1903), Bernardo De Muro (con Ernesto Badini - 1917), Augusto Scampini (1912)
Di geloso amor sprezzato - Giuseppe Pacini, Giannina Russ & Luigi Longobardi (1905)
Atto II
Stride la vampa
Armida Parsi-Pettinella (1904), Eugenia Mantelli (1905) Condotta ell'era in ceppi - Armida Parsi-Pettinella (1909)
Mal reggendo all'aspro assalto...Perigliarti ancor languente - Enrico Caruso & Louise Homer (1910), Bernardo De Muro & Elvira Casazza (1917), Aureliano Pertile & Irene Minghini-Cattaneo (1927)
Il balen del suo sorriso - Giuseppe De Luca (1907), Riccardo Stracciari (1917), Enrico Molinari (1930) E deggio e posso crederlo? - Bernardo De Muro & Janni, Badini & Bettoni (1914)
Atto III
Giorni poveri vivea - Armida Parsi-Pettinella (con Pasquale Amato & Ferruccio Corradetti - 1909), Irene Minghini-Cattaneo (con Apollo Granforte & Bruno Carmassi - 1930), Giuseppina Zinetti (con Enrico Molinari & Corrado Zambelli - 1930)
Ah sì, ben mio - Enrico Caruso (1908), Antonio Paoli (1911), Bernardo De Muro (1917), Alfredo Piccaver (1923), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Aureliano Pertile (1925), Francesco Merli (1930)
Di quella pira - Francesco Tamagno (1903), Antonio Paoli (1911), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Francesco Merli (1930), Beniamino Gigli (1940),
Atto IV
Timor di me?...D'amor sull'ali rosee - Rosa Raisa (1918), Amelita Galli-Curci (1918), Giannina Arangi-Lombardi (1927)
Miserere - Celesina Boninsegna & Augusto Scampini (1907), Emmy Destinn & Giovanni Martinelli (1912), Irene Minghini-Cattaneo & Aureliano Pertile (1927)
Mira d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo - Elvira Barbieri & Mattia Battistini (1913), Giannina Arangi-Lombardi & Carlo Galeffi (1928), Tina Poli-Randaccio & Giovanni Inghilleri (1929)
Ai nostri monti - Enrico Caruso & Ernestine Schumann-Heink (1910), Beniamino Gigli & Cloe Elmo (1940)
No, non m'inganna quel fioco lume - Giovanni Zenatello, Ester Mazzoleni & Elisa Bruno (1908)
L’intento era quello di documentare il Trovatore come si può ricostruire dai microsolchi dalle origini sino al periodo tra le due guerre, dando per assodati e trattati cantanti celeberrimi, veri monumenti della storia, come la Stignani, collocati a cavallo tra quel passato remoto e l’era moderna. Documentare significava, in questo caso, scegliere in modo mirato nel mare magnum dei documenti pervenuti sino a noi di voci storiche di prima seconda e terza “classe”, in modo da mettere a disposizione materiali rappresentativi della storia della vocalità, ossia tipi di voci e prassi esecutive. Impresa rivelatasi da un lato impossibile per via della difficoltà di scegliere tra tante esecuzioni eccezionali, dall’altro a causa della rarità di alcune incisioni e il disinteresse per certe parti dell’opera rispetto ad altre, fatto anche questo assai significativo perché documento chiaro della concezione che i cantanti antichi avevano di questa opera, e di cosa fosse per loro la grandezza dell’esecuzione del ruolo in cui si cimentavano. Impossibilità di scegliere? Certamente! E’ impossibile scegliere un numero limitato di esecuzioni significative perché il numero dei grandi esecutori e dei passi tramandatici è altissimo, e non per la popolarità dell’opera quanto per il livello altissimo, per noi oggi assolutamente inconcepibile, del canto espresso. Esemplifico: non esiste un solo tenore, di serie A, B o C che non squilli negli acuti, esecuzione della Pira in particolare. Fatto eclatante per noi, che viviamo in un presente in cui nessun tenore nel ruolo di Manrico sappia, non dico, squillare, ma eseguire correttamente gli acuti. Fatto ancor più eclatante perché l’ascolto seriale di questi materiali dimostra che anche tenori come Bergonzi o Corelli avrebbero stentato a reggere il confronto, per estensione, completezza di fraseggio e timbro con i Manrico dei 78 giri. Solo Richard Tucker sembra avere avuto tali e tante armi da poter competere con loro. Ma nel complesso, il dopoguerra pare essere stata un’età di svolta per la corda di tenore ed in parte per quella di soprano, svolta verso l’assoluta rarità di esponenti completi per il ruolo protagonistico maschile, eccezionalità di grandi protagoniste femminili, oggi come oggi estinte pure loro. La constatazione che vi sottopongo non è espressa a cuor leggero o senza riflessione, ma discende dagli ascolti che pure voi invito a fare. Ascolti che saranno ulteriormente rafforzati dalla prossima puntata, quella delle esecuzioni a 78 giri in lingua straniera, che completano il quadro delle grandi scuole di canto europee, che oggi come oggi possiamo solo dichiarare estinte. Dall’altro emerge gigantesca la constatazione che a fronte di innumerevoli artisti di statura storica non sono documentati che alcuni, pochissimi, nomi di direttori d’orchestra. Questi artisti sono sé stessi da soli, e non per le bacchette anche celeberrime, con cui lavorarono, da Toscanini a Mugnone etc..Ed il pensiero istintivo di chi, melomane come me, vive il presente, và alle moderne diciture: il Trovatore di Muti, il Trovatore di Temirkanov, di Pappano…Il Trovatore dei direttori, insomma. Possiamo avere tutti i geni della bacchetta che vogliamo, ma senza grandi cantanti non si può fare un grande Trovatore, nemmeno avvicinarsi ad una buona esecuzione. E questa concezione velleitaria è una delle più grandi storture del nostro presente sulla quale dovremmo riflettere al cospetto di questi ascolti straordinari, incommensurabili ed innavicinabili da parte nostra oggi.
Gli ascolti dei brani hanno tutti o quasi un denominatore comune, che li unisce e li differenzia dalle esecuzioni del dopoguerra, ossia il tempo, nella maggioranza dei casi più lento di quelli cui noi siamo avvezzi. Le arie in particolare sono eseguite con maggior larghezza, voci piene e varietà di fraseggio, conferendo agli andanti una espressione più marcata, insomma …un sapore più netto rispetto ad oggi. Quello del protagonista è certamente il ruolo “perduto”, ossia il ruolo che l’età moderna ha maggiormente alterato nel suo carattere come nella vocalità. Tutti gli interpreti con cui siamo venuti in contatto, a cominciare da Francesco Tamagno, già ritirato all’epoca dell’incisione della sua Pira, ai De Muro e Caruso sino ai più recenti Pertile e Lauri Volpi, inclusi tenori di secondo piano come Scampini o altri di fama ancora minore che qui abbiamo omesso come Biel, Garcia o Valls, tanto per fare dei nomi, erano dotati di squillo. Non solo di perfetto dominio del registro acuto, ma di squillo vero e proprio. E tanto per intenderci sul significato che sino al dopoguerra si è attribuito alla parola squillo, abbiamo incluso una Pira dalla voce di un tenore ritenuto poco squillante e dotato in zona acuta, ossia Beniamino Gigli, per noi oggi squillantissimo. Pira per la quale non si ammetteva l’esecuzione senza puntature, con buona pace della filologia moderna, a cominciare proprio da Tamagno. L’esecuzione abbassata era prassi accettata e diffusa per i tenori, che non potessero eseguire il do come ad esempio Pertile, mentre anche altre interpolazioni venivano eseguite come quelle oggi del tutto desuete nella scena del Miserere, come udiamo ad esempio nella bellissima incisione della scena di Celestina Bonisegna e Augusto Scampini, quelle della canzone di ingresso oppure quella, bruttissima a mio avviso, in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, ancora frequente nei 78 giri, o addirittura nella scena del convento da parte di De Muro. Acuti, ma anche un canto legato, a sostegno di un fraseggio più o meno articolato, funzionale alla creazione di un personaggio indiscutibilmente eroico, nobile, in alcuni casi malinconico, sempre virile. Colpisce in tal senso il modo di gestire la canzone di ingresso, Deserto sulla terra, eseguita con tempo lento, in alcuni casi lentissimo, come tradizione che va da Tamagno a Pertile. La malinconia pare essere un tratto prevalentemente moderno, di pochi, mentre i più preferivano conferire al brano il tratto di una nenia cantata da un eroe di guerra, come del resto ci dice il personaggio stesso. Il colore della voce di Manrico non era affatto prestabilita, variando da quella scurissima e baritonaleggiante di Caruso a quella chiara ed ampia di De Muro sino a quella adolescenziale e squillantissima di Lauri Volpi. Tutti sanno legare il suono con la voce, e, fatto per noi oggi assolutamente straordinario, legano anche i tenori di forza, legano e modulano il suono con assoluta facilità, mantenendo sempre un’emissione perfettamente composta e, soprattutto stilizzata. Stupisce la completa assenza di “fibra” o di sforzo in queste voci, che suonano sempre completamente libere ed astratte. Francesco Merli un prodigio vocale e di forza fisica, che ebbe questo ruolo in repertorio per trent’anni assieme a tutti i ruoli più pesanti del repertorio, canta con voce enorme, facile, legatissima e morbida, senza portamento alcuno al contrario di molti suoi epigoni, a cominciare da Franco Corelli, che finisce per essere un tenore di gusto deteriore al confronto. La lezione di Merli e di Pertile rappresenta la lettura toscaniniana del canto di Manrico, di un canto composto, sempre diretto sulle note, mai o comunque assai meno abusato e connotato da libertà esecutive quali quelle che si riscontrano in un Paoli, ad esempio, molto ottocentesco e “marconiano” nell’emissione dei suoni centrali come ben si percepisce nell’esecuzione dell’”Ah si ben mio”, seguito, peraltro, da una delle Pire di forza più impressionati dell’intero mondo dei 78 giri. Il loro è il canto cui noi siamo maggiormente abituati, mentre Paoli suona per noi arcaico e lontanissimo per gusto nell’esecuzione degli andanti, al contrario della cabaletta. Non è Caruso, dunque, a fare da spartiacque , come già altre volte, tra il tenore antico e quello moderno nell’evoluzione del gusto, forse anche perché cantò l’opera raramente. La sua incisione dell’aria, nel 1908, pare poco “carusiana” per il gusto, particolarmente varia per i suoi standard di fraseggio, e per nulla compiaciuta di certi vezzi tipici, il portamento soprattutto, che tanto fecero scuola tra i suoi epigoni. Il timbro scurissimo, piuttosto, in parte naturale in parte voluto, vera anomalia rispetto a tutti gli altri colleghi sino al secondo dopoguerra, sembra oggi la sola componente che lo accomuna a certi (malsani) esecutori di età moderna, che bitumano artificiosamente le loro voci. La sua Pira, va detto, pare essere il primo caso di manipolazione fraudolenta, in modo da far credere che Caruso eseguisse il brano in tono. Quanto poi alla seconda linea tenorile, quella più lirica e leggera che abbiamo visto in campo subito all’epoca della composizione dell’opera, trova ancora documentazione in voci come Piccaver o Dalmorès, famoso per l’esecuzione del trillo in chiusa all’ ”Ah si ben mio”, che suonano comunque assai più liriche e piene di quanto non abbiamo sentito, ad esempio, da un Pavarotti. Trovare morbidezza e lirismo in un esecutore abituale di Donizetti come Piccaver non stupisce, mentre và oltre ogni nostra aspettativa sentire una qualità di canto che noi oggi non conosciamo nemmeno nel belcanto in un tenore solito a praticare il Verismo più spinto come Bernardo De Muro, che ricorda per molti aspetti il canto spinto all’estremo delle proprie risorse di Lauri Volpi, che, ad onta della sua planetaria fama come più grande Manrico di tutti i tempi, non ci ha lasciato una esecuzione di “Ah, si ben mio” e Pira cantante con quel timbro adolescenziale che tutti conosciamo attraverso i live della sua tarda età. L’incisione Brunswick del 1923, infatti, è quella del Lauri Volpi antecedente l’incontro con Maria Ros, quando il tenore ancora imitava apertamente i modi di Caruso di scurire il suono. L’esecuzione, comunque, resta straordinaria per accento e squillo. Per quanto concerne il personaggio di Leonora, fortemente caratterizzato da una componente belcantistica e da una tragica contrapposte, i 78 giri documentano assai limitatamente la prima. O meglio, la riscontriamo nel canto di primedonne tecnicamente straordinarie, dall’emissione perfettamente astratta almeno in zona centro acuta, in grado di amministrare con scioltezza i passi di agilità, complice la precoce affermazione della prassi del taglio della cabaletta successiva al Miserere, reintrodotta in età moderna. Si tratta, comunque, di soprani eccezionali anche per il gusto sobrio, modernissimo, come la Raisa, prima, la Russ o l’Arangi Lombardi o la stessa Muzio, che portarono in teatro un titolo come la Norma senza cadere nelle contaminazioni del gusto verista. Soprani che praticavano abitualmente il repertorio spinto o drammatico, e con loro anche la Rethberg, di cui ci resta solo il finale live con Martinelli dal Met, già pubblicato nella puntata precedente, capaci di accentare in modo composto ma vario, insomma di esprimere sempre solo con il canto. E’ in questa loro arcaica perfezione di tecnica unita a strumenti privilegiati per timbro ed estensione, le prime due in particolare, che risiede la peculiarità di un canto estraneo ad ogni inflessione di tipo naturalista destinato ad estinguersi di lì a poco. Soffrono entrambe nel registro grave, l’Arangi forse un po’ meno della Raisa (che però sale con straordinaria facilità al re bemolle), mentre di loro la più perfetta anche nei gravi fu certamente la Rethberg, ma fraseggiano con un pathos ed una poesia ( la Muzio poi, laddove non arriva con il suo strumento arriva con la spontanea ricercatezza ed fantasia del suo emozionante fraseggio ) che dopo di loro solo la Callas, la Cerquetti e la Gencer hanno saputo avvicinare. E’ la sola Amelita Galli Curci a rappresentare, nel mondo dei 78 giri, il filone del belcantismo puro, dato che all’incisione delle arie la Tetrazzini ( che esegue male, fra l’altro, la scena del quarto atto ) non diede alcun seguito con l’esecuzione dell’opera in teatro. La Galli Curci con la sua ampia voce cristallina da leggero purissimo, lascia la sensazione di trovarsi al cospetto di una grandissima artista diva piuttosto che di Leonora, una diva che voleva, in virtù della natura sonorissima del mezzo, cimentarsi al di là della propria natura vocale, antesignana dichiarata delle performances newyorkesi della Sutherland, ma non so in che misura aderente all’arcaico modello della più grande belcantista ottocentesca, cioè la Patti e la Grisi. Al loro fianco le voci stupende della Ponselle, più comuni, ma elegantemente amministrate di soprani spinti di secondo piano come la Spani, che esegue benissimo la cavatina, o di dive veriste al cento per cento come la Destinn, che nel Miserere offre una prova perfetta del modo sopra le righe e retorico di approcciare il passo più drammatico e di scrittura grave dell’opera. Arrivano i suoni aperti e sbiancati, le note di petto ed un fraseggio abbastanza esteriore. Meglio certe italiane, come la Bonisegna, estesissima nei gravi tanto da arrivare a cimentarsi anche con le incisioni delle scene di Azucena, oppure la Minghini Cattaneo, davvero poderosa in questa scena. Della Caniglia e della Cigna vi abbiamo già dato documentazione nella puntata precedente. La scena che, nel post Callas che ha fortemente liricizzato ed alleggerito il peso specifico del ruolo, non ha poi più trovato esecutrici in grado di amministrare la scena con la forza, a volte certamente esagerata per il nostro gusto, tipica dei soprani drammatici. Per quanto attiene il ruolo della zingara, i 78 giri in italiano documentano ancora mezzosoprani di caratura belcantistica come Eugenia Mantelli, Azucena numerose volte al Met alla fine dell’Ottocento e con Francesco Tamagno, o Ernestine Schumann-Heink, qui nella celeberrima incisione dell’ultima scena con Enrico Caruso, cui si affiancavano altre interpreti straniere che vedremo nel volume dedicato alle esecuzioni in lingua. Queste interpreti restituiscono la dimensione ottocentesca a metà tra retaggio belcantistico e nuova vocalità del mezzosoprano verdiano di cui parlammo nella prima puntata e che si perse nei primi decenni del novecento, a favore di un personaggio meno raffinato e rifinito sul piano vocale. Ne è un esempio Elvira Casazza, l’Azucena più famosa precedente “l’impero” di Ebe Stignani, che con il suo arrivò ripristinò stile, emissione perfetta ed eleganza esecutiva del personaggio. Nessuna di queste cantanti del pre Stignani si abbandona mai al canto sgangherato e volgare di Fedora Barbieri. Possono avere magari la voce con due registri non omogeneizzati, come la Casazza appunto, o cantare con ampio uso del registro di petto oltre il nostro gusto moderno come la Minghini Cattaneo, voce peraltro bellissima oltre che ampia, che canta disordinatamente il "Deh rallentate o barbari" o la Zinetti, che, al contrario, è volgare nel "Giorni poveri vivea" ma regge meglio la stretta della scena, mai si abbandonano ad una dimensione becera e volgare della zingara e che le moderne Azucene, vuoi per limiti tecnici vuoi per gusto deteriorato, sovente ci restituiscono. Quanto ai baritoni c’è assi poco da dire. Voci ampissime come pure voci di normale tonnellaggio si sono cimentati nell’incisione dell’aria del Conte di Luna, che non è esattamente un must che interessasse ai grandi cantanti incidere per documentare le proprie virtù canore. Mattia Battistini rappresenta il modo ottocentesco di eseguire il duetto con Leonora ( l’incisione dell’aria risulta perduta..), sempre composto, elegante, estraneo ad ogni truculenza moderna che da Tagliabue e MacNeil in poi ci viene regolarmente propinata ad ogni produzione di Trovatore, buona e non ultima quella parmigiana. Eppure come il re dei baritoni cantavano no solo le star, di mezzo limitato come De Luca o importante come Galeffi, ma anche, e soprattutto per noi oggi, le voci di secondo piano. Abbiamo già proposto nel leggendario video Giacomo Rimini, marito di Rosa Raisa, o una coppia più ruspante, la Poli Randaccio con Inghilleri. In questa puntata ho scelto un’esecuzione più tarda, anni ’30, di Enrico Molinari, che incise l’opera con Francesco Merli e Bianca Scacciati. Esecuzione strepitosa per il legato, la morbidezza di emissione, la facilità del canto, un canto fin troppo regale per la rozzezza del personaggio. Molinari canta porgendo ogni frase quasi si trattasse del Re di Favorita, eppure no toglie nulla al profilo drammaturgico del personaggio, che di fatto è caratterizzato da una psicologia, posticcia, falsa, come in una fiaba. Quanto al ruolo di Ferrando, si tratta di rare incisioni, quasi delle curiosità da parte di celebrità come Ezio Pinza, o Nazareno De Angelis, rari ma eccezionali interpreti della scena iniziale, la cui presenza in teatro poteva essere un lusso per produzioni particolari, ma più frequentemente una presenza legata ad altre in ruoli più rilevanti nelle tournée dei grandi teatri.
Gli ascolti Giuseppe Verdi Il trovatore
Atto I
Abietta zingara - Ezio Pinza (1923)
Tacea la notte placida...Di tale amor che dirsi -
Hina Spani (1919), Rosa Ponselle (1922), Maria Nemeth (1927), Claudia Muzio (1935)
Deserto sulla terra - Francesco Tamagno (1903), Bernardo De Muro (con Ernesto Badini - 1917), Augusto Scampini (1912)
Di geloso amor sprezzato - Giuseppe Pacini, Giannina Russ & Luigi Longobardi (1905)
Atto II
Stride la vampa
Armida Parsi-Pettinella (1904), Eugenia Mantelli (1905) Condotta ell'era in ceppi - Armida Parsi-Pettinella (1909)
Mal reggendo all'aspro assalto...Perigliarti ancor languente - Enrico Caruso & Louise Homer (1910), Bernardo De Muro & Elvira Casazza (1917), Aureliano Pertile & Irene Minghini-Cattaneo (1927)
Il balen del suo sorriso - Giuseppe De Luca (1907), Riccardo Stracciari (1917), Enrico Molinari (1930) E deggio e posso crederlo? - Bernardo De Muro & Janni, Badini & Bettoni (1914)
Atto III
Giorni poveri vivea - Armida Parsi-Pettinella (con Pasquale Amato & Ferruccio Corradetti - 1909), Irene Minghini-Cattaneo (con Apollo Granforte & Bruno Carmassi - 1930), Giuseppina Zinetti (con Enrico Molinari & Corrado Zambelli - 1930)
Ah sì, ben mio - Enrico Caruso (1908), Antonio Paoli (1911), Bernardo De Muro (1917), Alfredo Piccaver (1923), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Aureliano Pertile (1925), Francesco Merli (1930)
Di quella pira - Francesco Tamagno (1903), Antonio Paoli (1911), Giacomo Lauri-Volpi (1923), Francesco Merli (1930), Beniamino Gigli (1940),
Atto IV
Timor di me?...D'amor sull'ali rosee - Rosa Raisa (1918), Amelita Galli-Curci (1918), Giannina Arangi-Lombardi (1927)
Miserere - Celesina Boninsegna & Augusto Scampini (1907), Emmy Destinn & Giovanni Martinelli (1912), Irene Minghini-Cattaneo & Aureliano Pertile (1927)
Mira d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo - Elvira Barbieri & Mattia Battistini (1913), Giannina Arangi-Lombardi & Carlo Galeffi (1928), Tina Poli-Randaccio & Giovanni Inghilleri (1929)
Ai nostri monti - Enrico Caruso & Ernestine Schumann-Heink (1910), Beniamino Gigli & Cloe Elmo (1940)
No, non m'inganna quel fioco lume - Giovanni Zenatello, Ester Mazzoleni & Elisa Bruno (1908)
17 commenti:
Prima di tutto, grazie del lavoro monumentale!
Non vedo l'ora di conoscere quello che non ho ancora sentito e di riascoltare quello che conosco già.
Che si inizi gli ascolti!
Davvero una disamina completa, c´è tutto quel che occorre per capire che oggi il Trovatore è divenuti ineseguibile a certi livelli
grazie per gli ascolti avete fatto un gran lavoro sia per gli ascolti che per il post.
Cara Giulia Grisi,
se per deliberare occorre conoscere, gli appassionati più giovani troveranno qui molto materiale su cui riflettere.
Benissimo, su questo siamo tutti d’accordo.
Ma l’abbondanza di fonti non è di per sé risolutiva, anzi è vero l’opposto: se aumentano le fonti aumentano anche i problemi di interpretazione di esse (ne parlava opportunamente Mozart nella chat qualche giorno fa).
Non è certo sufficiente una risposta un po’ à la Celletti, basta “ascoltare i dischi”: non basta affatto far ascoltare Tamagno per convincere il pubblico di oggi e che non lo conosce che Tamagno fu un grande cantante (ricordiamoci che Gara, sull’Europeo, e pure Celletti, furono molto critici dei dischi di Tamagno): perché si può benissimo ascoltare Tamagno e pensare che fosse un semi-analfabeta musicale con degli acuti (certo, non è quello che penso io; ma comprendo benissimo che qualcuno lo possa pensare, e la cosa non mi dà scandalo).
Di qui la centralità dell’analisi critica e della storia dell’interpretazione – materie, credo, accademicamente neglette. Ma lo studio della storia del canto è tutto, se si vuol fare formazione e non solo informazione: altrimenti il rischio (secondo me molto grave) è di far credere a chi non ha sufficiente cultura (cioè conoscenza critica) che i cantanti del passato (i cantanti che tu evochi nel post e le cui voci fai ascoltare) abbiano incontrato sempre e soltanto incondizionata approvazione da parte dei critici; il che è del tutto falso, e qui davvero basterebbe leggere. A chi pensa che il passato sia tendenzialmente da venerare, pensi che ci fu un momento in cui anche il passato fu un presente.
Apprezzo comunque che il tuo scritto non si sia ridotto ad una contrapposizione Passato/Presente, soprattutto perché i cantanti da te ricordati non sono modelli assoluti (come mostrano le non poche ombre degli ascolti), ma modelli da studiare, facendo sempre le opportune distinzioni fondate sulla storia della vocalità e dell’interpretazione, che fortunatamente si muove.
Chiudo ricordando appositamente le acide parole indirizzate da Henderson al Manrico del mio carissimo Lauri Volpi (Met, 1927):
“Mr. Lauri-Volpi was the Manrico. This role, except in one or two especially lyric passages, such as the air. "Ah, si ben mio," is well suited to this tenor's style. He evoked vociferous demonstrations with his "Di quella pira." Few tenors have ever sung this and "Ah, si ben mio" both well. But so long as Manrico sings the historic high C (even if it be a B flat) in "Di quella pira," all else is forgiven.”
Un ringraziamento e un saluto
mg
Caro Grondona ,
non ho mai creduto che il passato fosse incondizionantamente non criticato e di successo. I concetti esposti qui peròsono due:
a) che i do della Pira non venissero eseguiti non è affatto dimostrato dalle fonti storiche. E' una ricerca che ha solo una forza, le ragioni della scrittura melodica, ma non dimostra affatto che poi i teneori non puntassero l'aria anche all'epoca di Verdi. Nè che Verdi non volesse la scena puntata. Al contrario, c'è una tradizione esecutiva unanime, cui i musicologi o i musicisti come Muti non attribuiscono valore documentario. E questo sul piano storico, del fare storia, è un errore perchè questi audio sono documenti.
b) che i cantanti del passato subissero critiche è vero, ma è certo che in scena non andavao incompleti, sgangherati ed incapaci di dominare i ferri del mestiere come oggi. La statistica, invece, ci prova il contrario di quanto tu affermi, ossia che i Valls, i Garcia o gli Scampini, ossia le retrovie, erano tutti assai più capaci e con la voce in ordine di oggi.
La critica si cimentava prevalentemente con questioni di GUSTO e STILE; in seconda misura con questioni tecniche, ma raramente. Ed è oggettivo che nei 78gg si cantasse mediamente meglio anche del secondo, non parliamo di oggi. Gigli fu criticatissimo per il suo Pirata, se ne rimarcavano alcune mancanze nel Trovatore. I tenori di oggi non avrebbero mai raggiunto i più grandi teatri del mondo,men che meno cantato il Trovatore.
E la prossima puntata contribuirà ad aumentare il numero di questi fenomeni che già solo nel secondo dopoguerra si contano sulla punta di una mano e mezza al massimo.
c) se hai note critiche da avanzare a questi cantanti, ti prego scrivi e pubblichiamole. Cioè, confrontiamo le tue obiezioni aquesti antichi con quelle agli interpreti del poi immediato quindi dell'oggi, così potremo commensurare l'entità delle critiche ( e dei pregi ) che mettiamo in parallelo.
d) cellettismo? ritengo quello che tu così chiami semplicemente il modo del fare critica sul canto sino a R. Celletti...
Prova a fare critica non cellettiana su questi audio...:a meno di rimarcare alcuni abusi e certi fattori di GUSTO ( che sono espressione del tempo del cantante e/o della sua personalità ) non vedo cosa si possa osservare di negativo. Credi che non avrebbero potuto essere adatti alle bacchette di Muti etc....più dei Licitra, di Alvarez? ...ci pensarei due volte prima di affermarlo.
a presto
Cara Giulia,
una analisi critica di tutte le voci sarebbe molto utile (a me per primo), ma è troppo complessa (se vi va possiamo anche dividerci per gruppi di ascolto, e fare una bella analisi): per ora mi limito a qualche considerazione veloce (magari fra un po’ ci tornerò).
Che gli ascolti provino che le puntature acute nel passato si facessero è pacifico: non penso che Muti sostenga che la tradizione non sia in quel senso; semmai sostiene che è una tradizione cattiva perché va appunto contro la lettera dello spartito (cosa molto diversa).
Non c’è dubbio del resto che le puntature acute hanno senso se sono suoni belli: se il cantante non è in grado, meglio non farle: io, e non credo solo io, preferisco non sentire del tutto un brutto suono.
Poi però c’è un aspetto più profondo, difficile e tecnico: vi sono state sempre polemiche e discussioni sull’opportunità di certe puntature. Per quel che vale il mio giudizio, dal punto di vista estetico io sono sempre per variare: però nei dischi antichi (diciamo fino al 1915, per indicare una data di comodo) non si tratta sempre di variazioni nel senso classico (che dovrebbero essere tendenzialmente più difficili del testo non variato: trilli, roulades, puntature) ma di letture approssimative del testo musicale (la libertà di solfeggio è una cosa; ma se è troppo ripetuta, anche di fronte all’immenso Battistini è legittimo restare un po’ perplessi, perché non so bene fino a che punto quella lettura imprecisa è voluta, o se invece il cantante non riesce a rispettare le note scritte, cosa tendenzialmente più difficile che riscrivere il testo: e qui, lo ripeto, siamo fuori del campo delle variazioni). Un tempo pensavo che il cantante del passato (e io sono un “passatista”!, nonostante le mie critiche) facesse questo di proposito: oggi sono meno sicuro, ma ci vorrebbe una conoscenza delle fonti cronachistiche, storiche e critiche che io purtroppo non ho. Però il fatto che in alcuni dischi Tamagno abbia bisogno del suggeritore, e nonostante ciò sbagli l’entrata a tempo, non può non far riflettere (e infatti l’ottimo Aspinall ha considerato attentamente la cosa).
Quanto poi al do della pira: sbaglierò io, ma solo Lauri Volpi (anche un po’ crescente), Paoli e Tamagno (in fine calante, ma può essere che si muovesse rispetto alla tromba: lo fa sempre) cantano il do; giudico Gigli inascoltabile, e Merli insoddisfacente. Mentirei se dicessi che una di queste 5 esecuzione rappresenti un ideale, e non parlo di stile o di gusto, ma di tecnica, cioè “lo strumento immediato e sicuro per la espressione della volontà dell’artista” (per citare proprio LV): Lauri Volpi ancora con molte difficoltà nella produzione del suono, intubato e artificiale (tranne che negli acuti) – il primo disco in cui a mio avviso LV fa un salto di qualità è il Brindisi della Cavalleria; Paoli: qui ne esce maluccio: tenore da acuti sparati e forse un po’ forzati (ma è probabile che l’incisione lo danneggi: mi sembra molto meglio il suo “Figli miei”; insomma una specie di Filippeschi); Gigli è in gravissima difficoltà, su ogni nota direi, e mi pare che canti un sib, pure calante; Merli è un tenore drammatico, e corto, e secondo me si sente. Come criterio generale, sperando di essere chiaro, dove c’è sforzo, tensione, durezza, le cose non vanno.
Ciao
m
Però, Giulia: i valori della scrittura melodica dovrebbero valere più di ogni tradizione esecutiva (che può essere buona o cattiva, non per il solo fatto di essere "tradizione" andrebbe presa acriticamente). Peraltro non esistono neppure prove per cui Verdi volesse quelle puntature, o che all'epoca quelle puntature si facessero. I documenti di cui parli sono molto successivi e, se permetti, in 50 anni cambiano gusto e fruizione (superfluo ricordare il modo in cui si maltrattava Rossini, almeno sino alla seconda metà del '900). Tali documenti GIUSTAMENTE non hanno alcun valore musicologico poiché nulla dicono in merito alle fonti e alla prassi coeva: parlano di un'epoca successiva, per certi versi corrotta da gusti e vezzi discutibili (almeno relativamente ad un certo repertorio). E dato che non esistono fantomatiche proprietà transitive da maestro ad allievo (giacché altrimenti oggi tutti dovrebbero cantare esattamente come la Sutherland, la Gencer o la Sills), nulla ci autorizza a pensare che quanto si percepisce dai documenti sonori dell'anteguerra, sia più vicino al modo di cantare dei primi interpreti verdiani. Forse, anzi, è vero il contrario: se applico un metodo storico corretto non posso non considerare che così come fatto con Rossini o Handel sia stato fatto per Verdi e Donizetti. Senza contare che, allora, era ben vivo e vitale un altro tipo di approccio all'opera che, inevitabilmente, condizionava anche l'esecuzione del passato. Gli svolazzi liberty che tanto e giustamente critica Celletti nelle dive a cavallo del secolo, sono quanto di più lontano dall'estetica rossiniana si possa immaginare, eppure "cronologicamente" sono più vicini: non mi sembra, però, che sia possibile affermare che la Rosina della Tetrazzini sia più corretta di quella della Horne (ad esempio). Il DO della Pira è solo una nota, giudicare un Trovatore per la sua presenza o assenza è profondamente scorretto (come lo sarebbe giudicare una Traviata dall'orrido MI bemolle). Se piace lo si faccia (purché in modo decente, possibilmente senza tenerlo mezz'ora), se non piace non lo si faccia (senza però scandalizzarsi o attribuire la mancanza di tale nota a pretese incapacità tenorili).
Il problema di certa tradizione, poi, è che a volte ci si dimentica come possono nascere certi vezzi, certi arbitri, certe modalità: che vanno dal mero edonismo alla pigrizia del cantante. Perché non si eseguivano le cadenze verdiane? Sono oggettivamente migliori: ma più difficili. Perché semplificare certe soluzioni? Per comodità (inserendo pause, respiri, anche acuti). Non si può sempre porre l'alternativa tra tradizione (o meglio Tradizione) ed eseguire la lettera dello spartito: ci sono momenti dove il cantante ha libertà (non sempre e non in tutti i repertori) e altri in cui se ne sono concesse di eccessive. La ripetizione all'unisono (Manrico/Leonora) della ripresa di "Sei tu dal ciel disceso" è un orrore musicale, logico, strutturale, rovina un momento sublime dell'opera di Verdi eppure l'edonismo e l'esibizionismo malato di qualche divo l'ha imposto come Tradizione intoccabile, e il risultato è che solo 3 o 4 incisioni dell'intera discografia rispettano la scrittura verdiana. E qui non prendiamoci in giro: nulla giustifica l'intervento di Manrico. E nessun valore musicologico possiede quella tradizione che, al contrario, imponeva questo arbitrio. Non si può essere rigorosi solo su certe cose e lasciar andare in vacca le altre: perché se si viviseziona la singola nota o il singolo trillo non si possono accettare, in nome di una fantomatica e infallibile tradizione, vere e proprie nefandezze. Io, personalmente, non ritengo che tutto il passato sia uno splendore e che tutto il presente sia uno schifo. Credo che tutto vada considerato storicamente. Condivido pienamente i giudizi di Grondona su alcuni degli ascolti. Non credo ad essere il solo, credo e spero, a ritenere (per tornare ad una querelle passata) inascoltabile la Serenata del Don Giovanni di Battistini (tra portamenti e problemi evidenti di solfeggio: nella seconda parte non va neppure a tempo, oltre ad inventarsi un brutta melodia), per comprendere la differenza basta rivolgersi ad un ascolto quasi coevo e sentire come la canta Schlusnus. Non credo di togliere nulla alla grandezza di Battistini se affermo che non trovo soddisfacente una sua esecuzione, atteso che si tratta di essere umano e cantante con pregi e difetti, come tutti.
Duprez, solo una piccola precisazione. La ripresa all´unisono di "Sei tu dal ciel disceso" non è nata dall´edonismo di un cantante malato, ma è di mano dell´autore. Verdi riscrisse in questo modo la frase per la ripresa parigina in lingua francese del Trovatore nel 1855, insieme ad altre varianti nella partitura tra cui le danze e una diversa versione del finale.
Caro Grondona, guarda che ti sbagli: l’unico che abbassa la Pira (di mezzo tono) è Paoli, tutti gli altri la cantano in tono, compreso Gigli che esegue i suoi DO senza problemi (e non li trovo calanti: anzi, sono così facili e privi di sforzo, che a te sono sembrati dei SI bemolle!). Merli sembra cantare tutto circa un quarto di tono di sotto, probabilmente dipende dal diapason adottato.
Il problema di questa cabaletta è il suo carattere eroico ed infuocato, che dovrebbe esprimersi però attraverso ciò che è scritto in partitura, vale a dire le note accentate e le veloci quartine (su cui tutti i tenori, nella foga di cantare a squarciagola, immancabilmente inciampano rozzamente). Il tenore ideale per Manrico deve avere una formazione vocale da belcantista, e perciò dev’essere capace di trillare, di eseguire fioriture, di legare come un violoncello, di eseguire messe di voce, e più in generale di stilizzare astrattamente i sentimenti dell’eroe romantico, nei limiti di un canto espressivo, sì, ma nobile e garbato, non violento, disordinato o esagitato.
Tra i tenori qui proposti l’unico interprete completo sarebbe stato Lauri Volpi, ma qui la sua voce non è ancora tecnicamente affinata. Resta comunque il mio preferito, per il modo aulico e nobile di porgere la parola, per la bella quadratura musicale e la nettezza di fraseggio, oltre agli acuti adamantini. Al secondo posto metto Gigli, che, a differenza di quanto dice Grondona, trovo che canti con la sua solita estrema disinvoltura, con voce bellissima, chiara, giovane, morbida, accento vivo e begli acuti: un prodigio vocale (anche se denigrarlo pare diventato uno sport nazionale…). Le quartine però sono assai approssimative. Tamagno impressiona per la voce chiara e squillante e gli acuti facili (malgrado l’età), aspetti tipici del tenore romantico ottocentesco, però il tempo troppo lento mette a dura prova i suoi polmoni, l’intonazione è incerta, la quadratura musicale è dilettantesca, ed il fraseggio e l’accento sono monotoni. Paoli e Merli non mi piacciono.
Devo dire comunque che nel ruolo di Manrico non esiste un solo interprete, documentato in tutta la storia del disco, che mi soddisfi completamente. Nel Dopoguerra, messi da parte per le ragioni sopraddette i vari Del Monaco, Corelli, Bonisolli ecc., salverei solo Bergonzi per il suo rigore stilistico, e Tucker per la voce squillante.
Una domanda a Grondona: il tuo Manrico ideale chi è? Il mio è il Lauri Volpi della fine degli anni Trenta.
IO sono mortalmente annoiata dal parlare di orrori musicalogici per cantanti spaziali che noi nemmeno ci immaginiamo, mentre mandiamo in scena somari raglianti filologicamente perfetti.
Sarà, ma io sento qui della gente che assai molto canta, reputo gli arbitri figli di un modo di concepire il teatro ed il canto diverso dal nostro, ma preferisco di gran lunga loro, con il loro "libero" approccio agli spartiti di quelle schifezze che sentiamo oggi. A cominciare dalla vergogna di Parma per passare al Verdi che ci ha ammannito Muti con pessimi cantanti.
Ma di che parliamo oggi che no abbiamo bessuno da amndare in scena? di conservazione di note sulla carta o di conservazione della musica in scena, che è li che vive davvero?
certo fa davvero "fine" parlare di musicalogia e purezza stilistica ed armonica....fa fine....insomma, fa bene alla bocca, ma malessimo alle orecchie
Caro Mancini, allora sulla tonalità ho decisamente preso un abbaglio, e grazie per la tua correzione.
Quanto al mio Manrico ideale, non ho dubbi: sono anche io per il miglior Giacomo Lauri-Volpi, quello di fine anni '20/primi anni '30, a cui aggiungerei il miglior Rosvaenge.
ciao
... volevo dire, chiaramente, il Lauri-Volpi della fine degli anni VENTI.
un tempo anche io ero convinto che il miglior manrico fosse lauri volpi. certo quello del 1929 quando cantò il trovatore nella tourneè della scala.
i dischi precedenti ritraggono la voce tubata dell'imitatore di lauri volpi ed i successivi il cantante in declino: gran declino aggiungo!
però sia pure con i loro vezzi (lasciamo stare tamagno che era vecchio quando incise e mai fu un portento di musicalità stando alle cronache del tempo ed anche alle perlessità di verdi) i tenori pre lauri volpi come scampini, escalais in entrambe le versioni hanno un fascino molto particolare. Lo stesso paoli quando canta "ah si ben mio" sfoggia un colore ed una voce differenti dalla pira, lui che mai venne considerato un raffinato e la medesima osservazione vale per de muro.
aggiungo che ho anche il dubbio che le esecuzioni più significative siamo in lingua tedesca e francese. ma questo è il futuro
ciao a tuuti
dd
Duprez,
io comprendo le tue ragioni riguardo al rispetto del testo e dell´architettura musicale, e posso anche condividerle. Purtroppo, in un´opera come Il Trovatore, la presenza di un cast vocale valido è imprescindibile quanto e più di quella di un grande direttore. Oggi abbiamo molti direttori d´orchestra di altissimo livello. Prova a immaginare una esecuzione affidata ad uno di essi, quello che preferisci tu in base ai tuoi gusti. Non ne verrá fuori nulla, perchè un cantante in grado di eseguire l´opera a certi livelli in questo periodo non esiste, per nessuno dei quattro ruoli principali.
Per questo, volendo farci un´idea concreta della vocalità del Trovatore, dobbiamo per forza rivolgerci alle registrazioni del passato.
Saluti.
Mi da molto fastidio che, per ricordare il Manrico di Lauri-Volpi, si sia fatto ricorso alle vecchie incisioni degli anni Venti, che Lauri-Volpi detestava. Lui non avrebbe mai approvato questa scelta. Era orgoglioso -giustamente orgoglioso- del suo "Trovatore" Cetra 1951. Non capisco perché ci si rifiuti di riconoscere il merito del "Trovatore" del 1951 e specialmente di quello del 1954 di Amsterdam.
Carissima Grisi,
per quel che vale il mio giudizio,
condivido parola per parola il bellissimo post (che tra l'altro il mio "sogno" di qualche tempo addietro quasi presagiva). Ovviamente grazie (pur se in ritardo) sia per gli ascolti, sia per lo scritto. Condivido, in particolare, le riflessioni sui Manrico del dopo guerra e, in particolare, su Tucker.
E mi associo al commento di Donzelli su GLV. Perchè, proprio da quello che da tutti i contemporanei venne considerato il Manrico del secolo (anche da chi ascoltò i mitici come Marconi, Masini e Stagno) sarebbe stato bello avere incisioni del periodo aureo, che come ricordato da voi, comincia dopo l'incontro con la Ros e pressapoco arriva ai primi 40. Da sfegatato laurivolpiano qual sono, mi "accontento" lo stesso delle integrali anni 50 ricordate da Mantoval. Però...
Grazie ancora, MB
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