Il titolo per l’opera pucciniana andata in scena ier sera alla Scala venne pensato, all’ultimo o quasi, da Giovacchino Forzano.
Poi l’industria farmaceutica se ne impossessò negli anni ‘80 (si era anche impossessata di opere di grande valore come l’Anabasi senofontiana) e lo affibbiò ad un tranquillante.
Ho il sospetto che la direzione musicale di ieri sera si sia ricordata di questa osmosi fra musica e farmacopea.
Una ripresa del Trittico dovrebbe esaltare esecutori ed ascoltatori non assopirli, come è accaduto ieri sera in Scala.
Dire che l’orchestra abbia suona o male e sia stata mal diretta sarebbe ingiusto e falso, ma in generale al Tabarro mancava il colore noir, alla Suora il contrasto fra le giulebbe delle suorine e l’ipocrisia conventuale della prima sezione ed il clima sospeso dell’incontro zia nipote e il turgore straussiano del finale e nello Schicchi la carica acetisalicilica di una vicenda toscana, per giunta, mutuata dal tosco per antonomasia Dante Alighieri.
Certo con il palcoscenico di cui disponeva il maestro Chailly una più completa realizzazione dell’opera sarebbe stata rischiosa perché avrebbe ancor più evidenziato i grandi vuoti sulla scena.
Diciamo che tutto è scorso via con un bel e buon suono senza nessun incidente in buca e coi tempi che corrono con un’orchestra che ha suonato male la Stuarda, bene Tristano e mediamente Wozzeck la media è più verso l’alto che verso il basso.
Però…..l’unico vero momento in cui direttore e orchestra hanno cantato è stato la descrizione della carrozza della Zia principessa e la sezione conclusiva dell’incontro zia-nipote. Loro hanno cantato, ma solo loro in scena la febbrile ed il nervosismo della diva verista mancava.
E quindi cominciano proprio dalla diva. Quanto fra nel 1959 e nel 1961 la Scala, direttore Gianandrea Gavazzeni propose il Trittico schierò tre autentiche primedonne (e non erano neppure le sole possibili ossia la Petrella Giorgetta, la Jurinac e la Stella suor Angelica e la giovane Scotto Lauretta. Oggi di diva la sola Frittoli.
Anche avvolta nei panni della suor penitente contro la propria volontà Puccini ha creato un personaggio per grande tragica verista. Quelle per intenderci alla Muzio alla Olivero alla Scotto. La signora Frittoli, pur sostenuta da molti ignari ammmiratori, ha esibito una voce che dal fa acuto è bianca e vibrata, sotto non esiste e gli acuti estremi (i famosi do previsti sia “nella grazia discende” che nel finale) sono state faticose urla, stonate e fisse. Per molto meno nel 1972 Katia Ricciarelli e nel 1983 Rosalind Plowrigt vennero pesantemente riprovate dal pubblico scaligero. Quanto al fraseggio passati come acqua fresca il “Senza mamma”, le frasette, che sono pesanti della scena conventuale e tutto il detto e non detto dell’incontro con la zia.
La quale zia è una stracotta Lipovsek (fu già una fissa Fricka con Muti nel 1994) che esibisce con puntigliosa precisione tutti i vizi e vezzi della scuola di canto tedesca (suoni fissi, intonazioni a scivolo) applicati alla tipica voce del mezzo soprano usurato con evidente buco o “scalino” fra le note basse ed il centro appena udibile.
Della compagine delle suore e suorine il premio spetta a Cinzia de Mola, che ha rammentato la grande Tina Pica. Peccato che non andasse in scena Filumena Marturano.
Quanto al trio protagonistico del Tabarro la signora Marroccu è stata piatta ed inespressiva e il solo acuto della propria aria un vero urlo. Il disinganno, l’amaro in bocca che sono del personaggio le note caratteriali, indispensabile contrasto con i momenti d’amore con Luigi assolutamente dimenticati. Togliamo a Giorgetta il fraseggio e che resta?
Come non resta nulla a Luigi ad opera del signor Dvorsky, l’anno passato impegnato a declamare Janacek e quest’anno messo impietosamente alla corda dalle frasi tese e roventi del duetto d’amore. La carica ormonale di questo Luigi che in alto si sbianca e si stimbra è pari a zero.
In fondo meglio tenuto conto dell’età e dell’insipienza tecnica Juan Pons.
Una notarella e una osservazione nel ruolo dell’innamorato si è esibito un giovane cantante della scuola di perfezionamento della Scala (Leonardo Cortellezzi), la voce è quella del tenorino da opera del primo ‘800, ma siccome sa dove la si mette anche se cantava in fondo al palcoscenico era perfettamente udibile. Miracoli dell’acustica scaligera o accorto uso dei ferri del mestiere?
Lo spettacolo più applaudito è stato il Gianni Schicchi. In mezzo ad un gruppo di eredi di Buoso Donati pretermessi che se maschi erano ingolati ed ingolfati vocalmente e se femmine stridule, petulanti e parlanti, Leo Nucci, baritono da Verdi pesante e con gusto post tittarufesco, ha come il personaggio del buon padre Dante nei confronti dei Donati, vinto a mani basse. Non significa che sia lo Schicchi ideale (parte che pertiene al fine dicitore alla de Luca o Bruscantini ed oggi Corbelli), però è stato l’unico personaggio. La coppia di innamorati entrambi in difficoltà appena arriva un miserello la bem brillava per distrazione da parte della stridula Nino Machaidze, assolutamente assente e per inutile agitazione ed estroversione in Vittorio Grigolo.
Il pubblico ha poi sfogato la propria insoddisfazione verso l’allestimento e la regia.
Quanto a regia va detto che non c’era nessun segno tangibile della presenza di un grande regista; non un gesto peculiare e significativo che sottolineasse il momento scenico e che lo servisse ed esaltasse. Insomma se la regia fosse stata dei grandi mestieranti e praticoni che sino agli anni ’90 imperavano nei teatri italiani tutti non avremmo potuto verificare la differenza.
Quanto alle scene, assolutamente anonima, ovvia e scontata la chiatta parigina, di pessimo gusto la prona Madonna della Suora, dal volto e dai colori di una statuetta da presepe di seconda scelta di una bancarella di San Gregorio Armeno, scontata l’ambientazione anni ’50 dello Schicchi con la solita scena sghemba, tutta ricoperta di teli rossi, più adatti ad un postribolo da dolce vita, che alla casa del parsimonioso e celibatario Buoso Donati con visioni infernali e fiorentine da recita di Carnevale in un teatrino parrocchiale.
Giustamente riprovate dal pubblico, delle cui orecchie posso dubitare, ma della vista ottima proprio no.
Poi l’industria farmaceutica se ne impossessò negli anni ‘80 (si era anche impossessata di opere di grande valore come l’Anabasi senofontiana) e lo affibbiò ad un tranquillante.
Ho il sospetto che la direzione musicale di ieri sera si sia ricordata di questa osmosi fra musica e farmacopea.
Una ripresa del Trittico dovrebbe esaltare esecutori ed ascoltatori non assopirli, come è accaduto ieri sera in Scala.
Dire che l’orchestra abbia suona o male e sia stata mal diretta sarebbe ingiusto e falso, ma in generale al Tabarro mancava il colore noir, alla Suora il contrasto fra le giulebbe delle suorine e l’ipocrisia conventuale della prima sezione ed il clima sospeso dell’incontro zia nipote e il turgore straussiano del finale e nello Schicchi la carica acetisalicilica di una vicenda toscana, per giunta, mutuata dal tosco per antonomasia Dante Alighieri.
Certo con il palcoscenico di cui disponeva il maestro Chailly una più completa realizzazione dell’opera sarebbe stata rischiosa perché avrebbe ancor più evidenziato i grandi vuoti sulla scena.
Diciamo che tutto è scorso via con un bel e buon suono senza nessun incidente in buca e coi tempi che corrono con un’orchestra che ha suonato male la Stuarda, bene Tristano e mediamente Wozzeck la media è più verso l’alto che verso il basso.
Però…..l’unico vero momento in cui direttore e orchestra hanno cantato è stato la descrizione della carrozza della Zia principessa e la sezione conclusiva dell’incontro zia-nipote. Loro hanno cantato, ma solo loro in scena la febbrile ed il nervosismo della diva verista mancava.
E quindi cominciano proprio dalla diva. Quanto fra nel 1959 e nel 1961 la Scala, direttore Gianandrea Gavazzeni propose il Trittico schierò tre autentiche primedonne (e non erano neppure le sole possibili ossia la Petrella Giorgetta, la Jurinac e la Stella suor Angelica e la giovane Scotto Lauretta. Oggi di diva la sola Frittoli.
Anche avvolta nei panni della suor penitente contro la propria volontà Puccini ha creato un personaggio per grande tragica verista. Quelle per intenderci alla Muzio alla Olivero alla Scotto. La signora Frittoli, pur sostenuta da molti ignari ammmiratori, ha esibito una voce che dal fa acuto è bianca e vibrata, sotto non esiste e gli acuti estremi (i famosi do previsti sia “nella grazia discende” che nel finale) sono state faticose urla, stonate e fisse. Per molto meno nel 1972 Katia Ricciarelli e nel 1983 Rosalind Plowrigt vennero pesantemente riprovate dal pubblico scaligero. Quanto al fraseggio passati come acqua fresca il “Senza mamma”, le frasette, che sono pesanti della scena conventuale e tutto il detto e non detto dell’incontro con la zia.
La quale zia è una stracotta Lipovsek (fu già una fissa Fricka con Muti nel 1994) che esibisce con puntigliosa precisione tutti i vizi e vezzi della scuola di canto tedesca (suoni fissi, intonazioni a scivolo) applicati alla tipica voce del mezzo soprano usurato con evidente buco o “scalino” fra le note basse ed il centro appena udibile.
Della compagine delle suore e suorine il premio spetta a Cinzia de Mola, che ha rammentato la grande Tina Pica. Peccato che non andasse in scena Filumena Marturano.
Quanto al trio protagonistico del Tabarro la signora Marroccu è stata piatta ed inespressiva e il solo acuto della propria aria un vero urlo. Il disinganno, l’amaro in bocca che sono del personaggio le note caratteriali, indispensabile contrasto con i momenti d’amore con Luigi assolutamente dimenticati. Togliamo a Giorgetta il fraseggio e che resta?
Come non resta nulla a Luigi ad opera del signor Dvorsky, l’anno passato impegnato a declamare Janacek e quest’anno messo impietosamente alla corda dalle frasi tese e roventi del duetto d’amore. La carica ormonale di questo Luigi che in alto si sbianca e si stimbra è pari a zero.
In fondo meglio tenuto conto dell’età e dell’insipienza tecnica Juan Pons.
Una notarella e una osservazione nel ruolo dell’innamorato si è esibito un giovane cantante della scuola di perfezionamento della Scala (Leonardo Cortellezzi), la voce è quella del tenorino da opera del primo ‘800, ma siccome sa dove la si mette anche se cantava in fondo al palcoscenico era perfettamente udibile. Miracoli dell’acustica scaligera o accorto uso dei ferri del mestiere?
Lo spettacolo più applaudito è stato il Gianni Schicchi. In mezzo ad un gruppo di eredi di Buoso Donati pretermessi che se maschi erano ingolati ed ingolfati vocalmente e se femmine stridule, petulanti e parlanti, Leo Nucci, baritono da Verdi pesante e con gusto post tittarufesco, ha come il personaggio del buon padre Dante nei confronti dei Donati, vinto a mani basse. Non significa che sia lo Schicchi ideale (parte che pertiene al fine dicitore alla de Luca o Bruscantini ed oggi Corbelli), però è stato l’unico personaggio. La coppia di innamorati entrambi in difficoltà appena arriva un miserello la bem brillava per distrazione da parte della stridula Nino Machaidze, assolutamente assente e per inutile agitazione ed estroversione in Vittorio Grigolo.
Il pubblico ha poi sfogato la propria insoddisfazione verso l’allestimento e la regia.
Quanto a regia va detto che non c’era nessun segno tangibile della presenza di un grande regista; non un gesto peculiare e significativo che sottolineasse il momento scenico e che lo servisse ed esaltasse. Insomma se la regia fosse stata dei grandi mestieranti e praticoni che sino agli anni ’90 imperavano nei teatri italiani tutti non avremmo potuto verificare la differenza.
Quanto alle scene, assolutamente anonima, ovvia e scontata la chiatta parigina, di pessimo gusto la prona Madonna della Suora, dal volto e dai colori di una statuetta da presepe di seconda scelta di una bancarella di San Gregorio Armeno, scontata l’ambientazione anni ’50 dello Schicchi con la solita scena sghemba, tutta ricoperta di teli rossi, più adatti ad un postribolo da dolce vita, che alla casa del parsimonioso e celibatario Buoso Donati con visioni infernali e fiorentine da recita di Carnevale in un teatrino parrocchiale.
Giustamente riprovate dal pubblico, delle cui orecchie posso dubitare, ma della vista ottima proprio no.
2 commenti:
Cari amici,
non posso fare a meno di segnalare, quale cartina tornasole dei nostri tempi impazziti e insensati,
come la povera fanciullina che non è riuscita a farsi applaudire in un'aria da conservatorio quale quella di Lauretta paia proprio essere la futura Juliette salisburghese, in sostituzione della Netrebko.I signori del management, anzichè osservare il preoccupante peggioramento della sua voce rispetto alla passata Fille scaligera, voce perfettamente vetrosa adesso, giustamente la proiettano in una delle vetrine più prestigiose del mondo su un ruolo che non è certo alla sua portata.
Ve la immaginate la scena del veleno di questa ragazza che non riusciva a farsi sentire nel Babbino caro? o come potrà strillare sotto la spinta del ritmo in Je veux vivre?
......ma sì,ma si, lasciamola provare......in fondo "è giovane e carina"...tanto se poi non ce la fa ......ne troviamo un un'altra, no? Funziona così al giorno d'oggi!
.....ah, scusate....dimenticavo!
Vi vedete anche Barbara Frittoli, che tanta simpatia mi ispira, nella Thais a Torino, con quel vocino microbico e senza acuti, in un teatro enorme e sordo?????
Lo strazio del Senza Mamma là durerà ben tre atti, dico tre atti interi......Tralasciamo l'Aida...
Voi capite il perché di tanta follia???
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