domenica 23 novembre 2008

Il tenore prima di Caruso e del Verismo, parte I


La fama di Juan Diego Florez e la scelta dello stesso di dedicare a Giovan Battista Rubini il suo ultimo recital possono far discutere, per la quasi totale assenza di legame fra il tenore peruviano ed il divo bergamasco.
Contro i detrattori o gli scettici nei confronti di Florez viene avazata l’obiezione, assai facile, che non esistono documentazioni fonografiche di Rubini, ma solo descrizioni scritte che, come tutti i documenti cartacei, debbono, poi, essere interpretate.
Credo, al contrario, che, nonostante l'assenza di documentazione diretta, ci sia molto, molto di più ossia la tradizione vocale ed interpretativa del tenore prima di Caruso, che si rifà al tenore romantico di cui Rubini con Nourrit fu il paradigma e l’esempio. Sino alla svolta impressa da Caruso, in quanto modello del tenore verista, alla vocalità maschile.
I reperti del canto e del gusto dei tenori prima di Caruso sono numerosi e significativi. E se anche nessuno di questi può essere direttamente riferibile a Rubini può, però, essere l’immagine della tecnica e del gusto praticato ad ogni latitudine o longitudine sul finire del secolo XIX, prima del mutamento di gusto e l’affermarsi della vocalità verista
I tenori di estrazione ottocentesca, se non vogliamo usare il termine, rubiniana cantavano tutti in modo simile. La comunanza di lessico tecnico è evidentissima, come l’interpretativa.
Erano, famosissimi, famosi e “di fianco” tutti in grado di passare ad ogni altezza del pentagramma dal piano al forte, talvolta, anche partendo dal pianissimo, cantavano le note acute a piena voce, in falsettone e, talvolta, anche in falsetto (nota è la prodezza al do bem del duettone degli Ugonotti di ripetere la frase “dillo ancor” in falsetto, in falsettone e, poi, a piena voce), molti di loro eseguivano correttamente e qualcuno addirittura spericolatamente passi di agilità piuttosto complessi, molti trillavano con facilità, anche eseguendo le opere di Verdi, erano in genere rispettosi dei segni di espressione. Anzi spesso ne aggiungevano molti e propri, anche perché di segni di espressione e di dinamica, sino al primo Verdi, i compositori erano parchi, essendo dinamica ed agogica pertinenti la sfera dell’interpretazione e, quindi, esclusivo diritto del cantante.
In questo senso anche tenori del dopo Caruso come Fleta, Lauri-Volpi, Schipa, Wittrish e D’Arkor furono ancora vicini al modello ottocentesco.
Questo dominio tecnico consentiva a Manrico di essere il Conte d’Almaviva a don Ottavio di essere Raoul de Nangis a Tannahauser di essere Faust. E, più in generale, la padronanza tecnica era (e sarebbe anche oggi) un mezzo di espressione e, quindi, di rispetto della volontà dell’autore banditi come erano suoni forzati, esecuzioni stentoree e squadrate per dinamica e agogica. Un’altra costante è che anche i cosiddetti tenori di forza suonassero squillantissimi in alto, capaci di smorzature e, comunque, di colore chiaro, rispetto ai tenori cosiddetti di forza portati in auge proprio da Caruso, che nella fase finale della carriera suonava più scuro di un baritono. Al riguardo vedasi i duetti con De Luca del 1920, se, poi, si tiene conto che Caruso interpreta Nemorino..........
E chiaro che ci sono anche difetti che al nostro orecchio ed al nostro gusto suonano poco gradevoli.
In primo luogo la libertà dinamica ed agogica, può apparire leziosaggine, com’è sgradevole la tendenza di tutti i tenori, specie se di grazia, ad emettere molto aperte le vocali dei suoni centrali e magari, la libertà famosissima e censuratissima di far cadere suoni scomodi su vocali più comode di quelle del testo. In proposito, però, non vedo perché gridare allo scandalo per “il mio sol pensier sei te” di Fernando de Lucia e non per “le tenebre fonde” di Imogene secondo Felice Romani, trasformate in “ tenebre oscure” da Maria Callas.
L’ascolto, con queste premesse riserva sorprese assolute una sorta di viaggio nel tempo e nell’arte molto particolare ed interessante.
Gino Monaldi nel suo “cantanti celebri” scrive di Mario:" una sera del 1864 in casa di Paolina Lucca -nota editrice di musica- mi fu dato di sentirgli cantare la serenata del Barbiere e il duetto del Rigoletto. Mario era già avanti con l'età e aveva quasi abbandonato le scene: l suono della sua voce conservava nondimeno la purezza adamantina dei suoi verd'anni e il metodo era sempre quello suo squisitissimo e inimitabile che fece di lui il più geniale fra i cantanti di teatro. Ebbene, alle prime note uscite dalla sua gola confesso d'aver provato anch'io un senso spiacevole, quasi disgustoso. Quei suoni chiari ed aperti, quel fraseggiare scandito, quella sillabazione martellata, quel modo di cantare così singolare e cotanto dissimile da ogni altro, mi sembravano una leziosaggine e una smanceria antipatica. Man mano però, che quella voce e quel canto mi penetravano nell'anima provavo un gaudio e una dolcezza infinita. Mai la voce umana mi era apparsa così ricca e così varia di poetica espressione. Quando uscii da quella casa ero pieno d'una delizia intensa, non mai finora provata. Il fenomeno più strano fu questo: che per qualche tempo non seppi più tollerare altre voci e altri cantanti. Tutti, anche i migliori, mi sembravano quasi coristi al confronto de grande Mario."
Credo che non sia difficile trovare rispecchiate le parole di Monaldi dedicate a Mario con riferimento ad un altro mito di fine ottocento Francesco (meglio noto come Checco) Marconi (1855-1916), che cinquantacinquenne esegue, integrale, con Maria Galvany, la sezione conclusiva del duetto finale dei Puritani.
E’ un altro Bellini rispetto anche a quello cui la più celebrata coppia dei nostri giorni, (Sutherland-Kraus) ci ha abituati. Persino la più belliniana coppia, che la registrazione documenti, appare piatta e metronomica nel raffronto con questa primordiale registrazione. Le libertà (molte e soprattutto maschili) della coppia Marconi-Galvany in fatto di tempi e dinamica si risolvono in una esecuzione dolcissima, sfumatissima, veramente protoromantica, ma per nulla sdilinquita o asettica.
Ancora un Marconi esausto e di cui è evidente ormai la voce priva di smalto e di corpo cesella come il momento scenico impone il “cielo e mar” a tal punto da far apparire squadrato e poco fantasioso persino Beniamino Gigli, che della aria di Enzo ha offerto una esecuzione di assoluto riferimento. Non riesco ad immaginare il confronto con il poco felice Pavarotti della registrazione ufficiale Decca o Josè Cura, che il pubblico scaligero apostrofò per certi atteggiamenti più consoni ad un california dream men, che non al nobile Enzo Grimaldo.
Un altro stupore assoluto viene dall’esecuzione della cavatina di Almaviva di Hermann Jadlowker (1877-1953), il quale cantava d’abitudine Otello di Verdi o, magari, Bacchus di Ariadne auf Naxos, salvo, poi, eseguire a voce piena volate, scale ed arpeggi nei panni del Conte o, addirittura, rimpolpare la cadenza prevista per Raoul negli Ugonotti.
La corretta esecuzione dell’ornamentazione era comune e praticata anche da tenori wagneriani come il più celebre heldentenor prima di Melchior, ossia Jacques Urlus (1867-1935) che trilla nell’aria di Manrico o Heinrich Knote (1870-1953), che esegue il duetto con Azucena con inserimento di falsettoni e, comunque, con una precisione di espressione e rispetto dei segni di espressione rare, comunque, impensabili al momento attuale per un tenore, che eseguiva d’abitudine Wagner e ruoli spinti.
Ovvio che il falsettone era applicato sistematicamente al repertorio francese.
Un tenore ritenuto di forza, Otello e Jean de Leyda, che esegua con un legato immacolato ed un falsettone perfetto l’aria della Dame Blanche di Boieldeau, come Leo Slezak (1873-1946) oggi è impensabile.
Era poi ovvio logico e scontato che nei panni di Lohengrin fossero tutti estatici, dolcissimi e con una linea di canto esattissima e che ad un canto legato, sfumato e raccolto si attenesse anche l'esecuzione dell'aria di Manrico.
Ma l’esecuzione dei passi di agilità era la prassi anche per la scuola francese, come risulta dalla siciliana del Robert Le Diable di Leon Escalais (1859-1941).
Però Esclais, cui l’aspetto fisico, tutt’altro che avvenente, precluse il palcoscenico più importante di Francia esegue con estasi ed eleganza, oltre che acuti squillanti e penetrati, l’aria di Gaston dalla Jerusalem. E alle prese con “Suplice imfame”, versione francese della più nota pira esibisce una saldezza ed uno squillo in alto, che neppure i sistemi primordiali di registrazione possono tarpare. O se lo fanno consentono di ascoltare una vocalità ed un’interpretazione perdute come idea ancor prima che come realizzazione.



Ascolti


Checco Marconi - I Puritani - “Vieni fra queste braccia" - con Maria Galvany
Checco Marconi - La Gioconda - “Cielo e mar”


Hermann Jadlowker - Il Barbiere di Siviglia - “Ecco ridente in cielo”
Hermann Jadlowker - Gli Ugonotti - “Bianca al par di neve alpina”
Hermann Jadlowker - Lohengrin - " Mercè cigno gentile"

Jacques Urlus - Il Trovatore - “Ah si ben mio”

Heinrich Knote - Il Trovatore - “Mal reggendo” - con Margarete Matzenauer

Leo Slezak - La Dame Blanche - “ Vien gentile dame”
Leo Slezak - Les Huguenots - "Grande Duetto" - con Elsa Bland
Leo Slezak - Il Trovatore - "Ah si ben mio"

Leon Escalais - Robert Le Diable - “Au tournoi chevaliers”
Leon Escalais - Jerusalem - "Je veux encore entendre"
Leon Escalais - Le Trouvère - “Suplice infame”



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