La visione che abbiamo noi, oggi, dell’opera teatrale di Riccardo Wagner è fortemente influenzata da diversi fattori ed elementi: non propriamente extramusicali, quanto, piuttosto, sovramusicali. Elementi questi che hanno portato alla sostanziale mitizzazione del compositore, attribuendogli una unicità ed eccezionalità – rispetto alla musica coeva – che si pretende scaturire dal nulla, o meglio dalla geniale ispirazione di un uomo che da solo “crea” l’avvenire: il compositore diventa creatore e la sua vita artistica diviene una “missione”. I fattori che hanno portato a questa “beatificazione”, vanno individuati nell’immagine che Wagner stesso si confezionò e nella critica – contemporanea e successiva – che, suggestionata da tale immagine, non ha saputo o voluto distaccarsene.
Wagner, infatti, crea intorno a sé, alla sua vita e alla sua opera una vera e propria mitologia, culminata nella costruzione del “tempio” di Bayreuth: monumento smisurato all’ego smisurato del compositore, ove alle consuete rappresentazioni teatrali, si sostituiscono rituali mistici, a lode, gloria ed onore del suo nume tutelare. Questa immagine pubblica, si sa, coprì le miserie private: l’opportunismo, la grettezza, l’invidia, l’avidità dell’uomo, che appaiono tanto più evidenti se si scorre senza pregiudizi una qualsiasi biografia, non schierata, dell’autore.
Attraverso la risistemazione e la ricostruzione a posteriori della sua carriera artistica (per farla meglio aderire – anche a costo di forzature – alle idee estetiche maturate solo tardivamente e racchiuse nei suoi ponderosi e, mi si conceda, polverosi scritti teorici), Wagner potè presentare ad un pubblico non più fatto di semplici ammiratori, ma di veri fedeli, una visione estremamente coerente della sua opera, che volle mostrare interamente fondata su di un unico e primigenio principio estetico, sviluppatosi attraverso una inesorabile evoluzione (una missione o una ricerca appunto) e finalizzato alla creazione di una nuova religione dedicata alla “musica dell’avvenire”. Per far questo non solo rielaborò i lavori giovanili (Olandese e Tannhauser) per poterli meglio inserire nel canone dei drammi musicali (pienamente rispondente ai suoi cavillosi presupposti programmatici), ma si vide costretto ad espungere dal suo catalogo, quasi con ribrezzo, i primissimi lavori, per i quali non sarebbe certo bastata una semplice rielaborazione, e a proibirne la rappresentazione nel “tempio di famiglia” (prescrizione che gli obbedienti nipotini mantengono ancora, nella stanca, ma molto redditizia – e ciò non sarebbe dispiaciuto al nonno – ripetizione dei rituali nibelungici). Quale il motivo di questo ripudio? Semplicissimo: quei lavori tradiscono una verità sempre negata e nascosta da Wagner stesso, prima, e dai suoi cultori ed esegeti, poi, mostrano cioè come il mondo musicale preesistente e contemporaneo al compositore, ne abbia influenzato non poco l’opera. Ovvio che, nel pretendere l’assoluta unicità della sua parabola musicale, Wagner si trovasse costretto a tagliare ogni ponte e collegamento con la musica “del passato”: per non macchiare così l’eccezionalità e la genuinità della “musica dell’avvenire” (unica eccezione – concessa però dallo stesso compositore – il parallelo con Gluck, anche se in senso rovesciato: non è Wagner ad ispirarsi a Gluck, giammai, bensì è questi a “preparare la strada” a Wagner).
Questi primi lavori, tuttavia, pur nel diseguale risultato artistico (a volte assai modesto, come nel Divieto di amare e – in parte – nel Rienzi; a volte straordinariamente buono come Le Fate) sono ottimi testimoni di quanto la musica wagneriana sia debitrice dell’opera romantica di Weber, del grand-opéra e del melodramma italiano. E questo nonostante il tardivo disprezzo sbandierato dall’autore per questi modelli – in particolare per gli ultimi due (anche se ricorreranno tutti e saranno ancora visibili pure nelle composizioni successive).
Di quei tre primi lavori che tanto imbarazzeranno il Wagner “maturo”, dicevo, un posto di assoluto riguardo spetta a Le Fate. Die Feen, che vennero composte tra il 1833 e il 1834 (ma rappresentate solo nel 1888, dopo la morte dell'autore), mentre si trovava a Wurzburg, quale direttore d’orchestra del locale teatro d’opera (dove allestì, tra le altre, Robert Le Diable e Der Vampyr), si presentano come una autentica opera romantica: suo modello evidente è Weber (in particolare quello di Oberon), ma anche Mendelssohn e Schubert. L’improbabile vicenda, tratta da un lavoro di Gozzi e ricollocata da Wagner in un’ambientazione nordica (laddove l’originale si svolgeva in un Oriente fantastico), si caratterizza per la scarsissima efficacia teatrale e rivela un testo assai macchinoso, verboso e prolisso con molti squilibri nella struttura e nella distribuzione delle scene (tali difetti – ovviamente in forma molto più sfumata e riscattati da una maggior padronanza degli strumenti del mestiere – permarranno anche nelle opere della maturità: Wagner, grande musicista, fu in realtà un mediocre, se non pessimo, scrittore, e certo la “qualità” dei versi del Ring o del Tristano o di Parsifal, non è di molto superiore a quella di queste Fate). Tuttavia, pur partendo da una base scadente e confusa, Wagner veste il suo brutto libretto con musica di straordinaria efficacia e inventiva. Certo non mancano le lungaggini e le pagine meno ispirate (e in verità non mancheranno mai nei suoi lavori), ma per essere un’opera prima dimostra un’ottima conoscenza tecnica (certamente dovuta all’approfondito studio dei modelli di cui parlavo più sopra), mestiere e originalità (soprattutto se si confronta con le due successive). Opera romantica dicevo: al centro la figura della fata Ada che si innamora del mortale e nobile Arindal, il quale all’esito di improbabili e complesse vicende (per la cui conoscenza rimando alla lettura di un riassunto della trama) riuscirà a conquistare l’immortalità e l’amore. Mondo magico che si scontra con mondo reale quindi, amore e morte, armonia e guerra, sogno e razionalità: le più tipiche espressioni delle contrapposizioni del romanticismo. Ada ricorda molto da vicino le grandi eroine weberiane: Agathe, ma soprattutto Rezia (al secondo atto vi è una grande e difficile aria per lei che ha più di un rimando ad “Ozean, du Ungeheuer”), il suo personaggio, sospeso tra umano ed inumano, tra le forze misteriose della natura e la caducità della vita reale si incarna in un ruolo di estrema difficoltà vocale: richiede un registro sicuro e svettante nell’acuto, corposo nei centri ed estremamente resistente (la parte, come tutta l’opera del resto, è particolarmente lunga). Una “tromba d’argento” per cui non si può non pensare alla Nilsson (che infatti fu una straordinaria Rezia). A ciò si aggiunga la padronanza del canto di agilità (Wagner qui risente ancora delle influenze belcantistiche mutuate dal melodramma italiano). Ad essa sono affidate alcune tra le pagine più belle dell’opera, a cominciare dalla delicata cavatina del primo atto mentre il deserto si trasforma nel giardino delle fate: quasi un sussurro malinconico che sfocia poi in un duetto più movimentato (ad uso di cabaletta) che insiste sul registro acuto (assai impervio per il tenore). Vertice della partitura la grande scena ed aria di Ada collocata nel mezzo dell’atto II, “Weh mir, so nah die, fürchterliche Stunde”: introdotta da un ampio e drammatico recitativo di struttura metrica irregolare e spezzato da sfoghi orchestrali e squarci più cantabili, in cui la voce sale e scende lungo il pentagramma alternando malinconia e dramma, senza alcuna tregua per l’interprete, trova sbocco nell’aria vera e propria, quasi “di furore” (con abbondanti ornamentazioni) pur nell’alternarsi di ampi strappi lirici. Una cavalcata di quasi 12 minuti che non è esagerato definire una delle creazioni più felici di Wagner.
Tante altre tuttavia, sono le pagine notevoli dell’opera, che si segnalano per la straordinaria bellezza dell’invenzione musicale: la lunga Ouverture romantica innanzitutto (brano che conosce un relativo successo concertistico); i monologhi di Arindal (tenore la cui vocalità rimanda al Florestan di Beethoven), sia quello del primo atto sia il “delirio” del terzo, interrotto dalla voce malinconica di Ada con uno straordinario effetto di momentanea calma e pace; il finale I; l’introduzione all’atto II con la splendida aria di Lora, di purezza cristallina, appena screziata da un accenno di coloratura; il finale III, con la scena delle prove e il suggestivo lied del tenore con accompagnamento di arpa solista. E poi i tanti cori, i singoli pezzi d’insieme, gli interludi sinfonici. Non molto riusciti, invece, gli episodi comici che restano a margine della vicenda, con l’intento di alleggerirne la portata drammatica, ma così male inseriti nella struttura generale (qui Wagner paga l’inesperienza, oltre ad una scarsa dimestichezza con elementi di commedia) da risultare solo fuorvianti e fastidiosi (musicalmente, poi, sono assai modesti). Opera quindi, che richiede grandi interpreti, grande orchestra (l’accompagnamento musicale è di ampiezza e complessità sinfonica), e un grande direttore che sappia ben dosare i vari ingredienti, evidenziarne i tanti pregi, dargli coesione e coerenza, valorizzare gli episodi (tanti) migliori e far passare in secondo piano certe ingenuità e asprezze (magari con qualche taglio, perchè no?).
Poche sono le incisioni disponibili sul mercato (soprattutto se rapportate alla sterminata discografia wagneriana). La più risalente nel tempo è quella incisa in modo semiufficiale nel 1976 dal vivo (negli studi radiofonici della BBC) e diretta da Edward Downes (che inciderà pure il Divieto di amare e l’unica edizione del tutto completa del Rienzi), di recente pubblicata dalla PONTO è perfettamente integrale e presenta un ottimo suono: la compagnia di canto è buona (senza far gridare al miracolo) e si percepisce quanto si impegni e creda nel progetto, così come il direttore. Ottimi orchestra e coro. Di qualche anno successiva, nel 1983, a Monaco (nell’ambito delle celebrazioni per il primo centenario della morte di Wagner) l’edizione diretta da Sawallisch: edita dalla ORFEO ed incisa dal vivo, presenta un cast molto felice (tra cui in ruoli comprimari la Anderson e la Studer). Il suono è ottimo e la cura che dedica il direttore è straordinaria. Sawallisch pratica alcuni tagli alla partitura, con l’intento (assai apprezzabile) di correggerne i momenti più squilibrati, ridimensionandone la verbosità ed eliminando certe inutili lungaggini. Ultima in ordine cronologico è quella, incisa sempre dal vivo a Cagliari nel 1998: versione che però non conosco. Opera complessa dunque, ingiustamente espulsa dai mistici rituali di Bayreuth, vista con fastidio e disprezzo dai tanti bidelli del Walhalla, ripudiata con imbarazzo dallo stesso autore, eppure lavoro che rivela il mondo e la cultura musicale entro cui si forma il fenomeno wagneriano (e che riecheggerà nelle sue opere almeno fino al Lohengrin). Non un incidente di percorso sulla strada che porta alle smisurate creazioni nibelungiche, quindi, ma insostituibile punto di partenza per trovare una più giusta collocazione alla parabola wagneriana, naturalmente a patto di svegliarsi dall’ubriacatura dei cantori dell’assoluta unicità della “musica dell’avvenire”.
Wagner, infatti, crea intorno a sé, alla sua vita e alla sua opera una vera e propria mitologia, culminata nella costruzione del “tempio” di Bayreuth: monumento smisurato all’ego smisurato del compositore, ove alle consuete rappresentazioni teatrali, si sostituiscono rituali mistici, a lode, gloria ed onore del suo nume tutelare. Questa immagine pubblica, si sa, coprì le miserie private: l’opportunismo, la grettezza, l’invidia, l’avidità dell’uomo, che appaiono tanto più evidenti se si scorre senza pregiudizi una qualsiasi biografia, non schierata, dell’autore.
Attraverso la risistemazione e la ricostruzione a posteriori della sua carriera artistica (per farla meglio aderire – anche a costo di forzature – alle idee estetiche maturate solo tardivamente e racchiuse nei suoi ponderosi e, mi si conceda, polverosi scritti teorici), Wagner potè presentare ad un pubblico non più fatto di semplici ammiratori, ma di veri fedeli, una visione estremamente coerente della sua opera, che volle mostrare interamente fondata su di un unico e primigenio principio estetico, sviluppatosi attraverso una inesorabile evoluzione (una missione o una ricerca appunto) e finalizzato alla creazione di una nuova religione dedicata alla “musica dell’avvenire”. Per far questo non solo rielaborò i lavori giovanili (Olandese e Tannhauser) per poterli meglio inserire nel canone dei drammi musicali (pienamente rispondente ai suoi cavillosi presupposti programmatici), ma si vide costretto ad espungere dal suo catalogo, quasi con ribrezzo, i primissimi lavori, per i quali non sarebbe certo bastata una semplice rielaborazione, e a proibirne la rappresentazione nel “tempio di famiglia” (prescrizione che gli obbedienti nipotini mantengono ancora, nella stanca, ma molto redditizia – e ciò non sarebbe dispiaciuto al nonno – ripetizione dei rituali nibelungici). Quale il motivo di questo ripudio? Semplicissimo: quei lavori tradiscono una verità sempre negata e nascosta da Wagner stesso, prima, e dai suoi cultori ed esegeti, poi, mostrano cioè come il mondo musicale preesistente e contemporaneo al compositore, ne abbia influenzato non poco l’opera. Ovvio che, nel pretendere l’assoluta unicità della sua parabola musicale, Wagner si trovasse costretto a tagliare ogni ponte e collegamento con la musica “del passato”: per non macchiare così l’eccezionalità e la genuinità della “musica dell’avvenire” (unica eccezione – concessa però dallo stesso compositore – il parallelo con Gluck, anche se in senso rovesciato: non è Wagner ad ispirarsi a Gluck, giammai, bensì è questi a “preparare la strada” a Wagner).
Questi primi lavori, tuttavia, pur nel diseguale risultato artistico (a volte assai modesto, come nel Divieto di amare e – in parte – nel Rienzi; a volte straordinariamente buono come Le Fate) sono ottimi testimoni di quanto la musica wagneriana sia debitrice dell’opera romantica di Weber, del grand-opéra e del melodramma italiano. E questo nonostante il tardivo disprezzo sbandierato dall’autore per questi modelli – in particolare per gli ultimi due (anche se ricorreranno tutti e saranno ancora visibili pure nelle composizioni successive).
Di quei tre primi lavori che tanto imbarazzeranno il Wagner “maturo”, dicevo, un posto di assoluto riguardo spetta a Le Fate. Die Feen, che vennero composte tra il 1833 e il 1834 (ma rappresentate solo nel 1888, dopo la morte dell'autore), mentre si trovava a Wurzburg, quale direttore d’orchestra del locale teatro d’opera (dove allestì, tra le altre, Robert Le Diable e Der Vampyr), si presentano come una autentica opera romantica: suo modello evidente è Weber (in particolare quello di Oberon), ma anche Mendelssohn e Schubert. L’improbabile vicenda, tratta da un lavoro di Gozzi e ricollocata da Wagner in un’ambientazione nordica (laddove l’originale si svolgeva in un Oriente fantastico), si caratterizza per la scarsissima efficacia teatrale e rivela un testo assai macchinoso, verboso e prolisso con molti squilibri nella struttura e nella distribuzione delle scene (tali difetti – ovviamente in forma molto più sfumata e riscattati da una maggior padronanza degli strumenti del mestiere – permarranno anche nelle opere della maturità: Wagner, grande musicista, fu in realtà un mediocre, se non pessimo, scrittore, e certo la “qualità” dei versi del Ring o del Tristano o di Parsifal, non è di molto superiore a quella di queste Fate). Tuttavia, pur partendo da una base scadente e confusa, Wagner veste il suo brutto libretto con musica di straordinaria efficacia e inventiva. Certo non mancano le lungaggini e le pagine meno ispirate (e in verità non mancheranno mai nei suoi lavori), ma per essere un’opera prima dimostra un’ottima conoscenza tecnica (certamente dovuta all’approfondito studio dei modelli di cui parlavo più sopra), mestiere e originalità (soprattutto se si confronta con le due successive). Opera romantica dicevo: al centro la figura della fata Ada che si innamora del mortale e nobile Arindal, il quale all’esito di improbabili e complesse vicende (per la cui conoscenza rimando alla lettura di un riassunto della trama) riuscirà a conquistare l’immortalità e l’amore. Mondo magico che si scontra con mondo reale quindi, amore e morte, armonia e guerra, sogno e razionalità: le più tipiche espressioni delle contrapposizioni del romanticismo. Ada ricorda molto da vicino le grandi eroine weberiane: Agathe, ma soprattutto Rezia (al secondo atto vi è una grande e difficile aria per lei che ha più di un rimando ad “Ozean, du Ungeheuer”), il suo personaggio, sospeso tra umano ed inumano, tra le forze misteriose della natura e la caducità della vita reale si incarna in un ruolo di estrema difficoltà vocale: richiede un registro sicuro e svettante nell’acuto, corposo nei centri ed estremamente resistente (la parte, come tutta l’opera del resto, è particolarmente lunga). Una “tromba d’argento” per cui non si può non pensare alla Nilsson (che infatti fu una straordinaria Rezia). A ciò si aggiunga la padronanza del canto di agilità (Wagner qui risente ancora delle influenze belcantistiche mutuate dal melodramma italiano). Ad essa sono affidate alcune tra le pagine più belle dell’opera, a cominciare dalla delicata cavatina del primo atto mentre il deserto si trasforma nel giardino delle fate: quasi un sussurro malinconico che sfocia poi in un duetto più movimentato (ad uso di cabaletta) che insiste sul registro acuto (assai impervio per il tenore). Vertice della partitura la grande scena ed aria di Ada collocata nel mezzo dell’atto II, “Weh mir, so nah die, fürchterliche Stunde”: introdotta da un ampio e drammatico recitativo di struttura metrica irregolare e spezzato da sfoghi orchestrali e squarci più cantabili, in cui la voce sale e scende lungo il pentagramma alternando malinconia e dramma, senza alcuna tregua per l’interprete, trova sbocco nell’aria vera e propria, quasi “di furore” (con abbondanti ornamentazioni) pur nell’alternarsi di ampi strappi lirici. Una cavalcata di quasi 12 minuti che non è esagerato definire una delle creazioni più felici di Wagner.
Tante altre tuttavia, sono le pagine notevoli dell’opera, che si segnalano per la straordinaria bellezza dell’invenzione musicale: la lunga Ouverture romantica innanzitutto (brano che conosce un relativo successo concertistico); i monologhi di Arindal (tenore la cui vocalità rimanda al Florestan di Beethoven), sia quello del primo atto sia il “delirio” del terzo, interrotto dalla voce malinconica di Ada con uno straordinario effetto di momentanea calma e pace; il finale I; l’introduzione all’atto II con la splendida aria di Lora, di purezza cristallina, appena screziata da un accenno di coloratura; il finale III, con la scena delle prove e il suggestivo lied del tenore con accompagnamento di arpa solista. E poi i tanti cori, i singoli pezzi d’insieme, gli interludi sinfonici. Non molto riusciti, invece, gli episodi comici che restano a margine della vicenda, con l’intento di alleggerirne la portata drammatica, ma così male inseriti nella struttura generale (qui Wagner paga l’inesperienza, oltre ad una scarsa dimestichezza con elementi di commedia) da risultare solo fuorvianti e fastidiosi (musicalmente, poi, sono assai modesti). Opera quindi, che richiede grandi interpreti, grande orchestra (l’accompagnamento musicale è di ampiezza e complessità sinfonica), e un grande direttore che sappia ben dosare i vari ingredienti, evidenziarne i tanti pregi, dargli coesione e coerenza, valorizzare gli episodi (tanti) migliori e far passare in secondo piano certe ingenuità e asprezze (magari con qualche taglio, perchè no?).
Poche sono le incisioni disponibili sul mercato (soprattutto se rapportate alla sterminata discografia wagneriana). La più risalente nel tempo è quella incisa in modo semiufficiale nel 1976 dal vivo (negli studi radiofonici della BBC) e diretta da Edward Downes (che inciderà pure il Divieto di amare e l’unica edizione del tutto completa del Rienzi), di recente pubblicata dalla PONTO è perfettamente integrale e presenta un ottimo suono: la compagnia di canto è buona (senza far gridare al miracolo) e si percepisce quanto si impegni e creda nel progetto, così come il direttore. Ottimi orchestra e coro. Di qualche anno successiva, nel 1983, a Monaco (nell’ambito delle celebrazioni per il primo centenario della morte di Wagner) l’edizione diretta da Sawallisch: edita dalla ORFEO ed incisa dal vivo, presenta un cast molto felice (tra cui in ruoli comprimari la Anderson e la Studer). Il suono è ottimo e la cura che dedica il direttore è straordinaria. Sawallisch pratica alcuni tagli alla partitura, con l’intento (assai apprezzabile) di correggerne i momenti più squilibrati, ridimensionandone la verbosità ed eliminando certe inutili lungaggini. Ultima in ordine cronologico è quella, incisa sempre dal vivo a Cagliari nel 1998: versione che però non conosco. Opera complessa dunque, ingiustamente espulsa dai mistici rituali di Bayreuth, vista con fastidio e disprezzo dai tanti bidelli del Walhalla, ripudiata con imbarazzo dallo stesso autore, eppure lavoro che rivela il mondo e la cultura musicale entro cui si forma il fenomeno wagneriano (e che riecheggerà nelle sue opere almeno fino al Lohengrin). Non un incidente di percorso sulla strada che porta alle smisurate creazioni nibelungiche, quindi, ma insostituibile punto di partenza per trovare una più giusta collocazione alla parabola wagneriana, naturalmente a patto di svegliarsi dall’ubriacatura dei cantori dell’assoluta unicità della “musica dell’avvenire”.
4 commenti:
Eccellente disamina davvero!
Dello “scenario wagneriano” e soprattutto dell’opera-prima del’Avvoltoio di Lipsia!
Mi permetto qualche modesto commento:
1- la censurabilità dei comportamenti sociali di Wagner, secondo me, non fa da contraltare, ma è il presupposto stesso della sua produzione artistica;
2- che i drammi di Wagner - dopo Lohengrin (“Romantische Oper” la battezzò ancora il suo autore, proprio come Tannhäuser e Holländer, mentre l’aggettivo è assente dal frontespizio di Die Feen) - costituiscano una radicale rottura con il passato e con “il resto del mondo” è riscontrabile semplicemente sfogliando le partiture: dopodichè, il fatto che Wagner abbia “saccheggiato” compositori che lui dichiarava di detestare (Mendelsshon, Weber, persino Meyerbeer) o che considerava vestigia del passato (Rossini) non fa che confermare quanto detto al punto 1.;
3- i “poemi” dei drammi wagneriani non saranno - in termini assoluti - dei capolavori, ma stanno (se non altro dal punto di vista dei “contenuti”) qualche spanna al di sopra degli tipici “libretti” dell’opera tradizionale e soprattutto sono in simbiosi perfetta con la musica, che nasceva e cresceva con essi;
4- su ciò che fosse o non fosse degno di essere rappresentato nel Festspielhaus credo abbia avuto preponderante voce in capitolo la terribile Cosima; le pronipoti di Richard, da pochi giorni alla testa dei Festspiele, sembrano assai più aperte: la giovane Katharina già pensa a Rienzi (che sta mettendo in scena fra poche settimane a Brema) e - guarda caso - anche a Die Feen.
Post-scriptum: “Riccardo” Wagner? (strasmile!)
Caro Daland, innanzitutto ti ringrazio per l'apprezzamento. Per ciò che riguarda i commenti (per altro molto graditi, interessanti e condivisibili), aggiungo alcune precisazioni:
1) E' vero che vita privata e parabola artistica sono elementi complementari, tuttavia per lungo tempo l'aspetto musicale è stato usato quasi a giustificazione delle miserie umane: non influisce certo nel giudizio sull'opera, ovvio, tuttavia serve a ridimensionare la "sacralità" che il personaggio si è costruito addosso (e che la critica ha sempre perpetuato). Dici bene che il privato non è il contraltare del pubblico. Non so se ne sia il presupposto (mi riferisco agli esiti artistici), certo è che alla favola del Wagner artista "puro" e votato unicamente all'arte ci credono ancora in pochi (e ce ne sono...incredibile, ma vero).
Quest'aspetto però è solo coloristico, voglio soffermarmi sulle altre tue argomentazioni:
2) Certamente dopo Lohengrin la musica wagneriana percorse strade differenti rispetto ai suoi modelli, tuttavia negare la persistenza di quei modelli e la loro identificabilità è sbagliato. Certo la negazione è funzionale alla pretesa unicità del genio wagneriano, ma come già dicevano i latini: "ex nihilo nihil fit", dal nulla non proviene nulla. Vale per la chimica come per la musica: credere che Wagner abbia creato dal niente la "musica dell'avvenire" è ingenuità. Ha mutato forme e linguaggio (almeno in parte), ha cercato nuove vie espressive, dato valore differente all'orchestra, accentuato la comprensione del testo, ma non direi che abbia rotto radicalmente con il passato. Il pezzo chiuso sfuma nel cantabile continuo certo, ma è identificabile. E anche le forme: che cos'è il sacrificio di Brunhilde se non il rondò della primadonna (con linguaggio diverso ovvio) o il liebestod di Isolde, è così diverso dalle "scene di pazzia" che chiudevano immancabilmente i nostri melodrammi? Poi si discuta pure di linguaggio e di forme espressive, ma si tenga in considerazione la presenza fino al Parsifal di certi modelli coevi e precedenti (dal recupero del canto strofico dei Meistersinger a certa astrattezza belcantista in Tristan, tanto per fare alcuni esempi..)
3) Il discorso è complesso: lo dividerei in due aspetti, quello formale e quello contenutistico:
3.1) I "poemi" di Wagner sono mediocri libretti salvati dalla musica, né più né meno di quelli che si scrivevano per Verdi, Donizetti o Mercadante (in termini squisitamente formali e poetici: certo noi li leggiamo in traduzione e ci "perdiamo" la sciatteria lessicale dell'autore, che non è Goethe o Novalis o Holderlin...basta un confronto) e con l'aggravante di essere lunghi, retorici e verbosi.
3.2) Sui contenuti, invece, c'è da intendersi: molte speculazioni filosofiche che si vogliono leggere nei suoi testi sono frutto di un'esegesi posteriore (come del resto in ogni chiesa vi è un sacro testo e vi sono i suoi fedeli interpreti ed adepti, che vi leggono anche quel che non è scritto). Spesso questi suoi libretti (che per me così si chiamano, non poemi..) sono un indigesto guazzabuglio di elementi mitologici e pretesi o confusi riferimenti filosofici (banalizzati e fraintesi), ma Wagner non fu filosofo, e non è giusto pretendere coerenza e sistema (neppure nei suoi micidiali e deliranti scritti teorici ve n'è traccia)! Ma poi che avrebbe di superiore la storia dell'Oro del Reno, ad esempio, rispetto ad un Don Carlos o ad un Tell o a Don Giovanni e Così fan tutte: spesso si confonde il significato di un testo con quello che altri gli attribuiscono. Nel Ring ci hanno visto di tutto: dalla critica alla società borghese alla lotta di classe, dall'esaltazione della razza ariana alla traduzione in musica degli ideali nazionalsocialisti, dalla lotta dell'uomo contro la società industriale alla critica alla democrazia o alla religione cattolica o alla modernità o a quel che vuole l'interprete di turno! Ma quale sarà il vero significato teorico/filosofico/esistenziale sotteso di tutto questo? Io penso che se un cosa va bene per qualsiasi interpretazione e significato forse non significa semplicemente NULLA! E non parliamo di quel che si sente intorno a Parsifal... Dici che vi è una perfetta simbiosi musica/testo? Vero, ma ciò deriva semplicemente dal fatto che l'autore è lo stesso (il medesimo discorso varrebbe per Mussorgsky o Boito), ma ugualmente tale simbiosi è riscontrabile in Mozart/Da Ponte, Bellini/Romani e di per sè non significa nulla...
4) Hai ragione su Cosima, figura certamente ambigua e censurabile nei comportamenti e nelle scelte artistiche e politiche (è a lei che si deve la beatificazione del compositore e la definitiva sistemazione della liturgia di Bayreuth - per altro a lei si deve pure l'associazione di Wagner al nazismo, che tanto male fece alla memoria del marito, ma molto bene alle casse di famiglia: e dopo di lei i figli, Eva, Siegfried e la moglie Winifred, completarono l'opera - sai che la partitura autografa di Die Feen venne regalata dalla moglie di Siegfried Wagner al fuhrer, ospite fisso e graditissimo a Villa Wahnfried, in occasione del suo compleanno?), propugnatrice, Cosima, di un Wagner del tutto personale, guardiana di una rigida e dannosa ortodossia (in realtà fuorviante), di un monopolio sterile e autoreferenziale che solo grazie alla migrazione delle sue opere al Met è stato superato. Ma meglio dirlo sottovoce..in altre sedi pensano tutto il contrario di Cosima vestale di Richard Wagner e degli eretici apostati del Met...
4) infine sul festival. Davvero credi che le due pronipotine siano una ventatat di novità? Ho visto l'orribile Meistersinger di Katharina (in streaming, ovvio, la Collina non è accessibile ai comuni mortali), e questo mi è bastato ad alimentare il mio pessimismo. Poi chissà, magari sarà come dici e nella gestione la giovane Wagnerina sarà più interessante e valida che come regista, ma temo che qualsiasi voglia di innovazione si infrangerà di fronte alle immobili liturgie che gli esecutori testamentari di Bayreuth rinnovano ogni anno (il Parsifal ci ha messo 40 anni a varcare i confini del Festspielhaus). A meno che...a meno che non ci siano molti denari in gioco: in tal caso anche il nonno, dall'alto, benedirebbe l'operazione...
P.s: "Riccardo" Wagner è una voluta e ironica provocazione che mi fa piacere tu abbia colto...
Un saluto
Solo qualche breve contro-replica:
1. Per me non si tratta di “purezza”, ma di condizioni adatte ad un determinato sviluppo: Wagner poteva esistere solo così, vivendo da scroccone per poter comporre i suoi drammi (non vedo altri nessi causa-effetto).
2. E meno male che Wagner non ha applicato pedestremente le sue proprie teorie! Evidentemente era più ispirato (e/o furbo) di uno Schönberg!
3.1. Anche qui il Wagner teorico è fortunatamente salvato dal Wagner artista ispirato! Ed è vero anche il contrario: il Liebestod da concerto, senza il canto, perde gran parte della sua bellezza...
3.2. Qui siamo in sereno disaccordo, e non provo nemmeno a replicare...
4. Perfettamente daccordo invece su Cosima. A proposito, pare che nessuno sappia che fine abbia fatto l’autografo di Die Feen: chi dice bruciato nel bunker, chi lo dà per “custodito” da qualche parte a Berlino...
5. Sono un fiero avversario del Regietheater, e sui Meistersinger di Kathi sfondi una porta aperta (mi son ben guardato dal darle 49€ di obolo per vederli in streaming!) Mi riferivo alle sue idee di “apertura” del festival anche al Wagner “proibito”.
Grazie ancora!
Caro Daland, grazie a te per il contributo.
1) Forse non ci siamo bene intesi sul rapporto vita privata/pubblica: hai ragione quando affermi che forse proprio quel tipo di vita ha permesso a Wagner di fare ciò che ha fatto...semplicemente mi riferivo al fatto di come la "vulgata" ufficiale (ad opera del diretto interessato e poi dei suoi adepti) abbia sempre insistito su certe pretese idealità per nascondere esigenze assai più concrete. Ovviamente questo non sposta di una virgola il giudizio sul Wagner musicista, semplicemente ne delinea la personalità.
2 e 3.1) Hai ragione, ma questo è il risultato anche del fatto che certe teorie sono state concepite solo a posteriori rispetto alla composizione delle opere...in ogni caso (e nonostante gli indigeribili scritti teorici - provai a leggere con scarso profitto "L'Opera d'arte dell'avvenire" e "Religione ed Arte") meglio così...
3.2) Nessun problema
4) Potrebbe essere anche in qualche archivio moscovita...insieme a Divieto d'Amare, Rienzi, Oro del Reno e Valchiria (tutte parte del regalino di compleanno al Fuhrer nel '39)
5) Ma neppure io ho speso l'obolo, mi è stato gentilmente prestata la registrazione (ho sbagliato a definirla streaming)... Quei Meistersinger erano orribili! Senza scampo. Certo che se sulla Sacra Collina arrivassero anche i titoli proibiti sarebbe davvero una salutare rivoluzione. Chissà...il programma dell'anno prossimo è ancora dedicato al Sacro Canone , magari nel 2010 o 2011..vedremo.
Un saluto
Posta un commento