Solido successo lunedì sera alla Scala per il concerto di canto del baritono veterano Thomas Hampson.
Concerto esclusivamente dedicato ai Lieder in lingua tedesca, per la goduria del pubblico straculturale, piamente munito dei programmi di sala con le traduzioni delle saggezze poetiche e filosofiche comunicate nei diversi brani di Schubert, Liszt e Mahler – pubblico che, ahimè, è stato letteralmente costretto a godere anche in forma di bis di tre altri Lieder di Mahler. Implacabile contro le implorazioni “Fa' il repertorio!” e “Opera!”, quale quarto bis Mister Hampson ci ha regalato una canzone tedesca di Meyerbeer che per conto mio avrebbe potuto essere anche un brano di Hugo Wolf in una rielaborazione dell’ultimo Alban Berg e rivisto da parte sua da Dallapiccola.
Cantante di veneranda e ormai trentennale carriera, dall'aspetto maschio e decisamente simpatico, Thomas Hampson ci ha dimostrato quello che è e quello che è sempre stato quale vocalista e liederista. Voce non di grande volume né di particolare fascino timbrico, complice una posizione della voce abbastanza “bassa” e l’assenza di una vera proiezione, il timbro risulta pieno e bello solo nel registro centrale quando canta sul mezzo-forte e senza spingere. In basso la voce è abbastanza vuota e costretta a forzare le note gravi, problema evidente già nel primo Lied schubertiano “Der Atlas”. In alto, appena richiesto un canto sul piano, il baritono sfalsetta sistematicamente e quando canta sul forte gli acuti risultano spinti, scolorati e rauchi – entrambi caratteristiche nella “migliore” tradizione di Dietrich Fischer-Dieskau di cui peraltro Hampson sembrava talvolta una copia di prima mano. Personalmente, capisco pienamente il pubblico che ieri ammirava il baritono americano, perché in un mondo musicale in cui la liederistica di un Dietrich Fischer-Dieskau è quasi unanimemente considerata come un classico ed un patrimonio intoccabile, un altro modo di cantare il Lied tedesco non sembra possibile neanche nella più lontana teoria. Forse solo nei dischi di un Heinrich Schlusnus, una Lotte Lehmann o Herbert Janssen che ormai sono sorpassati e apprezzati solo da qualche passatista. Inesistenti forse anche gli eminenti liederisti del dopoguerra, come Fritz Wunderlich o Christa Ludwig che sarebbero due vere testimonianze del Lied cantato al posto del Lied declamato. L’onnipresenza di Fischer-Dieskau nel canto di Thomas Hampson si attesta non solo attraverso la sua succitata organizzazione vocale, ma anche nel suo approccio generale all’arte del Lied, ossia la prevalenza del declamato, perfettamente realizzato nell’alternanza fra suoni “parlati”, da una parte, con voce spinta e, dall’altra, quelli abbastanza aggressivi e “abbaiati” con voce falsettata e sussurrata. Il legato è escluso per principio e, quando applicato nei rari momenti di cantabile, come per esempio nel “Urlicht” di Mahler (il brano sicuramente meglio riuscito dell’intera serata), risulta molto insicura sia per intonazione sia per l’incoerenza stilistica dovuta agli inevitabili “salti” di tipo di emissione sotto e sopra il passaggio. L’approccio declamatorio di Hampson è peraltro segnato da un altro “vizio” della tradizione fischer-dieskauiana, ossia una comprensione troppo letterale delle forme e funzioni dell’espressività liederistica che l’abbassa spesso ad un naturalismo abbastanza banale. Con una tale visione declamatoria-naturalistica dell’estetica del lied, peraltro uguale e completamente indifferente sia in Schubert che in Liszt, Mahler e… Meyerbeer, diventa irrilevante anche una varietà più grande nella loro realizzazione vocale e finisce in un’interminabile e monotona alternanza fra suoni sforzati e sfalsettati. Un elemento fondamentale di questo approccio è l’enfatizzazione del lato testuale dei Lieder e l’articolazione dei versi con una chiarezza quasi da teatro di prosa. Thomas Hampson possiede in effetti una pronuncia tedesca impeccabile. Eppure, si chiede quale può essere il piacere o il senso estetico di un canto liederistico tutto centrato sul lato linguistico davanti ad un pubblico la cui maggioranza è decisamente non-germanofono e ha bisogno di rivolgersi alle traduzioni riprodotte nel programma di sala. Quest’autocelebrazione dell’articolazione testuale nell’ambito della liederistica rappresenta poi una sorte di contradictio in adjecto, perché un Lied che, bene o male, rimane quello che vuol dire in tedesco “das Lied”, una canzone, un pezzo cantato, ma in cui l’articolazione del testo diventa l’obiettivo a spese del lato musicale, dimostra una visione estetica basata su dei truismi ed un’unidimensionalità generale dovuta ad una carenza tecnica vocale. Non è né originale né “emozionante” o particolarmente “suggestivo” un canto per cui gli unici “colori” vocali trovati per le parole articolate sono la monotonia bicolore dei falsetti-sussurri e grida-sforzati, invece di portare e carezzare le parole ammorbidendole e variandone le dimensioni espressive-cromatiche con delle inflessioni venute da una varietà e flessibilità rese unicamente possibili da una tecnica vocale che, primariamente, permette l’esistenza di un’omogeneità dello strumento e, secondariamente, nel ambito di questa coerenza, una molteplicità di accenti e modi vocali.
In quanto al pianista della serata, Wolfram Rieger, i suoi accompagnamenti ci sono apparsi piuttosto privi d’ispirazione. Oltre i piccoli errori ortografici, ha dimostrato un suono piuttosto secco e generico, senza veramente creare un’atmosfera di continuità né fra le diverse sezioni dei lieder come “Der Schildwache Nachtlied” di Mahler ed il laconismo grave e pesante degli accordi disparati del “Doppelgänger” schubertiano né fra i diversi lieder, terminando pure ogni brano con un gesto discreto e quasi sacrale di compimento a cui il pubblico, massimamente all’altezza del rito, rispondeva con un religioso silenzio di raccoglimento.
Gli ascolti
Denza
Si vous l'aviez compris - Mattia Battistini (1924)
Rotoli
La gondola nera - Mattia Battistini (1911)
Tosti
La serenata - Mattia Battistini (1911)
Concerto esclusivamente dedicato ai Lieder in lingua tedesca, per la goduria del pubblico straculturale, piamente munito dei programmi di sala con le traduzioni delle saggezze poetiche e filosofiche comunicate nei diversi brani di Schubert, Liszt e Mahler – pubblico che, ahimè, è stato letteralmente costretto a godere anche in forma di bis di tre altri Lieder di Mahler. Implacabile contro le implorazioni “Fa' il repertorio!” e “Opera!”, quale quarto bis Mister Hampson ci ha regalato una canzone tedesca di Meyerbeer che per conto mio avrebbe potuto essere anche un brano di Hugo Wolf in una rielaborazione dell’ultimo Alban Berg e rivisto da parte sua da Dallapiccola.
Cantante di veneranda e ormai trentennale carriera, dall'aspetto maschio e decisamente simpatico, Thomas Hampson ci ha dimostrato quello che è e quello che è sempre stato quale vocalista e liederista. Voce non di grande volume né di particolare fascino timbrico, complice una posizione della voce abbastanza “bassa” e l’assenza di una vera proiezione, il timbro risulta pieno e bello solo nel registro centrale quando canta sul mezzo-forte e senza spingere. In basso la voce è abbastanza vuota e costretta a forzare le note gravi, problema evidente già nel primo Lied schubertiano “Der Atlas”. In alto, appena richiesto un canto sul piano, il baritono sfalsetta sistematicamente e quando canta sul forte gli acuti risultano spinti, scolorati e rauchi – entrambi caratteristiche nella “migliore” tradizione di Dietrich Fischer-Dieskau di cui peraltro Hampson sembrava talvolta una copia di prima mano. Personalmente, capisco pienamente il pubblico che ieri ammirava il baritono americano, perché in un mondo musicale in cui la liederistica di un Dietrich Fischer-Dieskau è quasi unanimemente considerata come un classico ed un patrimonio intoccabile, un altro modo di cantare il Lied tedesco non sembra possibile neanche nella più lontana teoria. Forse solo nei dischi di un Heinrich Schlusnus, una Lotte Lehmann o Herbert Janssen che ormai sono sorpassati e apprezzati solo da qualche passatista. Inesistenti forse anche gli eminenti liederisti del dopoguerra, come Fritz Wunderlich o Christa Ludwig che sarebbero due vere testimonianze del Lied cantato al posto del Lied declamato. L’onnipresenza di Fischer-Dieskau nel canto di Thomas Hampson si attesta non solo attraverso la sua succitata organizzazione vocale, ma anche nel suo approccio generale all’arte del Lied, ossia la prevalenza del declamato, perfettamente realizzato nell’alternanza fra suoni “parlati”, da una parte, con voce spinta e, dall’altra, quelli abbastanza aggressivi e “abbaiati” con voce falsettata e sussurrata. Il legato è escluso per principio e, quando applicato nei rari momenti di cantabile, come per esempio nel “Urlicht” di Mahler (il brano sicuramente meglio riuscito dell’intera serata), risulta molto insicura sia per intonazione sia per l’incoerenza stilistica dovuta agli inevitabili “salti” di tipo di emissione sotto e sopra il passaggio. L’approccio declamatorio di Hampson è peraltro segnato da un altro “vizio” della tradizione fischer-dieskauiana, ossia una comprensione troppo letterale delle forme e funzioni dell’espressività liederistica che l’abbassa spesso ad un naturalismo abbastanza banale. Con una tale visione declamatoria-naturalistica dell’estetica del lied, peraltro uguale e completamente indifferente sia in Schubert che in Liszt, Mahler e… Meyerbeer, diventa irrilevante anche una varietà più grande nella loro realizzazione vocale e finisce in un’interminabile e monotona alternanza fra suoni sforzati e sfalsettati. Un elemento fondamentale di questo approccio è l’enfatizzazione del lato testuale dei Lieder e l’articolazione dei versi con una chiarezza quasi da teatro di prosa. Thomas Hampson possiede in effetti una pronuncia tedesca impeccabile. Eppure, si chiede quale può essere il piacere o il senso estetico di un canto liederistico tutto centrato sul lato linguistico davanti ad un pubblico la cui maggioranza è decisamente non-germanofono e ha bisogno di rivolgersi alle traduzioni riprodotte nel programma di sala. Quest’autocelebrazione dell’articolazione testuale nell’ambito della liederistica rappresenta poi una sorte di contradictio in adjecto, perché un Lied che, bene o male, rimane quello che vuol dire in tedesco “das Lied”, una canzone, un pezzo cantato, ma in cui l’articolazione del testo diventa l’obiettivo a spese del lato musicale, dimostra una visione estetica basata su dei truismi ed un’unidimensionalità generale dovuta ad una carenza tecnica vocale. Non è né originale né “emozionante” o particolarmente “suggestivo” un canto per cui gli unici “colori” vocali trovati per le parole articolate sono la monotonia bicolore dei falsetti-sussurri e grida-sforzati, invece di portare e carezzare le parole ammorbidendole e variandone le dimensioni espressive-cromatiche con delle inflessioni venute da una varietà e flessibilità rese unicamente possibili da una tecnica vocale che, primariamente, permette l’esistenza di un’omogeneità dello strumento e, secondariamente, nel ambito di questa coerenza, una molteplicità di accenti e modi vocali.
In quanto al pianista della serata, Wolfram Rieger, i suoi accompagnamenti ci sono apparsi piuttosto privi d’ispirazione. Oltre i piccoli errori ortografici, ha dimostrato un suono piuttosto secco e generico, senza veramente creare un’atmosfera di continuità né fra le diverse sezioni dei lieder come “Der Schildwache Nachtlied” di Mahler ed il laconismo grave e pesante degli accordi disparati del “Doppelgänger” schubertiano né fra i diversi lieder, terminando pure ogni brano con un gesto discreto e quasi sacrale di compimento a cui il pubblico, massimamente all’altezza del rito, rispondeva con un religioso silenzio di raccoglimento.
Gli ascolti
Denza
Si vous l'aviez compris - Mattia Battistini (1924)
Rotoli
La gondola nera - Mattia Battistini (1911)
Tosti
La serenata - Mattia Battistini (1911)
24 commenti:
Cara GIuditta, mi scusi ma non è storicamente vero che FIscher-DIeskau non legasse e falsettasse sistematicamente.... almeno se vogliamo essere corretti e giudicarlo dal suo periodo buono. SOno d'accordo che il liederismo di questi tempi sia qualcosa di veramente noioso, purtroppo, e vorrei ricordare un grandissimo di cui poco si parla, oltre alla triade Jansen, Schlusnus e Lehman: Heinrich Rehkemper.
So che non incontra i gusti di altri miei colleghi, ma a ne Fischer-Dieskau piace molto, nel suo repertorio, ovviamente (al contrario lo trovo disastroso in quello italiano: tipo il suo Verdi). Devo dire che il repertorio liederistico non mi entusiasma più di tanto (alla lunga lo trovo noioso - limite mio probabilmente). Certo sono scritti da grandissimi compositori, ma dopo un po' mi stufo.
Pensa un po', caro Duprez, che Hugo Wolf è forse il compositore fra tutti più vicino al mio cuore; non certo il più grande, questo è ovvio. E trovo assolutamente delizioso il suo "Corregidor", un'opera che è scomparsa, in maniera per me del tutto incomprensibile, da ogni repertorio.
Marco Ninci
Anche a me il repertorio liederistico non avvince per nulla. A maggior ragione se "cantato" da "specialisti" come il signor Hampson, ossia con un declamato volgare, senza la minima parvenza di una dinamica sfumata e sbraitato in acuto: non c'è stata una vera smorzatura in tutta la serata, ma solo sfalsettate arrabattate con gusto più consono a un weekend in un centro SNAI che a una sala da concerto. E poi, sa un po' di beffa l'idea malsana di riproporre come bis altri quattro Lieder in tedesco, con un pubblico che invocava "L'opera!" e "Il repertorio!", pur nel consenso generalizzato. Ma che la Scala fosse una succursale del teatro di Mannheim, già lo sapevamo. Non sentivamo certo il bisogno che il signor Hampson ce lo ricordasse.
Poi un'altra cosa. Ma se il pubblico va a un concerto di Lieder pretendendo alla fine arie d'opera, è chiaro che va a quel concerto come a una penitenza; ma chi glielo fa fare? Pretendere arie d'opera alla fine di un concerto di questo genere è come pretendere per bis la sinfonia della Forza del Destino alla fine di un concerto di Boulez, con programma comprendente Varèse e Stravinsky.
Marco Ninci
Però, Duprez, così come oggi, a tuo dire (e posso anche essere d’accordo), i direttori che “scimmiottano” le interpretazioni del passato non hanno più “nulla da dire”, allo stesso modo, direi io, non hanno proprio ragione di essere i cantanti che imitano noiosamente Fischer-Dieskau: copie sbiadite che dell’originale hanno appreso solo i difetti…
Sul sito della Scala, Hampson è presentato come un “baritono nobile”, e la foto a fianco sembra messa apposta per dimostrare questo assunto… Mi chiedo però che cosa ci sia di nobile in un cantante che abbaia come un cagnaccio e sussurra falsettini da donnetta. Io non ho sentito il concerto, e mai sarei andato a sentirlo, però avrei potuto scrivere la recensione a priori.
Fa ridere poi pensare al pubblico all’acqua di rose della Scala, che si compiace di fronte alla “civiltà musicale europea”, e scambia per un concerto di canto questa brodaglia intellettualoide a base di leziosaggini ed ululati…
Suppongo che coloro che invocavano "l'opera" non si aspettassero certo di sentire "Come due tizzi accesi" o "Son sessant'anni, o vecchio", tantomeno "Musica proibita". Sarebbero passati per masochisti, oltre che ignoranti, immagino. Però, che so..., non ci avrei trovato nulla di incoerente (screditante?) nel proporre il monologo di Amfortas o l'aria del primo atto dell'Onegin, ruoli che peraltro il baritono ha tuttora in repertorio (non oserei proporre l'assolo di Macbeth o la morte di Posa: potrei rischiare il compatimento! "Eh, ma vuoi mettere con Ihr Bild o Es rauschen die Winde"?). Insomma, un antidoto al Tavor vaporizzato in sala per tutta la serata...
Per Belcanto: non parlavo dell'imitazione di Fischer-Dieskau, ma dell'originale e di come è stato descritto - a mio giudizio erroneamente - il suo stile di canto (ma i gusti sono legittimi). Io non so come abbia cantato Hampson (non sono andato a sentirlo, non mi interessa ascoltarlo, non mi è mai piaciuto), e neppure credo ci sia andato tu, quindi, di nuovo, astieniti da attribuire "titoli cruscanti" (che appaiono più che altro come ingiurie gratuite). Ma ti riesce così difficile essere civile? Inizia veramente ad esser intollerabile il tuo comportamento.
Per Carlotta: il pubblico che va ad un concerto di lieder e invoca l'opera e il repertorio (quale poi???) si commenta da solo! Fosse un concerto a sorpresa...ma cavolo, il programma è ben visibile, è come chi si lamenta di mangiare la pizza in una pizzeria...
Gilberto, direi che ti ho risposto nel commento che precede il tuo. Immagino che nessuno là dentro sperasse in una Provenza... ma in un qualsiasi brano operistico invece sì! Se non altro per affidamento alla consuetudine: non si è mai visto infatti, negli ultimi anni di concerti in Scala, che ci fossero dei bis esclusivamente liederistici.
E so per certo che gli stessi cantanti desidererebbero esibirsi in pezzi operistici anziché subire tristemente la programmazione cultural-chansonnaise del teatro. Per una volta, sono dalla loro parte...
Sull'opportunità o meno, poi, di dedicare in modo esclusivo, al solo repertorio liederistico, l'intera programmazione dei concerti di canto, sai bene che sfondi una porta aperta. E' scelta ideologica e integralista, fintamente culturale e poco saggia. Leggendo la prossima stagione di Bruxelles, che non è terra di melodramma, la stagione concertistica alterna lieder, opera barocca (c'è un bel concerto con orchestra dedicato a brani di Rameau), e repertorio. Se proprio si vuole evitare la sfilza di arie nazional popolari mortificate da accompagnamento pianistico, ci sono tante soluzioni, evitando l'intransigenza di Lissner. Magari favorendo i cilci completi di lieder e non le scelte "erranti", alternando magari recital liederistici a brani di repertori poco frequentati (il '700 napoletano ad esempio). Ma bisognerebbe avere fantasia e volontà...doti rare.
Carissimi ed Illustrissimi amici,non sono un esperto come voi (sono un umile chirurgo ),ma sento il dovere di testimoniare ,anche se so che saro' da Voi lapidato, che tra le mie piu' indimenticabili serate musicali,annovero i recital di Fischer-Diskau, Christa Ludwig e (da Voi odiata )Elisabeth Schrwarzkopf. Indecente cantare arie d'opera dopo i Lieder,incompetente il pubblico che le richiede.
CON STIMA!
Premesso che è sempre sbagliato generalizzare: a me la Schwarzkopf piace (anche la Flagstad la ammirava). Poi i gusti sono gusti: dipende anche dal repertorio che si predilige.
Sul fatto che dopo un ciclo di lieder un'aria d'opera stoni sono d'accordo con te. Così come sono oscene le romanze di Tosti (musica di serie Z) o la canzone napoletana dopo un recital di arie d'opera.
Il problema sta nel fatto che la Scala credo sia l'unico teatro lirico al mondo che dedichi SEMPRE l'intera programmazione concertistica ai lieder.
Poi a me non piacciono e non vado a sentirli: se qualcuno li detesta, ma ugualmente va a teatro...beh son fatti suoi (ognuno è libero di scegliere di che morte morire, salvo poi non lamentarsi della scelta).
Sull'incompetenza del pubblico...non è una novità (tutte le volte che ho sentito applaudire tra i movimenti di una sinfonia o di una sonata, ho rimpianto di non disporre di un AK47 da scaricare sui beoti)...
Duprez, intendimoci. Io sto parlando di aspettativa e consuetudine. Se dieci concerti su dieci terminano con dei bis di arie d'opera, mi aspetto che anche l'undicesimo finisca così. Detto questo, io stessa non trovo giusto invocarlo e pretenderlo, anche se un teatro mezzo vuoto credo sia segno inequivocabile, e forse ancor più evidente, di un disagio - a quanto pare non solo mio, tuo, nostro... - verso programmazioni prevedibili e ripetitive che non sembrano aver fine.
Rimango perplessa infine quando leggo di chissà quale atmosfera sacrale, di chissà quale rispetto stilistico-contenutistico, di chissà quale coerenza interna di una concerto (dai che tra un po' ritireremo fuori, magari impolverita, l'"aura" benjaminiana per Hampson...) quando il nucleo portante della serata stessa è un signore che ignora i più elementari fondamenti tecnici per esibirsi in pubblico. Insomma, come spesso accade, siam qui a discutere della bontà delle intenzioni. E di come sarebbe tutto bello se solo...
ottimo carlotta condivido in pieno. Trovo il clima più provinciale dì un concerto a base dì campane dì san Giusto!
Personalmente amo molto la scrittura liederistica e proprio per questo, d’ccordo con Duprez, ritengo che sarebbe giusto affronare cicli interi (anche Brahms, ad esempio), ma in maniera selettiva e localizzata in precisi punti strategici di una stagione, in modo da offrire a chi non ama questo genere la possibilità di ascoltar con certa regolarità anche altre cose. Penso davvero che proprio il lied richieda particolare sobrietà e profondità interpretativa perché, orse più di altra musica, ha bisogno di essere risvegliato e ricompresso in ogni esecuzione, per scongiurare il pericolo “elenco del telefono” (parola dopo parola, nota dopo nota). SI rischia di non capirlo e non apprezzarlo se esso non viene, di fatto, reimmaginato. Ma questo penso valga per tutta la musica… eppure, con un organico così ridotto, nel lied mi sembra più evidente.
Il guaio di oggi è che si tende a non rendere giustizia a un intero genere di musica da camera solo perché mancano, di fatto, come altrove, gli interpreti. I maestri del passato ci sono, da Husch a Rehkemper, basterebbe riscoprirli per integrare il lascito di Dieskau che sono convinto non essere disprezzabile, se preso con la giusta distanza desacralizzante.
Volevo poi chiedervi una cosa, visto che si parla di correttezza stilistica e di appropriazioni indebite in questi ultimi due post… Il famoso sibemolle di Celeste Aida a spartito porta una magnifica filatura, quali interpreti l’hanno eseguita correttamente? Io ho scoperto solo due prodezze, una di Corelli, l’altra di Von Pataky, e ne sono rimasto affascinato, preferendole di gran lunga alla nota sparata, eroica quanto volete, ma meno efficace, di tanti altri adorati interpreti.
Grazie davvero…
Infatti Carlotta: mi sembra doveroso dedicare parte della programmazione ai lieder...ma quando questo diviene esclusivo appare davvero uno sfoggio di cultura tanto esibito quanto poco sincero. Credo che la Scala sia un caso più unico che raro. Poi resta il fatto che mai andrei ad ascoltare un concerto di lieder, e se ci dovessi andare non mi sognerei mai di lamentarmi (mia libera scelta...). Quanto all'atmosfera sacrale: la trovo una baggianata. Diverso però, il discorso del gusto: eseguire "nemico della patria" dopo Winterreise, non è molto coerente (al pari di eseguire le romanze di Tosti dopo un concerto dedicato a Rossini o Donizetti). Detto questo bisognerebbe aver sempre chiaro nella mente che una serata a teatro non è un rito sacro, né una lezione universitaria: alla fine è sempre uno spettacolo.
Ps: nello specifico, però, credo che nessuno si sarebbe dovuto auspicare un qualsiasi brano operistico cantato da Hampson....
Caro Silvio, sono completamente d'accordo con te circa l'approccio al lied: si corre il rischio dell'effetto "elenco del telefono". I lieder sono racchiusi in cicli ben definiti che costituiscono cellule omogenee: sarebbe opportuna l'esecuzione integrale di questi, non scegliere brani isolati.
Sulla questione del SI bemolle di "Celeste Aida": è ben chiaro quel che ha scritto Verdi, che intendeva uno specifico effetto (suggerito anche dall'accompagnamento orchestrale in pianissimo). Verdi scrive "morendo"...ovvio che l'acuto andrebbe filato. Purtroppo una bieca usanza ha imposto un'orrida nota sparata senza senso e senza criterio...tenuta lunga in modo intollerabile. Ovviamente Verdi era ben conscio della difficoltà, e ha suggerito una facilitazione che non rovini l'effetto: SI bemolle acuto appena toccato, e frase ripetuta un'ottava più in basso. Soluzione di buon senso, utilizzata spesso in passato (prendi Tucker con Toscanini). Certamente il "filato" è preferibile, ma spesso si sentono tentativi imbarazzanti... Ma se proprio non riesce (ma basterebbe sforzarsi), si potrebbe tornare alla soluzione prospettata da Verdi.
Ps: anche Bergonzi la eseguiva.
Certo DUprez, conosco bene la soluzione alternativa del si bemolle toccato e della frase rirpresa in basso, a mio avviso più gradevole, a conti fatti. Mi chiedevo però se esistono altre registrazioni, avevo omesso di scrivere anche Bergonzi ma certamente è parte dei pochissimi virtuosi, in cui si può ascoltare la filatura prevista da Verdi emessa come dio comanda...
Vedo che spesso in questo blog Fischer-Dieskau è trattato con molta sufficienza. Oddio, è bene che non esistano monumenti e che di tutto si possa parlare criticamente. Quindi, anche di Fischer-Dieskau. E' vero che certe volte il cantante può suonare manieristico, lezioso o pieno di sussiego. Però, quando si mettono in evidenza certi difetti, bisogna pur tenere presente che si tratta di uno dei più grandi cantanti della storia; su questo non ci piove. E questo va sempre tenuto presente. Io non so quanti fra coloro che scrivono su questo blog l'hanno ascoltato in un'opera dal vivo. Io l'ho ascoltato come Conte nelle "Nozze di Figaro" al Nationaltheater di Monaco in una meravigliosa rappresentazione diretta da Karl Boehm. La voce era timbratissima, correva per il teatro che era una meraviglia, le sfumature ricchissime. Non parliamo della quadratura musicale; ricordo pochissimi esempi che possano essere al suo livello. L'attore poi era stupendo. Duprez dice che in Verdi era disastroso. Certo, non era il suo repertorio d'elezione. Ricordo un Amonasro veramente brutto in un'Aida diretta da Barenboim a Berlino. Anche il suo Falstaff è sussiegoso e cattedratico. Ma non così Rigoletto. Non così il Marchese di Posa.
Del resto, basta riandare alle recensioni di Celletti, un po' il padre nobile di questo blog, per accorgersi di quanta stima il critico avesse di queste due interpretazioni. E' il discorso che si può fare per la Schwarzkopf, anche lei spesso marchiata in questo blog con il titolo di "Signora Legge", come se solo attraverso il marito avesse fatto carriera. La Schwarzkopf è stata invece una cantante grandissima; il suo torto è stato quello di avere in generale una tecnica che non era adatta per il canto di stampo italiano, che per altro ha frequentato pochissimo. Ma in Mozart, in Strauss, in Weber (meraviglioso il suo "Abu Hassan"), nel repertorio liederistico era al di sopra di ogni elogio. Lo stesso discorso vale per la Janowitz, altro bersaglio di questo sito. Per me, l'ho già detto altre volte, lo spettacolo più bello che io abbia mai visto sono stati i "Maestri Cantori" diretti da Karajan s Salisburgo, mi pare nel 1973, con Ridderbusch, Kollo, Janowitz, Schreier, Ludwig.
E di questa esecuzione il vertice assoluto era il quintetto del terzo atto. La Janowitz l'ha introdotto con una voce così soave, così aerea, così traslucida, che il suo "Selig, wie die Sonne" rimane nella mia memoria come una delle più belle frasi musicali che io abbia mai sentito da un soprano lungo tutta la mia vita. Certo, la sua Elisabetta nel "Don Carlo" era completamente fuori parte; ma è ingiusto considerarla per quello che può aver fatto nel repertorio italiano. La sua Agathe nel "Freischuetz" diretto da Kleiber resta esemplare sotto ogni rispetto. Il discorso su questi interpreti mi porta a un altro discorso. Quando si parla del Lied o di Janacek o dell'esclusione del verismo dal repertorio odierno della Scala si parla della cultura con il Kappa, come se la Scala, diventando germanofila (com'è strano, questo nazionalismo musicale), si facesse portatrice di culturalismo, negatore dell'autentica cultura. Ora, il culturalismo è quell'atteggiamento che considera la cultura come un guscio vuoto, non vivente, da appiccicare come una specie di marchio d'onore a esperienze che magari hanno un'origine non troppo nobile.
Tipiche opere culturalistiche sono il "Mefistofele" di Boito, secondo un'impeccabile analisi che ne fece Fedele D'Amico nel 1959. Ne è espressione il Mascagni simbolista, il Mascagni di "Iris" e di "Isabeau", dove l'aggiornamento al linguaggio musicale europeo tradisce la sua origine velleitaria ed appiccicaticcia. Del resto le suggestioni orientaleggianti dell'"Iris", se paragonate con ciò che ne avevano tratto Saint-Saens negli anni Settanta dell'Ottocento o Puccini in "Madama Butterfly" all'inizio del Novecento, risultano ben povera cosa. Sono la teorizzazione del "vorrei, ma non posso"; del culturalismo, appunto. Un'espressione posticcia, se paragonata per esempio alla grazia, fragile ma autentica, di "Adriana Lecouvreur" o all'incanto delle opere veneziane di Wolf-Ferrari. Ora, elevare al rango del culturalismo la proposta di arte purissima come i Lieder di Schubert o Wolf o la drammatica esperienza di Janacek non mi pare molto giusto.
Marco Ninci
Scusate, arrivo troppo tardi.
Vorrei rispondere al primo commento di Silvio. Si può che non sia storicamente corretto che Fischer-Diesau falsettasse sempre, ma quello che vediamo oggi è che tutti stanno copiando non il "buon" Fischer-Dieskau prima maniera (che non è durato tanto...), ma esclusivamente il Fischer-Dieskau ultima maniera. Sfortunatamente, è questo F.-D. che è entrato nell'"olimpo" del liederismo ed è questo che la maggior parte dei liederisti prendono come modello.
Quando Hampson dichiara nell'intervista pubblicata nella Repubblica che Fischer-Dieskau è intoccabile come la Callas o Pavarotti e quando poi lui canta come il vecchio Fischer-Dieskau, per me è evidente che anche Hampson prendi come modello il Fischer-Dieskau manierato, abbaiante, falsettante e pseudo-intelletuale.
Chiedo scusa se nella recensione questa differenza fra i "due" Fischer-Dieskau non è stata abbastanza chiara.
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