Quando si pensa alla Donizetti renaissance, fenomeno di novità e punta nei cartelloni italiani dalla fine degli anni ’50, la memoria corre a spettacoli come la Bolena scaligera o alla riproposizione della trilogia Tudor. Trilogia, che in questi anni si tenta, in vario modo, di riproporre, ma certo con minore necessità e qualità della precedente.
Eppure la sopravvivenza nei cartelloni italiani di titoli donizettiani, che non fossero Lucia, Elisir e don Pasquale fu dal 1870 affidata a titoli diversi da quelli della trilogia, spesso scelti da qualche divo in vena di nostalgica archeologia. Maria di Rohan rimase in repertorio sin tanto che fu in carriera “il divo” Mattia Battistini, Poliuto perché prediletto dai cosiddetti tenori di forza quali Francesco Tamagno, Antonio Paoli e Giacomo Lauri-Volpi.
Ma più di tutti, cronologie alla mano, la sopravvivenza delle opere di Donizetti è legata alle rappresentazioni di Lucrezia Borgia.
La Borgia comparve, persino al Met nel 1904 con due divi quali Enrico Caruso ed Antonio Scotti e la debuttante Maria de Marchi. La debuttante ed il titolo, però, non incontrarono i favori del pubblico. Una sola recita costituisce la inconfutabile dimostrazione. E siccome né la Caballe né la Sutherland hanno avuto l’opportunità di vestire i panni della Borgia nel massimo teatro americano, questa toccherà, forse, a Reneé Fleming, che vanta un contrastato approccio al personaggio, scelto per il debutto in Scala. Siccome la Fleming è ritenuta oltreoceano il soprano da primo ottocento credo che la Borgia avrà, prima o poi, il dovuto riscatto americano nel massimo teatro americano.
Proprio alla prima di quella Borgia, che fu una “serata calda” un loggionista scaligera di lunghissimo corso, dopo un primo atto, che prometteva solo un solenne fiasco, osservò che la Borgia “puoi farla come vuoi, ossia tragica come la Gencer, elegiaca come la Caballé, virtuosistica come la Sutherland ”.
Sono semplificazioni, ma colgono nel segno e rivelano i motivi della larghissima diffusione nell’800 e della sopravvivenza sino al definitivo reingresso nel repertorio dal 1950 in poi.
La prima Lucrezia fu Henriette Meric Lalande, soprano rossiniano convertito al nuovo repertorio, ma che ottenne le pagine più rossiniane come scrittura del Donizetti maturo. Rondò finale compreso che l’autore definiva un “cazzaccio”, ma che era e rimane negli irrinunciabili diritti di primadonna.
Per altro i diritti di primadonna, anch’essa rossininana e, quindi, poco avvezza alla vocalità spianata e spinta vennero esercitati nel 1840 da Giulia Grisi per la ripresa parigina.
La Grisi, il cui intervento sulle opere importava sempre un alleggerimento della vocalità ottenne l’acrobatica cabaletta “si voli il primo a cogliere” fu, soprattutto a Parigi e Londra, la Borgia di riferimento almeno sino agli anni ‘50 dell’800. E siccome la Grisi di preferenza praticava Borgia, Semiramide e Norma, fu, per quei pubblici, il prototipo del soprano tragico da opera italiana. Almeno sino al 1848 quando a Parigi approdò Marianna Barbieri-Nini proprio in Borgia, prediletta e per la vocalità e per il carattere e per l’opportunità, grata ad una donna notoriamente brutta, di indossare la maschera l’intero prologo. L’iconografia ottocentesca testimonia che Giulia Grisi, famosa anche per la bellezza, se la cavasse, invece, con un volatile velo nero.
Che versione della Borgia eseguisse la Barbieri Nini non lo sappiamo. Sappiamo, stando al repertorio, alla stesura 1848 del Macbeth, che fosse anche una cospicua virtuosa. Ma rispetto alla Grisi, ossia alla generazione precedente, era la potenza e la risonanza del registro basso, scuro e l’accento scandito a segnare la novità rispetto al recente passato.
In realtà era lo specchio dei tempi: la tradizione del canto d’agilità ancora di estrazione rossiniana andava estinguendosi e Lucrezia si adattava, meglio di altri personaggi, al nascente modello del soprano di forza.
Adattamento più facile e felice che per altre opere perché la parte reggeva drammaturgicamente priva dell’unico passo fiorito, non solo, ma la scrittura tendenzialmente centrale era molto in linea con quelle dei soprani, che andavano inserendo nel repertorio le parti del grand- opera o del tardo Verdi.
Basta pensare che due Borgie famose della seconda metà dell’ 800 furono Teresa Titjens e Teresa Stolz.
Al novero dei soprani drammatici vanno ascritte le prime documentazioni fonografiche del ruolo, limitate ai brani solistici ovvero sortita ed all’andante del finale.
Un vero inconeabulo risale al 1903 cantato da Elena Theodorini voce ambigua, che esibisce, oltre ad un cospicuo e per il nostro gusto ostentato registro grave, libertà di tempi che oggi sarebbero censurate. Nel caso di specie il rallentanto prima e l’accellarendo, poi, su “il veleno a prevenire” hanno una carica drammatica estranea alle esecuzioni attuali. Dello stesso livello, con un uso molto marcato del registro di petto la registrazione di Ines de Frate.
Vale la pena di rilevare come nei primi venti anni del secolo scorso le libertà di esecuzione erano la regola e non l’eccezione. In campo tenorile bastino quelle di Fernando De Lucia e Checco Marconi. Quest’ultimo specialista del ruolo di Gennaro, realizza uno dei “Di pescatori ignobile” più affascinante, una sorta di paradigma della vocalità e del gusto tenori pre carusiano. Non per nulla l’altra esemplare realizzazione della cavatina di Gennaro perviene ad Alessandro Bonci. Il rivale di Caruso.
Ad una esecuzione più moderna si attennero Ester Mazzoleni e Giannina Russ.
La Mazzoleni fu partner di Gigli al debutto (Torino 1919) nel ruolo. Interessante la corrispondenza fra il tenore ed il direttore d’orchestra ( Marinuzzi) circa la difficoltà del ruolo e la circospezione ed il rispetto con cui il repertorio antico venisse affrontato.
Peccato che non ci sia una registrazione, almeno della cavatina, di Gigli, a maggior ragione se si considera che lo stesso tenne in repertorio Lucrezia Borgia sino al 1935.
Nelle rappresentazioni romane (dicembre 1933) ed in quelle fiorentine (aprile 1933) la partner fu Giannina Arangi Lombardi, la più accreditata Lucrezia sino alle dive della Donizetti renaissance in grado di reggere, sia pure limitatamente ai brani registrati il confronto con il dopo Callas.
Un vero peccato che siano rimasti i soli brani solistici della Arangi Lombardi. Sarebbe interessante sentire come una cantante di grande ampiezza vocale, elegante, dalla dinamica sfumatissima, sempre misurata e, forse compassata, nell’accento risolvesse il finale del prologo, il duetto con don Alfonso ed il seguente terzetto, che richiedono cospicue doti interpretative per rendere la mutata situazione drammatica.
Scontato, con riferimento alla Arangi Lombardi, parlare di grande capacità tecnica, e quindi, facilità di canto, esecuzione elegante, dinamica sfumata.
Nel dopo guerra la Callas non vestì i panni di Lucrezia, siccome alla Scala nel 1951il title role era stato di Caterina Mancini. La registrazione del 1964 è quella di una cantante ormai esausta.
Le dive del “dopo Callas” fecero, invece, della Borgia un vero capo d’opera.
E lo fecero in maniera diversa fra loro; si pensi alla tensione drammatica della Gencer, per altro maestra anche nel canto sfumato ed alitato, al timbro assolutamente privilegiato, ai pianissimi librati nel teatro alla Scala ed alla raffigurazione spagnola e materna della Caballé, al virtuosismo ed alla perfezione vocale, intesa come mezzo espressivo e del satanismo e della grandezza tragica offerta da Joan Sutherland.
Davanti a queste realizzazioni il dopo è quanto meno parziale o riduttivo.
In primo luogo perché nessuno dei soprani, a partire da Katia Ricciarelli sino a Mariella Devia aveva od ha del personaggio il peso vocale e l’ampiezza, pervenendo comunque, dalle file de cosiddetti soprani angelicati, antitetici a Lucrezia, con evidente riduzione del personaggio perché la carenza di colore e peso vocale ha come logica conseguenza una Lucrezia privata di qualsivoglia tragicità.
Insomma la “donna venefica ed impura” pensata da Romani, Donizetti ispirati da Hugo, ridotta ad una trepida mamma, che nella migliore delle ipotesi canta bene con sfoggio di sovracuti e filature. Spesso più consoni a Lucia e Linda.
Gli ascolti
Prologo
Com'è bello quale incanto - Giannina Arangi-Lombardi, Joan Sutherland, Beverly Sills (Versione Grisi)
Ciel! Che vegg'io - Montserrat Caballè & Alain Vanzo
Gente appressa!...Maffio Orsini signora son io - Beverly Sills, Joan Sutherland, Montserrat Caballè
Atto I
Soli noi siamo - Leyla Gencer & Ruggero Raimondi
Guai se ti sfugge un moto...Infelice, il veleno bevesti - Joan Sutherland, Montserrat Caballè, Mariella Devia
Atto II
M'odi ah m'odi - Elena Theodorini, Ines de Frate, Charlotte von Seebok, Leyla Gencer
Era desso il figlio mio - Joan Sutherland, Leyla Gencer, Montserrat Caballè
lunedì 17 novembre 2008
Il mito della primadonna: Lucrezia Borgia
Pubblicato da Domenico Donzelli alle 12:26
Etichette: battistini, caballè, callas, caruso, devia, donizetti, gencer, gigli, grisi, lucrezia borgia, sutherland
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
0 commenti:
Posta un commento