Filippo II incarna i due poli fondamentali entro cui si svolge l’intero teatro verdiano. Essi rappresentano, cioè, lo snodo principale del suo orizzonte estetico ed etico, e ricorrono – seppure con sfumature e gradi di intensità differenti, uniti o giustapposti ad altri, meramente accessori – in quasi tutti i titoli del suo catalogo: il rapporto tra Stato e Religione ed il conflitto tra Potere (inteso come aspetto politico e pubblico dell’essere umano, con i doveri e le ragioni che esso comporta) e affetti privati. Proprio in Don Carlo, anzi, e nella successiva Aida, questi elementi troveranno la loro più compiuta rappresentazione e approfondita analisi.
Alla base della caratterizzazione del personaggio vi è, da una parte, la ricerca di verosimiglianza storica e dall’altra, l’opera di Schiller, a cui Verdi resterà il più possibile fedele – spesso il libretto, infatti, è parafrasi del dramma originale e, conoscendo l’attenzione (rectius l’ossessione) dell’autore verso il lavoro del librettista, le continue richieste di modifica e l’assillante labor limae sui versi, è facile credere che tale fedeltà sia stata pretesa da Verdi stesso nelle lunghe fasi di gestazione del testo poetico. Tuttavia ben più che in Schiller, il Don Carlo verdiano approfondisce la figura del Re di Spagna e lo pone al centro dell’azione tragica, dei conflitti ideali, dei drammi affettivi, delle delusioni private, arricchendolo però di un tratto d’umanità che emerge, seppure solo a tratti, dalla severa e aristocratica dignità regale, creando così uno dei personaggi più complessi, moderni e ambigui della storia del melodramma.
Il Filippo storico diviene sovrano verso i 30 anni (in età avanzata, dunque, per i canoni dell’epoca) in seguito all’abdicazione del padre, Carlo V, il quale, però, sino alla morte – di due anni successiva – eserciterà ancora una notevole influenza sul governo del figlio. L’ingombrante figura paterna, dunque, che negli anni precedenti era stato assoluto protagonista del quadro politico europeo, continuerà a stendersi come un’ombra sul lungo regno di Filippo, che ne rimase a lungo schiacciato e soggiogato, nel continuo rapportarsi ad essa e nel senso di inadeguatezza che tale confronto necessariamente provocava. Il difficile rapporto col padre e con la sua memoria ebbe come conseguenza, oltre che un’insanabile incomprensione con il figlio, una reazione di chiusura che contribuì a diffondere l’immagine di sovrano debole e indeciso, sospettoso e introverso, assai stridente rispetto all’attivismo di Carlo V. In effetti Filippo II sale al trono in un momento cruciale per la Spagna – allora all’apice del suo splendore e nella sua massima espansione imperiale grazie alle conquiste del Nuovo Mondo – trovandosi a governare un vastissimo territorio (il più vasto dell’epoca) e a difenderne il prestigio: più con l’animo del burocrate che con la spada del guerriero. Egli si trovò poi, suo malgrado, a dover gestire la più grande sconfitta militare spagnola (la disfatta dell’Invincibile Armata), ad affrontare le ribellioni interne dei cosiddetti moriscos e a fronteggiare la rivolta delle Fiandre (soffocata nel sangue dal Duca d’Alba, ma mai realmente domata, tanto che ben presto condusse alla completa indipendenza della provincia). Queste vicende mancavano dell’eroismo dell’epopea paterna e diffusero una cupa e triste fama di feroce tiranno sul sovrano spagnolo – in parte certamente esagerata dalla pubblicistica filo fiamminga. In realtà Filippo fu uomo d’ordine e di legalità, difensore intransigente del Cattolicesimo tridentino e della Chiesa di Roma contro l’imperversare della Riforma (con cui il padre era dovuto, invece, scendere a patti), servendosi di ogni mezzo, anche i più cruenti – tra cui, ovviamente, l’Inquisizione – per combattere la ribellione, l’eresia e il disordine sociale.
Un monarca grigio e freddo, forse, ma animato da un estremo senso del dovere (verso la Religione e lo Stato) e da un profondo misticismo, che lo porterà a costruire un monastero/reggia – l’Escurial – sulle colline appena sopra Madrid, dove ritirarsi dalle fatiche del regno. Amministratore maniacale delle funzioni di governo (sempre inteso come missione o servizio, mai come privilegio), accentrò su di sé tutti i poteri, e, sospettoso nei confronti di chiunque e dei suoi funzionari in particolar modo, presiedette a tutti i consigli (finanza, guerra, affari interni, Inquisizione) e costruì una burocrazia tanto macchinosa (fatta di controlli reciproci, basati sulla sfiducia) quanto inefficiente. Malato negli ultimi dieci anni di vita, attraverso scelte miopi e sbagliate portò la Spagna alla bancarotta (neppure l’oro delle colonie americane bastò a ripianare i debiti) e alla perdita del suo prestigio. Al disastro economico accompagnò quello sociale, lasciando di fatto mano libera alle repressioni della Controriforma. Alla sua morte lasciò un paese arretrato e in declino, e ormai ai margini della grande politica europea.
Gli aspetti storici compaiono anche in Verdi e in Schiller, ma di sfuggita, privilegiando le idealità che dalle vicende storiche emergono. Filippo II appare sì come uomo d’ordine, ma anche di conflitto, e in conflitto: il rapporto problematico con il figlio (che richiama quello difficile e frustrante con il padre Carlo) ispirato al sospetto e alla diffidenza reciproca; il freddo, ma ossessivo rapporto con Elisabetta (sposata non per amore, ma per senso del dovere e che però vede come sua proprietà) che sarà causa di ulteriore frustrazione e sofferenza nel vedersi da lei “disprezzato”; il rapporto con la Chiesa dalla quale sembra cercare di emanciparsi, ma a cui dovrà chinare il capo, impotente e sottomesso; la volontà che a volte traspare in alcuni gesti, di uscire dalla rigidità dei suoi doveri, di confidare i suoi segreti più intimi, di fidarsi di qualcuno; la consapevolezza, infine, di essere solo a portare il peso della corona. Ecco, la solitudine del Re è la cifra fondamentale che definisce il personaggio di Schiller e Verdi. Ma mentre nel primo si sottolinea la contrapposizione degli ideali di libertà (impersonati da Posa) alla Ragion di Stato a cui Filippo tutto sacrifica, nel secondo un pessimismo velato ed un senso di generale impotenza pervade l’intera vicenda: in Verdi non ci sono vincitori, ma solo vittime del potere. Anche Filippo II. Soprattutto Filippo II. Non un personaggio “negativo” – il classico villain del melodramma italiano – ma un sovrano indurito dal grigiore del potere che rappresenta. Un uomo nobile, dagli alti valori e senso dell’onore, conscio dei doveri che lo Stato gli impone, ma pronto a sacrificare i suoi affetti (umani e naturali: amicizia, amore, pace) per garantire quell’ordine e quella legalità che la corona gli impone di difendere.
L’importanza e la centralità di Filippo per Verdi, si rivela anche dalle vicende delle successive revisioni dell’opera: nessun episodio che lo vede protagonista è mai stato cancellato dall’autore, anzi, ogni volta che ne ha avuto occasione, ha apportato modifiche (anche profonde – come il caso del duetto con Posa) per aderire maggiormente allo spirito del dramma di Schiller e alle proprie convinzioni etiche. L’unica eccezione è il compianto per la morte di Posa, ma ormai Verdi ne aveva riutilizzato la musica per il Lacrymosa del suo Requiem e non era concepibile, sul finire dell’800, una così smaccata ed evidente autocitazione. Per il resto, nelle varie redazioni, Filippo II assume sempre di più il rango di protagonista della vicenda. Egli, nella visione verdiana, è il motore del dramma, l’elemento di rottura che richiama alla realtà, all’ordine costituito. Colui che fa risvegliare i due “amanti impossibili” da quel sogno strano, così inconcepibile per la cruda realtà della Ragion di Stato. E’ Filippo che dopo avere, per un attimo, trovato un uomo nel deserto della sua corte, sarà costretto a sacrificarlo – sognatore ed idealista – alla difesa della legalità. Ogni volta che Filippo compare si assiste alla rottura di un equilibrio, o meglio, al riportare una situazione di squilibrio (l’irrazionalità del sogno, dell’utopia, dell’abbandono al sentimento) all’ordine e alla gerarchia stabiliti dalle leggi divine e umane, che non ammettono deroghe e debolezze.
La prima volta che compare è muto: una marcia, al termine della prima scena dell’atto I, ne disegna il passaggio con la Regina al fianco. La musica solenne e grave ci fa subito penetrare nei recessi più profondi della dignità regale: passa il Re e sale una tensione silenziosa e imbarazzata in cui l’impotente avventatezza di Don Carlo soccombe. E sembra di vedere gli occhi di Filippo, pieni di sospetto e ansiosi di cogliere in fallo l’Infante ed Elisabetta, traditi magari da un incrocio di sguardi. La seconda volta è nella scena seconda, “Il Re”, annuncia all’improvviso Tebaldo: irrompe Filippo e all’atmosfera svagata e leggera degli ozi spensierati o dei malinconici ricordi, si sostituisce la rigida affermazione dell’ordine, “Perché sola la Regina?”, nonostante una legge che impone la presenza costante di una dama di compagnia (che pagherà al prezzo dell’esilio la sua “violazione”) accanto a Elisabetta.
Segue il duetto con Posa: Verdi vi lavorò ad ogni revisione dell’opera, tanto che si possono contare sino a 4 versioni differenti. La prima scrittura del 1866 (prima dei tagli) in cui è presente l’esplicita confidenza (un pò goffa e prosaica a dire il vero) riguardante i sospetti di infedeltà della moglie e di tradimento del figlio, e che per linguaggio musicale rinvia ancora alle strutture tipiche del melodramma romantico, ai duetti basso/baritono della tradizione donizettiana, al cui interno sono ravvisabili i momenti del recitativo, del cantabile, della cabaletta, unite alla pomposità dell’opera francese. La redazione del 1867, che opera alcuni tagli (maldestri e poco coerenti), dovuti esclusivamente a motivi contingenti, ma che ricalca sostanzialmente la prima scrittura. La versione del 1872 (curata da Verdi stesso per l’esecuzione di Napoli), che lo sfronda degli elementi tipici del grand opéra francese (l’andamento di marcia e l’orchestrazione sovrabbondante e pompieristica) e che ne rivede la struttura musicale (oltre al testo del libretto, assai più vicino a Schiller): Verdi aggiusta il cantabile successivo alla risposta di Filippo all’appello di Posa, e da qui sino alla fine tutto è composto ex novo. Recupera la confessione dei sospetti verso moglie e figlio, ma stavolta la rende degna di un Re. In generale la revisione rivela un compositore più maturo (già aveva alle spalle Aida) e che ha imboccato la strada di un nuovo linguaggio espressivo. Ma Verdi ancora non è soddisfatto, troppe sono le incrostazioni grand’operistiche, ormai lontane dall’estetica dell’autore. Con la revisione del 1884 (e 1886) il duetto assume le forme che conosciamo oggi nella sua redazione definitiva: la complessità del carattere di Filippo emerge pienamente. La chiusura iniziale, la difesa dell’ordine e della pace che quell’ordine garantisce ai sudditi fedeli, l’inattesa confidenza con Posa, l’implicita richiesta di aiuto e la messa in guardia dall’Inquisizione. La struttura musicale è riscritta in un serrato e teso dialogo drammatico, senza interruzioni e formule chiuse. L’orchestra traduce i conflitti interiori. L’uomo d’ordine si rivela ancora nella scena dell’autodafè: Filippo, immobile nella sua sontuosa regalità, allontana i deputati fiamminghi perchè infedeli, a Dio e al Re (in un’identificazione del potere civile e religioso che viene irrimediabilmente perso nella versione italiana, che traduce con infidi). All’inizio dell’atto III il grande monologo e il duetto con l’Inquisitore – momento centrale e snodo del dramma (su cui varrà la pena soffermarsi in modo più approfondito), daranno la misura completa dell’uomo e ne riveleranno dignità, nobiltà e rassegnazione. A seguire il duetto con la Regina che chiede giustizia e lo scoppio d’ira del Re (che denota debolezza: chi manca d’autorità trascende nel furore). Filippo sembra ormai impotente davanti al destino. Alla morte di Posa (fatto uccidere, suo malgrado, per esplicita richiesta dell’Inquisizione) vi è solo un gesto di rimorso sconsolato, ma è solo un attimo di incertezza: un riaffiorare di sentimenti e affetti privati che non può permettersi chi esercita il potere supremo.
Filippo ha una missione, un dovere: riportare l’ordine della legalità. Alla fine quando consegna il figlio e la moglie all’Inquisizione non gli resta che dire, senza compiacimento alcuno, “Il dover mio farò”: in questa frase c’è tutta l’anima del Re. Anche a costo di eliminare gli affetti più cari, il suo dovere è il sacrificio per lo Stato. Momento cruciale, dicevo, per penetrare la psicologia di Filippo II, è il grande monologo dell’atto III. Si apre con un lungo Preludio in cui emerge la voce del violoncello (tradizionalmente affidato a strumento solista, ma nel manoscritto destinato all’intera fila), a cui si sostituisce il canto di Filippo, solo sul tremolo degli archi, trasognato, destandosi da un sonno confuso, riflettendo sulla sua solitudine e sulla mancanza di amore. Una volta destato il Re mostra tutta la consapevolezza del suo ruolo e del suo destino: morire da solo, così come ha vissuto, lontano e inaccessibile, avvolto nel manto regale e con la corona sul capo, nel buio della tomba. E nel cantabile Verdi ci mostra la triste nobiltà del sovrano, la sua impotenza e la sua rassegnazione. Per un attimo cede al desiderio che il potere regale gli potesse dare il potere di entrare nel cuore delle persone, di rapportarsi umanamente ad esse, ma è troppo tardi: il Re non ha amici o confidenti, non ha amore o affetti. Ha solo doveri e responsabilità verso la Patria e verso Dio. A interrompere le amare riflessioni di Filippo arriva l’Inquisitore, che lo riporta alla realtà e alla contingenza. Non speri di sfuggire al suo destino e ai suoi obblighi, nè all’influenza della Chiesa! E la Chiesa ottiene ciò che vuole. Al Re non resta che constatare la sua infinita debolezza, rassegnandosi a chinare il capo di fronte a un semplice prete, lui che governa sul mondo. Scena e duetto riuscirono a Verdi al primo colpo: essi infatti, non vennero mai toccati nelle successive redazioni, segno questo della cura che l’autore vi aveva profuso, sin dal 1866. Il duetto con l’Inquisitore, però, finì per essere la causa di uno dei tanti momenti di tensione nel cast impiegato all’Opéra (le difficoltà incontrate da Verdi nella formazione e nella gestione della compagnia di canto, sono paradigmatiche per comprendere il grado di macchinosa burocratizzazione che aveva ormai assunto il teatro francese), tanto che si rischiò di doverlo eliminare dalla partitura o di modificarlo radicalmente (come altri brani, sempre a causa dei capricci degli interpreti). Per il ruolo dell’Inquisitore, infatti, venne scritturato Jules-Bernard Belval il quale rimase alquanto infastidito per la brevità della sua parte (circoscritta, in pratica, al solo duetto), a suo dire non degna di un primo basso quale lui era. Accusò, pertanto, il teatro di aver violato il contratto che prevedeva una parte principale, abbandonò le prove e fece causa alla direzione. L’Opéra – abituata ai capricci dei suoi cantanti – dovette correre ai ripari: istituì una commissione presieduta da Ambroise Thomas, con l’incarico di stabilire se il ruolo dell’Inquisitore potesse essere considerato una parte principale. Verdi si rifiutò di sottoporre la sua musica a suddetto esame e minacciò di ritirare l’opera. Dall’impasse se ne uscì con la sostituzione di Belval con David (scritturato inizialmente per la parte del Monaco). Tutto ciò con l’inevitabile perdita di tempo, tanto deprecata da Verdi (ma tanto consueta per l’assurda burocrazia parigina). Le “tartarughe dell’Opéra” scrive l’autore, che “discutono ventiquattr’ore per decidere se Faure o la Sasse etc., devono alzare il dito o tutta la mano”.
Il ruolo di Filippo venne pensato da Verdi per il basso Louis-Henri Obin, che fu già il suo primo Procida. Obin, assunse, dopo la morte di Levasseur il ruolo di maggior basso francese e svolse la sua carriera nell’ambito del grand opéra: Meyerbeer, Halevy, Verdi (ma anche il Rossini del Moise). Si ricorda anche come grande Don Giovanni. La carriera e i ruoli interpretati, rivelano le caratteristiche vocali del cantante, e, di conseguenza, l’approccio al personaggio del tormentato Re di Spagna (così come disegnato da Verdi). Un basso nobile, controllato e misurato, fine dicitore e ancorato a certa tradizione belcantista e donizettiana, dal canto morbido e ricco di sfumature e di legato. Agli antipodi insomma di quell’orco stentoreo dalla rabbiosa ferocia a mala pena repressa di certi interpreti più vicini a noi (penso a Christoff, che ne fece un personaggio eccessivo e monolitico, quasi rozzo). La medesima linea è confermata dall’autore in occasione delle esecuzioni della versione riveduta nel 1884, affidando il ruolo ad Alessandro Silvestri, basso padovano la cui carriera si svolge tra Bellini, Donizetti, Rossini e Mozart (oltre al grand opéra francese). Del resto la tradizione esecutiva dell’opera (almeno sino a Christoff) resta in questo solco di nobiltà di fraseggio e misura. Dopo Silvestri, Francesco Navarini (l’Inquisitore del 1884), per arrivare poi a Nazzareno De Angelis, Tancredi Pasero, Alexander Kipnis, Ezio Pinza, Nicola Rossi Lemeni, Cesare Siepi (ruolo con cui debuttò al Met). Tutti accomunati dalla morbidezza del fraseggio, dal perfetto dominio del legato, dalla nobiltà dell’accento e dalla duttilità della voce. Con Boris Christoff prima e Nicolai Ghaiurov poi (che per motivi anagrafici sono gli interpreti di cui abbiamo maggiori testimonianze audio), le cose cominciano a cambiare: il personaggio perde in nobiltà e misura, viene incupito e reso con rabbia inespressa e povertà di sfumature. Scatti d’ira feroce e interpretazione sopra le righe (soprattutto del primo), completano l’“involgarimento” del sovrano spagnolo: il canto si fa perennemente stentoreo e risolto in un declamato continuo che pare intagliato nella pietra, poco generoso con la lirica malinconia di certi momenti (in cui dovrebbe emergere l’amara consapevolezza del Re), e assai monotono (soprattutto se privo dell’apparato visivo che, nel caso di Christoff in particolare, era assai d’effetto e faceva passare in secondo piano certe durezze vocali). Una sorta di Boris verdiano, insomma, che stride con il personaggio e con la sua rappresentazione musicale – siccome disegnata dall’autore. L’ultimo Filippo degno di nota resta Ruggero Raimondi che, con alterne fortune, cercherà di riportarlo all’autentica e originaria misura interpretativa. Le difficoltà vocali del ruolo risiedono tutte o quasi nella straordinaria varietà dei segni d’espressione, disseminati da Verdi lungo la partitura: mezze voci, piani, pianissimi, forcelle, legature il cui rispetto è necessario per rendere quel canto aristocratico con cui l’autore dipinge il Re. Senza bisogno di caricare, di aggiungere, di forzare. E’ già tutto nella partitura: una vera e propria regia sonora calibrata alla perfezione da Verdi, equilibrata e finalizzata a fare di Filippo il nobile sovrano turbato e solo, al cui interno si scontrano affetti e Ragion di Stato, ma al cui esterno nulla traspare, se non velatamente, come un’increspatura o un’ombra sfuggente. Ecco perchè una interpretazione autentica e volta a restituire Filippo alla sua vera dimensione non può prescindere da quei segni espressivi. Ed ecco perchè l’analisi e il confronto delle tante esecuzioni del ruolo, dal rispetto di quei segni devono partire. Utilissimo quindi è ripercorrere, almeno sommariamente e con partitura alla mano, alcune tra le interpretazioni storiche che più si avvicinano per gusto, tecnica e stile alla originale concezione verdiana. E paradigma di ogni interpretazione di Filippo non può che essere il monologo dell’atto III.
L’ampio Preludio orchestrale si apre su di un andante sostenuto, dove emerge la voce dei violoncelli (tradizionalmente, però, trasformato in un suggestivo assolo) in una serie di scale/arpeggi ascendenti e discendenti riccamente movimentata con forcelle, legature e alternanza di p e f, che introducono il Cantabile (la partitura impone un cantando allo strumento) malinconico e morbido sino al crescendo finale e al tremolo in pianissimo su cui si inserisce la voce di Filippo, come trasognato, segna la partitura, in un piano che va a smorzarsi ulteriormente sul finire della frase, sopra gli archi con sordina. Il recitativo successivo – in cui il sovrano si risveglia dal torpore meditabondo – è ancora giocato sul piano, anche se si indica più animato, sino allo sfociare nel cantabile vero e proprio “Dormirò sol”. Andante mosso, piano, col canto: così scrive Verdi. Ampie legature accompagnano la linea vocale, screziate da qualche veloce forcella. Il tessuto orchestrale fin qui è molto denso e cupo (con i colori scuri dei fagotti e dei corni, e la voce stridente e ossessiva dell’oboe) quasi a raffigurare l’opprimente gravosità dei pensieri di Filippo. Il crescendo dei violini conduce ad un forte corrispondente alle parole “Ah se il serto regale a me desse il poter di leggere nei cor”, l’orchestra si fa più brillante, parallelamente al montare delle speranze del Re, ma improvvisamente ritorna il sospetto, si ritorna al tempo primo, dallo stringato della sezione: a mezza voce, pianissimo, il tradimento del figlio e della moglie, sostenuto dalle sestine dei soli contrabbassi. E di nuovo l’amara consapevolezza “Dormirò sol, nel manto mio regal”, piano, con brevi forcelle sino al diminuendo finale. “Ella giammai m’amò”, ripete Filippo, interrompendo con un lungo silenzio (segnato in partitura) il risorgere delle sue speranze: ancora piano, poi un crescendo sino al forte che porta al Mi acuto sostenuto dal vibrante tremolo degli archi tutti e poi ancora, diminuendo, la voce si spegne, rallentando mentre il Re ricade nella meditazione. Questa varietà di segni d’espressione corrisponde ad una precisa visione, una vera regia (dicevo) che fornisce tutte le indicazioni necessarie per rendere al meglio il personaggio. Solo sulla base di queste si può costruire l’interpretazione, che non deve esaurirsi certo nella pedissequa ripetizione della pagina scritta, ma che da essa non può e non deve prescindere. Pena la forzatura. Ascoltando l’interpretazione di Kipnis, Pinza (caldo e morbido, imperioso, ma mai stentoreo, con voce piena e rotonda), De Angelis (più autorevole e severo, ma sempre misurato: dal legato perfetto e dalla linea regale), Pasero (intimista e morbidissimo, con il gusto di scandire e dare importanza ad ogni singola parola), si percepisce chiaramente la nobile sofferenza di Filippo II, così come l’autore la intende. Del resto non si allontanano molto dal Filippo di Pol Plançon che, nato nel 1851 (parte quindi di quella medesima civiltà musicale in cui operava lo stesso Verdi) e maturato nel secolo XIX in quanto a tecnica e stile (suo primo maestro di canto fu proprio Gilbert-Louis Duprez), cesella la figura del monarca spagnolo, lasciando intendere ogni singola sfumatura che quei segni d’espressione lascia suggerire. Se si passa a Christoff, invece, si avverte un cambio di stile, un impoverimento di sfumature e dinamiche, che rende il tutto più prosaico, legnoso, stentoreo: giocato solo sul declamato privo di sfumature (orribili poi, certi eccessi, come i singhiozzi di pianto al termine del monologo, indegni di un sovrano e del buon gusto). Stesso discorso per la voce torrenziale di Ghiauruv: impressionante certo per volume e autorità, ma insensibile a rendere la complessità della scrittura verdiana. Raimondi invece fa un passo indietro, mostrando le debolezze del sovrano, con voce sempre morbida e ricca di sfumature (e proprio questo aspetto – da alcuni critici scambiato per mollezza – gli verrà imputato: certo pareva inconsueto a chi nelle orecchie aveva anni ed anni di Filippi stentorei e scolpiti nella pietra). Degli interpreti più recenti nessuno ha saputo emergere in modo particolare: né l’intellettualistico Van Dam, né l’appannato Furlanetto, né il debole Ramey (un Filippo troppo “piccolo” e grigio il suo), né Lloyd, né Scandiuzzi. Nessuno di questi ha saputo lasciare un’impronta stilistica ed interpretativa che potesse reggere il confronto con i cantanti storici del ruolo. Personaggio chiave, dunque, dell’opera di Verdi ed in generale massima personificazione delle sue concezioni estetiche e morali, intorno a lui è costruita la trama del Don Carlo, tanto da poter tranquillamente affermare che il vero protagonista sia lui, più dell’imbelle Infante o della frigida Regina. Ruolo centrale che esemplifica, nella maniacale cura dei segni d’espressione, la nobiltà del canto verdiano (qui legata ad una rassegnata consapevolezza di essere nulla di fronte al destino e al dovere). Un sovrano che è anche uomo, ma che non può permettersi di cedere alle umane debolezze. E tutto questo deve necessariamente trasparire dal canto. Insomma per interpretare Filippo II c’è bisogno di un Re, e purtroppo il trono è ancora vacante...
Gli ascolti - Don Carlo
Atto IV: Ella giammai m'amò...Dormirò sol nel manto mio regal
- Boris Christoff (1950)
- Nazzareno de Angelis (1927)
- Alexander Kipnis (1936)
- Tancredi Pasero (1935)
- Ezio Pinza (1927)
- Pol Plançon (1907)
- Cesare Siepi (1950)
Alla base della caratterizzazione del personaggio vi è, da una parte, la ricerca di verosimiglianza storica e dall’altra, l’opera di Schiller, a cui Verdi resterà il più possibile fedele – spesso il libretto, infatti, è parafrasi del dramma originale e, conoscendo l’attenzione (rectius l’ossessione) dell’autore verso il lavoro del librettista, le continue richieste di modifica e l’assillante labor limae sui versi, è facile credere che tale fedeltà sia stata pretesa da Verdi stesso nelle lunghe fasi di gestazione del testo poetico. Tuttavia ben più che in Schiller, il Don Carlo verdiano approfondisce la figura del Re di Spagna e lo pone al centro dell’azione tragica, dei conflitti ideali, dei drammi affettivi, delle delusioni private, arricchendolo però di un tratto d’umanità che emerge, seppure solo a tratti, dalla severa e aristocratica dignità regale, creando così uno dei personaggi più complessi, moderni e ambigui della storia del melodramma.
Il Filippo storico diviene sovrano verso i 30 anni (in età avanzata, dunque, per i canoni dell’epoca) in seguito all’abdicazione del padre, Carlo V, il quale, però, sino alla morte – di due anni successiva – eserciterà ancora una notevole influenza sul governo del figlio. L’ingombrante figura paterna, dunque, che negli anni precedenti era stato assoluto protagonista del quadro politico europeo, continuerà a stendersi come un’ombra sul lungo regno di Filippo, che ne rimase a lungo schiacciato e soggiogato, nel continuo rapportarsi ad essa e nel senso di inadeguatezza che tale confronto necessariamente provocava. Il difficile rapporto col padre e con la sua memoria ebbe come conseguenza, oltre che un’insanabile incomprensione con il figlio, una reazione di chiusura che contribuì a diffondere l’immagine di sovrano debole e indeciso, sospettoso e introverso, assai stridente rispetto all’attivismo di Carlo V. In effetti Filippo II sale al trono in un momento cruciale per la Spagna – allora all’apice del suo splendore e nella sua massima espansione imperiale grazie alle conquiste del Nuovo Mondo – trovandosi a governare un vastissimo territorio (il più vasto dell’epoca) e a difenderne il prestigio: più con l’animo del burocrate che con la spada del guerriero. Egli si trovò poi, suo malgrado, a dover gestire la più grande sconfitta militare spagnola (la disfatta dell’Invincibile Armata), ad affrontare le ribellioni interne dei cosiddetti moriscos e a fronteggiare la rivolta delle Fiandre (soffocata nel sangue dal Duca d’Alba, ma mai realmente domata, tanto che ben presto condusse alla completa indipendenza della provincia). Queste vicende mancavano dell’eroismo dell’epopea paterna e diffusero una cupa e triste fama di feroce tiranno sul sovrano spagnolo – in parte certamente esagerata dalla pubblicistica filo fiamminga. In realtà Filippo fu uomo d’ordine e di legalità, difensore intransigente del Cattolicesimo tridentino e della Chiesa di Roma contro l’imperversare della Riforma (con cui il padre era dovuto, invece, scendere a patti), servendosi di ogni mezzo, anche i più cruenti – tra cui, ovviamente, l’Inquisizione – per combattere la ribellione, l’eresia e il disordine sociale.
Un monarca grigio e freddo, forse, ma animato da un estremo senso del dovere (verso la Religione e lo Stato) e da un profondo misticismo, che lo porterà a costruire un monastero/reggia – l’Escurial – sulle colline appena sopra Madrid, dove ritirarsi dalle fatiche del regno. Amministratore maniacale delle funzioni di governo (sempre inteso come missione o servizio, mai come privilegio), accentrò su di sé tutti i poteri, e, sospettoso nei confronti di chiunque e dei suoi funzionari in particolar modo, presiedette a tutti i consigli (finanza, guerra, affari interni, Inquisizione) e costruì una burocrazia tanto macchinosa (fatta di controlli reciproci, basati sulla sfiducia) quanto inefficiente. Malato negli ultimi dieci anni di vita, attraverso scelte miopi e sbagliate portò la Spagna alla bancarotta (neppure l’oro delle colonie americane bastò a ripianare i debiti) e alla perdita del suo prestigio. Al disastro economico accompagnò quello sociale, lasciando di fatto mano libera alle repressioni della Controriforma. Alla sua morte lasciò un paese arretrato e in declino, e ormai ai margini della grande politica europea.
Gli aspetti storici compaiono anche in Verdi e in Schiller, ma di sfuggita, privilegiando le idealità che dalle vicende storiche emergono. Filippo II appare sì come uomo d’ordine, ma anche di conflitto, e in conflitto: il rapporto problematico con il figlio (che richiama quello difficile e frustrante con il padre Carlo) ispirato al sospetto e alla diffidenza reciproca; il freddo, ma ossessivo rapporto con Elisabetta (sposata non per amore, ma per senso del dovere e che però vede come sua proprietà) che sarà causa di ulteriore frustrazione e sofferenza nel vedersi da lei “disprezzato”; il rapporto con la Chiesa dalla quale sembra cercare di emanciparsi, ma a cui dovrà chinare il capo, impotente e sottomesso; la volontà che a volte traspare in alcuni gesti, di uscire dalla rigidità dei suoi doveri, di confidare i suoi segreti più intimi, di fidarsi di qualcuno; la consapevolezza, infine, di essere solo a portare il peso della corona. Ecco, la solitudine del Re è la cifra fondamentale che definisce il personaggio di Schiller e Verdi. Ma mentre nel primo si sottolinea la contrapposizione degli ideali di libertà (impersonati da Posa) alla Ragion di Stato a cui Filippo tutto sacrifica, nel secondo un pessimismo velato ed un senso di generale impotenza pervade l’intera vicenda: in Verdi non ci sono vincitori, ma solo vittime del potere. Anche Filippo II. Soprattutto Filippo II. Non un personaggio “negativo” – il classico villain del melodramma italiano – ma un sovrano indurito dal grigiore del potere che rappresenta. Un uomo nobile, dagli alti valori e senso dell’onore, conscio dei doveri che lo Stato gli impone, ma pronto a sacrificare i suoi affetti (umani e naturali: amicizia, amore, pace) per garantire quell’ordine e quella legalità che la corona gli impone di difendere.
L’importanza e la centralità di Filippo per Verdi, si rivela anche dalle vicende delle successive revisioni dell’opera: nessun episodio che lo vede protagonista è mai stato cancellato dall’autore, anzi, ogni volta che ne ha avuto occasione, ha apportato modifiche (anche profonde – come il caso del duetto con Posa) per aderire maggiormente allo spirito del dramma di Schiller e alle proprie convinzioni etiche. L’unica eccezione è il compianto per la morte di Posa, ma ormai Verdi ne aveva riutilizzato la musica per il Lacrymosa del suo Requiem e non era concepibile, sul finire dell’800, una così smaccata ed evidente autocitazione. Per il resto, nelle varie redazioni, Filippo II assume sempre di più il rango di protagonista della vicenda. Egli, nella visione verdiana, è il motore del dramma, l’elemento di rottura che richiama alla realtà, all’ordine costituito. Colui che fa risvegliare i due “amanti impossibili” da quel sogno strano, così inconcepibile per la cruda realtà della Ragion di Stato. E’ Filippo che dopo avere, per un attimo, trovato un uomo nel deserto della sua corte, sarà costretto a sacrificarlo – sognatore ed idealista – alla difesa della legalità. Ogni volta che Filippo compare si assiste alla rottura di un equilibrio, o meglio, al riportare una situazione di squilibrio (l’irrazionalità del sogno, dell’utopia, dell’abbandono al sentimento) all’ordine e alla gerarchia stabiliti dalle leggi divine e umane, che non ammettono deroghe e debolezze.
La prima volta che compare è muto: una marcia, al termine della prima scena dell’atto I, ne disegna il passaggio con la Regina al fianco. La musica solenne e grave ci fa subito penetrare nei recessi più profondi della dignità regale: passa il Re e sale una tensione silenziosa e imbarazzata in cui l’impotente avventatezza di Don Carlo soccombe. E sembra di vedere gli occhi di Filippo, pieni di sospetto e ansiosi di cogliere in fallo l’Infante ed Elisabetta, traditi magari da un incrocio di sguardi. La seconda volta è nella scena seconda, “Il Re”, annuncia all’improvviso Tebaldo: irrompe Filippo e all’atmosfera svagata e leggera degli ozi spensierati o dei malinconici ricordi, si sostituisce la rigida affermazione dell’ordine, “Perché sola la Regina?”, nonostante una legge che impone la presenza costante di una dama di compagnia (che pagherà al prezzo dell’esilio la sua “violazione”) accanto a Elisabetta.
Segue il duetto con Posa: Verdi vi lavorò ad ogni revisione dell’opera, tanto che si possono contare sino a 4 versioni differenti. La prima scrittura del 1866 (prima dei tagli) in cui è presente l’esplicita confidenza (un pò goffa e prosaica a dire il vero) riguardante i sospetti di infedeltà della moglie e di tradimento del figlio, e che per linguaggio musicale rinvia ancora alle strutture tipiche del melodramma romantico, ai duetti basso/baritono della tradizione donizettiana, al cui interno sono ravvisabili i momenti del recitativo, del cantabile, della cabaletta, unite alla pomposità dell’opera francese. La redazione del 1867, che opera alcuni tagli (maldestri e poco coerenti), dovuti esclusivamente a motivi contingenti, ma che ricalca sostanzialmente la prima scrittura. La versione del 1872 (curata da Verdi stesso per l’esecuzione di Napoli), che lo sfronda degli elementi tipici del grand opéra francese (l’andamento di marcia e l’orchestrazione sovrabbondante e pompieristica) e che ne rivede la struttura musicale (oltre al testo del libretto, assai più vicino a Schiller): Verdi aggiusta il cantabile successivo alla risposta di Filippo all’appello di Posa, e da qui sino alla fine tutto è composto ex novo. Recupera la confessione dei sospetti verso moglie e figlio, ma stavolta la rende degna di un Re. In generale la revisione rivela un compositore più maturo (già aveva alle spalle Aida) e che ha imboccato la strada di un nuovo linguaggio espressivo. Ma Verdi ancora non è soddisfatto, troppe sono le incrostazioni grand’operistiche, ormai lontane dall’estetica dell’autore. Con la revisione del 1884 (e 1886) il duetto assume le forme che conosciamo oggi nella sua redazione definitiva: la complessità del carattere di Filippo emerge pienamente. La chiusura iniziale, la difesa dell’ordine e della pace che quell’ordine garantisce ai sudditi fedeli, l’inattesa confidenza con Posa, l’implicita richiesta di aiuto e la messa in guardia dall’Inquisizione. La struttura musicale è riscritta in un serrato e teso dialogo drammatico, senza interruzioni e formule chiuse. L’orchestra traduce i conflitti interiori. L’uomo d’ordine si rivela ancora nella scena dell’autodafè: Filippo, immobile nella sua sontuosa regalità, allontana i deputati fiamminghi perchè infedeli, a Dio e al Re (in un’identificazione del potere civile e religioso che viene irrimediabilmente perso nella versione italiana, che traduce con infidi). All’inizio dell’atto III il grande monologo e il duetto con l’Inquisitore – momento centrale e snodo del dramma (su cui varrà la pena soffermarsi in modo più approfondito), daranno la misura completa dell’uomo e ne riveleranno dignità, nobiltà e rassegnazione. A seguire il duetto con la Regina che chiede giustizia e lo scoppio d’ira del Re (che denota debolezza: chi manca d’autorità trascende nel furore). Filippo sembra ormai impotente davanti al destino. Alla morte di Posa (fatto uccidere, suo malgrado, per esplicita richiesta dell’Inquisizione) vi è solo un gesto di rimorso sconsolato, ma è solo un attimo di incertezza: un riaffiorare di sentimenti e affetti privati che non può permettersi chi esercita il potere supremo.
Filippo ha una missione, un dovere: riportare l’ordine della legalità. Alla fine quando consegna il figlio e la moglie all’Inquisizione non gli resta che dire, senza compiacimento alcuno, “Il dover mio farò”: in questa frase c’è tutta l’anima del Re. Anche a costo di eliminare gli affetti più cari, il suo dovere è il sacrificio per lo Stato. Momento cruciale, dicevo, per penetrare la psicologia di Filippo II, è il grande monologo dell’atto III. Si apre con un lungo Preludio in cui emerge la voce del violoncello (tradizionalmente affidato a strumento solista, ma nel manoscritto destinato all’intera fila), a cui si sostituisce il canto di Filippo, solo sul tremolo degli archi, trasognato, destandosi da un sonno confuso, riflettendo sulla sua solitudine e sulla mancanza di amore. Una volta destato il Re mostra tutta la consapevolezza del suo ruolo e del suo destino: morire da solo, così come ha vissuto, lontano e inaccessibile, avvolto nel manto regale e con la corona sul capo, nel buio della tomba. E nel cantabile Verdi ci mostra la triste nobiltà del sovrano, la sua impotenza e la sua rassegnazione. Per un attimo cede al desiderio che il potere regale gli potesse dare il potere di entrare nel cuore delle persone, di rapportarsi umanamente ad esse, ma è troppo tardi: il Re non ha amici o confidenti, non ha amore o affetti. Ha solo doveri e responsabilità verso la Patria e verso Dio. A interrompere le amare riflessioni di Filippo arriva l’Inquisitore, che lo riporta alla realtà e alla contingenza. Non speri di sfuggire al suo destino e ai suoi obblighi, nè all’influenza della Chiesa! E la Chiesa ottiene ciò che vuole. Al Re non resta che constatare la sua infinita debolezza, rassegnandosi a chinare il capo di fronte a un semplice prete, lui che governa sul mondo. Scena e duetto riuscirono a Verdi al primo colpo: essi infatti, non vennero mai toccati nelle successive redazioni, segno questo della cura che l’autore vi aveva profuso, sin dal 1866. Il duetto con l’Inquisitore, però, finì per essere la causa di uno dei tanti momenti di tensione nel cast impiegato all’Opéra (le difficoltà incontrate da Verdi nella formazione e nella gestione della compagnia di canto, sono paradigmatiche per comprendere il grado di macchinosa burocratizzazione che aveva ormai assunto il teatro francese), tanto che si rischiò di doverlo eliminare dalla partitura o di modificarlo radicalmente (come altri brani, sempre a causa dei capricci degli interpreti). Per il ruolo dell’Inquisitore, infatti, venne scritturato Jules-Bernard Belval il quale rimase alquanto infastidito per la brevità della sua parte (circoscritta, in pratica, al solo duetto), a suo dire non degna di un primo basso quale lui era. Accusò, pertanto, il teatro di aver violato il contratto che prevedeva una parte principale, abbandonò le prove e fece causa alla direzione. L’Opéra – abituata ai capricci dei suoi cantanti – dovette correre ai ripari: istituì una commissione presieduta da Ambroise Thomas, con l’incarico di stabilire se il ruolo dell’Inquisitore potesse essere considerato una parte principale. Verdi si rifiutò di sottoporre la sua musica a suddetto esame e minacciò di ritirare l’opera. Dall’impasse se ne uscì con la sostituzione di Belval con David (scritturato inizialmente per la parte del Monaco). Tutto ciò con l’inevitabile perdita di tempo, tanto deprecata da Verdi (ma tanto consueta per l’assurda burocrazia parigina). Le “tartarughe dell’Opéra” scrive l’autore, che “discutono ventiquattr’ore per decidere se Faure o la Sasse etc., devono alzare il dito o tutta la mano”.
Il ruolo di Filippo venne pensato da Verdi per il basso Louis-Henri Obin, che fu già il suo primo Procida. Obin, assunse, dopo la morte di Levasseur il ruolo di maggior basso francese e svolse la sua carriera nell’ambito del grand opéra: Meyerbeer, Halevy, Verdi (ma anche il Rossini del Moise). Si ricorda anche come grande Don Giovanni. La carriera e i ruoli interpretati, rivelano le caratteristiche vocali del cantante, e, di conseguenza, l’approccio al personaggio del tormentato Re di Spagna (così come disegnato da Verdi). Un basso nobile, controllato e misurato, fine dicitore e ancorato a certa tradizione belcantista e donizettiana, dal canto morbido e ricco di sfumature e di legato. Agli antipodi insomma di quell’orco stentoreo dalla rabbiosa ferocia a mala pena repressa di certi interpreti più vicini a noi (penso a Christoff, che ne fece un personaggio eccessivo e monolitico, quasi rozzo). La medesima linea è confermata dall’autore in occasione delle esecuzioni della versione riveduta nel 1884, affidando il ruolo ad Alessandro Silvestri, basso padovano la cui carriera si svolge tra Bellini, Donizetti, Rossini e Mozart (oltre al grand opéra francese). Del resto la tradizione esecutiva dell’opera (almeno sino a Christoff) resta in questo solco di nobiltà di fraseggio e misura. Dopo Silvestri, Francesco Navarini (l’Inquisitore del 1884), per arrivare poi a Nazzareno De Angelis, Tancredi Pasero, Alexander Kipnis, Ezio Pinza, Nicola Rossi Lemeni, Cesare Siepi (ruolo con cui debuttò al Met). Tutti accomunati dalla morbidezza del fraseggio, dal perfetto dominio del legato, dalla nobiltà dell’accento e dalla duttilità della voce. Con Boris Christoff prima e Nicolai Ghaiurov poi (che per motivi anagrafici sono gli interpreti di cui abbiamo maggiori testimonianze audio), le cose cominciano a cambiare: il personaggio perde in nobiltà e misura, viene incupito e reso con rabbia inespressa e povertà di sfumature. Scatti d’ira feroce e interpretazione sopra le righe (soprattutto del primo), completano l’“involgarimento” del sovrano spagnolo: il canto si fa perennemente stentoreo e risolto in un declamato continuo che pare intagliato nella pietra, poco generoso con la lirica malinconia di certi momenti (in cui dovrebbe emergere l’amara consapevolezza del Re), e assai monotono (soprattutto se privo dell’apparato visivo che, nel caso di Christoff in particolare, era assai d’effetto e faceva passare in secondo piano certe durezze vocali). Una sorta di Boris verdiano, insomma, che stride con il personaggio e con la sua rappresentazione musicale – siccome disegnata dall’autore. L’ultimo Filippo degno di nota resta Ruggero Raimondi che, con alterne fortune, cercherà di riportarlo all’autentica e originaria misura interpretativa. Le difficoltà vocali del ruolo risiedono tutte o quasi nella straordinaria varietà dei segni d’espressione, disseminati da Verdi lungo la partitura: mezze voci, piani, pianissimi, forcelle, legature il cui rispetto è necessario per rendere quel canto aristocratico con cui l’autore dipinge il Re. Senza bisogno di caricare, di aggiungere, di forzare. E’ già tutto nella partitura: una vera e propria regia sonora calibrata alla perfezione da Verdi, equilibrata e finalizzata a fare di Filippo il nobile sovrano turbato e solo, al cui interno si scontrano affetti e Ragion di Stato, ma al cui esterno nulla traspare, se non velatamente, come un’increspatura o un’ombra sfuggente. Ecco perchè una interpretazione autentica e volta a restituire Filippo alla sua vera dimensione non può prescindere da quei segni espressivi. Ed ecco perchè l’analisi e il confronto delle tante esecuzioni del ruolo, dal rispetto di quei segni devono partire. Utilissimo quindi è ripercorrere, almeno sommariamente e con partitura alla mano, alcune tra le interpretazioni storiche che più si avvicinano per gusto, tecnica e stile alla originale concezione verdiana. E paradigma di ogni interpretazione di Filippo non può che essere il monologo dell’atto III.
L’ampio Preludio orchestrale si apre su di un andante sostenuto, dove emerge la voce dei violoncelli (tradizionalmente, però, trasformato in un suggestivo assolo) in una serie di scale/arpeggi ascendenti e discendenti riccamente movimentata con forcelle, legature e alternanza di p e f, che introducono il Cantabile (la partitura impone un cantando allo strumento) malinconico e morbido sino al crescendo finale e al tremolo in pianissimo su cui si inserisce la voce di Filippo, come trasognato, segna la partitura, in un piano che va a smorzarsi ulteriormente sul finire della frase, sopra gli archi con sordina. Il recitativo successivo – in cui il sovrano si risveglia dal torpore meditabondo – è ancora giocato sul piano, anche se si indica più animato, sino allo sfociare nel cantabile vero e proprio “Dormirò sol”. Andante mosso, piano, col canto: così scrive Verdi. Ampie legature accompagnano la linea vocale, screziate da qualche veloce forcella. Il tessuto orchestrale fin qui è molto denso e cupo (con i colori scuri dei fagotti e dei corni, e la voce stridente e ossessiva dell’oboe) quasi a raffigurare l’opprimente gravosità dei pensieri di Filippo. Il crescendo dei violini conduce ad un forte corrispondente alle parole “Ah se il serto regale a me desse il poter di leggere nei cor”, l’orchestra si fa più brillante, parallelamente al montare delle speranze del Re, ma improvvisamente ritorna il sospetto, si ritorna al tempo primo, dallo stringato della sezione: a mezza voce, pianissimo, il tradimento del figlio e della moglie, sostenuto dalle sestine dei soli contrabbassi. E di nuovo l’amara consapevolezza “Dormirò sol, nel manto mio regal”, piano, con brevi forcelle sino al diminuendo finale. “Ella giammai m’amò”, ripete Filippo, interrompendo con un lungo silenzio (segnato in partitura) il risorgere delle sue speranze: ancora piano, poi un crescendo sino al forte che porta al Mi acuto sostenuto dal vibrante tremolo degli archi tutti e poi ancora, diminuendo, la voce si spegne, rallentando mentre il Re ricade nella meditazione. Questa varietà di segni d’espressione corrisponde ad una precisa visione, una vera regia (dicevo) che fornisce tutte le indicazioni necessarie per rendere al meglio il personaggio. Solo sulla base di queste si può costruire l’interpretazione, che non deve esaurirsi certo nella pedissequa ripetizione della pagina scritta, ma che da essa non può e non deve prescindere. Pena la forzatura. Ascoltando l’interpretazione di Kipnis, Pinza (caldo e morbido, imperioso, ma mai stentoreo, con voce piena e rotonda), De Angelis (più autorevole e severo, ma sempre misurato: dal legato perfetto e dalla linea regale), Pasero (intimista e morbidissimo, con il gusto di scandire e dare importanza ad ogni singola parola), si percepisce chiaramente la nobile sofferenza di Filippo II, così come l’autore la intende. Del resto non si allontanano molto dal Filippo di Pol Plançon che, nato nel 1851 (parte quindi di quella medesima civiltà musicale in cui operava lo stesso Verdi) e maturato nel secolo XIX in quanto a tecnica e stile (suo primo maestro di canto fu proprio Gilbert-Louis Duprez), cesella la figura del monarca spagnolo, lasciando intendere ogni singola sfumatura che quei segni d’espressione lascia suggerire. Se si passa a Christoff, invece, si avverte un cambio di stile, un impoverimento di sfumature e dinamiche, che rende il tutto più prosaico, legnoso, stentoreo: giocato solo sul declamato privo di sfumature (orribili poi, certi eccessi, come i singhiozzi di pianto al termine del monologo, indegni di un sovrano e del buon gusto). Stesso discorso per la voce torrenziale di Ghiauruv: impressionante certo per volume e autorità, ma insensibile a rendere la complessità della scrittura verdiana. Raimondi invece fa un passo indietro, mostrando le debolezze del sovrano, con voce sempre morbida e ricca di sfumature (e proprio questo aspetto – da alcuni critici scambiato per mollezza – gli verrà imputato: certo pareva inconsueto a chi nelle orecchie aveva anni ed anni di Filippi stentorei e scolpiti nella pietra). Degli interpreti più recenti nessuno ha saputo emergere in modo particolare: né l’intellettualistico Van Dam, né l’appannato Furlanetto, né il debole Ramey (un Filippo troppo “piccolo” e grigio il suo), né Lloyd, né Scandiuzzi. Nessuno di questi ha saputo lasciare un’impronta stilistica ed interpretativa che potesse reggere il confronto con i cantanti storici del ruolo. Personaggio chiave, dunque, dell’opera di Verdi ed in generale massima personificazione delle sue concezioni estetiche e morali, intorno a lui è costruita la trama del Don Carlo, tanto da poter tranquillamente affermare che il vero protagonista sia lui, più dell’imbelle Infante o della frigida Regina. Ruolo centrale che esemplifica, nella maniacale cura dei segni d’espressione, la nobiltà del canto verdiano (qui legata ad una rassegnata consapevolezza di essere nulla di fronte al destino e al dovere). Un sovrano che è anche uomo, ma che non può permettersi di cedere alle umane debolezze. E tutto questo deve necessariamente trasparire dal canto. Insomma per interpretare Filippo II c’è bisogno di un Re, e purtroppo il trono è ancora vacante...
Gli ascolti - Don Carlo
Atto IV: Ella giammai m'amò...Dormirò sol nel manto mio regal
- Boris Christoff (1950)
- Nazzareno de Angelis (1927)
- Alexander Kipnis (1936)
- Tancredi Pasero (1935)
- Ezio Pinza (1927)
- Pol Plançon (1907)
- Cesare Siepi (1950)
15 commenti:
Aggiungo solo un dettaglio alla vostra acuta analisi della partitura.Tutto il monologo di Filippo é percorso dal continuo ricorrere della triplice acciaccatura ascendente sol diesis-la intonata all´apertura da archi,corni e fagotti.Questo semplice gesto orchestrale,in qualche modo anticipato nel Preludio al primo atto della versione 1866,poi tagliato,continua a ripresentarsi in diverse combinazioni strumentali fino alla fine della scena,creando una efficacissima rappresentazione dei pensieri ossessivi che agitano la mente del Re.
Un cenno anche al duetto con l´Inquisitore:la scala ascendente dopo le parole "l´ombra di Samuel" é scritta legata.Esiste peró una lettera di Verdi al direttore d´orchestra Alberto Mazzucato,dove il compositore dice che a Parigi la faceva eseguire tutta staccata perché in questo modo "faceva un effetto potentissimo".
Non mi risulta che alcun direttore abbia finora tenuto conto di questa indicazione.
Saluti
Scusate,mi ero dimenticato una cosa.Mi spiace che,tra i grandi interpreti del personaggio,abbiate omesso di citare Nicola Rossi Lemeni,un Filippo che delineava il personaggio assai appropriatamente nella direzione da voi indicata.
Ancora saluti.
le registrazioni di rossi lemeni anche quella cetra non rendono giustizia ad un filippo che persno celletti, che come sostengono i suoi più accidiosi detrattori,si fermava ai 78 giri ritevano notevole.
siccome di don carlo se ne discutera almeno a lungo abbi un po' di fede ciao dd
Caro Mozart2006, Rossi Lemeni è citato eccome, accanto a Pinza, Kipnis, Pasero, De Angelis e Siepi. Non poteva certo mancare. Non c'è l'esempio audio (anche per i motivi ben spiegati da Donzelli). Comunque avremo modo di riparlarne.
Un saluto.
Su Rossi Lemeni, forse vi è un eccesso di severità. trovo che le sue incisioni cetra del 1951 pure quelle HMV londinesi del 1953 sono comunque straordinarie. Ciò vale quindi per don carlo, forza del destino e nabucco (qui è forse l'unico che riesce a rivaleggiare con il de angelis dell'era dei 78 giri). lo dico fra l'altro prima di aver riletto quando appunto sottolineato da celletti ne "le grandi voci": delle sue incisioni sono preferibili quelle della cetra e della hmv, che lo ritraggono nella migliore forma vocale: in particolare appaiono eccellenti i brani del boris, del nabucco e del don carlo".
cordiali saluti a tutti.
emanuele
Mi dispiace, ma non sono d'accordo sulla valutazione del Filippo di Ghiaurov. E' un po' un clichè quello che Ghiaurov si ponga sulla scia di Christoff, emulandone la sommarietà espressiva nelle sfumature (non ostante in "Ella giammai m'amò" lo stesso Christoff eseguisse benissimo il sottovoce iniziale...). Il Filippo di Ghiaurov forse si focalizza eccessivamente su un aspetto del personaggio, quello della regale protervia. Di certo questo non è l'unico, ma comunque c'è... Ma moltissimi sono i momenti in cui Ghiaurov mostra una tale sottigliezza di lettura, pur in una globalità di insieme abbastanza "manichea" (credo in maniera voluta), da lasciare veramente senza fiato. Il "Soccorso alla regina" è sempre memorabile, così come il suo "O strano sognator", da lasciare di stucco. Esistono incisioni complete di PASERO o Kipnis o de Angelis? Di certo valutare un personaggio complesso come Filippo II dalla sola "Ella giammai m'amò" mi sembra forse un po' azzardato.
Leggo da un po' il blog e lo trovo davvero sorprendente. E' pressoché impossibile trovare un "posto" dove si discute di musica lirica con tanto approfondimento e competenza. Io sono un semplice appassionato, con nessuna cognizione specifica di musica (sono avvocato dello Stato, quindi mi occupo di tutt'altro). Mi permetto, però, di essere del tutto d'accordo con il giudizio di Velluti su Ghiaurov (cantante sicuramente incostante nel rendimento, epperò nel suo complesso - a mio giudizio - sottovalutato). Non è tuttavia vero, secondo me, che il suo Filippo fosse a senso unico (mi piace ricordare particolarmente il video del met degli anni 70, con Levine sul podio). E come dite per Christoff (che io non ho mai visto per ragioni anagrafiche: ho 37 anni, né conosco video che lo riprendono nel ruolo) anche la recitazione di Ghiaurov aggiungeva molto al personaggio!
Grazie del vostro blog, e cordiali saluti.
Christoff non è cantante prediletto da me, ma credo che questa volta "povertà di sfumature" sia un giudizio troppo severo. È vero che il suo Filippo era un tronitruante a tratti, ma nell'aria sapeva usare una grande varietà dinamica. Ci sono, senz'altro, la emissione strana, gli eccessi veristi, la mancanza di la vera e semplice effusione, sostituita per la imitazione dell'allucinato recitato "shaliapinesco".
Per mio conto, Ghiaurov era più morbido nell'aria.
Pasero e de Angelis sono senza dubbio superiori, incominciando per la emissione più limpida e appogiata sul fiato, ma dei suoi Filippi non sappiamo più.
Scusate per il pessimo italiano :-)
Gino: Ojalá mi español fuese al mismo nivel que tu "pessimo italiano" :-)
per mia ventura e motivi anagrafici (ormai sono un vecchio) ho sentito più volte in teatro Ghiurov, che era il basso monopolista alla Scala. Certo che dinanzi a Nevsterenko e Burrchulazde era uno splendore per emissione e tecnica, ma posso assicurare che al di là dellavoce grossa, si badi non grande, il cantante suonava sempre duro e fisso e dopo il 1979 stomacale e l'interprete al di là di una generica grandiosità (leggi cantare sempre forte) era assolutamente inespressivo, che vistisse i panni di filippo, borsi, fiesco, ramfis sino al funereo alvise badoero.
COn vero rammarico posso dire che non esistono a quanto sappiamo registrazioni di pasero pinza e de angelis in passi differenti dalla grande aria del quarto/terzo atto. Sopratto sarebbe utile visto che avevano lavorato con autentche grandi bacchette ( non solo Toscanini) come affrontavano il duetto con Posa, che poi, portavno nomi ben più nsigni e verdiani dell'abitaule scaligero partner di Ghiaurov il quale per ogni dove ci deliziava della pacchianata verista "della pace dei sepolcri" , degna del migliore gianciotto.
Preciso che in tal sens la documentazione fonografica sia costante e copiosa.
grazie moltissimo per l'apprezzamento al nostro divertente e mai faticoso hobby.
Capisco che dalla lettura dell'intervento i giudizi su Ghiaurov e Christoff possano apparire ingenerosi o troppo severi. L'intento però non è sminuirne l'importanza, in linea generale, come cantanti e interpreti: ma qui mi riferisco ad un ruolo particolare. Filippo II è personaggio tra i più complessi della drammaturgia verdiana. Forse IL più complesso. Ricco di aspetti, sfumature, umanità, nobiltà, malinconia, rassegnazione, disperazione etc.. Questo ben l'hanno capito gli interpreti storici! Non può essere risolto in una generica regalità, resa con voce sempre stentorea e scolpita. Cioè, non è solo questo. Ghiaurov o Christoff possono essere efficaci in taluni momenti, ma non mi sembra riescano a cogliere l'essenza del personaggio. E non riuscendo a coglierla, non riescono a comunicarla. Filippo resta il re austero e indurito, prossimo ai "cattivi" del melodramma del primo '800. Nulla più o quasi. Invece è ruolo infinitamente più ricco e umano: tanto che un continuo declamato stentoreo e autorevole, alla lunga, stanca. Filippo non è Boris. Preferisco senz'altro Raimondi a Ghiaurov o a Christoff: almeno ho di fronte un personaggio sfaccettato e non una statua di marmo.
Caro Donzelli,
Completamente d'accordo sulla durezza nel timbro del Ghiaurov maturo. Forse risultato di dilatare i centri.
Saluti.
Caro Duprez,
Forse con Raimondi c'era il personaggio, ma non certamente la voce di basso ;-)
Saluti.
Non sono d'accordo Gino...il miglior Raimondi (in Filippo) vale molto più di un Christoff. Non si tratta di "personaggio", ma di saper dare sfumature, con la voce, ad un ruolo che non va semplicemente declamato dall'inizio alla fine (come intendevano i bassi slavi citati qui).
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