giovedì 13 novembre 2008

La perdita della nobiltà, ossia la storia interpretativa del Requiem di Verdi


Spentisi oramai i riflettori sul mancato Requiem scaligero – vittima del consueto “teatrino” sindacale che puntuale ad ogni autunno imbastisce l’indegno spettacolo dei suoi ricatti, pretesti e ripicche – si può tornare a parlare del Requiem di Verdi. Opera questa, che si è avuto modo (e si avrà, sindacati permettendo) di ascoltare più volte nel corso della passata e prossima stagione musicale. Inutile e superfluo parlare qui diffusamente della storia del Requiem, della sua genesi e delle sue vicende: è un lavoro tra i più celebri del Maestro e che non nasconde più alcun mistero.
Composto nel 1874 per il primo anniversario della morte di Manzoni, esso testimonia il problematico rapporto di Verdi con la religione e con la trascendenza. Dalla rabbia alla rassegnazione, sino alla speranza della liberazione e all’ineluttabile certezza della fine. Una sorta di sfida dell’uomo con la morte, una battaglia dall’esito scontato e certo, ma combattuta con disperata ostinazione, in cui la sola via di salvezza appare essere il ricordo e la memoria, unico modo di “sopravvivere” alla morte stessa. Un approccio laico e profondamente umano, che rimanda più al Foscolo dei “Sepolcri” che al Manzoni della Provvidenza.
“E me che i tempi ed il desio d'onore/fan per diversa gente ir fuggitivo/me ad evocar gli eroi chiamin le Muse/del mortale pensiero animatrici./Siedon custodi de' sepolcri, e quando/il tempo con sue fredde ale vi spazza/fin le rovine, le Pimplèe fan lieti/di lor canto i deserti, e l'armonia/vince di mille secoli il silenzio.” (FOSCOLO, “Dei Sepolcri”, vv. 226-234)
Nessun mistero dunque, in un’opera che pone chiaramente i suoi riferimenti e i suoi intenti e che – pur nelle legittime e differenti sfumature interpretative – racchiude in sé una evidente cifra ideale. Tuttavia, a volte, è proprio ciò che appare più limpido e chiaro ad essere frainteso e misconosciuto. Già, perché nella lunga storia interpretativa del Requiem si è assistito ad un progressivo distaccarsi da ciò che la mano di Verdi ha vergato sul pentagramma nell’intento di pienamente evidenziare il proprio disegno estetico ed ideale. Non si tratta di libertà interpretativa, di personalità di visione, di differenze esecutive. Assolutamente no! Si tratta, purtroppo, dell’ignorare colpevolmente le indicazioni espressive (tantissime ed importantissime) che si leggono scritte sulla pagine della partitura. Si assiste, in buona sostanza, e soprattutto oggi, ad una rimozione completa di tutte quei segni che l’autore ha previsto, ad opera di interpreti che, probabilmente, fraintendono completamente l’estetica verdiana e ne fanno veicolo di effettacci grossolani nella rincorsa di facili applausi presso pubblici di “bocca buona”. Ecco quindi che il Requiem si trasforma in un carrozzone chiassoso e fragoroso, giocato solo sulla giustapposizione di forti e fortissimi, fragori di grancassa, ritmi indiavolati e tenori strillanti! Certo che se si pensa ad un’ondata sonora che deve investire le orecchie di chi ascolta, le tante indicazioni espressive di Verdi non possono che essere ignorate (e non succede solo al Requiem, ridotto oggi all’esplosione del Dies Irae, ma a tutti i lavori verdiani, in cui i tantissimi segni espressivi sono bellamente espunti). E cosa si perde con tali omissioni? Beh, si perde la nobiltà, la nobiltà verdiana, cifra necessaria e ineludibile di ciascun lavoro del Maestro. Nobiltà che dovrebbe essere considerata prima di qualsiasi altro aspetto da tutti gli esecutori. Se manca questa nobiltà, manca Verdi. Semplicemente si sbaglia. Non ci sono vie di mezzo. Detto così, però, il discorso rischia di risultare alquanto astratto e indefinito, ecco perché voglio portare un esempio concreto e immediatamente comprensibile. Prendiamo una delle pagine più straordinarie composte da Verdi: l’Ingemisco, per voce di tenore. Analizziamo cosa si trova scritto in partitura. Innanzitutto il tempo: Adagio Maestoso (lo stesso del Rex Tremendae e del Recordare). Un tempo quindi di ampio respiro, solenne, tranquillo, disteso. Il tenore entra con l’indicazione pp (molto piano quindi, poco più di un sussurro, non una cannonata), una serie di forcelle, poi, prescrivono un aumento di forza graduale e breve, in corrispondenza delle parole “rubet” e “supplicanti”, per poi spegnersi in un ppp su un lungo, lunghissimo “parce deus”. Con un senso evidente e voluto, quindi, di pace e penitenza. Al cambio di tonalità, con il cantabile vero e proprio, il tenore parte con il consueto pp e l’indicazione “dolce con calma” (il cantante quindi non dovrebbe strillare, ma dolcemente sussurrare) e dopo una brevissima forcella, la frase – sempre legata – va a spegnersi in un “dolcissimo morendo”, sino a sfumare nella pausa. Sempre piano con forcella a crescere e poi a diminuire riporta il tenore ad un ppdolcissimo” sulla parola “exaudisti”. Subito dopo attacca un ampio legato (da eseguire, quindi senza pause o respiri) e una frase che porta la voce sino al Si bemolle con una lunga forcella che accompagna l’ascesa del tenore, ma che subito si spegne in un pp dopo un difficile salto d’ottava. Si prosegue poi sempre piano con forcelle che diminuiscono in corrispondenza di “fac benigne” e crescono di intensità su “cremer igne” (che però non andrebbe strillato comunque, dato che il tremolo dei violini resta in pp). “Inter oves locum praesta” qui Verdi scrive “dolce”, non drammatico come si sente spesso, e accompagna la frase con numerosissime forcelle, a movimentarne la linea di canto. La stessa frase viene poi ripetuta sempre piano con una forcella sulla parola “statuens”. Ed ecco l’unico f del brano: “statuens” che porta il tenore ad un Sol tenuto e rinforzato per poi spegnersi “morendo”, così è scritto, “in parte dextra”. Siamo al finale: si parte in ppp e poi una forcella accompagna la voce in una rapida e scomoda ascesa sino al Si bemolle da legare al Mi conclusivo. Questo quello che Verdi ha scritto: un brano caratterizzato da mezze voci, dal respiro ampio, dal legato disteso e continuo, da una linea di canto morbida e delicata, nobile appunto, screziata di tanto in tanto da forti, ma mai fortissimi. Gli acuti, difficili e scomodi, sono sempre sfumati ed espressivi, non c’è alcuna ricerca di effetto strillato, di acuto teatrale, di puntatura. Tutto è piano o pianissimo, sussurrato, sottovoce, accennando. E il canto deve essere duttile e fermo, sereno, dolce. Del tutto diverso, invece, quello che spesso ci tocca ascoltare. Andiamo in ordine cronologico e partiamo da chi si sforza di seguire il dettato verdiano, senza sovrascritture o semplificazioni. Ovviamente molto dipende dal direttore e molto dal cantante – dal tenore in questo caso – e dalle sue capacità tecniche. Purtroppo, si osserverà facilmente, man mano che ci si avvicina all’oggi, che le esecuzioni si fanno approssimative, scorrette, brutte. Le dinamiche scritte da Verdi vengono via via ignorate sino a giungere agli odierni Requiem più adatti ad uno stadio di calcio che ad una sala da concerti.
Ma procediamo con ordine e iniziamo con Toscanini e Keilberth entrambe datati 1938, il tenore è Rosvaenge. Colpisce innanzitutto il fraseggio, ampio e nobile e l’incedere solenne, scolpito. In entrambe le incisioni è evidente la cura e l’attenzione ai segni espressivi previsti, alle legature, ai fiati, alle forcelle soprattutto. La voce è grande, ma perfettamente controllata, con dei Si bemolle acuti di potenza tellurica, ma mai sbracati. E dove richiesto essa si fa dolce e calda. Più sfumata e morbida con Toscanini, più solenne e “sacrale” con Keilberth, resta comunque sempre nobile e aristocratica, nella sua estrema compostezza e pulizia.
Procediamo con Gigli e Serafin nel 1940 e Di Stefano e De Sabata nel 1954. Due mondi diversi per sensibilità e stile, ma accomunati dall’accuratezza nel seguire le prescrizioni verdiane. La voce e l’interpretazione di Gigli colpisce innanzitutto per la grande dolcezza e umanità, i pianissimi che sembrano dipinti, gli splendidi “morendo” nella prima e seconda frase del cantabile, eseguiti come nessun altro dopo di lui, che sembrano perdersi dolcemente nell’assoluta bellezza di una musica che non pare scritta dall’uomo. Il fraseggio è accuratissimo (anche se qualche forcella e qualche legato non vengono eseguiti alla lettera). I Si bemolle sono sempre sicuri e facili. Di Stefano, quindici anni dopo, affronta la parte con un atteggiamento diverso, più vigoroso e corposo, caldo e scolpito. Mentre De Sabata impone tempi più ampi e solenni.
L’interpretazione di Reiner nel 1957 è invece caratterizzata da accenti più cupi, drammatici, ma al tempo stesso pieni di aristocratica spiritualità. Perfettamente aderente al disegno direttoriale è l’interpretazione di Bjorling, con cura estrema di fraseggio, legature (anche se non sempre eseguite come prescritto), forcelle. Il canto è nobile, fermo, dolce.
E’ poi la volta di Giulini, col Requiem inciso per la EMI nel 1961, con Gedda. E’ il mio preferito (per quanto possa valere). Semplicemente perfetto. Tutte le indicazioni verdiane sono seguite alla lettera, dai tempi alle agogiche, dai legati ai segni espressivi.
Veniamo a Pavarotti, prima alla Scala nel 1967 con Karajan (un’autentica meraviglia), poi Solti e infine Muti. La voce è sempre splendida e le indicazioni verdiane sono sempre seguite, anche se con Karajan è molto più attento che con Solti (che dà al Requiem un tono forse eccessivamente teatrale ed esteriore) o Muti (la cui interpretazione appare troppo drammatica, con tempi spesso “bersaglieri” e poca attenzione alla dolcezza). Pavarotti resta, inutile dirlo, splendido, solare, con acuti brillanti e grande sapienza nel fraseggio e nel legato.
Lo stesso invece non si può dire per Domingo, secondo me voce del tutto inadatta per il Requiem. Lo trovo sempre schiacciato e poco naturale, giocato più sull’effetto sornione che sul rispetto delle indicazioni espressive. Gli acuti sono come al solito sforzati e spesso brutti. Pessima l’edizione con Barenboim degli anni ’90, con un Ingemisco preso a velocità supersonica. Sciatto e sbrigativo. Deludente anche nell’edizione celebre, ma assai poco riuscita, diretta da Abbado.
Pure alcune riserve sull’edizione Karajan con Carreras, con un Ingemisco poco fedele e troppo drammatico.
Splendido invece Bergonzi, perfetto nel seguire le indicazioni della partitura.
Dagli anni ’80 in poi, però, inizia il progressivo distacco da quella nobiltà propria del Requiem e di Verdi in generale: tale degenerazione sfocerà poi nel completo fraintendimento dello stile verdiano a cui stiamo assistendo da almeno 15 anni. Dopo le prove non certo immacolate di Domingo, Carreras, Hadley, Araiza, Cole etc.., e tralasciando certi episodi che poco hanno a che fare con Verdi, come Bocelli/Gergiev, vorrei soffermarmi su tre edizioni in particolare, censurabili ciascuna per diversi aspetti.
Innanzitutto l’edizione diretta da Celibidache, incisa nel ’93: fin dall’inizio appare chiara la personalissima visione del direttore, con quella estrema dilatazione dei tempi senza però perdere tensione e concentrazione, che è cifra tipica delle sue interpretazioni. Peccato che in questo caso il lato vocale appaia assai trascurato, sia nella scelta dei cantanti che nella loro gestione. Celibidache, in buona sostanza, prescinde quasi totalmente dalle indicazioni verdiane, a favore di un suo disegno che mal si realizza. Il tenore è un Peter Dvorsky in enorme difficoltà negli acuti, che appaiono affaticati e tremolanti. Oltre a questo imprime al brano una piattezza sconsolante, ignora le forcelle, inserisce crescendi e fortissimi ove non previsti, rovinando ad esempio i “morendo” del cantabile. Un canto privo della dolcezza richiesta e perennemente affannato. La “perla” alla fine: un’orrenda pausa per prendere fiato tra “statuens” e “in parte dextra”, con lancio di uno sgangherato Si bemolle che resta per altro soffocato nella gola.
Altra edizione: il Requiem “filologico” di Gardiner, con orchestra on period instruments e diapason aggiustato. Tralascio ogni considerazione in merito all’esecuzione strumentale e alla presunta aderenza alla prassi d’epoca per concentrarmi sulle infelici scelte vocali, in particolare le voci maschili. Il tenore è Luca Canonici, dotato sì di un timbro gradevole, ma del tutto inadeguato a reggere la scrittura verdiana. La voce è troppo piccola e leggera (anche se artificiosamente scurita, con effetto sgradevole), da risultare spesso soffocata dalla già ridotta orchestra “d’epoca”, che non ha certo una potenza sonora soverchiante, immagino che con un’orchestra normale, sarebbe addirittura inudibile. Gli acuti sono faticosi, il Si bemolle osceno, il fraseggio è spesso affrettato. Anche qui, in barba alle premesse filologiche, le indicazioni verdiane vengono spesso ignorate.
Infine Sinopoli. C’è un termine americano che ben definisce questa sua direzione del Requiem: “boombastic”. E’ superficiale e fragorosa, inutilmente chiassosa . Il tenore, Botha, è assolutamente pessimo nel ruolo affrontato: pare ignorare il significato dell’indicazione pp, è perennemente sforzato, omette tutti i “morendo” e i “dolcissimo”, la voce è singhiozzante e sgangherata, la dinamica è completamente appiattita, i salti d’ottava sono sballati, i Si bemolle sono strillati, scomposti e di una bruttezza mai udita. Il tutto comunica una volgarità francamente indegna del grande direttore (oltre che insultante nei confronti della musica di Verdi).
Il resto è l’attualità. L’attualità dei tanti Requiem recenti che occupano tutta la scala di gradazioni che va dal sufficiente al mediocre e al pessimo. Tenori e soprani, mezzi e bassi, che di volta in volta ci sono stati annunciati come fenomeni, come gli “eredi” e i “continuatori”...e di chi? Direttori fracassoni, inclini all’effettaccio più esteriore, sicuri che basta “pestare” come ossessi sulle grancasse del Dies Irae per suscitare gli entusiasmi del pubblico. E infine proprio il pubblico, sempre meno interessato all’esecuzione, ma piuttosto al contesto, alla serata, ai nomi; e sempre più impreparato – perchè ormai disabituato alla nobiltà dello stile verdiano. Ecco, la nobiltà. Questa ormai sta sparendo nell’eseguire Verdi: tutto si fa triviale, strillato, parlato, la linea vocale si sporca, le indicazioni espressive restano ignorate. E la gente applaude, si spella le mani, fa la fila ai botteghini. Per Villazon, Alvarez, Cura e poi ci sarà Florez, prossimo al debutto verdiano, e altri ancora che si improvviseranno tenori verdiani (penso a Vargas). Il tutto con buona pace del Maestro e di ciò che ha scritto e che basterebbe saper leggere.
Scrisse Verdi ad Hans von Bulow il 14 aprile del 1892: “Felici voi che siete figli di Bach! E noi? Noi pure, figli di Palestrina, avevamo un giorno una scuola grande...e nostra! Ora s’è fatta bastarda, e minaccia rovina. Se potessimo tornare da capo!” Vero...se potessimo tornare da capo, tornare a quella nobiltà che già Verdi sentiva che si stava perdendo nel 1892! Figuriamoci ora. Tornare da capo, ma siamo ancora in tempo?

0 commenti: