Una bella serata di quelle dopo le quali tutti sono andati a casa felici e soddisfatti. Contentoni, si dice a Milano. Qualche ovvia eccezione al tripudio, e non solo di quelli del Corriere della Grisi. Almeno credo.
Sabato sera, recita fuori abbonamento, penso; un pubblico felice e plaudente per il solo fatto di essere alla Scala. Magari per la prima volta. Ancor più felici gli addetti ai lavori (direttori artistici, consulenti per le voci, agenti) che, salvo la riprovazione indirizzata alla protagonista, ha “sfangato” la serata, nata con molte incognite, prima fra tutte il protagonista maschile. Addirittura trionfanti per il bene fatto alla Scala, amata più della mamma, certe stagionate frange del pubblico, ormai difensori ad oltranza di qualsiasi spettacolo sul palcoscenico del Piermarini, dimentichi del proprio passato e di quello del teatro, che difendono con ardore, ignari, mi auguro per loro, di accelerarne la fine allontanandone, con il loro plaudente comportamento, la linfa vitale rappresentata vuoi dal pubblico under 30 vuoi dal dibattito e dal confronto. E’ questo il vero spunto di riflessione, l’unico, che meriti cenno e parola perché sui cantanti, sulla direzione, tutto è già stato detto e scritto, e se non lo fosse si potrebbe si potrebbe utilizzare passi di altre recensioni come nelle opere del Settecento con le arie, che transitavano, dall’uno all’altro titolo con egual significato drammatico.
E questo non perché, come apostrofati, con proterva maleducazione: “Non ci va mai bene niente”, ma perché nessuno dei quattro cantanti protagonisti (e pari ad essi la comprimaria Giannetta – Barbara Bargnesi) aveva la voce a fuoco e capace anche in parti propizie del palcoscenico, come il risonantissimo punto Callas, di farsi sentire anche se privi di volume stratosferico. Poi i quattro mostravano, variamente lo stato vocale ed interpretativo, cui conduce l’insipienza tecnica. Al massimo grado Rolando Villazon, piatto, incolore, timbro e volume da comprimario, sempre su un sordo e secco forte, cortissimo in alto, se di acuti si può parlare con riferimento a Nemorino. Che si agiti in scena, che trasformi Nemorino nel Richetto dello Zecchino d’oro Anni 60 (altro che Charlot!) non sono elementi che giustificano l’assoluzione finale da parte del pubblico ed il lauto, lautissimo compenso, che si dice frutti al tenore la partecipazione allo spettacolo.
In condizioni vocali assolutamente pari, nonostante al più giovane età Nino Machaidze, che, alla fine del ben poco impegnativo rondò (robetta si dice in loggione), il pubblico ha copiosamente buato. Alla breve: voce corta, acida, incapace di colori ed accenti, agilità da principiante. Possono anche evitarle l’onta delle uscite singole, ma la scelta né migliora la tecnica della cantante, né tantomeno ne allunga la carriera. Il compenso percepito, anch’esso mi si dice Top Fee, riservato all’ex studentessa dell’Accademia, può giustificarsi in forza di quattro mossette, ancheggiamenti e moine. Fra Elisir d’amore e l’avanspettacolo dove le reclute apostrofavano le subrettine, passano circa 100 anni. E l’osservazione valga anche per valutare l’allestimento strabordante di inutili gags che distolgono dalla musica e dalla perfetta drammaturgia donizettiana. Ancora indietro nel cammino della decozione vocale Ambrogio Maestri, ma solo perché canta da buffo e “caccia” un paio di voluminosi acuti. La voce presenta quello che in gergo si chiama “il buco”, più tipico delle voci di basso e di mezzo-soprano in zona medio-grave, che gli impedisce fluidità nei sillabati e quell’ampollosità che dell’inveterato cialtrone è caratteristica prima. Anche qui, che alla barcarola sibili la“esse”come il vecchio sdentato può far ridere solo chi creda Elisir d’amore titolo per il Teatro Smeraldo e non per la Scala. Il signor Viviani difetta della vanagloria, vocale in primis, che compete a Belcore, pasticcia pure le agilità della stretta del sortita e del duetto con Nemorino. E’, però, lontano dalla meta cui sono giunti i protagonisti.
Edizione integrale. Sempre più rimpiango le forbici ed i coltelli di Serafin, Votto e Gavazzeni. Per eseguire il duetto Adina-Dulcamara, che rifà il verso ai grandi duetti da opera seria senza inserimenti o senza variazioni di dinamica, tanto vale tagliare come è inutile la riapertura del taglio nel quartetto “Io già m’immagino” (che parafrasi nientemeno che Semiramide) con esecutori come quelli propinatici ieri sera, anche con un direttore diverso. Vero è che Donato Renzetti ha tenuto insieme l’orchestra, fragorosa, ed il palcoscenico, inutile dolersi poi di quel che in eleganza e languore non c’era ai passi topici come Adina credimi o Una furtiva lagrima, perché con quel protagonista…ma almeno il Preludietto, il coro dei contadini alla prima scena, e quello dell’ingresso di Dulcamara, non devono richiamare gli armigeri di Fausta o Parisina, ma l’iconografia ottocentesca della campagna lombarda, ben diversa dalla realtà del lavoro e della fatica. Ma Elisir d’amore con il suo trasognato protagonista nulla ha a che spartire con la realtà. Questo ovviamente lo ha ben dimenticato Laurent Pelly. Dimenticavo, ho la presunzione di credere che a casa insoddisfatto oltre a parecchi, ci sarebbe andato anche Gaetano Donizetti. Per sua fortuna è morto!
Gli ascolti
Donizetti - L'Elisir d'Amore
Atto II
Quanto amore!...Bella Adina...Una tenera occhiatina - Alda Noni & Sesto Bruscantini (1951)
Sabato sera, recita fuori abbonamento, penso; un pubblico felice e plaudente per il solo fatto di essere alla Scala. Magari per la prima volta. Ancor più felici gli addetti ai lavori (direttori artistici, consulenti per le voci, agenti) che, salvo la riprovazione indirizzata alla protagonista, ha “sfangato” la serata, nata con molte incognite, prima fra tutte il protagonista maschile. Addirittura trionfanti per il bene fatto alla Scala, amata più della mamma, certe stagionate frange del pubblico, ormai difensori ad oltranza di qualsiasi spettacolo sul palcoscenico del Piermarini, dimentichi del proprio passato e di quello del teatro, che difendono con ardore, ignari, mi auguro per loro, di accelerarne la fine allontanandone, con il loro plaudente comportamento, la linfa vitale rappresentata vuoi dal pubblico under 30 vuoi dal dibattito e dal confronto. E’ questo il vero spunto di riflessione, l’unico, che meriti cenno e parola perché sui cantanti, sulla direzione, tutto è già stato detto e scritto, e se non lo fosse si potrebbe si potrebbe utilizzare passi di altre recensioni come nelle opere del Settecento con le arie, che transitavano, dall’uno all’altro titolo con egual significato drammatico.
E questo non perché, come apostrofati, con proterva maleducazione: “Non ci va mai bene niente”, ma perché nessuno dei quattro cantanti protagonisti (e pari ad essi la comprimaria Giannetta – Barbara Bargnesi) aveva la voce a fuoco e capace anche in parti propizie del palcoscenico, come il risonantissimo punto Callas, di farsi sentire anche se privi di volume stratosferico. Poi i quattro mostravano, variamente lo stato vocale ed interpretativo, cui conduce l’insipienza tecnica. Al massimo grado Rolando Villazon, piatto, incolore, timbro e volume da comprimario, sempre su un sordo e secco forte, cortissimo in alto, se di acuti si può parlare con riferimento a Nemorino. Che si agiti in scena, che trasformi Nemorino nel Richetto dello Zecchino d’oro Anni 60 (altro che Charlot!) non sono elementi che giustificano l’assoluzione finale da parte del pubblico ed il lauto, lautissimo compenso, che si dice frutti al tenore la partecipazione allo spettacolo.
In condizioni vocali assolutamente pari, nonostante al più giovane età Nino Machaidze, che, alla fine del ben poco impegnativo rondò (robetta si dice in loggione), il pubblico ha copiosamente buato. Alla breve: voce corta, acida, incapace di colori ed accenti, agilità da principiante. Possono anche evitarle l’onta delle uscite singole, ma la scelta né migliora la tecnica della cantante, né tantomeno ne allunga la carriera. Il compenso percepito, anch’esso mi si dice Top Fee, riservato all’ex studentessa dell’Accademia, può giustificarsi in forza di quattro mossette, ancheggiamenti e moine. Fra Elisir d’amore e l’avanspettacolo dove le reclute apostrofavano le subrettine, passano circa 100 anni. E l’osservazione valga anche per valutare l’allestimento strabordante di inutili gags che distolgono dalla musica e dalla perfetta drammaturgia donizettiana. Ancora indietro nel cammino della decozione vocale Ambrogio Maestri, ma solo perché canta da buffo e “caccia” un paio di voluminosi acuti. La voce presenta quello che in gergo si chiama “il buco”, più tipico delle voci di basso e di mezzo-soprano in zona medio-grave, che gli impedisce fluidità nei sillabati e quell’ampollosità che dell’inveterato cialtrone è caratteristica prima. Anche qui, che alla barcarola sibili la“esse”come il vecchio sdentato può far ridere solo chi creda Elisir d’amore titolo per il Teatro Smeraldo e non per la Scala. Il signor Viviani difetta della vanagloria, vocale in primis, che compete a Belcore, pasticcia pure le agilità della stretta del sortita e del duetto con Nemorino. E’, però, lontano dalla meta cui sono giunti i protagonisti.
Edizione integrale. Sempre più rimpiango le forbici ed i coltelli di Serafin, Votto e Gavazzeni. Per eseguire il duetto Adina-Dulcamara, che rifà il verso ai grandi duetti da opera seria senza inserimenti o senza variazioni di dinamica, tanto vale tagliare come è inutile la riapertura del taglio nel quartetto “Io già m’immagino” (che parafrasi nientemeno che Semiramide) con esecutori come quelli propinatici ieri sera, anche con un direttore diverso. Vero è che Donato Renzetti ha tenuto insieme l’orchestra, fragorosa, ed il palcoscenico, inutile dolersi poi di quel che in eleganza e languore non c’era ai passi topici come Adina credimi o Una furtiva lagrima, perché con quel protagonista…ma almeno il Preludietto, il coro dei contadini alla prima scena, e quello dell’ingresso di Dulcamara, non devono richiamare gli armigeri di Fausta o Parisina, ma l’iconografia ottocentesca della campagna lombarda, ben diversa dalla realtà del lavoro e della fatica. Ma Elisir d’amore con il suo trasognato protagonista nulla ha a che spartire con la realtà. Questo ovviamente lo ha ben dimenticato Laurent Pelly. Dimenticavo, ho la presunzione di credere che a casa insoddisfatto oltre a parecchi, ci sarebbe andato anche Gaetano Donizetti. Per sua fortuna è morto!
Gli ascolti
Donizetti - L'Elisir d'Amore
Atto II
Quanto amore!...Bella Adina...Una tenera occhiatina - Alda Noni & Sesto Bruscantini (1951)
22 commenti:
giusta critica sulle voci, nessuna delle quattro parti principali era in grado di affrontare i rispettivi ruoli. ma su questo non aggiungo altro.
necessaria invece la critica a quelle frange mature del pubblico della scala intrise di una presunzione non dettata dalla loro frequente presenza in teatro ma da una maggiore età, a quanto pare solo biologica. potrebbe trattarsi di persone che la scala l'hanno frequentata costantemente con grande spirito critico e severità, ma che ora, al seguito di mummificanti presenze, si entusiasmano davanti a questi orrori. oppure potrebbero essere persone grandi, ma nuove nel pubblico scaligero, che applaudono tutto indifferentemente, con uno spirito critico nullo, ma che mostrano arroganza e maleducazione a chiunque si mostri aggressivo verso la loro Mamma Scala e si circondi di presenze assai stuzzicanti...mah, che strane persone si aggirano in quel teatro...
...presenza stuzzicanti????in che senso?
stuzzicanti? gente che stuzzica: metafora di infastidire, irritare.
Una serata in cui due-tre note voluminose di Dulcamara-Maestri superano tutto quello che fa il resto del cast... Lui ha parlaATO per lo piu, senza avere cantato con un parlANDO da vero buffo.
Per me il piu grande choc era la reazione del generale pubblico scaligero dopo quella Una furtiva lagrima di Villazon cantata tutta in gola, abbaiato quando soffocava dal manco di fiato e effettuato in un stile pseudo-emozionante. Al mio fianco c'erano persone di 60 o anche di 70 anni che hanno sicuramente ascoltato migliori Nemorini di quello di Villazon, eppure applaudivano con tutta forza. Credo che si doveva buare anche questa romanza, non solo l'aria di Adina. Cosi,anche se avessero evitato le uscite singole alla fine, la spontanea reazione negativa del pubblico dopo le arie principali avrebbe stampato il "successo" di questa esecuzione indecente.
cara giuditta, sante parole. la reazione del pubblico è sempre allucinante, soprattutto quando si tratta di individui che hanno visto i grandi anni della scala.
se solo ci fosse uno spirito critico più vivo e non ucciso, come spesso succede, dalla paura di perdere la Mamma Scala, tutti gli spettacoli sarebbero buati e contestati, se solo ieri avessero speso 5 minuti della loro vita ad ascoltare "quanto è bella, quanto è cara" della durata di 2.30 minuti cantato da Valletti, Schipa o Monti prima di andare a teatro ieri sarebbe andato tutto diverso, se solo...
Spettacolo che ancora non ho visto, ma che conosco per ciò che attiene la messinscena e la regia: su questo sono del parere opposto all'amico Donzelli! Trovo lo spettacolo di Pelly semplicemente perfetto, "senza se e senza ma". Sono arcistufo dell'idillio bucolico su fondali dipinti (magari con trovate volgari e giogionate da anni'50) con cui si riduce ad una mascherata l'agrodolce commedia donizettiana (come gli ultimi due Elisi bergamaschi). Qui il mondo contadino conosciuto da Donizetti è stato "riaggiornato" in chiave neorealista...nulla di male, tutt'altro: inutile sarebbe stato riproporre una milionesima versione della solita iconografie ottocentesca (tipo certe baracconate in sile MET). Ciò che mi piace è il fatto che Pelly non riscriva la drammaturgia, nè si scontri con la musica o con il suo significato. Certo, non so come sia stato ripreso l'allestimento per la Scala: nel dvd l'atmosfera di "innocenza" era intatta. Ma ovviamente avremo modo di riparlarne.
Ps: per trovare dei creduloni che scambiano un ciarlatano per una specie di "messia" capace di risolvere ogni problema, non bisogna certo tornare nell'800...e neppure nelle campagne, mi verrebbe da dire!
Invece a me lo spettacolo di Pelly non è affatto piacuto: troppi movimenti, sempre un viavai inutile e un modo di concettare la "naiveté" ch'è molto piu banale degli alestimenti naturalistichi-bucolici.
Poi, sono sicuro che il personaggio di Nemorino era una concezione autentica e genuine del genio teatrale ch'è Villazon.
la regia è certamente l'aspetto più piacevole dello spettacolo: tutto quadra, tutto ha senso e nulla è fuori posto. oltretutto se si pensa agli spettacoli precendenti nella medesima sede ambrosiana devo dire, al pari del barbiere di ponelle, questo spettacolo, registicamente parlando, è stata una boccata di aria fresca. comunque bello non lo definirei: tutto ha logica anche se...nemorino viene presentato come un pierino alla alvaro vitali, adina come una lolita kubrickiana, belcore conciato da carabiniere poi!...certo al pubblico di oggi piace l'idea di ridere: quando nemorino va a sbattere col trattore sul palco, quando un bassotto attraversa la scena nel silenzio più totale. questo alla gente fa ridere(...e chissene frega se quella canta come una lamiera arruginita e quello strozzato e sordo). certo, giuditta, è naive, ma almeno uno non esce con gli occhi rossi...visto che già le orecchie il più delle volte necessitano un lungo momento di recupero dopo siffatti spettacoli.
Non ho assistito alla prima ma alla generale. Ho giudicato lo spettacolo come il festival degli ingolati. Sapevo in partenza che Villazon era in difficoltà. Ma qui non funzionava neppure la Giannetta.
Il teatro oggi va così, scende una china pericolosa. Ma la gente è contenta e chi si acontenta gode.
A questo punto io preferisco sentirmi l'opera in CD cantata da chi conosceva bene il mestiere.
Volevo anch'io associarmi ai favoreli commenti di Duprez e Benucci sulla regia, che ho trovato molto gradevole. Belli anche i movimenti delle masse.
Sulle voci c'è ben poco da aggiungere...
io rimango della mia opinione e mi spiego
non ritengo assolutamente che la scenografia e l'allestimento debba per forza essere 1830, anche se aiuta e non poco
ma quello che mi da molto molto molto fastidio è il troppo il volere a tutti i costi far accadere qualche cosa. il paradigma nemorino che canta, tipo lo zio di amarcord la prima sezione del duetto con adina su
una scala.
Tralasciamo poi Adina ed amiche sul ciglio della strada come le lavoratrici della valassina o della paullese.
e poi dove è adina ricca fittavola vestita ben peggio delle sue braccianti? Uno degli scogli all'unione è proprio lo status di adine e nemorino. e lo si ripete sino alla nausea nell'opera.
Poi la vogliamo anni '50 vogliamo dulcamara imbonitore televisivo come vanna marchi questo può andare anche bene. e', però, la triste prova che il nostro mondo non conosce più il valore della metafora dell'oggettivo.
Questa e tutta la rimanente paccottaglia ha un solo pregio, forse grande, distogliere l'attenzione dal canto.
"Il nostro mondo non conosce più il valore della metafora dell´oggettivo".
Una sintesi sagace del modus operandi dei registi attuali.
A volte poi queste attualizzazioni cadono addirittura nel comico involontario. Nel Trovatore qui a Stoccarda, per esempio, Il Conte e Manrico erano vestiti con uniformi militari moderne. Al terzo atto, nella scena del matrimonio, il regista ha avuto la bella pensata di vestire Manrico con una uniforme bianca. Quando l´ho visto, mi è scappata una risata: che ci faceva Pinkerton nel Trovatore?
Ricapitolando dal mio punto di vista:
da Villazon mi aspettavo qualcosa di più e qualcosa di meno.
La voce è proprio piccola, e me l'aspettavo più ampia, tutta tra naso e gola (e questo sapevamcelo), ecco perchè è sempre in forte e mezzoforte, stonicchia tutto il finale del I atto e la seconda parte del II; la furtiva lagrima è l'unico momento in tutta l'opera in cui smorza qualche suono (il momento più applaudito difatti... in parte immeritatamente), ma anche qui l'intonazione va a ramengo. Bravo come attore anche se la figura di semi-scemo del villaggio è vecchiotta ed un po' ingenua.
Machaidze: bella, simpatica, carina, spigliata, quando esordì l'emissione ed il timbro erano morbidi; ora la voce è aspra aggrappata alle corde vocali, non sta ferma un secondo, di legato nemmeno lo spettro, vocalizzazioni e agilità meno che approssimative.
Le note gravi sono pura fantascienza, gli acuti e quelle "cose" che dovrebbero essere sovracuti una coltellata nelle orecchie, in più la voce è piccola.
Viviani: voce altrettanto piccola. Nel primo atto sembra Nucci quanto a nasalità e portamenti; nel secondo si "aggiusta" un po' di più, ma non è una presenza di cui resta il ricordo.
Maestri: non sarà stato impeccabile, ma era l'unico a possedere un timbro riconoscibile, l'unico a proiettare il suono in maniera egregia, l'unico a creare un personaggio attraverso una interpretazione (auto)ironica, sarcastica e sadica, da vero imbonitore a caccia di gonzi.
Ampia la voce, un po' fisso l'acuto, ma timbro da vero baritono. Finalmente!
Per me il trionfatore!
Pelly e Ranzani mi sono piaciuti. Optano per una visione solare, piena di tinte estive, ricche di energia e simpatia. Il primo pecca di eccesso di movimento, ma le caratterizzazioni sono puntuali, coerenti e precise.
Il secondo si perde nelle arie e nei duetti allungando molto l'agogica, oppure diventa un po' fracassone, ma l'orchestra non perde brillantezza.
Marianne Brandt
Capisco perfettamente il tuo punto di vista caro Donzelli. Inutile dirti che lo condivido: nel senso che spesso, oggi, si cerca di "riempire" la scena con avvenimenti che non accadono (nel senso che non vi è un corrispettivo musicale: e questo nel teatro d'opera è grave mancanza). Ribadisco come non avendo visto lo spettacolo scaligero (ma solo il dvd del vecchio spettacolo di Pelly) non saprei dire come la ripresa è stata fatta. Ti assicuro che quel che ho visto io non aveva tracce di volgarità. Molto dipende dalla disponibilità dei cantanti. Ovviamente chiedere a Villazon di interpretare la malinconia (un po' sempliciotta) dell'innamorato respinto è impresa ardua, quasi come fargliela cantare. Parlando del mero allestimento, ti dico che un Elisir "padano" è esattamente quel che percepisco nell'ascoltare quella musica. Io mi figuro una cascina spersa tra i campi, con i trattori e i furgoncini, con la nebbia al mattino e i grilli, un'Adina ricca fittavola (magari allevatrice di maiali) benestante ma non "finissima", un Nemorino ingenuo e spaesato che entra in scena con la bicicletta, un Belcore carabiniere è perfetto, e un Dulcamara cialtrone che gira le campagne per "tirar su due lire" (e che non deve sembrare il Conte di Sonnambula), un banchetto che somigli ad una sagra, con bollito e salame... Insomma, il mondo che Donizetti conosceva bene. Un po' come il Falstaff "padano" di Strehler, ambientato tra cascinali e cortili tagliati dalla calda luce del pomeriggio in pianura. Mi piacerebbe, poi, che finalmente l'Elisir venisse tolto dal novero delle farsacce e fosse restituito al suo essere commedia malinconica e delicata. Esattamente come si può immaginare ascoltando la splendida incisione di Valletti/Bruscantini/Gavazzeni...ad oggi, pur con alcuni tagli dipendenti da prassi d'epoca, l'edizione che preferisco.
Ma tutto questo disprezzo per i pubblici di ogni latitudine, bollati ad un tempo di ignoranza ed acquiescenza, sarà davvero così giustificato? Oppure saranno mutati i criteri con cui giudicare uno spettacolo d'opera? Io,per esempio, ho ascoltato a Monaco una cantante in questo blog del tutto deprezzata, Angela Denoke, nel ruolo di Salome. Ed è stata in ogni senso eccellente. Ma non sarà che siate un po' come quell'inglese che, guidando a sinistra in Italia, pensava che tutti gli altri guidassero contromano?
Marco Ninci
Caro Ninci,
e tu un pubblico che al termine del Gran pezzo concertato del Viaggio a Reims (Scala 2009) applaude e si commuove e poi lascia la sala CONVINTO CHE L'OPERA SIA FINITA, tu come lo definiresti un pubblico così? Come minimo, direi, un pubblico che ignora la musica ed è pronto a bersi qualunque cosa "perché siamo alla Scala".E ho citato solo un esempio dei molti possibili.
Quanto ad Angela Denoke, sentita in un Wozzeck madrileno, mi diede l'impressione di essere voce di discreto volume (almeno relativamente alla sala, non enorme, del Real), parchi colori, acuti (quei pochi presenti) fissi e al limite dello strillo, discreta presenza scenica (e non parlo certo del nudo integrale, esibito fuggevolmente nella scena dell'osteria). Fu adeguata come Marie, ma non di più. L'eccellenza in Salome, credo, sta altrove, segnatamente nelle voci e nei temperamenti di Birgit Nilsson e Grace Bumbry. E non mi si obietti che oggi cantanti come le nominate non si trovano più, perché occorrerebbe interrogarsi sui motivi dell'estinzione di una simile genia.
Ahahahahahahahhahahahahah!
Antonio, ti prego, se puoi deliziaci con altri annedoti stile "Il viaggio", sto ancora "dal ridere crepar!".
Troppo forte. Tra l'altro in quest'opera ci sta anche, prendere e andarsene dico, convinti della fine, visto che la trama è praticamente inesistente...Una volta a me capitò col Barbiere... all'inizio del secondo atto scoprii molti posti vicini vuoti, prima occupati da gente entusiasta e plaudente. Però lì eravamo in un teatrino di provincia, non alla Scala, perdinci!
Però, che meschinità deliziarsi dell'ignoranza altrui!
Marco Ninci
La Denoke l'ho ascoltata nell'opera di Korngold la Città morta, alcuni anni fa', e devo dire che è una oscenità di suoni ingolati e duri, è tutta gutturale in basso, fibrosa e oscillante da mal di mare nel medium, con acuti stonati, fissi e laceranti. Uno strazio! Spazzatura vocale!
Ma non è meschinità, Marco...è constatare una realtà di fatto! Oggi c'è qualcuno che afferma come i pubblici siano più preparati, gli spettacoli più belli. E qualcuno parla di età dell'oro! Bene...eccola l'età dell'oro, eccoli i pubblici esperti. Che valore hanno applausi e trionfi di gente che pensa che il Viaggio a Reims si concluda col concertato? Oppure - è capitato a me - che applaude a metà dell'Halleluja nel Messiah di Handel, credendo fosse finito! Cacchio parlo del Messiah, non di Krol Roger! Eppure... La realtà è che i teatri sono pieni di chi li frequenta per sbaglio, per doverea o, più spesso, perchè lo spettacolo è incluso nel pacchetto turistico! Che gliene frega a questo pubblico dell'opera, della musica e di ciò che ascolta? Se ne tornerà a casa (a Tokio, a Birmingham, a Dallas, a San Pietroburgo oppure a Lecco o Ferrara) contento di aver passato una serata alla Scala, metterà le sue foto su FB, e attaccherà al suo frigorifero la calamita con l'effige della Scala comprata (a caro prezzo) nel Bookshop...
Il racconto ironico e anche tragico di Tamburini segna anche il fallimento di una sovrintendenza che si picca di aver "educato" le masse (a suon di lieder e di "finezze" mitteleuropee). Che senso ha fingere rivoluzioni culturali quando il 90 % del pubblico sarebbe soddisfatto pure di sentire Topo Gigio sul palco della Scala?
Marco Ninci scrive:
Però, che meschinità deliziarsi dell'ignoranza altrui!
Sbagli carissimo.
Chi si delizia dell'ignoranza è quel pubblico medesimo, non certo il sottoscritto.
Io mi riferivo soltanto al commento di Davide, che mi è sembrato meschino.
Marco Ninci
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