La sera del 24 aprile 1819 ebbe luogo la creazione di Eduardo e Cristina, penultimo lavoro di Rossini destinato a Venezia. La serata non si svolse alla Fenice, bensì al Teatro di San Benedetto, una piccola sala dedicata per lo più alle opere buffe, che sei anni prima aveva ospitato la prima rappresentazione dell'Italiana in Algeri. La compagnia di canto schierava, accanto al contralto en travesti Carolina Cortesi (figlia dell’impresario del San Benedetto), due interpreti già "complici" del Pesarese nei primi anni della sua carriera: il tenore Eliodoro Bianchi, Baldassare alla creazione del Ciro in Babilonia, qui nei panni di Carlo Re di Svezia, e soprattutto, nella parte della principessa Cristina (sposa occulta del generale Eduardo e madre del piccolo Gustavo), il soprano Rosa Morolli Morandi, moglie del musicista Giovanni Morandi, vecchio amico e protettore di Rossini, e prima Fanny nella Cambiale di matrimonio. La serata ebbe esito trionfale: la rappresentazione, iniziata alle otto di sera, finì, secondo un giornale dell'epoca, alle due di notte, avendo il pubblico richiesto il bis di molti numeri chiusi e invocato a più riprese il compositore, che fu anche costretto a salire sul palco per ricevere l'applauso degli spettatori.
Il libretto, opera di Giovanni Schmidt, era già stato musicato nove anni prima (con il titolo Odoardo e Cristina) da Stefano Pavesi. Alla necessaria e opportuna rielaborazione provvidero Andrea Leone Tottola e Gherardo Bevilacqua Aldobrandini: il nuovo libretto reca per questa ragione la dicitura “Dramma per musica di T.S.B.” Ma non è la poesia di Schmidt l’unico tratto recuperato da Odoardo: di Stefano Pavesi è infatti l’aria di Giacomo al secondo atto, “Questa man la toglie a morte”. Un simile “recupero” è del resto perfettamente coerente non solo con le abitudini della scena lirica del tempo, ma anche con la particolare natura dell’opera in questione.
Eduardo e Cristina è un centone. Con la trascurabile eccezione di alcune pagine di raccordo, la musica è integralmente riciclata da composizioni precedenti, vale a dire Adelaide di Borgogna, Ricciardo e Zoraide e la nuovissima Ermione, data in prima assoluta al San Carlo meno di un mese prima. In realtà, la prassi esecutiva dell’opera è ancora avvolta dal mistero, stante l’assenza di un’edizione critica (il che, per inciso, vale anche per l’Adelaide e il Ricciardo). Sappiamo, per esempio, che in alcune riprese l’aria del tenore nel primo atto (che, tanto vale dirlo subito, è in pratica “Balena in man del figlio” da Ermione) fu sostituita da altro brano, ma non è da escludersi che analoghi cambiamenti abbiano riguardato anche altri numeri della partitura. Che, come ogni buon centone o pasticcio che dir si voglia, era – e a rigor di filologia ancora potrebbe e dovrebbe essere – il “territorio di caccia” ideale per interpreti in grado di farsi valere mediante le armi dello stile rossiniano più autentico.
L’opera, al pari dell’Adelaide e del successivo Bianca e Falliero, è generalmente vista come un’involuzione rispetto alle opere serie del periodo napoletano. In realtà, trovandosi a comporre per realtà musicali e teatrali come Venezia, Roma e Milano, ritenute a torto o a ragione meno “evolute” rispetto alla scena napoletana, Rossini doveva giocoforza adottare un taglio più classico. In questo senso si possono spiegare la reintroduzione della canonica sinfonia d’apertura (Introduzione lenta, seguita da un Allegro in forma sonata priva di sviluppo) al posto del più libero preludio adottato a Napoli e l’uso di recitativi secchi in luogo di quelli a piena orchestra (il che permetteva inoltre di restituire al recitativo accompagnato l’antica funzione di segnalazione di una svolta o di un picco emotivo nella finzione scenica: vedi, nel primo atto di Eduardo, la scoperta da parte del Re dell’incognito nipotino).
Dopo la Sinfonia, in cui compare un crescendo che, in Ermione, si ascolta nella Gran scena della protagonista al secondo atto (lo stesso crescendo, per inciso, tornerà nel scena di Eduardo in carcere), l’opera si apre, sic et simpliciter, con l’Introduzione dell’Adelaide di Borgogna. Un brano di ampio respiro, che prevede, fra l’altro, una sortita piuttosto impegnativa per il soprano, portata a lanciarsi in impervie scalate all’acuto e a svettare su solisti, coro e orchestra con tutta la brillantezza e la penetrazione del soprano assoluto. Insomma con Cristina entra la primadonna rossiniana, non una Zerlinetta rivestita di abiti principeschi. Analoghi requisiti presenta la parte di Eduardo, la cui sortita avviene nientemeno che con il Rondò finale di Ottone dall’Adelaide (da cui proviene anche il Coro che introduce l’arrivo del generale svedese). A un cantabile spianato, in cui il musico ha da esibire soprattutto accento castigato e assoluta purezza di suono, a ribadire il carattere eroico e sognante del personaggio, segue la cabaletta, il cui virtuosismo (espressione dell’inquietudine del giovane al pensiero dell’infelicità di consorte e figlio) può e anzi deve essere accresciuto dall’interprete. La centralità della coppia clandestina è ribadita nel quadro successivo, ancora una volta derivato dall’Adelaide. Il Coro femminile introduce una Cavatina di Cristina che non è altro che la celeberrima "Occhi miei piangeste assai", sia pure ridotta alla sola prima sezione. Segue il Duetto degli sposi, in cui le voci procedono, nei passi melismatici, per terze parallele: seppur ridotto e semplificato rispetto a quanto si ascolta nell’Adelaide, il brano, delizioso, è un buon banco di prova per le doti canore e interpretative delle protagoniste.
Dopo un altro Coro ripreso dall’Adelaide, arriviamo all’assolo del tenore, che, come anticipato, ripropone la Gran scena di Pirro nel primo atto di Ermione. È con questa Aria tripartita, le cui tre sezioni esprimono rispettivamente lo sdegno, lo sconforto e l’ira del sovrano (parente stretto di Argirio e palese premonizione di Contareno), che la figura di Carlo, nel resto dell’opera alquanto marginale, assume una dimensione musicale di primo piano. Abbiamo già visto che l’aria fu a volte sostituita da altre, verosimilmente più abbordabili. Di certo soltanto l’ampiezza e il virtuosismo stellare che sono la sigla del più autentico baritenore rossiniano alla Nozzari possono restituire a questa pagina tutta la sua forza.
Il Finale primo (in cui Eduardo, nel tentativo di scagionare Cristina, provoca anche il proprio arresto oltre a quello della moglie) non è all’altezza delle pagine che lo precedono, non tanto per la qualità dell’invenzione melodica (il coro d’apertura proviene dal secondo atto di Ricciardo e Zoraide, mentre il concertato rielabora quello, bellissimo, che chiude il primo atto di Ermione), quanto per uno sviluppo piuttosto frettoloso degli spunti musicali adottati. I grandi finali d’atto concepiti per Napoli sono altra cosa.
Il secondo atto si apre, dopo due brevi Cori di buona fattura, in cui i cortigiani compiangono la sorte degli sventurati prigionieri, con l’Aria del sorbetto, affidata al principe di Scozia, Giacomo, anima nobile e sfortunato corteggiatore di Cristina. L’assoluta convenzionalità di testo e musica (di Pavesi, come già ricordato) è perfettamente adatta al personaggio e alla sua importanza nell’economia dell’opera.
Ben diverso è il caso del successivo Duetto fra Carlo e Cristina, che riprende il brano in cui, nel primo atto di Ermione, si confrontano la figlia di Menelao e il rampollo di Achille. Anche qui, come nell’Introduzione, il soprano ha da sostenere una scrittura fitta di ornamentazioni e che richiede un accento drammatico, se non tragico, anche per non sfigurare al cospetto del tenore e del coro.
Un Coro introduce la Scena di Eduardo in carcere. Dopo un intenso recitativo accompagnato, il contralto deve affrontare una cantilena di grande dolcezza (che è poi "Amata, l’amai", la prima parte della Grande scena di Ermione, e che pochi mesi dopo la prima di Eduardo sarebbe diventata, con le opportune trasformazioni, il cantabile “Elena! O tu che chiamo”, nella sortita di Malcolm Groeme) e una cabaletta che è nient’altro che "Ah! Come nascondere", dalla sortita di Oreste nella medesima Ermione. La scena sintetizza quindi le due facce del virtuosismo rossiniano, il cantabile spianato e la vertigine della coloratura, mentre l’intervento del coro rende ancora più solenne un brano che così fortemente richiama la futura scena di Falliero incatenato.
Anche Cristina ha diritto a una Gran scena di carcere, il cui modello evidente è quella di Amenaide nel secondo atto di Tancredi. Dopo un cupo preludio orchestrale, la principessa di Svezia affronta, al pari del marito, un drammatico recitativo accompagnato e un’aria bipartita: il cantabile proviene ancora una volta da Ermione (“Di’ che vedesti piangere”), mentre la cabaletta spinge il soprano a nuove, potenzialmente perigliose scalate all’acuto. La parte finale della scena scivola direttamente, con bella intuizione drammatica, nel Duettino degli sposi finalmente ricongiunti. Della bellissima frase “Ah nati inver noi siamo”, presa di peso dal Ricciardo, Stendhal fece per così dire il compendio e il simbolo dell’operazione di “riciclaggio” che sta alla base di Eduardo e Cristina, arrivando a sostenere che “l’idea sbrigativa che venne a Rossini per Venezia non era che l’estremizzazione del suo modo abituale di comporre”. Un giudizio invero un poco miope, benché assolutamente coerente con i rimproveri mossi dal Francese alla “pigrizia” e ai “plagi” del Pesarese. Rimproveri in cui, conoscendo la penna che li vergava, è facile cogliere più rispetto e desiderio di emulazione che autentico sdegno.
Dopo un Interludio orchestrale che descrive la battaglia vinta dalle truppe svedesi guidate dal liberato Eduardo, l’opera volge a conclusione con un grazioso Duettino fra Carlo e il finalmente riconosciuto genero – uno dei pochi numeri espressamente composti per l’opera – e con il Finale II, un brano “a couplet” che aveva già concluso Ricciardo e Zoraide.
La fortuna di Eduardo e Cristina fu breve ma intensa. Nei due anni successivi alla prima Rosa Morandi riprese il titolo a Torino, Reggio Emilia, Lucca e Ravenna, oltre che a Venezia. Elisabetta Manfredini-Guarmani, destinataria di tanti ruoli rossiniani per soprano assoluto (ricordiamo che fu la prima Amenaide, Amira nel Ciro, Aldimira nel Sigismondo e naturalmente Adelaide di Borgogna), cantò entrambi i ruoli: fu dapprima Eduardo, a Bologna nel 1820, e Cristina due anni dopo, a Modena e Perugia. Il ruolo di Eduardo fu cantato, fra le altre, da tre illustri mezzosoprani rossiniani: Maria Marcolini (Bergamo 1821), Rosa Mariani (Trieste 1822) e Giuditta Pasta (Torino 1821). Re Carlo fu interpretato da Nicola Tacchinardi (celebrato Otello), Claudio Bonoldi (primo Contareno, Ladislao nel Sigismondo e Giocondo nella Pietra di paragone) e soprattutto Domenico Donzelli, che sostenne il ruolo a Reggio Emilia, Vicenza, Ravenna e Cremona. Insomma il centone disprezzato (almeno a parole) da Stendhal esercitava una notevole capacità di attrazione sui divi rossiniani, almeno quelli più autentici. Non a caso, dopo il 1828, il titolo cadde in oblio ed è stato in epoca moderna riproposto solamente nel 1997 dal Festival rossiniano di Bad Wildbad, che pare essersi fatto un punto d’onore del colmare le lacune del più celebre e celebrato omologo pesarese. A volte non solo nella scelta dei titoli.
Il libretto, opera di Giovanni Schmidt, era già stato musicato nove anni prima (con il titolo Odoardo e Cristina) da Stefano Pavesi. Alla necessaria e opportuna rielaborazione provvidero Andrea Leone Tottola e Gherardo Bevilacqua Aldobrandini: il nuovo libretto reca per questa ragione la dicitura “Dramma per musica di T.S.B.” Ma non è la poesia di Schmidt l’unico tratto recuperato da Odoardo: di Stefano Pavesi è infatti l’aria di Giacomo al secondo atto, “Questa man la toglie a morte”. Un simile “recupero” è del resto perfettamente coerente non solo con le abitudini della scena lirica del tempo, ma anche con la particolare natura dell’opera in questione.
Eduardo e Cristina è un centone. Con la trascurabile eccezione di alcune pagine di raccordo, la musica è integralmente riciclata da composizioni precedenti, vale a dire Adelaide di Borgogna, Ricciardo e Zoraide e la nuovissima Ermione, data in prima assoluta al San Carlo meno di un mese prima. In realtà, la prassi esecutiva dell’opera è ancora avvolta dal mistero, stante l’assenza di un’edizione critica (il che, per inciso, vale anche per l’Adelaide e il Ricciardo). Sappiamo, per esempio, che in alcune riprese l’aria del tenore nel primo atto (che, tanto vale dirlo subito, è in pratica “Balena in man del figlio” da Ermione) fu sostituita da altro brano, ma non è da escludersi che analoghi cambiamenti abbiano riguardato anche altri numeri della partitura. Che, come ogni buon centone o pasticcio che dir si voglia, era – e a rigor di filologia ancora potrebbe e dovrebbe essere – il “territorio di caccia” ideale per interpreti in grado di farsi valere mediante le armi dello stile rossiniano più autentico.
L’opera, al pari dell’Adelaide e del successivo Bianca e Falliero, è generalmente vista come un’involuzione rispetto alle opere serie del periodo napoletano. In realtà, trovandosi a comporre per realtà musicali e teatrali come Venezia, Roma e Milano, ritenute a torto o a ragione meno “evolute” rispetto alla scena napoletana, Rossini doveva giocoforza adottare un taglio più classico. In questo senso si possono spiegare la reintroduzione della canonica sinfonia d’apertura (Introduzione lenta, seguita da un Allegro in forma sonata priva di sviluppo) al posto del più libero preludio adottato a Napoli e l’uso di recitativi secchi in luogo di quelli a piena orchestra (il che permetteva inoltre di restituire al recitativo accompagnato l’antica funzione di segnalazione di una svolta o di un picco emotivo nella finzione scenica: vedi, nel primo atto di Eduardo, la scoperta da parte del Re dell’incognito nipotino).
Dopo la Sinfonia, in cui compare un crescendo che, in Ermione, si ascolta nella Gran scena della protagonista al secondo atto (lo stesso crescendo, per inciso, tornerà nel scena di Eduardo in carcere), l’opera si apre, sic et simpliciter, con l’Introduzione dell’Adelaide di Borgogna. Un brano di ampio respiro, che prevede, fra l’altro, una sortita piuttosto impegnativa per il soprano, portata a lanciarsi in impervie scalate all’acuto e a svettare su solisti, coro e orchestra con tutta la brillantezza e la penetrazione del soprano assoluto. Insomma con Cristina entra la primadonna rossiniana, non una Zerlinetta rivestita di abiti principeschi. Analoghi requisiti presenta la parte di Eduardo, la cui sortita avviene nientemeno che con il Rondò finale di Ottone dall’Adelaide (da cui proviene anche il Coro che introduce l’arrivo del generale svedese). A un cantabile spianato, in cui il musico ha da esibire soprattutto accento castigato e assoluta purezza di suono, a ribadire il carattere eroico e sognante del personaggio, segue la cabaletta, il cui virtuosismo (espressione dell’inquietudine del giovane al pensiero dell’infelicità di consorte e figlio) può e anzi deve essere accresciuto dall’interprete. La centralità della coppia clandestina è ribadita nel quadro successivo, ancora una volta derivato dall’Adelaide. Il Coro femminile introduce una Cavatina di Cristina che non è altro che la celeberrima "Occhi miei piangeste assai", sia pure ridotta alla sola prima sezione. Segue il Duetto degli sposi, in cui le voci procedono, nei passi melismatici, per terze parallele: seppur ridotto e semplificato rispetto a quanto si ascolta nell’Adelaide, il brano, delizioso, è un buon banco di prova per le doti canore e interpretative delle protagoniste.
Dopo un altro Coro ripreso dall’Adelaide, arriviamo all’assolo del tenore, che, come anticipato, ripropone la Gran scena di Pirro nel primo atto di Ermione. È con questa Aria tripartita, le cui tre sezioni esprimono rispettivamente lo sdegno, lo sconforto e l’ira del sovrano (parente stretto di Argirio e palese premonizione di Contareno), che la figura di Carlo, nel resto dell’opera alquanto marginale, assume una dimensione musicale di primo piano. Abbiamo già visto che l’aria fu a volte sostituita da altre, verosimilmente più abbordabili. Di certo soltanto l’ampiezza e il virtuosismo stellare che sono la sigla del più autentico baritenore rossiniano alla Nozzari possono restituire a questa pagina tutta la sua forza.
Il Finale primo (in cui Eduardo, nel tentativo di scagionare Cristina, provoca anche il proprio arresto oltre a quello della moglie) non è all’altezza delle pagine che lo precedono, non tanto per la qualità dell’invenzione melodica (il coro d’apertura proviene dal secondo atto di Ricciardo e Zoraide, mentre il concertato rielabora quello, bellissimo, che chiude il primo atto di Ermione), quanto per uno sviluppo piuttosto frettoloso degli spunti musicali adottati. I grandi finali d’atto concepiti per Napoli sono altra cosa.
Il secondo atto si apre, dopo due brevi Cori di buona fattura, in cui i cortigiani compiangono la sorte degli sventurati prigionieri, con l’Aria del sorbetto, affidata al principe di Scozia, Giacomo, anima nobile e sfortunato corteggiatore di Cristina. L’assoluta convenzionalità di testo e musica (di Pavesi, come già ricordato) è perfettamente adatta al personaggio e alla sua importanza nell’economia dell’opera.
Ben diverso è il caso del successivo Duetto fra Carlo e Cristina, che riprende il brano in cui, nel primo atto di Ermione, si confrontano la figlia di Menelao e il rampollo di Achille. Anche qui, come nell’Introduzione, il soprano ha da sostenere una scrittura fitta di ornamentazioni e che richiede un accento drammatico, se non tragico, anche per non sfigurare al cospetto del tenore e del coro.
Un Coro introduce la Scena di Eduardo in carcere. Dopo un intenso recitativo accompagnato, il contralto deve affrontare una cantilena di grande dolcezza (che è poi "Amata, l’amai", la prima parte della Grande scena di Ermione, e che pochi mesi dopo la prima di Eduardo sarebbe diventata, con le opportune trasformazioni, il cantabile “Elena! O tu che chiamo”, nella sortita di Malcolm Groeme) e una cabaletta che è nient’altro che "Ah! Come nascondere", dalla sortita di Oreste nella medesima Ermione. La scena sintetizza quindi le due facce del virtuosismo rossiniano, il cantabile spianato e la vertigine della coloratura, mentre l’intervento del coro rende ancora più solenne un brano che così fortemente richiama la futura scena di Falliero incatenato.
Anche Cristina ha diritto a una Gran scena di carcere, il cui modello evidente è quella di Amenaide nel secondo atto di Tancredi. Dopo un cupo preludio orchestrale, la principessa di Svezia affronta, al pari del marito, un drammatico recitativo accompagnato e un’aria bipartita: il cantabile proviene ancora una volta da Ermione (“Di’ che vedesti piangere”), mentre la cabaletta spinge il soprano a nuove, potenzialmente perigliose scalate all’acuto. La parte finale della scena scivola direttamente, con bella intuizione drammatica, nel Duettino degli sposi finalmente ricongiunti. Della bellissima frase “Ah nati inver noi siamo”, presa di peso dal Ricciardo, Stendhal fece per così dire il compendio e il simbolo dell’operazione di “riciclaggio” che sta alla base di Eduardo e Cristina, arrivando a sostenere che “l’idea sbrigativa che venne a Rossini per Venezia non era che l’estremizzazione del suo modo abituale di comporre”. Un giudizio invero un poco miope, benché assolutamente coerente con i rimproveri mossi dal Francese alla “pigrizia” e ai “plagi” del Pesarese. Rimproveri in cui, conoscendo la penna che li vergava, è facile cogliere più rispetto e desiderio di emulazione che autentico sdegno.
Dopo un Interludio orchestrale che descrive la battaglia vinta dalle truppe svedesi guidate dal liberato Eduardo, l’opera volge a conclusione con un grazioso Duettino fra Carlo e il finalmente riconosciuto genero – uno dei pochi numeri espressamente composti per l’opera – e con il Finale II, un brano “a couplet” che aveva già concluso Ricciardo e Zoraide.
La fortuna di Eduardo e Cristina fu breve ma intensa. Nei due anni successivi alla prima Rosa Morandi riprese il titolo a Torino, Reggio Emilia, Lucca e Ravenna, oltre che a Venezia. Elisabetta Manfredini-Guarmani, destinataria di tanti ruoli rossiniani per soprano assoluto (ricordiamo che fu la prima Amenaide, Amira nel Ciro, Aldimira nel Sigismondo e naturalmente Adelaide di Borgogna), cantò entrambi i ruoli: fu dapprima Eduardo, a Bologna nel 1820, e Cristina due anni dopo, a Modena e Perugia. Il ruolo di Eduardo fu cantato, fra le altre, da tre illustri mezzosoprani rossiniani: Maria Marcolini (Bergamo 1821), Rosa Mariani (Trieste 1822) e Giuditta Pasta (Torino 1821). Re Carlo fu interpretato da Nicola Tacchinardi (celebrato Otello), Claudio Bonoldi (primo Contareno, Ladislao nel Sigismondo e Giocondo nella Pietra di paragone) e soprattutto Domenico Donzelli, che sostenne il ruolo a Reggio Emilia, Vicenza, Ravenna e Cremona. Insomma il centone disprezzato (almeno a parole) da Stendhal esercitava una notevole capacità di attrazione sui divi rossiniani, almeno quelli più autentici. Non a caso, dopo il 1828, il titolo cadde in oblio ed è stato in epoca moderna riproposto solamente nel 1997 dal Festival rossiniano di Bad Wildbad, che pare essersi fatto un punto d’onore del colmare le lacune del più celebre e celebrato omologo pesarese. A volte non solo nella scelta dei titoli.
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