martedì 30 settembre 2008

Cronache dal ROF 2007


Il Corriere della Grisi ringrazia le signore Angustias e Dolores Canteraro, originarie di Granada, che hanno accettato di essere i nostri occhi e le nostre orecchie al Rossini Opera Festival 2007. La traduzione dallo spagnolo è a cura di Eva Miao ed Ernestina Palazzetti.


Bene ha fatto il dottor Gianfranco Mariotti, presentando alla stampa la ventisettesima edizione del Rossini Opera Festival, a precisare che oggi una leva sempre più numerosa di agguerriti cantanti rossiniani corre i palcoscenici di tutti i paesi che amano l’Opera. Naturalmente il divismo non è scomparso – perché dovrebbe – ma è di tipo diverso: meno futile e chiassoso, più colto e riflessivo. Una vera evoluzione della specie si è prodotta nel settore: il moderno cantante rossiniano di livello accompagna di solito al talento la civiltà e l’intelligenza, ma soprattutto una nuova peculiare disponibilità, quella ad accettare i limiti imposti dal rigore musicologico; a rinunciare a un sopracuto o a una cadenza se giudicati incongrui o fuori stile; a cantare eseguendo movimenti impegnativi o scomodi, se ciò giova al risultato finale. Dunque non più genio e sregolatezza, ma il fascino discreto della normalità; un appeal più evoluto e attuale, fatto di professionalità e serietà.
Bene ha fatto, dicevamo, perché, assistendo alle tre serate inaugurali di questo ROF 2007, mai ci saremmo accorti dell’esistenza di tale eccelsa nuova schiera di divi, che pure a Pesaro dovrebbero essere di casa, avendo in passato il Festival ospitato tante glorie rossiniane, seppur non così rigorose e musicali quanto i loro epigoni.
Il ROF ha aperto i battenti con Otello. Travagliatissimo il lavoro di composizione del cast: all’annuncio del debutto nel ruolo del titolo di Francesco Meli (annuncio presto rientrato) ha fatto seguito l’ufficializzazione della presenza di Giuseppe Filianoti, ritiratosi poi per ragioni di salute. In un mese di luglio in cui le più fantasiose voci di corridoio traevano gustoso nutrimento dall’evidente difficoltà della direzione artistica a reperire un tenore disposto a immolarsi in una delle parti più perigliose del repertorio del primo Ottocento, è infine emerso il nome di Gregory Kunde, pronto a garantire la sua presenza per quattro delle cinque recite previste, lasciandone una al giovane Ferdinand von Bothmer. Non si deve però credere che l’unico motivo di difficoltà per gli organizzatori fosse da rinvenire nella copertura della parte del Moro: l’aver richiamato in servizio Chris Merritt (sia pure nella breve, ma non per questo facile, parte di Jago) la dice lunga sulle condizioni del parco tenori rossiniani di oggidì. Idem per Desdemona, affidata non già, come nelle precedenti edizioni pesaresi, a una più o meno giustificata Diva o a una navigata professionista del canto, bensì a un’ex studentessa dell’Accademia Rossiniana diretta dal Maestro Alberto Zedda. Solo nome di richiamo, e l’unico certo fin dalle prime avvisaglie dello spettacolo, quello del tenore Juan Diego Flórez nella parte di Rodrigo.
Iniziamo dal “manico”: Renato Palumbo ha diretto in modo plumbeo un’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna più svogliata del solito, con diverse imprecisioni sin dalla Sinfonia, e un Coro da camera di Praga al solito terribile per intonazione e musicalità (o meglio, loro assenza). Il tetro tessuto orchestrale e corale si sposava alla perfezione con lo spettacolo di Giancarlo Del Monaco, parata di stilemi “alla tedesca” (un gioco pseudostraniante di nove porte mobili e altrettanti sosia di Jago in una scena fissa di cielo e mare, mera rimasticatura di Magritte) con momenti di sublime ridicolo (la melanconica Desdemona che gioca a mosca cieca con le ancelle e deve, nell’assenza di qualsivoglia arnese di scena, dormire sul pavimento) e una sola idea, quella di sfruttare il carisma di Merritt, non più solo eminenza grigia dell’intrigo ma presenza scenica costante nei momenti chiave (finale del primo atto, intervento del Gondoliere).
Quanto ai protagonisti, Kunde ha dimostrato che un tenore contraltino, nella parte baritenorile (ma non parca di acuti) del Moro, finisce per soffrire in alto e sparire in basso (imbarazzante la sortita, in cui le note gravi semplicemente non c’erano), riuscendo altresì a ridurre la coloratura a una poltiglia che poco ha che fare con quanto previsto dalla partitura (duetto della sfida). Un po’ meglio l’ultimo atto, in cui l’attore ha la precedenza sul cantante.
In una parte scritta per Isabella Colbran, Olga Peretyatko ha sfoggiato graziosa, delicata e puntuta voce di soprano leggero, sembrando sia vocalmente sia scenicamente piuttosto la sorella bambina di Desdemona che la nobile e tormentata protagonista del dramma rossiniano. Non basta interpolare un po’ di sovracuti (peraltro piuttosto fissi) per venire a capo di un ruolo che esige buona estensione in basso, centri consistenti, coloratura dardeggiante e accento da vera tragédienne. Non ha giovato alla giovane artista (che speriamo di risentire presto in una parte più consona alla sua voce e alla sua età, come Zerlina o Barbarina) la scelta di eseguire senza soluzione di continuità (soltanto con una breve pausa dovuta a esigenze sceniche) gli ultimi due atti dell’opera: dopo l’assolo – affrontato con scolastico timore – che chiude il secondo atto, la Canzone del salice è stata ridotta a nenia affannosa e scombiccherata e il duetto finale con Otello a sede di incongrui bamboleggiamenti generosamente profusi.
Juan Diego Flórez ha affrontato Rodrigo con la consueta (per lui) indifferenza espressiva, mettendo per giunta la sordina all’abituale (per il ruolo) esplosione virtuosistica del secondo atto. Voce non brutta ma neppure bella, caratterizzata da un vibrato che si va facendo esasperante nel medio-acuto, proiezione solo discreta e accento lungi dal carattere eroico e, se si vuole, isterico che caratterizza la parte, il tenore peruviano si conferma estraneo al repertorio tragico, trovando nel mezzo carattere di stampo settecentesco il campo in cui meglio può mettere a frutto la propria indubbia musicalità.
Chris Merritt ha offerto al pubblico una passeggiata archeologica fra le macerie di una voce che non ha avuto eguali nel Rossini serio: ancora in piedi – ingombrante monito per la giovane generazione descritta dal dottor Mariotti – l’ottima proiezione e il carattere di forza delle agilità, a comporre uno Jago stonato, disfatto, improponibile sotto il profilo meramente vocale, ma saldissimo dal punto di vista musicale e interpretativo.
Comprimari di livello medio-basso, dall’Elmiro precocemente tremulo di Mirco Palazzi al Doge stile Altoum del redivivo Aldo Bottion.

Seconda serata, il Turco in Italia, nuovo allestimento del piacevole ma non esattamente memorabile spettacolo di Guido de Monticelli proposto per la prima volta nel 2002. Rispettando il new deal del ROF (“i giovani al potere”, come potremmo parafrasarlo), il ruolo di Donna Fiorilla è stato affidato alla giovanissima Alessandra Marianelli, al primo serio cimento in questo repertorio (cantando ella di solito parti quali Lisa nella Sonnambula e Nannetta), mentre per Selim si è fatto ricorso a Marco Vinco, nuovo astro che sorge (e presto tramonta) del firmamento rossiniano.
La signorina Marianelli ci ha quasi indotto a rimpiangere la discutibile prestazione della Peretyatko, la quale, pur aliena al ruolo, assicurava una linea di canto accettabile, e non gli stonacchianti pigolii che abbiamo udito fin dalla sortita e che si sono aggravati nel corso del primo atto, giungendo nel finale del duetto con Geronio (momento in cui, da regia, la cantante deve abbigliarsi da femme fatale con tanto di boa) a evocare l’ombra di Wanda Osiris. Non è andata meglio nel secondo atto, giacché alle stonature e alla fissità di una voce piccola e poco proiettata (cui la radio non può che giovare, non fosse che le magagne emergerebbero con evidenza persino maggiore) si sono sommate la (in)naturale stanchezza e la difficoltà del rondò, a spremere definitivamente l’artista e a indurre il direttore Antonello Allemandi (che a tratti perdeva il palcoscenico, ma ha guidato bene l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, brillante in assieme ed encomiabile nei soli) a staccare per il finale secondo tempi da coma profondo.
Marco Vinco, trent’anni, sfoggia un vibrato largo alla Ramey (il Ramey di oggi), voce chioccia, coloratura approssimativa e, quel che è più grave ancora, una gigioneria del tutto fuori luogo, tale da ridurre il nobile in viaggio di piacere e d’istruzione nella “bella Italia” ad arricchito pedofilo mediorientale. Sulla stessa linea il Geronio precocemente senescente di Andrea Concetti, mentre il Poeta di Bruno Taddia pare allevato alla scuola del baritono (o tenore mancato) urlante, che ha la voce ma non sa che farsene.
Semplicemente penosi i tenori: Filippo Adami, voce sbiancata, s’impicca ai primi acuti, soprattutto nella seconda aria di Don Narciso (della prima, nessuna traccia), Daniele Zanfardino pare un clone dei tenori rossiniani pre-Renaissance che proprio il ROF, in tempi forse più felici (seppur meno evoluti), aveva contribuito a mandare in pensione. Si taccia infine della scomposta Zaida di Elena Belfiore e del Coro da camera di Praga, comunque meno imbarazzante che nell’Otello della sera precedente.

Finalmente, la terza sera, un po’ di canto, nonché di teatro, con una nuova produzione della Gazza ladra. Damiano Michieletto ha dimostrato che è possibile seguire la grande lezione di Jean-Pierre Ponnelle non riproponendone pedissequamente gli stilemi, ma inventando una regia che, di fronte a un libretto sconclusionato e a una musica molto più coerente, segue senza indugi la seconda senza per questo ridurre il primo a mero spunto per triti onanismi a sfondo sociopsicopedagogico. Questo sì è il “Rossini dei giovani” che vogliamo ricordare, e il regista e la Gazza (la ballerina Sandhya Nagaraja) le autentiche stelle di questo ROF 2007. La direzione musicale era affidata al solido ma fracassone Lü Jia, a capo di un’Orchestra Haydn meno disciplinata rispetto alla sera precedente, ma comunque di livello più che accettabile. Persino il Coro da camera di Praga, forse risvegliato dall’esplosiva regia, è apparso sufficientemente partecipe. Mariola Cantarero può contare su uno strumento di notevole impatto, certo il più voluminoso che ci sia stato dato di sentire nel corso delle tre serate, peccato solo che le manchi tutto il resto: la voce è tremula come quella di una vegliarda e, specie in acuto, agra come quella di un fanciullo che si accinga alla muta, mentre la tecnica, debole, la porta a incartarsi sulle prime – non certo astrali – agilità della parte di Ninetta. Degno padre di tanta figlia, Alex Esposito che, alle prese con un personaggio che esige nobiltà d’accento e cospicuo virtuosismo, grida le parti che gli sembrano più importanti e accenna il resto, finendo per ridurre il tormentato disertore a innocua caricatura (la presenza scenica non gli è d’aiuto, visto che, accanto alla Cantarero, lei sembrava la zia zitella e lui il nipotino discolo). Molto più in parte, almeno sotto il profilo scenico, Michele Pertusi, a suo agio nella scrittura rossiniana anche se in condizioni vocali tutt’altro che perfette: la tessitura piuttosto grave del ruolo lo soffoca, fino a renderlo a tratti quasi afono (finale del primo atto), ed è solo con fatica che risolve l’aria del secondo atto, pasticciando le agilità e troncando prudentemente un acuto che rischiava di chiudersi in un suono sporco. Buono, e certamente il più interessante della sua corda in questo ROF, il tenore Dimitry Korchak, voce non grata e occasionalmente problematica in acuto ma fresca e ben proiettata, discrete agilità e notevole gusto musicale: dopo una sortita cesellata con rara attenzione ai segni espressivi, ha cantato la non trascendentale (ma neppure banale) parte di Giannetto con semplicità ed eleganza. Sostanzialmente afono il Pippo di Manuela Custer, anche troppo sonora la Lucia di Kleopatra Papatheologou, sciapo il Fabrizio di Paolo Bordogna, nella media del Festival (bassina) i comprimari.
In conclusione, se questi sono i nuovi cantanti rossiniani… povero Zoachìno, come mormoravano alcune pie donne all’uscita dal Teatro Rossini.

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