lunedì 29 giugno 2009

Aida in Scala, quarta puntata: le Aide "del boom economico" (1950-1966)

Gli anni tra il 1950 e il 1970 vengono solitamente ricordati come una sorta di “epoca d’oro” del teatro milanese. Mentre l’Italia viveva quello che è rimasto nella memoria collettiva come il periodo del “boom economico” (dopo le fatiche del lungo dopoguerra), anche i cartelloni scaligeri di quegli anni riflettevano quel rinnovato benessere e quella nuova opulenza. Scorrendo le stagioni susseguitesi in quei venti anni, ci si imbatte, effettivamente, in tutti i grandi nomi (direttori d’orchestra e cantanti: da Furtwängler a Karajan, dalla Callas alla Price etc..) che hanno segnato la storia dell’interpretazione musicale. Tra il ’50 e il ’70, Aida compare in cartellone ben sette volte: e ciascuna di esse, con cast (o almeno parte di essi) che oggi riempiono di amara nostalgia – soprattutto se confrontati con la cronaca di questi giorni. Va anche detto che trattasi di interpretazioni di Aida note al grande pubblico e per l'epoca relativamente recente e per la diffusione discografica, che tutte hanno avuto.

Nel febbraio del 1950, sotto la guida di Votto e Capuano, Aida presenta una vera e propria “classica” delle rivalità operistiche (con fazioni e sostenitori che – ancora oggi – si scontrano “l’un contro l’altro armati”): nel title role si alternarono, infatti, Renata Tebaldi e Maria Callas. Non voglio, però, soffermarmi troppo sulla seconda, innanzitutto perchè il suo incontro con il personaggio verdiano non fu memorabile né troppo frequentato (e saggiamente: la schiava etiope rimarrà sostanzialmente estranea al fraseggio della Callas) e poi per evitare di rinverdire le solite e “vedovili” querelles. Assai più interessante, invece, l’Aida della Tebaldi: un personaggio risolto essenzialmente nella purezza del timbro e nella bellezza del suono, che meglio risalta, ovviamente, nei momenti lirici piuttosto che nella concitazione drammatica. Si cercherebbe, dunque, invano nella sua Aida, il calore e la brunitura di una Price (ad esempio), tuttavia neppure si può liquidare la sua interpretazione con l’usata formuletta – cara a certa critica, con velleità enciclopediche, che per esaltare la sua “divina” denigra istericamente, e sempre e comunque, l’odiata “rivale” – di una Tabaldi inerte interpretativamente, stentorea e “matronale” (vecchia storia, dura a morire, ma ormai entrata nella vulgata dell’opera). In realtà l’Aida della Tebaldi è cantata dalla prima all’ultima nota e risente – ovviamente – del gusto dell’epoca, ma resta comunque un puro piacere estetico: in particolare il legato impeccabile del “là tra foreste vergini”, o i “cieli azzurri”, quasi sospesi in una nuvola leggera di suono (e poco importa se il do sovracuto è leggermente appannato, lo baratto volentieri con la sfingica immobilità interpretativa di una Caballé, questa sì interessata solamente a emettere dei bei “filatini”). Anzi il meglio dell'Aida di Renata Tebaldi si ha proprio quando il soprano assottiglia la voce e modera l'enfasi, che talvolta la porta soprattutto in zona acuta ad emissioni e suoni, che tradiscono la bellezza e preziosità - uniche - del timbro.

L’anno successivo la protagonista sarà affidata a Costantina Araújo: soprano brasiliano, lirico spinto, che rimarrà, tuttavia, “di seconda fila” rispetto alle altre interpreti coeve del ruolo. Aida aprirà poi la stagione del 1956 (e si trattava di un grandissimo risultato nella carriera del soprano di Perugia perchè sino ad allora le inaugurazioni erano toccata alle due illustri rivali) con la schiava di Antonietta Stella, della quale non si può che lodare, ancora una volta, il timbro davvero bello ed angelico, specie nella seduzione di Radames al terzo atto. Risentita oggi l'Aida di Antonietta Stella elimina le perplessità che, soprattutto in Scala, accompagnarono molte delle sue apparizioni, anche se ragguagliate alle frequentazioni del pubblico del tempo si può comprendere che la Stella non esibisse un timbro comparabile con quello tebaldiano e risorse e "trovate" d'accento callasiane. Limiti, però, che in un personaggio dolente, remissivo e di limitata personalità non sono insuperabili ed insormontabili. Al fine di eliminare da parte di qualche nostro affezionato lettore la possibilità di polemiche circa le qualità del deuteragonista milanese (Pippo!) abbiamo optato per un assai raro ascolto from the Met, successivo di un paio di mesi all'Aida scaligera.

Nel 1960 si alterneranno nel title role Birgit Nilsson e Leontyne Price, ossia due tra le più importanti cantanti del XX secolo. Diversissime le loro interpretazioni. La Nilsson ci descrive un’Aida dalla voce possente, sicura in ogni angolo della tessitura, eccellente per il legato impeccabile e per la facilità mostrata nell’eseguire “ogni nota”, tuttavia appare spesso gelida e non priva di talune durezze “nibelungiche” (dovute all’abituale frequentazione del repertorio wagneriano e straussiano). Certo è che la drammaticità di alcuni passi lascia sbalorditi, dall’ondata di voce che è il suo “ritorna vincitor”, sino allo svettare nei concertati e nei pezzi d’insieme. Il rovescio della medaglia è, necessariamente, una certa artificiosità nei momenti di abbandono lirico (i duetti con Radames, il finale dell’opera e i “cieli azzurri”). Fra l'altro la prodezza del do dei "cieli azzurri" in recita riesce a metà ad una cantante dal grandissimo controllo tecnico.

Con la Price – che rivestirà lo stesso ruolo nel 1963, accanto al Radames di Bergonzi – si ascolta forse la migliore Aida del secolo (e sicuramente l’ultima). Colta nel suo periodo di massimo splendore, la voce calda e brunita disegna un’Aida completa: drammatica e languida, capace di rendere al meglio i momenti di passione e di orgoglio (“Ritorna vincitor”) così come gli abbandoni lirici dei “cieli azzurri” e del finale. La Price domina il legato e dona, con un timbro vellutato e scuro (ma anche caldo e sensuale), una visione contemporaneamente solare e notturna della schiava etiope. Nel '63, sostituta della Price fu Leyla Gencer (che sarà di nuovo Aida nel 1966, ma con un'organizzazione vocale già appannata). Personaggio a lei non propriamente congeniale, rivela più di una difficoltà in acuto (spesso avventuroso) oltre ad una certa disuguaglianza nei registri. L'anno prima, il 1965, si alternarono nel ruolo Gabriella Tucci e Luisa Maragliano (per le quali si rimanda a quanto già scritto nelle pagine dedicate alla cosiddetta serie B: quarta e quinta puntata). Al periodo del boom economico, però, seguì, nel paese e nelle sue istituzioni musicali, un periodo di riflusso...


Gli ascolti

Verdi - Aida


Atto I

Ritorna vincitor - Renata Tebaldi (1951), Birgit Nilsson (1960)

Atto II

Fu la sorte dell'armi - Giulietta Simionato & Birgit Nilsson (1960)

O Re, pei sacri Numi - Maria Callas, Mario del Monaco, Oralia Domínguez, Giuseppe Taddei, Roberto Silva & Ignacio Ruffino (1951)

Atto III

Qui Radames verrà...O cieli azzurri - Birgit Nilsson (1960), Leontyne Price (1963)

Ciel! mio padre - Renata Tebaldi & Paolo Silveri (1951)

Pur ti riveggo, mia dolce Aida - Maria Callas & Mario del Monaco (1951), Antonietta Stella & Kurt Baum (1957), Leontyne Price & Carlo Bergonzi (1963)

Atto IV

La fatal pietra - Antonietta Stella & Kurt Baum (1957)

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venerdì 26 giugno 2009

Serie B a chi ?!? - settima puntata : Oralia Dominguez ed Elena Nicolai.

In questi giorni abbiamo avuto modo di riflettere sulla voce del mezzosoprano. Come blog abbiamo sempre ammirato e magnificato la perfezione e la sontuosità di Ebe Stignani, Sigrid Onegin, Ernestine Schumann-Heink, terribili termini di paragone persino per le più blasonate colleghe e soprattutto per le odierne dive delle scene. La storia del teatro ha però visto fra le sue protagoniste grandi mezzosoprani che, senza raggiungere la perfezione tecnica delle colleghe, hanno avuto degnissime carriere, svolte con professionalità invidiabile e magari avvalendosi di mezzi vocali del tutto ragguardevoli.

Vogliamo perciò dedicare alcune riflessioni a due voci di mezzosoprano che hanno calcato i palcoscenici internazionali in periodi diversi, con diversa natura ma simile repertorio: Oralia Dominguez ed Elena Nicolai.

Oralia Dominguez studia al Conservatorio Nazionale di Mexico City debuttando dapprima in piccoli ruoli come il Musico della Manon Lescaut e poi ne La Demoiselle élue di Debussy. Subito dopo cominciano i debutti operistici che la portano alla ribalta internazionale non solo a Mexico City e nel Sudamerica ma in tutta Europa, dove debutta già nel 1953 come Principessa di Bouillon alla Scala di Milano. Canta da subito nei principali teatri europei, a Londra, a Vienna, a Parigi, partecipa più volte al Festival di Glyndebourne con Vittorio Gui e a quello di Salisburgo sotto la direzione di Herbert von Karajan, tappe di una carriera che si snoda per l'arco di più di venti anni.

E' dotata di una voce bellissima e ampia di natura, da vero mezzosoprano tendente al contralto, per la grande facilità ed estensione del registro grave, sempre doviziosamente sollecitato, al punto da pregiudicare la saldezza di quello acuto, a volte duro e fisso.
Ascoltarne le interpretazioni oggi può risultare molto interessante. Se non ci troviamo di fronte ad un'interprete raffinata, possiamo però sentire una voce baciata dalla natura, non sprovvista di tecnica, e un'interprete che ricorre sì a vezzi e a vecchi stilemi interpretativi di stampo verista, ma sa anche adattare il proprio strumento alle diverse esigenze dello spartito e dei compositori nonchè del momento drammatico, insomma una cantante che sa alternare i momenti di massimo temperamento alla compostezza vocale.

Una delle prime e più facilmente reperibili interpretazioni è la celebre Amneris al Palacio de Bellas Artes di Mexico City, cantata accanto a Maria Callas, Mario Del Monaco, Giuseppe Taddei e con la direzione di Oliviero de Fabritiis. A parte lo splendore del mezzo vocale dell'allora giovanissima Dominguez, l'interpretazione può essere deludente, soprattutto per il gusto. La Dominguez tende infatti ad essere interprete "generosa": siamo molto lontani dal modello sontuoso e composto della Stignani, il canto è sicuramente più vicino a stilemi veristi, sia per il gusto appunto, sia per quanto concerne la tendenza a gonfiare copiosamente il centro e i gravi, in natura già massicci. La voce risulta comunque bella, facile e ampia, i centri sontuosi, i gravi imponenti e l'interprete, pur aprendo a volte i suoni e risultando di conseguenza fissa (vale l'esempio della frase E nunzia di perdono), non è volgare, si sforza di fraseggiare badando alla situazione drammatica e ai segni d'espressione dello spartito, coronando la scena con acuti un pò spinti ma grandi e sonori.
Diverso terreno di prova è l'Agnus Dei della Petite Messe Solennelle, che vede invece una bravissima interprete nella Dominguez. La linea vocale è morbida e facile, il centro è mantenuto leggero e la voce ne risulta di conseguenza più bella, permettendo alla cantante di scendere alle note gravi, i vari si e la naturali sotto al rigo, senza forzature, in modo morbido ed omogeneo. Risulta attenta anche alla dinamica prevista da Rossini, che chiede al mezzosoprano di smorzare e rinforzare intere frasi durante l'intero arco del brano.
In un brano non operistico relativamente poco conosciuto all'epoca dell'incisione la Dominguez appare molto più valida, perché diverso risulta il gusto, assai composto, dell'esecuzione. Anche in questo caso ad una voce sontuosa come quella della Dominguez basta poco nel mantenere l'emissione morbida per conferire alla pagina la sontuosità e la bellezza che richiede, e che non tutti le esecutrici sanno dare.
Molto bello è anche il Liber scriptus della Messa da Requiem, inciso nel 1954 con la direzione di Victor de Sabata. Quest'esecuzione impone un raffronto con quella del 1940 diretta dallo stesso de Sabata, interprete Ebe Stignani, e il parallelo vede soccombere la Dominguez per la minore morbidezza d'emissione e persino per la minore ampiezza nel reggere la lentezza del tempo imposto da de Sabata alla sezione centrale, che porta al forte sul la bemolle acuto, meno sicuro e pieno in termini di suono nel caso del mezzosoprano messicano. Ciononostante abbiamo una grande esecuzione, ottima per gli standard odierni. Innanzitutto perchè si apprezza la vera voce di mezzosoprano, magnifica, e poi perché la cantante sa variare la dinamica in tutte le zone della voce e produce in basso suoni corposi e timbrati, sebbene un poco gonfiati.
Come Principessa di Bouillon la Dominguez è più nel suo terreno interpretativo. Immaginiamo anche la presenza scenica: ricordiamo che la Dominguez era una bellissima donna, il che avrà contribuito ad aumentare il fascino di questa Bouillon. L'ascolto è utile per avere un'idea dell'ampiezza della voce, più che notevole, unita alla bellezza del timbro. In una parte simile si può indulgere nel vezzo di gonfiare i centri e le note gravi, ma è giocoforza farlo con un mezzo che sia imponente e ampio per natura, dai grandi armonici. Occorre altresì che l'emissione non sia solo marcatamente e volgarmente di petto ma che la cantante, com'è il caso della Dominguez, sia capace di produrre suoni sonori e morbidi, oltre che di sovrastare l'orchestrale in qualsiasi zona della voce. Anche se ovviamente questo vezzo porta sempre con sé dei rischi, come quello di rendere difficile la salita agli acuti. In questo problema incappa anche la Dominguez, che risulta fissa nella parte finale dell'aria.
Molto interessante, per certi versi soprendente è il rondò di Isabella dell'Italiana in Algeri, che la Dominguez eseguì a Bregenz nel 1962 diretta da Vittorio Gui. Nel recitativo la voce è mantenuta più leggera rispetto al solito, cosa che giova all'esecuzione, inoltre la Dominguez ha grande incisività d'accento come nella scansione di "patria, dovere, amore". Impressionante l'accento di questa Isabella che sa dare vera grandeur alla frase "e alle vicende della volubil sorte" con salita all'acuto sicurissima e scala discendente morbida e piena. Nella parte iniziale del rondò esegue in maniera abbastanza pulita le volatine, perfetto il trillo su "caro ti parli in petto". Questa occasionale Isabella porta in dote al personaggio una voce da opera seria, magniloquente e bella ed ha una precisione esecutiva maggiore rispetto ai nostri standard, abituati come siamo al gracidare di vocine spoggiate.
La cabaletta è eseguita una volta sola con voce morbida e dall'emissione mantenuta leggera, per permettere una più corretta esecuzione delle agilità, da cui la Dominguez esce a testa alta per concludere con uno sfolgorante si naturale acuto, che non fatichiamo ad immaginare enorme per volume e ampiezza.
Sfidiamo chiunque a trovare oggi una Isabella brava e con voce ampie e bella la metà!
Nell'affrontare la parte della Zia Principessa la Dominguez è avvantaggiata dalla scrittura della parte, che insiste nella zona grave della voce. La Dominguez è bravissima nella scansione, quasi monolitica, delle prime frasi sui mi gravi o del rendere benissimo la prescrizione di "come una condanna" con cui risponde "Di penitenza" alle prime frasi di Suor Angelica, nella bellissima interpretazione di Luisa Maragliano, anch'ella cantante di sicurezza assoluta e professionalità oltre che di grande attenzione allo spartito. Come Zia Principessa la Dominguez non si lascia andare ad effetti di sorta e anzi mantiene le note gravi sempre piene e timbrate, sul fiato, e nell'aria si distingue per la dinamica varia e sfumata, con bei pianissimi come quello su "in colloqui eterei arcani" e il bel crescendo su "com'è penoso, com'è penoso", in cui al crescendo dinamico si unisce lo scurimento della voce, di grande effetto drammatico.
L'aria che Juditha canta mentre si appresta a commettere l'omicidio di Holofernes è caratterizzata da una scrittura grave, che si giova dell'ampiezza in quella zona della voce della Dominguez e della grande bellezza dello strumento. L'emissione e l'esecuzione non saranno in questo brano stilizzati, ma credo che sia più vicina la Dominguez alla poetica di Vivaldi che non i sopranini camuffati da mezzosoprani che in questo repertorio siamo costretti oggi ad ascoltare.

Elena Nicolai nasce come Elena Stojanka Savova Nikolova a Tsevoro in Bulgaria. Dapprima studia Filosofia negli Stati Uniti, in seguito si trasferisce a Milano per studiare canto ed è' col nome originale che debutta nel 1932 come Maddalena, uno sfortunato debutto che la convince a studiare ancora prima di debuttare ufficialmente con nome di Elena Nicolai nel 1938 a Napoli nei panni di Annina del Cavaliere della Rosa. Presto arriva alla Scala, nel 1941 come Principessa di Bouillon in Adriana Lecouvreur affermandosi come uno dei più completi mezzosoprani della sua generazione, interpretando con successo Amneris, Azucena, Eboli ma anche opere come La Vestale di Spontini, l'Oberto di Verdi, la prima esecuzione moderna della Juditha Triumphans di Vivaldi sotto la direzione di Antonio Guarnieri nella revisione di Vito Frazzi, Orfeo ed Euridice, insieme a ruoli più sopranili come Santuzza in Cavalleria rusticana e Fedora o addirittura la Brünnhilde wagneriana di Siegfried e Die Walküre.
Cantante più sicura della Dominguez fu sicuramente una delle poche vere alternative ad Ebe Stignani negli anni di attività (sarebbe forse meglio dire impero) di quest'ultima. Il confronto con la Dominguez mostra sicuramente una cantante di timbro magari meno bello e particolare ma con una maggiore sicurezza tecnica, soprattutto nella zona acuta della voce, sempre facilissima e imponente, così come la Nicolai è sempre stata più ortodossa nell'emissione dei suoni dell'ottava bassa.

Interessantissimo è iniziare l'ascolto di Elena Nicolai proprio dal ruolo di Fedora, di cui ci rimane testimonianza di un live da Rio de Janeiro in compagnia del divo Beniamino Gigli. L'esecuzione, di prim'ordine, si segnala fin dall'inizio per lo slancio e la grande maestosità del mezzo vocale sulle prime frasi acute, perentorie. Nello snordarsi del duetto la Nicolai mostra di volta in volta attenzione come interprete, differenziando per esempio l'accento di "l'uomo turpe o più infelice" dove un termine è reso in forte e l'altro tramite un pianissimo. La voce sa sempre addolcirsi e dare colore all'ira e all'amarezza di Fedora nell'apprendere del tradimento e della vendetta di Loris. Da segnalare ancora il bellissimo pianssimo, sostenuto e pieno di Non parto più, un'altra madre. Ai meravigliosi interventi di Gigli, che dà una lezione a tutti i tenori che verrano dopo di lui nell'esecuzione di Vedi io piango (dove ad onta dei celebri singhiozzi abbiamo una voce ancora bellissima, sonora e timbrata), la Nicolai risponde col canto spiegato di Lascia che pianga per unirsi a Gigli nelle frasi finali, in cui ascoltiamo vere voci solide, squillanti, sempre sopra l'orchestra di Giordano, senza ricorrere ad effetti o effettacci di sorta, perfette nel rendere il momento drammatico rappresentato dal duetto fra i due protagonisti.

Nella Juditha Triumphans la Nicolai affronta il brano con un tempo più lento rispetto alla Dominguez, della quale sfoggia un'emissione più composta e una linea di canto più solida, mentre l'esecuzione in generale è di stampo più sacrale. La voce è imponente, forse un poco matronale, certamente sontuosa per la pagina e per Vivaldi.

Celeberrima Ortruda, la Nicolai tenne il monopolio del ruolo per almeno un ventennio e l'audio ne dimostra le ragioni, non solo nella celebre invocazione, in cui la Nicolai sfoggia protervia d'accento unita a sicurezza in tutta la gamma della voce (dalla zona grave agli splendidi e sicuri la naturali e la diesis),ma anche nel resto del duetto, in cui il personaggio è delineato in modo luciferino ma senza indulgere a scompostezze di alcun tipo, mantenendo sempre l'eleganza dell'accento nel misurarsi con la bellissima linea vocale della Tebaldi nei panni di Elsa.

Grandissima l'esecuzione del duetto con Pollione, che vede la Nicolai nel proprio elemento naturale, stante la tessitura acuta di Adalgisa, d'altronde un suo cavallo di battaglia. Bellissimo è il sol tenuto di "innocente" e la seguente discesa al do sotto al rigo, eseguita a mezzavoce dopo il forte iniziale. Le quartine di "cielo e dio ricopre un vel" non sono precisissime ma dalla loro esecuzione la Nicolai esce piuttosto bene: sebbene un po' cempennate, sono coronate da due la bemolle imponenti per sonorità e bellezza. Da segnalare come nel finale del duetto all'unisono con Corelli la Nicolai copra il collega con irrisoria facilità e non solo nello scintillante si bemolle finale, ancora una volta sonorissimo e magnifico per pienezza di suono e squillo.
Come Amneris la Nicolai è di gusto più sobrio e composto della Dominguez, è molto sobria nella prima parte e trova il meglio della sua esecuzione nello slancio di "Chi ti salva sciagurato", dove la voce si distungue per sonorità ed incisività dell'accento. I due si bemolli delle ultime frasi sono splendidi per sicurezza e pienezza di suono, oltre che tenuti con grande facilità, e danno filo da torcere al non certo poco squillante Mario Filippeschi.
Altro cavallo di battaglia della Nicolai fu il ruolo di Eboli, di cui fu grandissima interprete e la migliore alternativa ad Ebe Stignani negli stessi anni.
Tutta la prima parte dell'O don fatale è cantata in souplesse, con emissione morbidissima, senza traccia di sforzo. La frase "ti maledico o mia beltà" è affrontata come una vera prodezza non solo per l'impressionante do bemolle squillante e tenuto, ma anche per come scende al seguente do bemolle sotto al rigo rendendo ampia la frase, quasi rallentando. Splendido è poi il cantabile, dal legato perfetto e in cui possiamo apprezzare la voce, sempre omogenea e dal colore inalterato nello scendere sotto al rigo. E va da sé che la Nicolai risolve con la consuetà facilità le acute frasi finali.

Nell'aria della Gran Vestale si impone il confronto con Ebe Stignani, che di questo ruolo è stata sicuramente la più grande ed impressionante interprete moderna. Alla Nicolai va l'onore e il merito di offrire l'esecuzione che più di tutte si avvicina a quella della Stignani, pur non raggiungendo lo stesso vertice d'eccezionalità. La voce infatti sovrasta il pieno orchestrale nelle frasi basse come negli slanci acuti di "il trono orribile sulle tombe". Nella sezione centrale la Nicolai sa essere morbida nel raccogliere la voce nel mezzoforte con cui si rivolge amorevolmente alla giovane vestale per tornare imponente nella sezione finale, dove si apprezza la solidità del registro grave unita a quello acuto, come sempre sfolgorante. Raffrontando i due ascolti si può convenire che la Nicolai sia meno impressionante della Stignani, certo è però che solo a quest'ultima la Nicolai può essere seconda in questo ruolo.

Discorso analogo può essere fatto per l'aria e cabaletta di Cuniza che apre il secondo atto di Oberto conte di San Bonifacio, scena anch'essa eseguita da Ebe Stignani alla RAI e di cui ci rimane fortunatamente testimonianza. Alla Rai la Nicolai fu Cuniza nell'esecuzione dell'opera completa accanto a Maria Vitale (mentre la Stignani nello stesso anno cantava Cuniza accanto a Maria Caniglia e Tancredi Pasero alla Scala). Dal maestoso recitativo iniziale passiamo al cantabile, in cui la Nicolai è capace di ben eseguire le volatine, tra cui quelle di "qui m'apparve". Ancora una volta la voce risulta ampia, bella e sontuosa, capace di donare tutta la regalità necessaria al personaggio e al momento drammatico, mantenendo sempre l'omogeneità dell'emissione nel passare dalle note centrali a quelle sotto al rigo. Nella cabaletta sono belli i trilli e la compostezza con cui la voce scende dai fa acuti ai copiosi si naturali sotto il rigo. Anche le quartine di "pari a quello dell'amor" risultano bene eseguite (meglio che in Norma), così come altrettanto ben eseguite, tanto da ricavarne perlomeno l'onore delle armi in termini di canto d'agilità, le quartine conclusive che portano sempre a ribattere su si naturali gravi, eseguiti con suoni timbrati e raccolti, prima dello scintillante si naturale acuto finale. L'esecuzione di Ebe Stignani sicuramente si segnala per una maggiore eleganza di linea, morbidezza della voce ed emissione maggiormente rifinita oltre che per il canto d'agilità più fluido, ma appunto la Nicolai solo al "monstrum" Stignani può essere seconda.


Gli ascolti

Oralia Dominguez


Cilea - Adriana Lecouvreur
Atto II - Acerba voluttà (1951)

Puccini - Suor Angelica
La principessa Clara, vostra madre (con Luisa Maragliano - 1963)

Rossini - L'Italiana in Algeri
Atto II - Amici, in ogni evento...Pensa alla patria (1962)

Rossini - Petite Messe Solennelle
Agnus Dei (1955)

Saint-Saens - Samson et Dalila
Atto II - Samson recherchant ma presence...Amour, viens aider ma faiblesse(1964)

Verdi - Un ballo in maschera
Atto I - Re dell'abisso...E' lui, è lui (1965)

Verdi - Aida
Atto IV - L'aborrita rivale...Già i sacerdoti adunansi (con Mario Del Monaco - 1951)

Verdi - Requiem
Liber scriptus (1954)

Vivaldi - Juditha Triumphans
Parte I - In somno profundo(1962)

Elena Nicolai

Bellini - Norma
Atto I - Va, crudele, al dio spietato (con Franco Corelli - 1953)

Cilea - Adriana Lecouvreur
Atto II - Acerba voluttà (1952)

Giordano - Fedora
Atto II - Loris Ipanoff, oggi lo Zar(con Beniamino Gigli - 1951)

Mascagni - Cavalleria rusticana
Voi lo sapete, o mamma (1953)

Spontini - La Vestale
Atto I - E' l'Amore un mostro, un barbaro(1951)

Verdi - Oberto, conte di San Bonifacio
Atto II - Oh! Chi torna l'ardente pensiero(1951)

Verdi - Don Carlo
Atto III - O don fatale (1954)

Verdi - Aida
Atto IV - Già i sacerdoti adunansi (con Mario Filippeschi - 1951)

Vivaldi - Juditha Triumphans
Parte I - In somno profundo(1941)

Wagner - Lohengrin
Atto II - Elsa!...Chi è là? (con Renata Tebaldi - 1954)

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lunedì 22 giugno 2009

Lucrezia Borgia a Liège

Nella stagione 1854 agli Italiani ritornò, dopo dieci anni di assenza, Giulia Grisi. E vi tornò con la "sua" Semiramide. Le scrissero che non era quella di dieci anni prima, ma che era sempre la Grisi. Suprema, per espressione e per virtuosismo, ad onta del declino del mezzo.

Voglio credere che le sensazioni di quel pubblico degli Italiani siano state simili a quelle provate, la sera del 18 giugno a Liegi, da Giulia Grisi, Domenico Donzelli ed Antonio Tamburini.
Per i primi due ascoltatori, attesa la loro anagrafe, miss Anderson è una vecchia conoscenza ( dal lontano 1983 in Lucia), una delle protagoniste di quella golden age del canto rossiniano degli anni '80. E finita da tempo. Per Antonio Tamburini, invece, il primo ascolto dal vivo del monumentum. Vale la pena cogliere il pensiero di entrambi i gruppi di ascoltatori, diversi perchè diversa l'anagrafe e le esperienze musicali.
June Anderson, lo abbiamo scritto, si è sempre prefissa, quale scopo, quello di essere una interprete. Abbiamo anche scritto, e la diretta interessata, credo lo sappia, che il suo "assillo" lasciava alquanto perplessi, perchè se una cantante sembrava richiamare la Anderson, quella era Joan Sutherland, che con l'interpretazione, soprattutto secondo i canoni a Lei contemporanei, ha avuto rapporti problematici.
Allora possiamo dire che la voce di miss Anderson ha perso in parte smalto (June Anderson è nata nel 1952 e canta dal 1979), il volume è controllato per evitare asperità di suono e, sopratutto, si evidenziano problemi di intonazione in zona di passaggio mentre gli acuti estremi talvolta suonano duri. Eppure abbiamo sentito June Anderson che nei panni della venefica Lucrezia, nell'assoluto rispetto delle regole interpretative e musicali del bel canto, senza nulla utilizzare (come hanno fatto Gencer e Caballé) dell'espressività del melodramma successivo, si è levata su tutto e tutti come una grande interprete. Attenzione maniacale al fraseggio nei recitativi, a cominciare da una frasetta di quelle dell'entrata "Tu scoprirlo non puoi, seco mi lascia..", al colore di voce completamente differente al secondo atto, a seconda che la Borgia si rivolgesse a don Alfonso o parlasse di Gennaro, o la scansione netta, precisa ed aulica della entrata della dichiarata avvelenatrice nel finale. E ciò nonostante la scrittura vocale sia, in quest'ultima scena, decisamente bassa.
Quanto ai cantabili, la differenziazione fra la fiorettatura languida della cavatina di sortita e della stretta del seguente duetto con Gennaro "ama tua madre" (con misurate varianti) e le agilità di forza del rondo finale (il "cazzaccio", che Donizetti inserì per compiacere Henriette Méric-Lalande e con lei altre venti prime donne) è paradigmatica. Oggi nessuna cantante in carriera internazionale è in grado di praticarla. Le critiche dedicate alla sopravvissuta Giulia Grisi del 1854 calzano a meraviglia alla altrettanto sopravvissuta June Anderson.
Insomma, una di quelle serate, e non perchè canti una cantante della nostra gioventù, che entusiasmano ancora, perchè vi si celebra l'essenziale ed irrinuciabile mito della prima donna, che da sempre alimenta il teatro.
Possono tentare di sostituire questa colonna portante del melodramma con quello della regia, del direttore ovvero con miti estranei a gusto ed estetica del melodramma italiano ed italianeggiante (da Haendel a Zandonai). Ne sortiranno soltanto serate modeste, zoppe, prive di senso, nonostante l'affannarsi per convincere il pubblico del contrario. Bastava sentire le ovazioni che hanno salutato la serata e la replica pomeridiana trasmessa dalla radio belga.

In genere le primedonne possono anche avere azione trascinante sui compagni di avventura.
Ne ha beneficiato, ad esempio, Marianna Pizzolato nel ruolo di Maffio Orsini. Per essere chiari la Pizzolato non può allo stato rivaleggiare con le performance teatrali e discografiche di Marilyn Horne e Martine Dupuy. E' però di molto superiore alle blasonate Sonia Ganassi e Daniela Barcellona, per richiamare i Maffio scaligeri.
La voce al centro suona bella, morbida, tonda, di colore da mezzo soprano acuto e buon volume. I problemi arrivano in basso e negli acuti estremi ( pochi perchè la parte non ne prevede e le interpolazioni in quella zona sono state parche). Eppure credo che manchi poco a Marianna Pizzolato per una carriera ai primi posti, tenuto anche conto di quali imposture detengano quelle posizioni. Credo le sia sufficiente una maggior copertura e proiezione del suono al centro, che poi è la zona baricentro della voce, per conquistare acuti squillanti e saldi. Quelli che competono a Cenerentola, Rosina. E naturalmente abbandonare, almeno per il momento, le parti di contralto come la poco felice Andromaca dell'anno passato a Pesaro. Potrebbe anche ispirarsi al gusto e alla sobrietà della collega americana nella scelta degli abiti.

Quanto al reparto maschile era capitanato da Ismael Jordi, spagnolo, che come tutti i tenori spagnoli è dotato di "punta" e di una certa propensione ad imitare Kraus. Meglio imitare Kraus che Carreras e Domingo. Anche qui con quel che passa il convento, ossia che impongono le mayor del disco ovvero Florez, Grigolo, Albelo siamo su un altro pianeta. Anche qui come nel caso di Marianna Pizzolato basta poco ad essere al livello delle generazioni passate, ossia un maggior sostegno quando si canta piano (come dicevano gli esponenti della vecchia scuola più si canta piano più si deve sostenere) e una maggior attenzione alla copertura del suono nella zona di passaggio. La voce è gradevole al centro, estesa (malgrado acuti a volte nasali o chiocci) ed il gusto elegante, l'interprete misurato e la dinamica ben superiore alla media. Oltre tutto Jordi ha eseguito l'aria scritta per Ivanoff, riesumata da Bonynge e di scrittura acutissima, sostenuta discretamente come discretamente sono state sostenute le difficili frasi del terzetto con Lucrezia ed il Duca Alfonso. Riascoltata in audio la voce fa molto meno effetto.
Mirco Palazzi, nonostante l'estesione in basso (che poi per don Alfonso che fu cantata da parecchi baritoni da Tamburini a Ronconi sino a Magini Coletti, Scotti e, credo, Battistini serve a poco), suona piuttosto sordo e faticoso in zona alta ( vedi da capo della sortita, dove il legato e la scorrevolezza periclitano ) e credo che dovrebbe pensare più alla zona medio alta della voce che non alla grave. A maggior ragione se, come credo, intende frequentare il repertorio del primo ottocento, dove il basso profondo è assai poco usato.
Con quello che, auspice una bacchetta di fama planetaria, è successo in Scala per Aida, direttori come Arrivabeni danno un senso alle cose che altrove sembra smarrito. Il compito del direttore per il melodramma italiano, almeno sino al 1850 (esclusi, forse, alcuni titoli del Rossini tragico) è quello di creare l'atmosfera e di accompagnare i cantanti. In Borgia le atmosfere abbondano, dal cupo preludio lagunare, all'ingresso tormentato della tormentata Lucrezia all'estatica sospensione del terzetto Alfonso-Lucrezia-Gennaro alle scene degli scherani della ducale coppia ed al finale che è il maggior colpo di teatro dell'800 italiano e renderle non è facile. Arrivabeni ci è riuscito, sia pure con un'orchestra non certo perfetta, soprattutto nel prologo.


Come anticipato da Donzelli, era la prima volta che ascoltavo dal vivo June Anderson. E non ho difficoltà ad ammettere che ne sono rimasto impressionato. In primo luogo, per lo strumento di cui dispone: il timbro è bellissimo, di grande dolcezza, e la voce ha un’ampiezza e una sonorità sorprendenti, in senso assoluto e non soltanto in considerazione dell’età e dei trascorsi. Mi viene spontaneo paragonarla a quella di una cantante diversissima per repertorio e sensibilità di artista, Edita Gruberova, altra Borgia “fuori tempo massimo”, almeno sulla carta, di questi anni. La slovacca ha una dote naturale meno entusiasmante dell’americana, ma entrambe hanno conservato una freschezza assoluta, almeno nel registro centrale della voce, una zona in cui ultimamente tanti, per non dire quasi tutti i soprani lirico-leggeri o magari lirici tout court sfoggiano soprattutto il proverbiale “buco”. Per poi emettere magari suoni più penetranti, ma non necessariamente più sonori, in zona acuta. Rispetto alla Gruberova la Anderson ha maggiori problemi nella gestione dei fiati, che le vietano, segnatamente in acuto, le prodezze della cantante di Bratislava (penso al la bemolle acuto “filato” del Prologo, o alla dolcissima, trasognata chiusa del M’odi ah m’odi), ma scende molto meglio e soprattutto sa eseguire la coloratura di forza, senza ridurre la duchessa di Ferrara a un’antenata della Fiakermilli. L’unico punto della prestazione di Miss Anderson che mi pare censurabile è il re bemolle sovracuto interpolato alla fine del Prologo, nota sulla quale la voce sembra rimpicciolirsi improvvisamente, ma c’è da dire che fino al do la signora regge benissimo, senza le occasionali stonature della Gruberova. Quanto all’interpretazione, quella della Anderson è una Borgia elegante e priva di leziosaggini, commossa senza affettazione, una Borgia “buona” e in balia degli eventi, e per questo mostra un po’ la corda alla grandiosa entrata nell’ultimo quadro, ma se non altro sembra una nobildonna, e non una solida Hausfrau (come la Gruberova o l’imperturbata Devia) e nemmeno una creatura più prosaica e adatta, più che al teatro d’opera, a quello di prosa o al cinema. Muto, ove possibile. - AT


Gli ascolti

Donizetti - Lucrezia Borgia


Prologo: Di pescatore ignobile...Ama tua madre, e tenero - Ismael Jordi & June Anderson (2009)


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domenica 21 giugno 2009

Aida alla Scala: l'altro lato di Barenboim

Il terzo titolo verdiano della stagione scaligera è stato, sotto il profilo qualitativo, peggiore di quello che ha inaugurato la stagione. Se il Don Carlo inaugurale prestava il fianco a critiche, l’Aida di ieri sera era della medesima qualità. Ed i peggiori torti vanno imputati, anche in questo caso, alla direzione d’orchestra. Del sempre più imperante ed imperversante, quale direttore, solista e chissà quando regista, Daniel Barenboim.

La performance di ieri sera si riassume con la definizione di “un’Aida da teatraccio tedesco”.
Si può sempre discutere, ed all’infinito, sulle scelte di tempi, ma non si può accettare un'incostante incoerenza non solo fra i singoli pezzi, ma all’interno degli stessi. A solo titolo di esempio: abbiamo avuto un terzetto iniziale rallentato, una sezione iniziale della marcia trionfale con trombe dai vari colori opéra-comique, per avere poi un primo quadro del secondo atto (il boudoir di Amneris) dai suoni rozzi e volgari, non certo consoni al clima salottiero che Verdi dedica alla corte. Potrebbe trattarsi di un suk di Algeri o Tunisi. Per contro la sezione conclusiva del trionfo è stata rumorosa e fragorosa, come pure piatto, senza colori, tutto il terzo atto e la scena della morte degli infelici amanti all’interno della tomba. Ma le incoerenze della direzione, raffazzonata e affrettata, tragicamente priva del “mestiere” dei Serafin, dei Votto, dei Panizza e dei Bellezza, si sono manifestate anche all’interno dei singoli numeri, per cui, sempre a titolo esemplificativo, avevamo un pesante e sonoro accompagnamento di tromba, nel passo di “Nel fiero anelito”, pergiunta non a tempo con il tenore. Peraltro i fiati e i legni, sia in scena che fuori, per tutta la serata se ne sono andati “per conto loro” e non è che gli archi iniziali fossero per certo una meraviglia. Peraltro va anche aggiunto che con la compagnia di canto raccogliticcia di cui la Scala disponeva neppure i sopra citati “praticoni” avrebbero fatto miracoli. Una cosa è evidente, però, il maestro Barenboim crede che per questi titoli valgano i principi di quelli wagneriani. Come pure è altrettanto evidente che da parte del direttore non vi sia alcuna considerazione, stima e amore per il melodramma italiano, e che la scelta di questa direzione nasca più da necessità commerciali e di difesa, che posizioni acquisite o acquisende. Il teatro ha silenziosamente ascoltato la rappresentazione, riservando al direttore e concertatore una cospiscua riprovazione allorquando lo stesso si è presentato da solo al proscenio al termine dello spettacolo. E ci domandiamo, girando il quesito a chi legge, se lo abbia fatto per riconoscere la propria esclusiva responsabilità o viceversa per raccogliere quello che credeva il suo “presunto” trionfo.
La circostanza che per l’intera serata non vi fossero stati dissensi (salvo qualche buu all’indirizzo di Anna Smirnova al termine della scena del giudizio, peraltro passata sotto il più assolto silenzio, platea e palchi ghiacciati dalla sua prova ), ci fa propendere per la seconda ipotesi.
Quanto allo spettacolo di Zeffirelli, rimane una colorata parodia dello stile del regista toscano, in quest’occasione un po’ ripulita da certi tocchi di kitch parossisitico (o di involontario comico), come quella coppia di giganteschi “arcangeli” che andavano su e giù un paio di volte nella serata et consimilia.. Non la summa del suo gusto e della sua estetica, bensì la parodia. Visto una volta, questo allestimento è più che sufficiente: anche noi a Milano avremmo gradito poter dare un’occhiata alla ripresa dell’allestimento della De Nobili (1963) che andrà in tourneè. Ed invece no, anche in questo i milanesi debbono fare penitenza, forse perché infliggendogli uno degli allestimenti più brutti della storia è più facile convincerli che la modernità intellettuale, di importazione franco tedesca, che la dirigenza del teatro ci impone è preferibile della nostra italiana tradizione.
Ritornando alle parodie, vi dicevo, ne abbiamo viste e sentite molte anche in scena.
La prima e più evidente, quella di Anna Smirnova-Amneris. Voce di mezzosoprano acutissimo o forse di soprano, assolutamente insipiente di qualunque cognizione tecnica, a partire dalla respirazione, esibisce suoni bassi uterini e grotteschi, centri vuoti e bianchi, spesso sussurrati, acuti gridati e ghermiti. Non è una cantante che canta “male” come Elena Obraztsova, è una principiante che rifà malamente il verso alla stessa, senza averne lo splendore dello strumento. Ha trasformato Amneris in una protagonista di casta assai inferiore a quella della figlia del faraone, non disponendo nemmeno di grande presenza scenica. Ha cantato a squarciagola i difficili attacchi di “Ah vieni, vieni amor mio” dell’atto II, aggredendo con fastidiosa sguaiataggine Aida ( per nulla convincenti poi sibili sussurrati su “Radames ..vive!, nel contesto di un fraseggio plebeo, pieno di notacce di petto ….), e completando l’opera in un IV atto davvero incredibile per la volgarità del gusto. Le bacchette, quelle grandi, che amano il canto, sanno bene che è loro compito arginare il cantante quando eccede o non ha i riferimenti esecutivi di ciò che canta. Toccava a Barenboim suggerire una maggior compostezza e sobrietà interpretativa, e questo non è per nulla avvenuto. Incredibile! Forse a questi direttori di oggi basta che la voce ( perché solo per la “voce” paiono essere considerati da loro i cantanti ) stia nei loro tempi e sopporti, come la povera Smirnova, il fracasso e l’assenza di prese di fiato nelle terribili frasi finali di“Anatema su voi…”; che poi le stesse voce non si compongano di un solo suono correttamente emesso è affar che le riguarda solo le orecchie del pubblico. E comunque ci spiace vedere ragazzi giovanissimi, dotati di mezzi ragguardevoli, immessi nei ritmi delle grandi carriere in queste condizioni, senza che nessuno suggerisca loro i parametri e le cognizioni necessarie per costruire una carriera duratura, ma goveranti solo dalla legge dell'usa e getta.

Amanti protagonisti Walter Fraccaro e Maria José Siri.
Il primo dalla voce grossa, spessa e non squillante, di bassa sonorità. Nessuna smorzatura, nessuna dinamica, nessuno squillo nei luoghi deputati. In compenso una cospicua serie di portamenti, anzi…portamentoni!, suoni fibrosi e opachi ed una sensazione di fatica suprema a portare a termine la parte. Ha cantato l’aria, peraltro passata sotto silenzio, sempre avanti alla buca, sperando in un tempo a lui congeniale che, ovviamente, non gli è stata concesso. Inudibile nella scena del tempio, dove non può per forza di cose e posizione scenica, “forare” sul coro. Si è barcamenato nel secondo atto, ed ha letteralmente rincorso la tromba di Barenboim in “Nel fiero anelito”, cantato senza mezza presa di fiato e spazio per salire, con le difficoltà del suo canto, all’acuto. L’ “Oh terra addio” è stato ultimato con sovrumana fatica, con la voce a tratti afonoide, perché la benzina era finita.

La signora Maria José Siri, che sostituiva M. Feubel, che sostituiva la misteriosamente disparita Norma Fantini, porta il nome di quella che fu l’ultima regina d’Italia, meglio nota come la Regina di Maggio, avendo regnato il solo mese di maggio 1946. A suon di Aide e titoli consimili (Trovatore, Ballo e Forza) non potrà certo avere carriera molto più lunga del regno dell’eponima regina. In sostanza, e per farla breve, è una voce da Mimì o da Suzel (dell’Amico Fritz) applicata al pesante strumentale verdiano e dall’inumana lunghezza del title role, il terzo atto soprattutto.
Non posso dire che abbia cantato male, perché a parte i do dell’atto secondo e quello dei “Cieli azzurri”, preso un po’ alla sperainDio, ci ha dispensato da suonacci, effettacci e altre chincaglierie disgustose. E si è sforzata, pur dovendo usare il FF della sua voce, di non gridare. E di questo molto la ringraziamo e ci complimentiamo. E’stata garbata, ma non è voce per Aida. Perciò il personaggio è risultato una miniatura cortese, ma di peso tragico inesistente. Momenti topici, quelli ove l’opera davvero svolta e piega le voci, il terzo atto, in particolare tutti i passaggi gravi e/o tragici del duetto con Amonasro ( come già prima nell’aria le frasi del tipo “….del Nilo i cupi vortici”, con l’orchestrale che si amplia enormemente..) , o la stretta del duetto con Radames “ Si fuggiam….” dove la voce si è fatta piccola e stridula per la fatica. Mai un applauso dopo le arie. Una graziosa A(i)dina, ecco!

Quanto ai gravi maschili, siamo sempre male in arnese.
Che Juan Pons canti ancora e per giunta opere ove la morbidezza del fraseggio è requisito primario è la cartina di tornasole del nostro magro presente. La sua voce dura, rozza, talora anche …buca, è a malapena tollerabile nel Tabarro, e qui è uno spavento. Certo, era la voce più grande del cast, ma…………!!!!!! Le leggendarie frasi che separano i beceri dai nobles seigneurs del canto, tipo “ Dei faraoni tu sei la schiava..!”, sono state un'apoteosi dell’orrore, ancora una volta non arginato da Barenboim. E’ anche andato fuori tempo nel 3 atto,, nelle frasi “ Vien oltre il Nil ne attendono….etc..”
Il Re del nostro affezionato lettore Carlo Cigni, che ha sofferto un tempo bello ma per lui troppo lento nella scena d’ingresso, ed il Ramfis di G. Giuseppini, anche lui poco udibile alla scena del Tempio del primo atto, cantano in modo simile, cioè ingolato. E perciò non hanno l’ampiezza necessaria ai ruoli, perché le voci restano laggiù sul palco. Che i personaggi perdano di maestà e ieraticità è chiaro. Pergiunta Giuseppini ha un timbro ormai senescente.

Pochi applausi alle due striminzite collettive del cast vocale e dure riprovazioni alla bacchetta, che ha fatto l’unica singola della serata.
Attendiamo come al solito che il pubblico scaligero venga riprovato per il suo moto d’orgoglio e dignità sulla stampa collaborazionista, che di certo magnificherà l’evento stigmatizzando l’ignoranza dei contestatori.

PS
A riprova del fatto che il teatro non muore per colpa delle contestazioni ma anche dell’insipienza di chi decide oltre che per la penuria di cantanti, vi mettiamo in parallelo nello stesso brano verdiano, il Liber scriptus del Requiem di Verdi (il solo brano disponibile per entrambe le cantanti) l’Amneris di ieri sera e quella, originariamente prevista in primo cast, poi degradata al secondo nella produzione del 2006.
La prima canta in tutto il mondo, nei principali teatri e con le principali bacchette, la seconda non gode di alcuna considerazione e si esibisce solo in Russia, paese da cui entrambe provengono. Giudicate voi.

Anna Smirnova - Liber scriptus

Irina Makarova - Liber scriptus

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venerdì 19 giugno 2009

Aida in Scala, terza puntata: le Aide "di regime" (1931-1948)

Dopo l’annus mirabilis 1929, caratterizzato dalla compresenza di Giannina ed “Elisabetta” (così gli annali della Scala appellano la signora Rethberg), la schiava etiope tornò nella sala del Piermarini all’inizio del 1931, con un cast davvero prestigioso: Ebe Stignani come Amneris, Francesco Merli e Giuseppe Taccani nei panni di Radames e Carlo Galeffi quale Amonasro. Il ruolo del titolo fu affidato in alternanza a due cantanti che rappresentavano, declinandolo diversamente per sensibilità e capacità individuali, il medesimo cliché, quello della diva verista. Parliamo di Bianca Scacciati e Iva Pacetti. Entrambe toscane, interpreti di riferimento nel repertorio pesante (un titolo per tutti: Turandot, che la Scacciati tenne a battesimo al Covent Garden e che la Pacetti cantò fino alla vigilia del ritiro) in quanto dotate di voci torrenziali o comunque assai potenti e di una spiccata propensione a piegare il dettato musicale alle esigenze dell’espressione, la quale doveva essere in primo luogo caratterizzata da un’altissima temperatura drammatica. Sarebbe quindi lecito aspettarsi un canto, che fosse la negazione assoluta del dettato verdiano e insomma il travisamento più completo di un personaggio dolente e intimo come Aida. Ascoltando la grande scena del primo atto ci si accorge che le cose non stanno proprio così.

La Scacciati sfoggia in primo luogo una voce di straordinaria qualità, in particolare nella fascia do4-fa4, sulla quale si gioca buona parte dell’invocazione “Numi pietà”. Il che aiuta a riequilibrare almeno in parte le intemperanze della prima sezione, in cui in effetti i suoni di petto abbondano, in parte giustificati dal testo, con immagini di cupa drammaticità che la grande diva verista non poteva che rendere in modo consono ai dettami dello stile prediletto. A ogni modo la progressione “ond’io lo vegga…un re! Mio padre! Di catene avvinto” è cantata (pur con un mezzo strillo sul sol4 finale) e non solo grandiosamente accentata, così come magnifica è la doppia scala ascendente-discendente “L’insana parola o Numi sperdete”, eseguita d’un fiato. Il sibem4 tenuto di “Ah sventurata”, un’autentica bomba sonora, testimonia, se ancora ce ne fosse bisogno, l’eccezionale natura vocale della Scacciati. La fraseggiatrice latita nel successivo “e l’amor mio? Dunque scordar poss’io”, per riscattarsi negli accenti più tesi alle parole “I sacri nomi di padre, d’amante”, a onta di qualche suono aperto (il mib3 di “la mente è perduta”), mentre una vera prodezza è il passaggio del sib3 di “morir” al mib4 di “Numi pietà”. La melodia spianata esalta la dolcezza del timbro della Scacciati, anche se la cantante trascura le forcelle previste dall’autore (ad esempio su “tremendo amor” e su “Soffrir, ah pietà”), sostituendole per lo più con note perentoriamente accentate, che però non sono altrettanto efficaci nel rendere lo sfinimento e la disperazione della dolente principessa, e abusa un poco dei portamenti (specie nel primo “Numi pietà”). Insomma la cantante-attrice è presente all’appello e sfoggia uno strumento di prima qualità, ma l’attrice vocale non è allo stesso livello.
I limiti del canone verista applicato ad Aida emergono con forza ancora maggiore nel caso di Iva Pacetti. La voce, almeno all’ascoltatore del fortunoso broadcast dalle Terme di Caracalla, suona più magra (specie all’ottava bassa) e meno attraente a livello timbrico rispetto alla Scacciati. La propensione a confondere il declamato di Aida con le richieste di un “parlando” più adatto a Gioconda o meglio ancora a Nedda emerge soprattutto nella prima sezione di “Ritorna vincitor”. Le variazioni a livello dinamico sono sapienti, vedi ad esempio l’improvviso pianissimo alle parole “Sventurata! Che dissi”, ma gli acuti sono strillati e la sezione “I sacri nomi di padre, d’amante” vede la cantante sfoggiare un accento piuttosto generico. Meglio “Numi pietà”, in cui i portamenti sono più controllati rispetto alla Scacciati e le forcelle tenute in maggiore considerazione. Peccato per alcune riprese di fiato arbitrarie (ad esempio quella fra do4 e sib3 al momento del penultimo “del mio soffrir”). Al di là del gusto, datato e discutibile fin che si vuole, riteniamo che l’ascolto della Pacetti dimostri che anche in ambito verista i cantanti (se non altro quelli di un certo livello) possono declamare e accentare, senza per questo ignorare per principio le richieste della partitura.

Dopo le recite del 1933, dirette da De Sabata e affidate in esclusiva alla Scacciati (al suo fianco il Radames di Pertile e l’Amonasro di Benvenuto Franci), Aida fu nuovamente allestita in Scala nel 1935, sotto la direzione di Gino Marinuzzi. Questa produzione, cui parteciparono fra gli altri Gianna Pederzini, Giacomo Lauri Volpi, Francesco Merli ed Ettore Nava, fu caratterizzata dallo “scontro” di due delle maggiori cantanti italiane dell’epoca, regine del repertorio drammatico: Gina Cigna e Maria Caniglia. La sfida appare molto interessante anche per l’ascoltatore moderno, perché di entrambe esistono registrazioni dal vivo complete o quasi: per la Cigna, la tournée della Scala a Berlino del 1937 (con Gigli, la Stignani, Nava e Pasero diretti da De Sabata: quando si dice un cast all star!), purtroppo monca del quarto atto; per la Caniglia, un broadcast londinese del 1939, sotto la bacchetta di Thomas Beecham, ancora con Gigli e la Stignani e con Armando Borgioli nei panni di Amonasro. La presenza degli stessi compagni di viaggio per queste due Aide, se da un lato testimonia la validità e quasi universalità dei medesimi (in particolare della Stignani, che iniziò la carriera con Amenris e quale altera prole dei Faraoni toccò i maggiori teatri e attraversò i decenni, fino agli anni Cinquanta), dall’altro permette di comparare le protagoniste in contesti analoghi, se non identici. E va subito detto che tanto la Cigna quanto la Caniglia soccombono di fronte alla signora Stignani, autentica dominatrice della scena, almeno sotto il profilo vocale. L’emissione morbida e insolentemente sul fiato del mezzosoprano evidenzia, per contrasto, le carenze e i limiti delle due illustri rivali, a cominciare dalla cesura fra i registri vocali.

È per ridurre lo scarto fra il registro medio e i poderosi acuti che, nella sezione del duetto che comincia “Amore, amore”, la Caniglia abbonda nelle note di petto, quindi alleggerisce e schiarisce la voce allo scopo di salire più facilmente al la4 di un “un tuo sorriso”, nota che però sfiora appena con effetto di staccato, poco consono alla circostanza drammatica. La salita al la4 di “un tuo sorriso mi schiude il ciel” è realizzata a prezzo di qualche durezza e realizzando in maniera piuttosto sommaria le indicazioni di crescendo e diminuendo previste dall’autore. La Caniglia si prende una rivincita in “che mai dicesti? Misera!”, in cui può sfoggiare un poderoso sib4, ma il successivo salto d’ottava dal fa4 al fa3 (su “Misera!”) evidenzia lo scarto fra la possente nota acuta e l’altra, assai meno a fuoco. La scala discendente “Avversi sempre mi furono i Numi” è chiusa con un discutibile effetto di parlato, utile a mascherare il famoso “scalino” della voce. Il medesimo effetto, sia pure attutito, si registra su “Vive! Ah grazie o Numi”, che dal la4 (sempre impressionante) scende al fa centrale. La tronca rivendicazione dell’amore e del rango principesco evoca più Santuzza che Aida, e questo malgrado un’altra bordata impressionante sul lab4. La sezione successiva, “Pietà ti prenda del mio dolor”, per la quale Verdi indica “piano cantabile”, ispira alla Caniglia una maggiore morigeratezza e vede il soprano realizzare al meglio le forcelle scritte su “E’ vero io l’amo”(malgrado un do4 un po’ troppo aperto) e “felice, tu sei possente” (anche se il fa 4 e i suoni successivi non hanno la morbidezza che sarebbe opportuna, e per la quale occorrerebbe una diversa emissione). Molto bene anche il mi4 di “immenso amor”, attaccato piano, rinforzato e poi smorzato. A dimostrazione che il soprano drammatico non diventa tale perché dotato di voce torrenziale e magari del tutto ignaro di tecnica del canto. L’invocazione “Pietà” che conclude la sezione è prossima più a una declamazione intonata che al canto, con il risultato di fare di Aida una sorta di madre spirituale di Tosca. Sia chiaro, una Tosca di gran stirpe. La chiusa “Numi pietà” permette alla Caniglia di sfoggiare la bellezza del timbro e pianissimi suggestivi, sebbene realizzati con abbondanza di portamenti.

Se tutto sommato la Caniglia tratteggia un’Aida a metà strada fra la principessa oltraggiata e la vittima oppressa dalla potente rivale, la Cigna opta per un’immagine meno sfaccettata. Il ricorso insistente al registro di petto (persino nell’invocazione “Numi pietà”) conferisce al canto in prima ottava una vigoria aspra e vagamente androgina e non sembra ostacolare la cantante – dotata di un mezzo in natura eccezionale, giova ricordarlo! – nella salita agli acuti, semplicemente magmatici nonostante alcune comprensibili durezze. L’interprete opta per un costante mezzoforte che ignora quasi tutte le sfumature dinamiche previste dal compositore. Il che è ancora una volta funzionale alla creazione di un’Aida più forte e meno smarrita del consueto. Peccato che la zona centro-acuta, di norma sontuosa, suoni a più riprese vuota, quando non stridula (si ascolti ad esempio “Mia rivale? Ebben sia pure!” o “Ah pietà! Che più mi resta?”), il che finisce per indebolire il ritratto di un’Aida guerriera, che la Cigna riteneva la più adatta a lanciare “in battaglia” contro l’imperturbabile signora Ebe.

Nell’incontro con Radames al terzo atto la Cigna abbraccia con evidenza persino maggiore i canoni del verismo: vanno in questa direzione il fraseggio imperiosamente scandito (il “marcato” previsto dall’autore sulla frase “D’Amneris sposo” è esteso ed accentuato lungo tutto l’attacco del duetto) e il piano insinuante di “d’uno spergiuro non ti macchiar”, che prepara e rende ancora più spettacolare l’esplosione di “prode t’amai, non t’amerei spergiuro”, in cui l’indicazione “declamato” è rispettata con aggressività persino eccessiva. Tanta drammaticità e qualche strillo anche nella successiva progressione “E come speri sottrarti” (coronata dalla bordata terrificante del sol4 su “dei Sacerdoti all’ira”), che completa il ritratto di un’Aida che cerca di virare con fin troppa insistenza l’idillio amoroso in aperta lite. Insomma Gioconda cede il passo a Carmen, altro personaggio chiave del gusto e della poetica verista, e difatti subito attacca il cantabile della seduzione, che qui si fa quasi speculare a quello del finale secondo dell’opera di Bizet. E a questo punto la Cigna, da vera diva, si trasforma e sfoggia una voce suadente e appassionata, se non morbida, per dare voce all’estasi erotica (sia pure strumentale) di Aida. E questo tanto nel “parlante” sul re3 di “Fuggiam gli ardori inospiti”, in pianissimo, quanto nella più propizia fascia re4-sol4 di “E in estasi beate”, in cui la cantante realizza buona parte delle indicazioni dinamiche di cui la pagina abbonda. Meno riuscito il tentativo di legare sol4 e fa4 alle parole “la terra scorderem” prima dell’intervento di Radames. In chiusa del cantabile la salita al sib4 di “ivi nel tempio istesso” vede in difficoltà la Cigna, che emette un suono fisso, mentre la progressione finale (“fuggiam, fuggiam”), che ancora una volta porta la voce sul sib4, è realizzata, sia pure non in un solo fiato, con apprezzabile cura nel rispettare l’indicazione “dolce” e addirittura smorzando l’acuto. Per convincere definitivamente il recalcitrante innamorato questa Aida ricorre ancora una volta all’effetto drammatico più scoperto, con una realizzazione potentissima del lab4 di “Allor piombi la scure” e soprattutto del successivo sol4 di “mio”. Nella successiva cabaletta il tentativo di cantare piano in fascia centro acuta dà luogo a suoni chiocci e produce suoni duri e diffuse fissità in acuto (lab4 di “a noi talamo” e successivo sib4, con difficoltà nel legare quest’ultimo suono al la4 immediatamente seguente, idem dicasi per il sib4 e la4 coronati in chiusa). Non è da escludere che la stanchezza, causata dagli exploit precedenti, giochi un ruolo non di secondo piano nella resa non proprio brillante della sezione conclusiva del duetto.

Del tutto diverso è l’approccio di Maria Caniglia a questa stessa pagina. Fin dall’attacco è evidente il tono ben più sobrio e controllato adottato dalla cantante allo scopo di rendere la nobiltà, sia pure piagata, della principessa in esilio. La Caniglia accenta con proprietà ma senza eccessi, lontanissima quindi dalle intemperanze della Cigna, anche nei momenti a più alto tasso tragico (gli stessi in cui la collega indulge agli effetti più plateali). L’attacco “Fuggiam gli ardori inospiti” non ha il mordente della Cigna, ma il legato è molto più curato e la voce infinitamente più morbida. E questo malgrado qualche suono fisso, come il sol4 di “la terra scorderem”, il sib4 di “ivi nel tempio istesso” (ma quest’ultimo acuto è risolto molto meglio rispetto a quanto realizzato dalla Cigna) e il sib4 finale (anche calante). La Caniglia non cerca insomma lo scontro diretto con il partner, ma sceglie una linea di canto elegiaca ma non per questo inerte, e nel complesso l’operazione può dirsi riuscita, soprattutto nel cantabile. L’ascolto della Caniglia, da alcuni stigmatizzata come mera strillona, potrebbe indurre, se non a una rivalutazione, a una più ponderata riflessione sui meriti e i limiti di questa cantante. Il successivo passaggio “Allor piombi la scure” si caratterizza certo per la potenza dell’esecuzione, ma non è un gratuito sbraitare. Semmai i problemi emergono nella cabaletta, con evitabili grida diffuse, anche se la voce è davvero sontuosa e fulgida, perfetta per la febbre erotica di questa pagina.

Se ci siamo dilungati sullo “scontro diretto” Cigna/Caniglia (tralasciando ulteriori considerazioni sugli altri ascolti proposti… ma è bene che i lettori, che vorranno scaricare i brani proposti in appendice, possano trovare qualche sorpresa nell’ascolto!), è perché le signore si disputarono, di fatto, il dominio assoluto del ruolo nel teatro milanese nel corso degli anni Trenta e Quaranta. Nel 1937 fu di nuovo Gina Cigna a impersonare Aida alla Scala, al fianco di Ebe Stignani, Francesco Merli, Ettore Nava e Tancredi Pasero e sotto la direzione di De Sabata (il cast, fatta eccezione per il tenore, è il medesimo della tournée berlinese di poco successiva). La stessa compagnia, con Beniamino Gigli al posto di Merli, ripropose il titolo nel 1938. Il 1941 vide il ritorno a Milano della schiava etiope della Caniglia: con lei Gianna Pederzini, ancora Gigli, Pasero e Nava e la bacchetta di Franco Ghione.

Nel gennaio del 1945 approdò in Scala un’Aida “di guerra”, affidata alla solida direzione di Gino Marinuzzi: a un grandioso cast maschile (Merli, Pasero e Carlo Tagliabue) si aggiungevano due Amneris di grossa cilindrata come Cloe Elmo ed Elena Nicolai e, nel ruolo di Aida, Carla Castellani e Germana Di Giulio. Della Di Giulio, soprano drammatico la cui carriera si svolse prevalentemente in provincia o, al massimo, nei secondi e magari terzi cast dei grandi teatri, esiste una registrazione integrale di Aida, effettuata dal vivo in Nuova Zelanda nel 1949. L’ascolto della romanza del terzo atto mette in luce quelle che erano, e non potevano non essere, le caratteristiche di un’onesta professionista del canto a metà del secolo scorso. La fraseggiatrice non è fantasiosa e l’interprete manca di finezza (le indicazioni dinamiche e gli abbellimenti sono risolti in maniera scolastica), ma la voce è sana e solida in tutti i registri: quello grave è pieno e non artificiosamente pompato, i centri sono robusti (vedi la frase “Del Nilo i cupi vortici”, in cui il canto non ha fatica a imporsi sull’orchestra in tumulto) e gli acuti, pur se occasionalmente un po’ “tirati” (soprattutto il do!), sfoggiano un volume di tutto rispetto. Il limite più grave, a livello tecnico, è costituito dai fiati, troppo corti per reggere le impressionanti arcate previste dalla pagina. Ascoltando di seguito e nella stessa pagina la celebrata (soprattutto oltreoceano) Herva Nelli, che alla Scala fece la sua comparsa nel 1948, in terzo cast dietro la Caniglia (ancora una volta!) ed Elisabetta Barbato (già protagonista di una ripresa nel 1946) sotto la bacchetta di Ettore Panizza, si può apprezzare forse ancora meglio la solidità del mestiere di Germana Di Giulio. La Nelli, dal timbro grigio e dall’accento generico e querulo, e soprattutto con la voce piena d’aria (principalmente nel registro grave), sembra navigare a vista nello spartito, con quale pregiudizio dell’effetto complessivo della pagina è facile verificare. Un’interpretazione dimessa, per non dire lagnosa, e con il pesante limite di un registro acuto quanto meno improbabile.

Segnaliamo da ultimo che l’edizione del 1948 vede alternarsi tre Amneris di gran voce: Ebe Stignani (ebbene sì), Fedora Barbieri ed Elena Nicolai. La Barbieri, già principessa egizia alla Scala nel 1946, vi sarebbe ritornata nel 1950, per un’edizione anch’essa giustamente mitica, e della quale vi racconteremo nella prossima puntata: l’edizione del “duello” Tebaldi/Callas.



Gli ascolti

Verdi - Aida


Atto I

Ritorna vincitor - Bianca Scacciati (1930), Gina Cigna (1937), Iva Pacetti (1939)

Atto II

Fu la sorte dell'armi - Ebe Stignani & Gina Cigna (1937), Ebe Stignani & Maria Caniglia (1939)

Atto III

Qui Radames verrà...O cieli azzurri - Maria Caniglia (1939), Herva Nelli (1949), Germana di Giulio (1949)

Cielo! mio padre! - Gina Cigna & Ettore Nava (1937)

Pur ti riveggo, mia dolce Aida - Gina Cigna & Beniamino Gigli (1937), Maria Caniglia & Beniamino Gigli (1939)

Atto IV

La fatal pietra - Beniamino Gigli & Maria Caniglia (1939)


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mercoledì 17 giugno 2009

Aida in Scala, seconda puntata. Arangi Lombardi e Rethberg


Era l’aprile del 1929, il nero ’29 in cui Wall Street sarebbe crollata di lì a sei mesi, quando il Teatro alla Scala di Milano, sotto la bacchetta di Arturo Toscanini, allestì per sei sere una produzione leggendaria di Aida, con Aureliano Pertile e Francesco Merli, Carlo Galeffi, Elvira Casazza e Albertina dal Monte, protagoniste principali due Aide fondamentali nella storia del canto, Giannina Arangi Lombardi ed Elisabeth Rethberg.
Due protagoniste opposte e simili al tempo stesso, una voce calda e completamente mediterranea la prima, chiarissima e scintillante la seconda.

Non fu dunque Giacomo Lauri Volpi l’ideatore del noto parallelo dialettico sulle due voci e le due interpreti, ma Toscanini. Musiciste di grande qualità entrambe, entrambe amate dalle bacchette per la loro infallibilità davanti al pentagramma, per la purezza e la perfezione assoluta dell’emissione in ogni zona della voce, capaci di amministrare e restituire alla perfezione qualunque effetto richiesto dai direttori. Eguali e diverse, dicevamo. Eguali nella saldezza tecnica, nella compostezza del canto, sempre aulico e distaccato, nella concezione “belcantista” della vocalità verdiana, dove mai un suono o una frase o un accento o un effetto eccede la misura o l’equilibrio o trasmette un coinvolgimento che non sia completamente astratto e depurato da ogni screziatura di realismo.
Diverse perché caratterizzate l’Arangi Lombardi da una congenita malinconia del timbro, da una linea di canto lirica e dolente, la Rethberg da un distacco sommo, austero sino al gelo, tanto che gli effetti espressivi paiono più descritti, mera rappresentazione metaforica, che espressione diretta e spontanea.

Le documentazioni discografiche che entrambe ci hanno lasciato di questo ruolo consistono, per l’italiana, in una esecuzione integrale dell’opera del 1928, sotto la bacchetta di C. Sabajno, oltre alla precedente incisione del 1926 dei due duetti con Radames assieme a F. Merli e all’aria del 3 atto del 1927; per la tedesca, invece, manca l’integrale del ruolo, in particolare i duetti con Amneris e Radames al IV atto. Esistono due incisioni doppie, del 1924 e del 1926 delle due arie, un’incisione famosissima dell’atto terzo in compagnia di Giacomo Lauri Volpi e Giuseppe De Luca proprio nel 1929, anno della performance scaligera, nonché un prezioso live londinese del 1936 del concertato atto II. Una discografia che gli amanti dei 78 gg ben conoscono e posseggono.
C’è n’è comunque quanto basta per misurare i due soprani nelle loro capacità vocali e espressive, oltre che per impiantare perfidi confronti, secondo il nostro costume, con Aide più moderne, note e magari blasonate, anche a dispetto dell’handicap evidente dato dai mezzi arcaici di incisione con cui le loro voci straordinarie ed immense vennero riprese.
Queste cantanti affascinano per la loro capacità assoluta di dominare il ruolo in sourplesse, senza sforzo o accidente alcuno, ma soltanto il parallelo con qualche voce di timbro o peso specifico noto, modernamente inciso, ci chiarisce meglio di quale potenza, ampiezza e ricchezza di armonici si trattasse nei casi dell’Arangi Lombardi e della Rethberg. E quale monumentalità ed aulicità di accento si debbano possedere per cantare questo ruolo come era nell’intento di Verdi, con buona pace di tutte le storielle e barzellette scritte negli ultimi decenni per giustificare gli approcci al ruolo da parte voci sane e belle, ma meramente liriche, giuste per Mimì e non per Aida. Garante della verdianità della loro esecuzione, Arturo Toscanini, il grande dittatore delle scelte dei cast scaligeri del tempo, che le volle con sé nel ’29. E più di questo non so che prova documentaria si possa pretendere per asserire che Aida non è un semplice soprano lirico che annega l’accento negli innumerevoli p e pp scritti da Verdi, come l’Arangi Lombardi, somma esecutrice nonchè dispensatrice di proprie personali aggiunte in fatto di forcelle, documenta. Saggia quella moderna e straordinaria Mimì che si limitò ad assecondare le idee di Karajan in rare produzioni a fronte delle tantissime richieste provenienti dai teatri di tutto il mondo; corruttrice profonda dell’idea del ruolo, invece, quel grande soprano che trasformò Aida in una seduttrice fascinosa tutta pianissimi, perché di pianissimi ne occorrono ad Aida, ma non certo i suoi, troppo elegiaci seppure di timbro straordinario.

Già, perché a cantarlo come è scritto, il ruolo impone al soprano una continua messe di sfumature, messe di voce e smorzature, legature ampie ed impegnative, capacità di attaccare con assoluta perfezione note acute scritte scoperte, la nat - si bem oltre che il terribile do “dolce” dei “Cieli azzuzzi” ( …che pare non comparire ogni sera nello spartito usato dall’ultima recente protagonista dell’Aida scaligera ….ndr ), per non parlare delle frasi basse, i frequenti re sotto il pentagramma, alcuni da eseguire “con la più viva espansione”, come prescrive Verdi, per non parlare dell’ampiezza necessaria per dominare certi momenti concitati e di orchestrale denso, come nel duetto con Amonasro o gli assiemi del II atto, ove Aida deve svettare su tutti. Anche fuggire dalle mura di Menfi e Tebe non è affare da soprano lirico, ma qualcosa di ben più consistente, così come dominare lo spessore orchestrale del recitativo e dell’aria del primo atto.
Con l’Arangi Lombardi e la Rethberg il suono resta sempre puro, mai un’inelegante discesa di petto, piuttosto qualche abile misto; non si sforza la voce in alto ma si sale con facilità all’acuto; le note mai ghermite, comprese quelle scoperte, solo un po’ schiacciato il do dei “Cieli Azzurri “dell’incisione Brunswick del ‘24 della Rethberg, molto meglio nel ’27, mentre stratosferico il prodigio vocale in pianissimo dell’incisione del ‘28 dell’Arangi Lombardi. Voi direte che siamo partigiani, disposti a giustificare un 78 gg piuttosto che una registrazione presente, ma che la qualità della presa in studio degli acuti della Rethberg fosse difficoltosa e non renda l’idea della purezza, della penetrazione e della dimensione della voce lo provano non tanto le cronache del tempo piuttosto che il ritratto nitido che ne fece Lauri Volpi, quanto l’audio live del ’36, che ben chiarisce anche i rapporti di forza che si instauravano sul palcoscenico tra la sua voce e quella dei colleghi: tutti finiscono in secondo piano al momento dei do e dei do bem sul coro, atletici ed immensi! La dolce Lillibeth, come la chiamava Richard Strauss, avrà anche vissuto il complesso del frigorifero sulla scena di fronte ai ben più espressivi colleghi, ma aveva dalla sua una linea di canto aristocratica, elegantissima e nobile, di inumana perfezione. Rispetto all’Arangi Lombardi scende forse un filo meglio nei gravi, come al recitativo dell’aria al III atto, con le vocali chiare e sonore un po’ alla Stignani, mentre non ama molto gli attacchi in pianissimo degli acuti estremi. Ma come l’italiana non si scalda per nulla, ad esempio, nelle frasi da cantare “ con trasporto ” del duetto con Amonasro “Rivedrò le foreste imbalsamate..” oppure quelle di grande tasso tragico “ che mi consigli tu?…no…no….giammai…”; si rifugia nella scansione chiara ed aulica nei recitativi, che sono sempre molto distaccati ed austeri, conferendo al personaggio un’aulicità giustamente proporzionata al peso vocale del ruolo; e ricorre all’artificio della grande virtuosa, regina della tecnica, quando seduce Radames “ Là tra foreste vergini…” con pianissimi tanto puri da essere seduzione….vocale! Le doppie incisioni delle arie poco si discostano tra loro, dato che la cantante fu di grande costanza ed uniformità di rendimento, anche in teatro ( Aida al Met dal ’22 al ’42 !!). Quella dell’atto I è incisa con la sezione centrale monca, come di frequente nei dischi dell’epoca, da ” I sacri nomi di padre ” sino a “Amor fatale tremendo..”escluso. Di questa colpiscono i pp finali, dolci e dolentissimi, e la facilità a trovare ampiezza nel canto nella prima sezione. Forse più sfumata l’incisione del 1927 rispetto alla precedente. Nell’aria del III atto, poi, esegue con più colori l’incisione del ’27, dove ancora il canto “dolce” espressamente richiesto da Verdi è risolto con dei piani bellissimi, presenti sin dal recitativo di ingresso.

L’Arangi Lombardi suona e commuove, a dispetto dei suoi detrattori, che la additavano come gelida ed inespressiva. Fa di Aida un capolavoro di canto, che impressiona per la puntuale e perfetta esecuzione di ogni segno di espressione, ogni forcella, ogni legatura, ogni indicazione prescritta da Verdi. Anzi, non contenta delle innumerevoli difficoltà previste in spartito, tutte risolte con una facilità disarmante, ne aggiunge delle sue personalissime, dal celebre do dei “Cieli azzurri “ attaccato legato, alla smorzatura sul si bem di “.. tempio istesso..” al duetto con Radames atto III, o le smorzature perfette di “Oh terra addio” al IV atto ( si bem…).La sua Aida è struggente per ragioni timbriche, come detto, intrisa di malinconia e tristezza, che furono sue peculiarità del timbro e del canto.
I “Cieli azzurri” ed il finale atto IV sono forse il suo capolavoro espressivo, perché momenti drammatici pienamente coincidenti con i suoi mezzi espressivi. Nell’aria tutto ha pieno valore drammaturgico, dal “lungo silenzio” alle forcelle, al “morendo” scritti da Verdi. Impressionano l’esecuzione delle legature che costellano il brano, come la messa di voce sul fa puntato di “Oh patria mia…” e l’esecuzione dei “dolcissimo” in piano. Quanto al duetto finale, smorzature a parte, dispensa persino degli staccati facili e brillanti nel “..di morte l’angelo…”, ossia laddove le voci importanti solitamente inciampano e cempennano; idem dicasi per l’esecuzione perfetta dei si bem scoperti.
Come la Rethberg, anche l’Arangi Lombardi pratica il canto aulico, distaccato e poco partecipe nei momenti concitati come nei recitativi. Non si scalda, né abbassa mai il suo fraseggio con passaggi plebei o sopra le righe. Nell’aria del I atto, da “ I sacri nomi del padre…”, in particolare da “…ma la mia prece….” ne è un esempio chiarissimo, come l’attacco morbidissimo sul la bem di “ Vive! “ al successivo duetto con Amneris, oppure il do tenuto in ff di “…..quest’amor nella tomba….” alla stretta finale. Men che meno si scompone al duetto con il padre, laddove tutte le Aide son solite gridare, “….pietà pietà…padre pietà…”. Un monumento!
Non sono d’accordo con chi ritiene che questa straordinaria esecuzione costituisca il precedente delle moderne Aide, intese come letture liriche, struggenti e poco matronali del personaggio. L’Arangi Lombardi non è l’antesignana di Montserrat Caballè in forza di un peso vocale e di un registro basso che, sebbene non perfettamente risolto, sono di ben altra…..magnitudo ponderis. E di questa evidente differenza di ampiezza e peso non può non risentirne il fraseggio, che è altro e diverso nei modi e nei risultati espressivi, da quello delle moderne Aide liriche. Claudia Muzio, Giannina Russ e, a quanto testimoniato, Adelina Patti, tanto per esemplificare, non cantavano diversamente dall’Arangi Lombardi nella completezza della loro tecnica di canto, di tradizione italiana e belcantista. I piani ed i pianissimi, come l’emissione pura e cristallina, sono diventati molto dopo appannaggio di poche cantanti, ma nel mondo dei 78 gg erano prerogative di molte.
La liricizzazione di Aida, per altro, non pare essere stata invenzione della Caballè o delle sue coetanee, ma era già in atto dagli anni ’50, perlomeno stando al noto aneddoto napoletano, protagoniste una delle Amenris delle due dive di cui oggi abbiamo parlato, Ebe Stignani, e Renata Tebaldi. Ragazzina da subito catapultata tra le star, la Stignani aveva formato la sua idea di Aida al cospetto di soprani come l’Arangi Lombardi e la Rethberg appunto. In occasione dell’Aida del ’53 in quel di Napoli, pare che la Stignani avesse candidamente manifestato alla Tebaldi la propria convinzione che la sua, quella della Tebaldi !!, non fosse una vera voce da Verdi. E ben se ne capiscono le ragioni, date le Aide da cui era stata svezzata ad inizio carriera….

A sostegno di quanto affermo circa la Caballè, vi allego per il confronto, un passo della celebrata Aida scaligera del ‘76, in particolare i “Cieli Azzurri”, momento di lieve tasso tragico rispetto la resto dell’opera. Vi invito ad ascoltare la Caballè per ultima, dopo le nostre due beniamine, e a sottoporvi all’effetto…”mignon “ del pezzo e della bellissima voce della diva spagnola, con particolare attenzione anche alla penuria della voce in zona grave.
Buon ascolto.


Gli ascolti

Verdi - Aida


Atto I

Ritorna vincitor - Elisabeth Rethberg (1927), Giannina Arangi-Lombardi (1928)

Atto II

Fu la sorte dell'armi - Giannina Arangi-Lombardi & Maria Capuana (1928)

Salvator della patria...Ma tu Re, tu signore possente - Elisabeth Rethberg, Giacomo Lauri-Volpi, Gertrud Wettergren, Alexander de Sved, Ezio Pinza - Vincenzo Bellezza (1936)

Atto III

Qui Radames verrà...O patria mia - Elisabeth Rethberg (1927), Giannina Arangi-Lombardi (1928), Montserrat Caballè (1976)

Ciel! Mio padre! - Giannina Arangi-Lombardi & Armando Borgioli (1928), Elisabeth Rethberg & Giuseppe De Luca (1929)

Pur ti riveggo mia dolce Aida - Giannina Arangi-Lombardi & Francesco Merli (1926), Elisabeth Rethberg, Giacomo Lauri-Volpi & Giuseppe De Luca (1929)

Atto IV

La fatal pietra...O terra addio - Giannina Arangi-Lombardi & Francesco Merli (1926)

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lunedì 15 giugno 2009

Il mito della primadonna: Amneris

Il volume "Il melodramma italiano dell’Ottocento", studi e ricerche in onore di Massimo Mila (Einaudi 1977) principia con un saggio, autore Nino Pirotta, dal titolo “Semiramis e Amneris, un anagramma o quasi”. Titolo accattivante, il contenuto del saggio, poi, sta nel solco della tradizione, ovvero della ricerca degli esotici precedenti, ispiratori di Ghislanzoni e Verdi. Semiramis, in effetti, è un precedente un poco più fantasioso della Selika dell’Africaine.

In realtà il quasi anagramma del titolo è un’assonanza o meglio un omoteleuto, se utilizzato il nominativo latino della regina di Babilonia. In realtà le somiglianze fra i due personaggi sono ancora meno di quelle nominali. Si fermano, nell’articolo citato, al raffronto fra la cavatina di Semiramide, il famoso “bel raggio lusinghier” e la scena di Amneris nel proprio boudoir, mentre attende all’abbigliamento per l’imminente trionfo di Radames. Perché la tragica e volontaria fne al’interno della tomba dela regina di Babilonia, nel lavoro verdiano spetta alla protagonista, residuando ad Amneris, ignara del contenuto della tomba, la vedovile trenodia. Inoltre la scena di attesa dell’amore e del trionfo è un topos del melodramma italiano ottocentesco, basti pensare alla celebre, ai tempi suoi, cavatina di Climene della Saffo di Pacini.
All’autore del saggio, che è il pretesto per questi pensieri è, poi, sfuggita quelle, che, invece, è la caratteristica drammaturgica dei due personaggi ossia la regalità.
Caratteristica drammaturgica espressa, a distanza di mezzo secolo n maniera assolutamente diversa.
Quella di Semiramide è consacrata nella vocalità fiorita ed astratta di Rossini, quella di Verdi indicata in spartito ed affidata, soprattutto alla buone maniere vocali ed interpretative delle protagoniste pro tempore.
Il dramma di Amneris si riassume in innamorata, respinta, regina, precisamente figlia di re. Frequentemente le titolari del ruolo, trascinate dalle situazioni drammatiche, sopraffatte dall’ordito orchestrale dimenticano quest’ultima caratteristica. Ed allora assistiamo ad esibizioni di note di petto sotto il mi 3 tipo il “trema vil schiava”, il si bem grave di “furie o in cor”, che arriva dopo la sbracata del re grave di “figlia dei Faraoni” dove nella discesa dal sol 4 la Amneris di normale cabotaggio, esibisce sul la 3 quello, che in gergo si chiama “scalino “ o “buco”, tipico delle voci di mezzo soprano scassate o con forte propensione a diventarlo in tempi rapidi. Anche nel quarto atto il cui primo quadro è il trionfo di Amneris i tranelli del mal canto sono molti: dal “Radames qui venga” con un bel si bem grave al la acuto di “anatema su voi”, che chiude la scena del giudizio.
Tranelli, scivoloni ed imperizie in cui sono cadute, scivolate Amneris di trentennale pratica del personaggio con trionfi in ogni maggior teatro del mondo. E quindi la regalità va completamente persa.
Se, poi, aggiungiamo che la zona della voce in cui la cantante è chiamata a cantare sta fra il mi3 ed il fa 4 e dove è obbligatoriamente richiesta saldezza, ampiezza ed eleganza e compostezza nel contempo ne ricaviamo anche che molte Amneris per carenza in quella zona della voce non sono in grado di rendere anch’esse la regalità.
Con queste caratteristiche si capisce perché le Amneris di riferimento sono anche state grandi Leonora di Favorita per andare al repertorio precedente o Eboli per restare a Verdi. Magari intrattenevano rapporti non del medesimo livello con Azucena oppure occhieggiavano a ruoli di soprano. Anche se soprani, magari di voce ricca e poderosa al centro hanno offerto prove mediocri. Il caso di Ghena Dimitrova è emblematico. Come è emblematico l’inverso: Giannina Arangi Lombardi, la più completa Aida che sia testimoniata, incise all’inizio di carriera passi di Amneris, risultando assolutamente qualunque.
L’altro aspetto sfuggito all’estensore di quell’articolo è il legame di Amneris con il passato, proprio quello rossiniano ed il ponte verso il futuro (non solo in corda di mezzosoprano) rappresentato dalla assenza di numeri solistici ed il ricorrere per esprimere i propri contrastanti alla fluttuante struttura della scena, che per certi versi è la sigla più autentica della prima donna e delle sue capacità espressive. Basti pensare alla scena del boudoir, che trapassa al duetto con Aida ossia al grandioso primo quadro del quarto atto. L’interrete di Amneris deve passare dall’estasi erotica delle scomodissime frase “ah vieni amore” al dire e non dire dell’inizio del duetto con Aida, dove la giovane sovrana deve dire, ma sopratutto non dire, presa dall’ansia di far dire alla rivale, poi esplodere, minacciando, ma evitando di evocare Santuzza e la Bouillon. Ancor più problematica per l’equilibrio fra canto ed interpretazione il quarto atto dove la sovrana è anche chiamata, dopo aver mercanteggiato i ripensamenti di Radames ed aver provato le più atroci sofferenze per la certa fine dell’amato, ad un alterco con il capo del potere religioso, chiuso con rituale e femminilissima maledizione. Maledizione che, però, non è la Mala Pasqua di Santuzza.
Scusate farsi prendere la mano è facile, come facile scadere nel facile melodrammatico, di cui abbiamo già detto e documentiamo negli ascolti. Facile, in fondo il personaggio che, più di ogni altro, esalta pregi e difetti della vocalità e della poetica verdiana venne pensato per un mezzosoprano elegante, avvenente e di altro repertorio come Maria Waldmann, fu cantato per trent’anni da un altro (Ebe Stignani) cui si negava di “scolpire nel bronzo” (essendo altre le reputate scultrici) ed ha trovato negli ultimi anni la più valente interprete in Grace Bumbry, poi transitata senza eguale successo su Aida e recentissimamente in Irina Makarova, di cui nessuno si è accorto, a riprova che oggi si ascolta senza le orecchie.


Gli ascolti

Verdi - Aida


Atto II

Chi mai fra gl'inni e i plausi...Ah, vieni amor mio, m'inebria - Ebe Stignani (1939), Shirley Verrett (1970), Fiorenza Cossotto (1977)

Fu la sorte dell'armi - Ebe Stignani & Maria Caniglia (1939), Giulietta Simionato & Antonietta Stella (1956), Irina Makarova & Violeta Urmana (2006)

Atto IV

L'aborrita rivale a me sfuggia - Violeta Urmana (2000), Irina Makarova (2006)

Già i sacerdoti adunansi - Shirley Verrett & Carlo Bergonzi (1970), Grace Bumbry & Richard Tucker (1973)

Ohimè, morir mi sento - Ebe Stignani (1939), Irina Arkhipova (1974), Elena Obraztsova (1976), Fiorenza Cossotto (1977)

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