Dopo l’ascolto delle registrazioni, vuoi in studio vuoi pirata, di Mafalda Favero e Licia Albanese forse un po’ di revisionismo ci può anche stare. O almeno un ripensamento, tenuto conto delle prestazioni che incensate dive oggi spacciano al pubblico.
Intendiamoci bene né la Favero, la Mafalda per il pubblico scaligero, nè l’Albanese possono essere assunte a distanza di settant’anni circa dal loro debutto come modelli di canto e di stile.
Per l’attacco della Favero, Manon, seduttrice nel convento di San Sulpizio, anche ascoltando la registrazione del 1937 aggettivi quale verista, sguaiata e censure sui suoni aperti al centro sono lecite ed ammissibili. Le osservazioni sono analoghe per la Violetta di Licia Albanese, nonostante l’accompagnamento di Toscanini. E non è il caso di scomodare due autentiche fuoriclasse coma l’Olivero (di poco più giovane) o Claudia Muzio per esemplificare differenza di tecnica e di gusto.
Però furono due assolute celebrità, colonne portanti la Favero della Scala e la Albanese del Met, applauditissime e graditissime secondo il gusto del tempo. Quel gusto che le stesse cantanti o le loro coetanee solevano sintetizzare nella frase " noi sì che eravamo tutte temperamento" con ciò contrapponendosi alle esecuzioni, a loro giudizio, gelide, distaccate e scolastiche delle dive del post Callas. Avessero ascoltato chi le aveva precedute, ad esempio una Farneti, una Storchio, ma anche una Farrar, avrebbero dovuto rivedere il proprio giudizio. Ma è risaputo il cantante d’opera tende alla propria mitizzazione, anche se non posso fare a meno di ricordare la Favero nel ridotto della platea della Scala che ad un giovinetto, che si scioglieva in elogi per la sua Manon (era stata pubblicata da poco quella del debutto scaligero di Di Stefano) sorridente disse: "io trovo che Mirella Freni sia la più grande in Manon".
Furono, quindi, immagini del gusto imperante al loro tempo nel genere del soprano lirico. Come lo saranno nel genere spinto la Caniglia e la Milanov ed in quello drammatico la Cigna.
Protagoniste assolute: la Favero, dopo il debutto nel 1926 con Liù e il tradizionale rodaggio in provincia, provincia che, però, comprendeva teatri allora difficili come Parma, debuttò in Scala nel 1930 e vi rimase sino alla stagione 1949-’50. Di poco successivo il ritiro dalle scene avvenuto nel 1953.
Ridotta la carriera internazionale. La Favero cantò al Covent Garden nel '38 il ruolo di Liù e al Met si trattò di toccata e fuga con due recite di Mimì nel 1938, cui si devono aggiungere apparizioni in Sud America prima del secondo conflitto mondiale ed in Spagna dopo gli eventi bellici.
Almeno per un decennio il repertorio della Favero fu quello del soprano lirico cui si aggiungevano ruoli cosiddetti di soubrette come Zerlina e Susanna, cantate alla Scala la prima nel 1930 e nel 1945, la seconda nel 1938. Si tenga conto che in quella categoria rientravano anche per la convenzione del tempo la Carolina del Matrimonio segreto, la Norina del don Pasquale e, ruolo assolutamente desueto, Adele del Conte Ory, che la Favero cantò, se non mi sbaglio a Torino e al Maggio Fiorientino.
Nella seconda fase della carriera la Favero affrontò, non nel teatro milanese dove era comunque monopolista dei ruoli di soprano lirico, sporadicamente Violetta (il primo atto era sempre un problema per soprani non particolarmente estesi in alto), Tosca e soprattutto Adriana, Manon di Puccini e nella fase finale Zazà, ruolo adatto alle condizioni contingenti vocali ed interpretative della Favero in fine carriera.
I ruoli per cui Mafalda Favero era la Favero furono principalmente Mimì, Manon di Massenet e Butterfly, di cui la cantante ebbe, nei teatri italiani, l'esclusiva dopo il ritiro della Pampanini, ed alla cui vocalità ha sicuramente sacrificato anni di carriera.
La testimonianza di una Butterfly tardiva (1947 a Ginevra) è, però, significativa non solo dell’esecuzione delle arie, meglio testimoniate nei brani in studio, ma del personaggio piuttosto scevro e da leziosaggini e da esagitazioni drammatiche.
Butterfly com Mimì e Violetta di Traviata fu anche un topos della Albanese. Licia Albanese non ebbe l’affermazione e la fama immediata della Favero. I primi anni di carriera della cantante pugliese (nata nel 1909 e, quindi, prossima al secolo di vita, dopo aver per decenni indicato nel 1913 la propria data di nascita) furono connotati sia dalla ricerca del repertorio che di teatri, che potessero essere i "suoi" teatri con incursioni persino nel grand opéra con la Ines di Africana nel 1937 a Roma e la presenza in tutti o quasi i teatri italiani, Scala compresa dove l'Albanese debuttò nel 1938, senza esserne una star. Non dimentichiamoci che nel massimo teatro milanese doveva confrontarsi con Mafalda Favero.
Solo con il debutto al Met nel 1940 e nel ruolo di Butterfly l’Albanese trova il suo teatro. Anche lei nel primo decennio si limita al repertorio del lirico puro (Boheme, Faust, Pagliacci, Susanna, Traviata), cui alla fine degli anni ‘40 si aggiungono Tosca, Manon di Puccini, Adriana. Solo che a differenza della Favero la carriera della Albanese, idolatrata dal pubblico americano (non dimentichiamo l’origine meridionale della cantante) prosegue sino alla chiusura del vecchio Met e altrove sporadicamente sino agli anni '70. Sono prestazioni che trovano la loro ragione, appunto, nell’idolatria di cui il pubblico americano fa oggetto taluni cantanti.
Le condizioni in cui la Albanese si ritirò sono documentate dalla registrazione dell'aria di Liù del 1974. L'anno dopo la coetanea Olivero avrebbe debuttato in Tosca al Met.
Allora se ascoltiamo una registrazione di Mafalda Favero stando alla tradizione dovremmo ascoltare una vocetta sgradevole, nessuna dinamica, lazzi e vizi.
Gli ascolti ridimensionano la mitologia. In primo luogo, soprattutto tenuto conto di quello che ascoltiamo da almeno trent’anni, la voce della Favero non è affatto una vocetta. Basta sentire come regge l’orchestrale di Butterfly (anche se la tradizione vuole che talvolta il soprano ferrarese pretendesse qualche riduzione orchestrale) e non sentiamo affatto una brutta voce. Anzi sentiamo in natura la schietta voce del lirico dotata di un timbro davvero bello e gradevole nella zona medio alta.
Nell’esecuzione dell’Ave Maria la Favero non esibisce la voce sontuosa della Caniglia, Desdemona di riferimento del tempo, ma le attuali titolari devono inchinarsi dinanzi a questa esecutrice che, a smentire le tradizionali dicerie, è anche piuttosto varia ed ispirata e castigata nell’accento.
Allo stesso modo l’aria di Lodoletta "Flammen perdona" o il racconto di Mimì esibisce frasi da grande interprete attenta a rendere la poetica delle piccole cose, per usare la felice metafora pascoliana, attraverso un considerevole gioco di piani e pianissimi. Certo quando arriva il momento ritenuto drammatico o di grande slancio le note che cadono sul passaggio inferiore suonano aperte. Come pure nel racconto di Mimì frasi che interessano la tessitura medio alta ("Mi piaccion quelle cose", "il profumo dei fiori") svelano tensione. Gli acuti sono però sicurissimi.
Come sono sicurissimi gli acuti di Licia Albanese nella scena della Chiesa del Faust, dove oltretutto senza bamboleggiamenti o inutili ricorsi ad accenti plateali la cantante rende il senso della fanciulla, ormai irretita dal Maligno e terrorizzata.
Alle prese con la scena della seduzione della Manon entrambe le cantanti hanno un rapporto conflittuale con i segni di espressione e di dinamica previsti dall’autore.
A cominciare dalla fase iniziale "Oui c'est moi" che prevede un diminuendo sul sibem do centrale di "moi" sino al "c’est moi" conclusivo, che previsto nella zona la sol dà luogo, in entrambe le cantanti, ad un bel suono di petto.
Nella frase "Oui je fus cruelle" di tutte le indicazioni è rispettata solo quella di crescendo, in entrambi i casi con sfoggio di grande voce. I "dolce", "rallentando" e "diminuendo" sono travolti dalla foga erotica di Manon. Il famoso "temperamento". Non dimentichiamo che Licia Albanese era alunna della Baldassarre Tedeschi, una delle più "autorevoli" Manon della sua generazione.
L’indicazione " avec des larmes" di "hélas, hélas" è resa nel senso più naturale del termine.
Quando Manon attacca la sezione clou della seduzione il "n’est plus ma main" e Massenet prescrive "avec charme" Licia Albanese, almeno, esibisce voce dolce e accento castigato; la Favero assolutamente estroversa opta per un concetto di charme per nulla aderente al senso che abbiamo di questa parola. Arrivate la tre quartine vocalizzate, che dovrebbero rendere l'ansimo di Manon, la Favero è precisa nell’esecuzione, mentre l’Albanese pasticcia. Il rallentando finale" n’est plus Manon" che dovrebbe essere l’espressione dell’estenuato erotismo è eliminato in entrambe le esecuzioni, ma il "ff" previsto c’è tutto. E puntuale scatta l’applauso del pubblico. Manon ha colpito e travolto non solo Des Grieux, ma e soprattutto il pubblico.
Questo è il canto generoso nella sua più autentica e completa declinazione.
Possiamo replicare, facilmente, che la Sills e la Kabaivanska rispettavano e superavano i segni di espressione e dinamica dell’autore, che Maria Chiara e Mirella Freni sfoggiavano grande qualità vocale e gusto assai più sobrio. Nessuno lo discute.
Mafalda Favero e Licia Albanese, interpreti spontanee e vere, ritenevano che Manon non fosse una scriteriata sedicenne, ma una esperta e navigata meretrice. Non che avessero tutti i torti loro e chi le ispirava in tal senso, ma il testo musicale e quello di Prévost propendono per l’inconscia e sconsiderata lolita.
Un elemento però è certo ed innegabile: Mafalda Favero e Licia Albanese, non solo come Manon, ma in ogni ruolo che affrontavano non baravano con il pubblico e la loro concezione (censurabile magari o, almeno, datata) del personaggio era coerente anche quando alla stessa sacrificavano l’ortodossia del canto (mai della respirazione) che altrove (fra gli esempi musicali vedasi Lodoletta o Bohème) praticavano.
L’ascolto nel raffronto con le generazioni successive ci insegna che quei suoni aperti, certi accenti plateali erano prima di tutto nell’ottica del tempo l’irrinunciabile interpretazione.
Perché qualunque appunto si può fondatamente muovere alla Favero ed alla Albanese, ma non quello di essere state nella loro ottica e nella loro epoca INTERPRETI.
Invito ad ascoltare cosa oggi si spaccia per una grande Manon o Mimì o Violetta, priva di una corretta respirazione, di una attenta preparazione musicale e di una idea interpretativa di fondo ed avremo le esecuzioni della Fleming, della Dessay o della Gheorghiu.
Gli ascolti
Mafalda Favero
Mascagni - Lodoletta
Atto III - Flammen perdonami
Massenet - Manon
Acte III - Toi!...Vous! (con Giuseppe Di Stefano - 1947)
Puccini - Madama Butterfly
Atto II - Ora a noi (con Scipio Colombo - 1947)
Verdi - La traviata
Atto I - Sempre libera (con Beniamino Gigli - 1940)
Verdi - Otello
Atto IV - Ave Maria
Licia Albanese
Gounod - Faust
Acte IV - Seigneur, daignez permettre (con Ezio Pinza - 1943)
Massenet - Manon
Acte III - Toi!...Vous! (con Giuseppe Di Stefano - 1951)
Puccini - La bohème
Atto I - Sì, mi chiamano Mimì (1938)
Puccini - Madama Butterfly
Atto III - Con onor muore...Tu! Tu! Piccolo Iddio (1941)
Puccini - Turandot
Atto III - Tu che di gel sei cinta (1974)
Verdi - La traviata
Atto I - E' strano...Ah! Fors'è lui...Sempre libera (con Jan Peerce - 1946)
Intendiamoci bene né la Favero, la Mafalda per il pubblico scaligero, nè l’Albanese possono essere assunte a distanza di settant’anni circa dal loro debutto come modelli di canto e di stile.
Per l’attacco della Favero, Manon, seduttrice nel convento di San Sulpizio, anche ascoltando la registrazione del 1937 aggettivi quale verista, sguaiata e censure sui suoni aperti al centro sono lecite ed ammissibili. Le osservazioni sono analoghe per la Violetta di Licia Albanese, nonostante l’accompagnamento di Toscanini. E non è il caso di scomodare due autentiche fuoriclasse coma l’Olivero (di poco più giovane) o Claudia Muzio per esemplificare differenza di tecnica e di gusto.
Però furono due assolute celebrità, colonne portanti la Favero della Scala e la Albanese del Met, applauditissime e graditissime secondo il gusto del tempo. Quel gusto che le stesse cantanti o le loro coetanee solevano sintetizzare nella frase " noi sì che eravamo tutte temperamento" con ciò contrapponendosi alle esecuzioni, a loro giudizio, gelide, distaccate e scolastiche delle dive del post Callas. Avessero ascoltato chi le aveva precedute, ad esempio una Farneti, una Storchio, ma anche una Farrar, avrebbero dovuto rivedere il proprio giudizio. Ma è risaputo il cantante d’opera tende alla propria mitizzazione, anche se non posso fare a meno di ricordare la Favero nel ridotto della platea della Scala che ad un giovinetto, che si scioglieva in elogi per la sua Manon (era stata pubblicata da poco quella del debutto scaligero di Di Stefano) sorridente disse: "io trovo che Mirella Freni sia la più grande in Manon".
Furono, quindi, immagini del gusto imperante al loro tempo nel genere del soprano lirico. Come lo saranno nel genere spinto la Caniglia e la Milanov ed in quello drammatico la Cigna.
Protagoniste assolute: la Favero, dopo il debutto nel 1926 con Liù e il tradizionale rodaggio in provincia, provincia che, però, comprendeva teatri allora difficili come Parma, debuttò in Scala nel 1930 e vi rimase sino alla stagione 1949-’50. Di poco successivo il ritiro dalle scene avvenuto nel 1953.
Ridotta la carriera internazionale. La Favero cantò al Covent Garden nel '38 il ruolo di Liù e al Met si trattò di toccata e fuga con due recite di Mimì nel 1938, cui si devono aggiungere apparizioni in Sud America prima del secondo conflitto mondiale ed in Spagna dopo gli eventi bellici.
Almeno per un decennio il repertorio della Favero fu quello del soprano lirico cui si aggiungevano ruoli cosiddetti di soubrette come Zerlina e Susanna, cantate alla Scala la prima nel 1930 e nel 1945, la seconda nel 1938. Si tenga conto che in quella categoria rientravano anche per la convenzione del tempo la Carolina del Matrimonio segreto, la Norina del don Pasquale e, ruolo assolutamente desueto, Adele del Conte Ory, che la Favero cantò, se non mi sbaglio a Torino e al Maggio Fiorientino.
Nella seconda fase della carriera la Favero affrontò, non nel teatro milanese dove era comunque monopolista dei ruoli di soprano lirico, sporadicamente Violetta (il primo atto era sempre un problema per soprani non particolarmente estesi in alto), Tosca e soprattutto Adriana, Manon di Puccini e nella fase finale Zazà, ruolo adatto alle condizioni contingenti vocali ed interpretative della Favero in fine carriera.
I ruoli per cui Mafalda Favero era la Favero furono principalmente Mimì, Manon di Massenet e Butterfly, di cui la cantante ebbe, nei teatri italiani, l'esclusiva dopo il ritiro della Pampanini, ed alla cui vocalità ha sicuramente sacrificato anni di carriera.
La testimonianza di una Butterfly tardiva (1947 a Ginevra) è, però, significativa non solo dell’esecuzione delle arie, meglio testimoniate nei brani in studio, ma del personaggio piuttosto scevro e da leziosaggini e da esagitazioni drammatiche.
Butterfly com Mimì e Violetta di Traviata fu anche un topos della Albanese. Licia Albanese non ebbe l’affermazione e la fama immediata della Favero. I primi anni di carriera della cantante pugliese (nata nel 1909 e, quindi, prossima al secolo di vita, dopo aver per decenni indicato nel 1913 la propria data di nascita) furono connotati sia dalla ricerca del repertorio che di teatri, che potessero essere i "suoi" teatri con incursioni persino nel grand opéra con la Ines di Africana nel 1937 a Roma e la presenza in tutti o quasi i teatri italiani, Scala compresa dove l'Albanese debuttò nel 1938, senza esserne una star. Non dimentichiamoci che nel massimo teatro milanese doveva confrontarsi con Mafalda Favero.
Solo con il debutto al Met nel 1940 e nel ruolo di Butterfly l’Albanese trova il suo teatro. Anche lei nel primo decennio si limita al repertorio del lirico puro (Boheme, Faust, Pagliacci, Susanna, Traviata), cui alla fine degli anni ‘40 si aggiungono Tosca, Manon di Puccini, Adriana. Solo che a differenza della Favero la carriera della Albanese, idolatrata dal pubblico americano (non dimentichiamo l’origine meridionale della cantante) prosegue sino alla chiusura del vecchio Met e altrove sporadicamente sino agli anni '70. Sono prestazioni che trovano la loro ragione, appunto, nell’idolatria di cui il pubblico americano fa oggetto taluni cantanti.
Le condizioni in cui la Albanese si ritirò sono documentate dalla registrazione dell'aria di Liù del 1974. L'anno dopo la coetanea Olivero avrebbe debuttato in Tosca al Met.
Allora se ascoltiamo una registrazione di Mafalda Favero stando alla tradizione dovremmo ascoltare una vocetta sgradevole, nessuna dinamica, lazzi e vizi.
Gli ascolti ridimensionano la mitologia. In primo luogo, soprattutto tenuto conto di quello che ascoltiamo da almeno trent’anni, la voce della Favero non è affatto una vocetta. Basta sentire come regge l’orchestrale di Butterfly (anche se la tradizione vuole che talvolta il soprano ferrarese pretendesse qualche riduzione orchestrale) e non sentiamo affatto una brutta voce. Anzi sentiamo in natura la schietta voce del lirico dotata di un timbro davvero bello e gradevole nella zona medio alta.
Nell’esecuzione dell’Ave Maria la Favero non esibisce la voce sontuosa della Caniglia, Desdemona di riferimento del tempo, ma le attuali titolari devono inchinarsi dinanzi a questa esecutrice che, a smentire le tradizionali dicerie, è anche piuttosto varia ed ispirata e castigata nell’accento.
Allo stesso modo l’aria di Lodoletta "Flammen perdona" o il racconto di Mimì esibisce frasi da grande interprete attenta a rendere la poetica delle piccole cose, per usare la felice metafora pascoliana, attraverso un considerevole gioco di piani e pianissimi. Certo quando arriva il momento ritenuto drammatico o di grande slancio le note che cadono sul passaggio inferiore suonano aperte. Come pure nel racconto di Mimì frasi che interessano la tessitura medio alta ("Mi piaccion quelle cose", "il profumo dei fiori") svelano tensione. Gli acuti sono però sicurissimi.
Come sono sicurissimi gli acuti di Licia Albanese nella scena della Chiesa del Faust, dove oltretutto senza bamboleggiamenti o inutili ricorsi ad accenti plateali la cantante rende il senso della fanciulla, ormai irretita dal Maligno e terrorizzata.
Alle prese con la scena della seduzione della Manon entrambe le cantanti hanno un rapporto conflittuale con i segni di espressione e di dinamica previsti dall’autore.
A cominciare dalla fase iniziale "Oui c'est moi" che prevede un diminuendo sul sibem do centrale di "moi" sino al "c’est moi" conclusivo, che previsto nella zona la sol dà luogo, in entrambe le cantanti, ad un bel suono di petto.
Nella frase "Oui je fus cruelle" di tutte le indicazioni è rispettata solo quella di crescendo, in entrambi i casi con sfoggio di grande voce. I "dolce", "rallentando" e "diminuendo" sono travolti dalla foga erotica di Manon. Il famoso "temperamento". Non dimentichiamo che Licia Albanese era alunna della Baldassarre Tedeschi, una delle più "autorevoli" Manon della sua generazione.
L’indicazione " avec des larmes" di "hélas, hélas" è resa nel senso più naturale del termine.
Quando Manon attacca la sezione clou della seduzione il "n’est plus ma main" e Massenet prescrive "avec charme" Licia Albanese, almeno, esibisce voce dolce e accento castigato; la Favero assolutamente estroversa opta per un concetto di charme per nulla aderente al senso che abbiamo di questa parola. Arrivate la tre quartine vocalizzate, che dovrebbero rendere l'ansimo di Manon, la Favero è precisa nell’esecuzione, mentre l’Albanese pasticcia. Il rallentando finale" n’est plus Manon" che dovrebbe essere l’espressione dell’estenuato erotismo è eliminato in entrambe le esecuzioni, ma il "ff" previsto c’è tutto. E puntuale scatta l’applauso del pubblico. Manon ha colpito e travolto non solo Des Grieux, ma e soprattutto il pubblico.
Questo è il canto generoso nella sua più autentica e completa declinazione.
Possiamo replicare, facilmente, che la Sills e la Kabaivanska rispettavano e superavano i segni di espressione e dinamica dell’autore, che Maria Chiara e Mirella Freni sfoggiavano grande qualità vocale e gusto assai più sobrio. Nessuno lo discute.
Mafalda Favero e Licia Albanese, interpreti spontanee e vere, ritenevano che Manon non fosse una scriteriata sedicenne, ma una esperta e navigata meretrice. Non che avessero tutti i torti loro e chi le ispirava in tal senso, ma il testo musicale e quello di Prévost propendono per l’inconscia e sconsiderata lolita.
Un elemento però è certo ed innegabile: Mafalda Favero e Licia Albanese, non solo come Manon, ma in ogni ruolo che affrontavano non baravano con il pubblico e la loro concezione (censurabile magari o, almeno, datata) del personaggio era coerente anche quando alla stessa sacrificavano l’ortodossia del canto (mai della respirazione) che altrove (fra gli esempi musicali vedasi Lodoletta o Bohème) praticavano.
L’ascolto nel raffronto con le generazioni successive ci insegna che quei suoni aperti, certi accenti plateali erano prima di tutto nell’ottica del tempo l’irrinunciabile interpretazione.
Perché qualunque appunto si può fondatamente muovere alla Favero ed alla Albanese, ma non quello di essere state nella loro ottica e nella loro epoca INTERPRETI.
Invito ad ascoltare cosa oggi si spaccia per una grande Manon o Mimì o Violetta, priva di una corretta respirazione, di una attenta preparazione musicale e di una idea interpretativa di fondo ed avremo le esecuzioni della Fleming, della Dessay o della Gheorghiu.
Gli ascolti
Mafalda Favero
Mascagni - Lodoletta
Atto III - Flammen perdonami
Massenet - Manon
Acte III - Toi!...Vous! (con Giuseppe Di Stefano - 1947)
Puccini - Madama Butterfly
Atto II - Ora a noi (con Scipio Colombo - 1947)
Verdi - La traviata
Atto I - Sempre libera (con Beniamino Gigli - 1940)
Verdi - Otello
Atto IV - Ave Maria
Licia Albanese
Gounod - Faust
Acte IV - Seigneur, daignez permettre (con Ezio Pinza - 1943)
Massenet - Manon
Acte III - Toi!...Vous! (con Giuseppe Di Stefano - 1951)
Puccini - La bohème
Atto I - Sì, mi chiamano Mimì (1938)
Puccini - Madama Butterfly
Atto III - Con onor muore...Tu! Tu! Piccolo Iddio (1941)
Puccini - Turandot
Atto III - Tu che di gel sei cinta (1974)
Verdi - La traviata
Atto I - E' strano...Ah! Fors'è lui...Sempre libera (con Jan Peerce - 1946)
3 commenti:
Come al solito, articolo esemplare e stimolante.
Permettetemi ora un commento un po' fuori tempo massimo, da annettere non a questa, ma alle trascorse puntate dedicate alle cantatrici di presunta "serie B".
Beh, semmai ci sarà una puntata ulteriore, consiglio di prendere in seria considerazione la per me finora misconosciuta Emma Renzi, che sto ascoltando nel ruolo di Abigaille in un Nabucco di Barcellona (1970) con McNeil e con un Carreras debuttante o giù di lì. Ebbene, si tratta certamente di una autentica "serie B": qualche strilletto, un po' di verismo, ma... che piglio! Che solidità! Che "ferocia"! Giudicate voi se non ci vorrebbero quattro Theodossiou per fare metà di questa onesta professionista, che oggi tirerebbe giù i teatri!
Mah, che tempi grami stiamo vivendo! Se non ci fossero i dischi...
Con amicizia,
Gabriele Brunini
concordo con te lele
ascoltai, bambino, la renzi in turandot la sera dopo la nilsson e il pubblico scaligero quello del 1970 che non regalava nulla quasi a nessuno la applaudì a più non posso
Caro Domenico, beato te che l'hai sentita...
Comunque ho fatto una breve ricerca sul web, facendo qualche interessante scoperta. Basta digitare "Emma Renzi" e al primo colpo si viene indirizzati a una ricca pagina dedicata alla nostra, che si apprende essere "all'originale" una sudafricana dal nome semimpronunciabile (Emma Renzi era un nome d'arte, italianizzante come allora usava). Si leggono ampie note biografiche (che ricopio qui sotto) da cui si evince una carriera tutt'altro che di secondo piano. Vi sono poi poche ma belle foto, con tra l'altro una Renzi-Turandot in compagnia di Cecchele, e una Renzi-Abigaille con Gianadrea Gavazzeni.
Mi riprometto di cercare qualche altro live con questa interessante artista.
The following is extracted from Volume IV of the 1986 edition of South African Music Encyclopedia (J.P. Malan, ISBN 0 19 570311 1) - [the parts in square brackets are inserts from other sources, mainly CD liner notes]
SCHEEPERS EMMERENTIA (EMMA RENZI), soprano, born 8 April 1926 in Heidelberg, South Africa.
Emma Renzi's musical talents became evident whilst she was still a school girl in Heidelberg. She had lessons in piano playing, supplemented by the violin and the harp, and made satisfactory progress in all three. When Esther Mentz discovered her vocal potential, singing was added to her studies. In 1943, after a brilliant matriculation, she studied for a B.Mus. at the College of Music in Cape Town and sang her first operatic role. Her South African studies were completed in 1947 and the next year she left for London where she studied under Joan Cross for three years at the National Opera School. This was followed by a period with the itinerant Carl Rosa Opera Company, which gave her invaluable experience of stage craft.
Her first important part was Giulietta in Tales of Hoffmann (Offenbach). Roy Henderson took charge of her voice training in 1954 and for the next four years she sang for the English Opera Group, with which Benjamin Britten was associated; she was a principal [the Governess] in a London performance of his The Turn of the Screw. During the same period she did part-time work for the BBC, gave concerts in Britain and recorded for Parlophone. In 1956 she became the first South African to sing at the Edinburgh Festival, when she was privileged to perform some works by Mozart with the Karl Haas Baroque Ensemble. During the same year she won an international medal at the Concours in Geneva and joined Professor Erik Chrisholm's College of Music Company on their memorable tour of England and Scotland.
[During those years she also sang with Charles Farncombe's pioneering Handel Opera Society, appearing as Morgana in its 1957 concert version of Alcina, opposite a rising young Joan Sutherland in the title role.]
In 1958, after a concert tour of South Africa, she moved to Catania in Sicily for lessons with the famous [Maestro Santo] Santonocito. He developed the dramatic qualities of her voice, and appropriate roles in Sicilian theatres confirmed her decision that the Italian singing style was best suited to her particular gifts. From 1961 until 1966 she was variously employed to sing dramatic roles in Karlsruhe, Johannesburg (Amelia in Un Ballo in Maschera, at the opening of the Civic Theatre in 1962) and, from 1963, in various Italian theatres. She finally settled in Milan, though there were further visits to South Africa (1964, 1965, and 1966). On the latter occasion she had the role of Abigail in PACT's production of Verdi's Nabucco - the part which gave her entrance to La Scala in Milan. When Elena Suliotis, a Greek Abigail, failed to turn up in December 1966, Emma Renzi was engaged to sing the role and scored a great success. This was followed by engagements in Portugal (1967), Turkey (1967), Yugoslavia and America (1968), France (1969), South America (1969), Spain (1970), South Africa (1971) and again America (1976).
In 1971 she scored a triumph in the title role of Aida, which had been chosen for the [controversial] opening of the Nico Malan Theatre in Cape Town. Other Italian cities eager to make use of her gifts were Parma, Venice, Naples, Bologna, Palermo, Rome and Verona. She was not only the first South African to sing at La Scala [she sang the title role in Puccini's Turandot in the 50th anniversary performance of the opera, replacing Monteserrat Caballe at the last moment], she was also the first South African to succeed as an opera singer in Italy as a whole. After another visit to South Africa in 1978, she terminated her Italian career in Verona, singing the female lead in Boito's opera Mefistofele (1979). In that year she was appointed by the Witwatersrand University to direct the Opera Centre of the newly-created Music School. The next year she accepted an appointment as director of the Opera Centre attached to the Music School of the Pretoria Technikon.
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