sabato 30 ottobre 2010

Le cronache di Carlotta Marchisio - Elisir d'amore in Scala: secondo cast.

Era lì, bastava così poco per accorgersene, eppure…
Si fa tanto parlare, spesso da parte di chi ha buone ragioni per farlo, che l’opera lirica, e in particolare il canto, versa in condizioni tutt’altro che allarmanti, che il teatro è sano e in continua evoluzione, ossia capace di assecondare le aspettative di un nuovo pubblico, che ha coltivato e alimentato altri stimoli fruitivi.

Va da sé che il “vociomane” (appellativo convertito di recente in misterioso insulto), da quelle parti, fa una magra figura. Nei casi migliori viene liquidato quale sfigato Bartleby, destinato a un’irreversibile misantropia, altre volte quale dead man walking incalzato all’ultima preghiera (si leggano, a riguardo, recenti “discussioni” in rete). Altri criteri, appunto. Eppure qualcosa continuava a sfuggirmi, l’altra sera, a teatro. A riguardo – perché voglio impegnarmi in prima persona come archeologa delle motivazioni perdute – mi è venuta in aiuto un’amica francese, che il 20 ottobre ha assistito con me alla recita del secondo cast di questa Elisir ambrosiana. Per le scale della galleria, alla mia domanda “Allora, che ne pensi?”, Isabelle, che nonostante il consueto aplomb parigino fatica a nascondere una certa insoddisfazione di fondo, mi risponde: “Ça n’a été qu’un bon cours d’italien! Merci aux sous-titres!”. I sottotitoli! Come non averci pensato prima! Mi son subito detta: “Ecco un’altra, nuova opportunità per lo spettatore moderno! Un “Italian Institute” prestigioso!” Sede dei corsi: Teatro alla Scala. Frequenza: quattro ore mensili (tollerata, già da qualche anno, la fuga al trillo della campanella dell’intervallo). E i docenti? Insegnanti madrelingua di prestigio: tra gli altri, Lorenzo Da Ponte, Felice Romani e Francesco Maria Piave.
Ironie a parte, rimane evidente che la boutade di Isabelle ha un suo valore di fondo, perché sottende, come stravagante ma reale conseguenza, una verità che col canto moderno – e in particolare con la serata cui ho presenziato – ha invece molto a che fare. L’assoluta afonia delle voci. Poche volte mi è capitato, infatti, di assistere a una rappresentazione in cui l’”effetto acquario” – effetto che tanto destabilizza lo spettatore medio televisivo e che invece pare non turbare più di quel tanto quello operistico – divenisse una costante, sia per frequenza che per continuità, tanto da far pensare più a un concerto per coro e orchestra, coadiuvato magari da movimenti scenici di tre o quattro mimi, che a una serata di canto lirico (censurabile, da questo punto di vista, il finale primo). E in questo senso non viene certo in aiuto la bella quanto “sacrificante” regia di Pelly, che ponendo i cantanti per buona parte del tempo nella profondità del palcoscenico manifesta una visione d’insieme senza dubbio coerente ma che va a discapito del canto. Con interpreti di questo peso vocale forse una regia che prevedesse uno sfruttamento più intenso del proscenio sarebbe stata un valido aiuto. In primo luogo per il pubblico.
Fa eccezione in questo contesto come dire… “ittico”, per il discreto volume, per altro esibito giusto nei momenti solistici, l’Adina di Irina Lungu, appena dignitosa Marguerite nel recente Faust della vergogna (e disastrosa Violetta al San Carlo), qui invece villanella dal timbro rauco e stridente, limitato di conseguenza nelle modulazioni e potenzialità espressive della voce. Fatica ad accentare con fantasia una parte che più di altre si presterebbe a essere colorata con pennellate personali, finendo per cavar fuori nient’altro che un personaggio esanime, indifferenziato e monocorde, almeno sul coté interpretativo. Sul piano vocale riesce a risolvere bene le parti più espressamente centrali e facili della partitura, come l’aria di sortita, dove il soprano non deve far altro che seguire una semplice linea vocale vicina al parlante. Linea vocale che in altri momenti o perde di compattezza e finisce per “svirgolare” sulla chiusura della frase, oppure si assottiglia in qualche fissità di troppo, soprattutto nei portamenti discendenti. Anche l’intonazione, spesso crescente, non è proprio cristallina. E la stessa aria di commiato, ben attaccata in mezzo piano (do4 di «PRENdi»), è cantata con voce dura, legnosa, che diventa querula e acida già su un sol4. Potete solo immaginare, di conseguenza, cosa sia stato il do5 su «Io BRAmo»… Il confronto con un’Alda Noni o una Margherita Carosio, le tanto bistrattate subrettine di pochi lustri fa, risulterebbe a dir poco impietoso.
Impressionante, e non in termini elogiali, il Nemorino di Francesco Demuro, le cui doti naturali e tecniche non gli permettono nemmeno di sostenere una tessitura tutt’altro che ardua, come quella del villico innamorato. Il timbro è gradevole, così come pregevoli sono i tentativi di rispettare (a volte) i segni di espressione, traccia inequivocabile di onestà d’approccio alla professione. Si percepisce anche un gusto interessante per quanto riguarda l’accentazione della parola, in particolar modo nei recitativi, seppur in massima parte difettoso del giusto sostegno del fiato (gradevolissimo resta a suo modo il senso di stupore, suggerito in apertura del cantabile a due voci, in principio di primo atto, sui versi «E che m’importa?» e «Oh Adina! E perché mai?», oppure laddove, nel primo incontro con il navigato imbonitore, dà un’inflessione patetica originale ai versi «Avreste voi per caso / la bevanda amorosa / della regina Isotta?») Tutto però rimane fermo, bloccato tra i fumi dell’intenzione, perché anche la “cassetta degli strumenti” è misera misera. L’emissione è tremula, instabile in ogni zona del pentagramma, e di limitata proiezione, per deficit congeniti prima ancora che tecnici. La prima ottava, come le note iniziali del centro, è inesistente; spettrale anche nei passaggi di accompagnamento orchestrale leggero. Basti riascoltare l’aria d’entrata, autentico paradigma della resa vocale generale, per rendersi conto che solo in alcuni passaggi di tessitura medio-alta diventa, in qualche modo, percepibile. Perché gli acuti, “tirati via” con la sguaiataggine di chi non può fare altro che aprire e spingere, col risultato di traballare già appena oltre il passaggio, non rientrano tra i suoni di scuola (volgarissima la salita – se di salita si può parlare… – al fa4 in corrispondenza del secondo «perCHE’», poco più avanti, prima della ripresa dell’”aura lusinghiera” – «Chiedi al rio perché gemente» – in cui si coglie l’intenzione di qualche mezza voce – «UN poter» – non segnata in partitura e incautamente attaccata sul la4, che finisce per sbiancarsi, andare in dietro e pure calare un poco). E sto parlando di un pugno di sol4 e fa4, mica di otto do di fila! Poco bene anche nella famosa romanza, che scivola via senza l’intimo trasporto che un timbro malinconico e delicato dovrebbe suscitare. Il tenore sardo tenta pure un accenno di forcella, a riprova di quella correttezza d’approccio al canto di cui dicevo poco sopra, ma ciò non basta. Il fiato manca e la tenuta viene meno. Allora, se anche Nemorino ti va stretto, mi spiace per il signor Demuro, non resta che cambiare mestiere, per lui e per quei cantanti che basano, anche solo nelle intenzioni, la propria professionalità sul valore esecutivo del canto. Parrebbe scontato ma, in tempi di galoppante revisionismo, fa bene precisare.

Un po’ meglio l’accoppiata bricconcella del Dulcamara di Renato Girolami e del Belcore di Giorgio Caoduro.
Va subito detto che Girolami è lontano anni luce da un’autentica corda di basso, sia per pasta timbrica che per centraggio di tessitura, tanto da far pensare a un tenore non sfogato. I gravi e i centri vengono per buona parte coperti dall’orchestra, mentre arriva piuttosto sonoro in acuto. Però dal do3 in su comincia a “ballare” e ad aprirsi, mentre già dalla cavatina è orchesca la salita al mi3 di «Ah di patria il caldo affetto», insipido assaggio della sfilza di altri mi3, tutti slabbrati, che chiude l’assolo. Ma si tratta in definitiva di un ciarlatano ambulante che rimane entro i confini di una dignitosa correttezza per buona parte della rappresentazione, pur non reinventando per nulla il poliedrico ruolo, riciclato invece senza parsimonia nella logora prassi delle caccolette, del fraseggio calcato e degli accenti inseriti e omessi secondo arbitrio (misteriosa l’accentazione marcatissima su «ch’io vendo niente men di nove lire»), prassi divenuta oramai tangente allo stereotipo più trito. E anche se il pubblico pare divertirsi, sono convinta che certe libertà interpretative, magari sostenute da un bagaglio tecnico più solido, potrebbero esser giocate con intenzioni meno prevedibili.
Singolare invece la prova di Caoduro. Perché è qui che lo spettro dell’afonia si fa più minaccioso. Se dovessi giudicare la performance di un cantante sulla base del volume della voce, questo Belcore sarebbe di gran lunga il vincitore della palma del peggiore in campo, dal momento che di cantanti svociati in tal guisa pochi ne ho uditi. E però… Però a discapito di una proiezione davvero esigua, il cantante friulano esibisce il solito timbro invidiabile, per altro sostenuto da un’emissione rimasta stabile, seppur un po’ tubata, per tutto l’arco della serata, con addirittura un paio di momenti notevoli per autorità d’accento e baldanza da sergente. Mi riferisco all’irruenza di quel «Silenzio!» atto a quietare la “Barcarola” in apertura di secondo atto, ma prima di tutto al bel contrappunto con cui si inserisce nella distesa melodia di Nemorino “Adina credimi”, che già avvicina, pur soltanto nella partitura, i due giovani paesani. Non esemplare invece la cavatina, in cui il legato ascendente è ancora esponente di quella celebre scuola, pur con meno evidenza rispetto all’Enrico genovese (tutti indietro i mi3 in corrispondenza di «PORse il pomo» e di «FIN la madre», così come i re3 di «del mio DOno» e di «ne riPOrto»).
Non pervenuta anche la Giannetta di Barbara Bargnesi, sepolta senza remore nei meandri più profondi del coro.
Sulla direzione di Donato Renzetti, rimando i nostri lettori alla considerazioni del caro amico Donzelli in luogo della recensione sulla prima compagnia. Mi limito a due puntualizzazioni: con un cast di tale tonnellaggio vocale sarebbe stata buona cosa moderare certi impeti, in particolare durante i numeri d’insieme. E il Preludio, che avrebbe potuto sfruttare l’assenza dei solisti per venir fuori come effettivo momento personale per il direttore, rimane slavato e fiacco. L’orchestra, dal canto suo, ha suonato meglio rispetto alla prima, e al di là di un paio di brutti passaggi dei flauti, non proprio all’unisono, ha esibito buona compattezza. Peccato anche per qualche attacco poco preciso.
Insomma, abbiamo scoperto che di questi tempi anche un’Elisir non è così facile da realizzare, nemmeno alla Scala. Ma non disperiamo, mi vien da dire. Al Piermarini i corsi di italiano per stranieri sono appena iniziati! Ci sono ancora speranze per il teatro d’opera. Basta confidare nei display. A ciascuno il suo…

Una breve appendice.
In particolare a seguito di serate di tale portata, fallimentari perché mai veramente decollate, fa davvero impressione ripensare a quei personaggi che si aggirano ogni sera per le gallerie del teatro, orgogliosi della propria acriticità di giudizio, di cui fanno triste vanto come spettatori e addetti ai lavori. Una corte dei miracoli assimilabile unitamente alla solita, povera banda di restauratori dell’ordine, sempre vigili e all’erta, armati di malta e cazzuola per stuccare le crepe che spuntano, ogni volta più evidenti e frequenti, sulle mura del condominio della favola ufficiale.

Carlotta Marchisio



105 commenti:

scattare ha detto...

Almeno voi siete stati fortunati.
Qualcosa avete "udito".
Da dov'ero seduto io, nemmeno un fil di vibrazione del cast è riuscito penetrare la "densa e fitta" orchestazione donizettiana.
Sono scappato dopo il primo atto.

giorgiocaoduro ha detto...

Se mi è concesso, a parziale discolpa di tanta inudibilità, sottolineerei un impianto scenografico acusticamento infelicissimo, privo di quinte e profondissimo, e una regia che ci costringeva a cantare spesso metri e metri indietro.
Saluti

Carlotta Marchisio ha detto...

Appoggio la fuga di Scattare :)

Gentile signor Caoduro, il suo intervento è condivisibile, almeno per metà. Come avrà ben notato, le agomentazioni che porta le avevo già messe in rilievo nel pezzo. Ma la discolpa, ahivoi artisti, ahinoi pubblico, rimane parziale, in particolare se dovessimo tirare in ballo confronti col passato, anche recente.
Ripeto: una regia che avesse sfruttato maggiormante il proscenio sarebbe stata un valido "tocca e sana", ma non certo un miracolo.

giorgiocaoduro ha detto...

Infatti non penso che cantare in proscenio mi avrebbe trasformato in Cappuccilli, ma magari il non essere costretto a cantare metri e metri indietro, sotto la famigerata torre, circondato da finte balle di paglia realizzate in corda (materiale decisamente fonoassorbente), mi avrebbe permesso di non risultare tra i cantanti più "svociati" mai uditi.
Dirò di più: i miei pochi tentativi di spostarmi in proscenio sono stati aspramente redarguiti dai responsabili dell'allestimento. Questo a riprova che molto, troppo spesso, i registi ignorano e disprezzano le esigenze acustiche della musica, quand'anche non si trovino dei Cappuccilli in scena, ma cantanti volumetricamente assai meno dotati.
Saluti

Giulia Grisi ha detto...

Carissimi,premetto che non ho sentito la produzione per cause di forza maggiore, ossia l'influenza, mi permetto uno sconto a questo cast,che la CArlotta non concede, perchè verissimo che la Scala mangia la voce se lo spettacolo non è chiuso.
Il metro è l voce della Lungu, sentita già altre volte.

sono dell'idea che i cantanti debbano organizzarsi contro la schiavitu' dei registi che non servono il canto e trascurano le regole dell'acustica.
e' ora di salvare il salvabile, quel poco che c'è ancora almeno, dall'assalto dei registi, delle direzioni artistiche poco capaci etc..
sarà argomento di maggiore insistenza da parte di questo sito in futuro

Carlotta Marchisio ha detto...

Signor Caoduro, lei frequenta questo blog e immagin conosca bene l'opinione che abbiamo del 90% dei registi e del totale asservimento della componente vocale su quella scenica dei tempi che corrono. Condivido quindi senza remore la sua riflessione, anche perché è proprio ciò che ho inteso sottolineare nel mio pezzo.

Anonimo ha detto...

Penso che la cosa migliore da fare sarebbe smettere di parlare delle regie, non farci caso, ignorarle del tutto.

Io francamente le ritengo perfettamente inutili e quando vado a teatro l'ultima cosa a cui penso è l'allestimento. Anzi devo dire che basta anche solo la presenza di una regia a disturbarmi, e per questo farei eseguire tutte le opere in forma di conerto. Al massimo farei dipingere le scene su di un cartone.

Detto ciò, non mi piacciono i cantanti che usano questi argomenti per giustificare la propria insufficienza vocale. Una voce impostata come si deve si sente pure in uno stadio all'aperto.

Si smetta di parlare di acustica, di scene, di regie. Lo scopo delle regie è proprio quello di far parlare di sè. Meglio ignorarle del tutto. E i cantanti vadano da un buon maestro a farsi impostare la voce.

Giulia Grisi ha detto...

CAoduro, lei è benvenuto qui...tra i pitbulls! onore al coraggio!!!
hahaha

giorgiocaoduro ha detto...

Caro Cesconegre, da cantante non credo sia giusto ignorare la regia, dal momento che questo genere nasce come RECITAR CANTANDO, e la musica è sempre concepita pensando a un azione scenica. Da quando esiste l'opera ci sono stati cantanti celebri per le loro doti attoriali.
Sarebbe sufficiente che certi registi e scenografi tenessero in maggior considerazione le esigenze acustiche ed aiutassero noi poveri comuni mortali un pochino di più, con quinte e soffitti chiusi, più legno e meno tessuti.
Detto ciò, mi assumo tutta la responsabilità per la mia eventuale non udibilità, e gradirei che non mi mettessi parole in bocca che non ho mai detto. Ho usato il termine "parziale discolpa" che non significa che io voglia giustificarmi. Aggiungerei che anche una professionista di comprovata e solidissima tecnica come la mai troppo celebrata Mariella Devia, è andate incontro a detti problemi acustici nello stesso teatro, quando in Maria Stuarda si è trovata in un impianto scenico affine, aperto e molto arretrato. Sia chiaro che non voglio paragonarmi alla Devia... magari!!!
Quanto al buon maestro di canto sono certo che tu saprai consigliarmene uno.
Saluto e ringrazio Grisi e Marchisio per l'accoglienza.

Carlotta Marchisio ha detto...

Ma Divina, io l'attenuante della scenografia l'ho concessa eccome! :)
Ma che solo di sconto si tratti, perché Natale è ancora lontano. Aspettiamo ancora un paio di mesi per parlare di... regali!
A questa produzione hanno partecipato otto cantanti professionisti, le cui differenze volumetriche, tecnica a parte, sono state evidenti. E le cattive condizioni scenografiche le hanno subite tutti... Chi più chi meno, però. Per questo eviterei di parlare delle balle fonoassorbenti.

Rinnovo a mia volta il benvenuto al signor Caoduro, a cui faccio i miei complimenti non solo per il "coraggio" di cui parlava Giulia :) ma anche per l'efficacia scenica dei personaggi che interpreta.

Anonimo ha detto...

Caoduro, io credo di non averla mai ascoltata dal vivo, e non ho assistito a questo Elisir; evidentemente il mio appello non era rivolto a lei in particolare ma a tutti quei professionisti che troppo spesso blaterano a proposito dell'acustica per giustificare (in toto o parzialmente, poco importa) le proprie mende.

Quanto a lei Caoduro, mi associo a Donna Grisi nell'onorare il coraggio che dimostra nel confrontarsi qui tra noi, ma francamente ritengo fuori luogo qualsiasi intervento di un artista al di fuori del palcoscenico. I cantanti pensino a cantare.

Per quanto riguarda il “recitar-cantando”, il cantante deve essere prima di tutto un attore vocale. Per il resto, ben vengano pure la presenza scenica e le doti d’attore, ma vanno considerate solo come accessori eventuali che non devono mai disturbare l'atto del canto.

I registi invece sono la morte del canto e del teatro, e per questo vanno aboliti. La regia teatrale è un’invenzione del secolo scorso, prima non esisteva il regista che “fa lo spettacolo”, ma esisteva solo un capocomico che semplicemente coordinava i movimenti sulla scena. Il “teatro di regia” è la negazione del teatro. Il teatro è fatto dai cantanti, dagli attori, non dai registi! Cosa me ne faccio di un regista se ho un attore di prosa che non sa nemmeno impostare la voce e risulta inudibile oltre le prime due file, salvo l’uso di quegli abominii chiamati microfoni??? Cosa me ne faccio di un regista se i cantanti non sanno cantare??? Per non parlare poi di quando sono gli stessi registi con le loro pretese demenziali a mettere in difficoltà i cantanti più giovani ed inesperti… che rabbia… se penso poi che questi registi quasi sempre vanno a braccetto con i direttori d’orchestra, emeriti ignorantoni in fatto di voci… la rabbia cresce… Registi: a lavorare! Via dai teatri! SPARITE PER SEMPRE! SIETE LA MORTE DELLA MUSICA!

Quanto al maestro, non so quanto lei Caoduro ne abbia bisogno, ma se di canto se ne intende, dovrebbe saper distinguere da sé i veri insegnanti - i pochi rimasti – dai tanti ciarlatani.

Cordiali saluti

Marco ha detto...

Gentile Signora Marchisio, io, Marco Ninci, sono una di quelle persone che hanno partecipato a quella "discussione" sul blog "La voce del loggione" cui Lei si riferisce. Molto brevemente Le posso dire che le tre persone con cui ho parlato non erano affatto vociomani; si fermavano molto prima. Io ho avuto la sensazione che non fossero nemmeno in grado di capire quello che leggevano, nonostante cercassi di spiegare in termini generali il mio punto di vista. Per quanto riguarda il Sig. Gobseck, affetto come tutti gli altri interlocutori tranne me da coprolalia, magari fosse stato come il Bartleby mellvilliano! Sarebbe stato legato a un decoroso anche se nevrotico silenzio. E invece termini come latrina, escrementi e compagnia bella fluivano bellamente dalla sua elegante bocca, senza che questo lo aiutasse a capire qualcosa del suo interlocutore. E "pour cause", si direbbe in francese.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Marco ha detto...

Naturalmente "melvilliano" non "mellvilliano".
Marco Ninci

Carlotta Marchisio ha detto...

Prof. Ninci, ho letto con entusiasmo ludico quella "discussione" sul blog che cita, e ammetto di essermi molto divertita (a breve proporrò agli amministratori del Corriere di rendere a pagamento le inserzioni pubblicitarie...). Ho avuto però l'impressione che lei abbia capito molto bene quali fossero i diversi punti di vista. E se non sbaglio, dopo una serie dei suoi oramai famosi haiku all'occidentale, cercò di chiosare affermando che per lei il canto "non è tutto" (in un'opera lirica, mica in una partita di football americano...). Resto peraltro convinta che lasciarsi andare al turpiloquio, pur tra i più spinti, sia meno grave che augurare la morte a chi professa opinioni diverse, come invece usano fare, con una certa dose di compiacenza, i suoi abituali e raffinati interlocutori.

Marco ha detto...

Cara Signora Marchisio, come forse saprà (e se non lo sa glielo posso assicurare), i miei abituali interlocutori mi hanno durissimamente osteggiato ed alcuni continuano a farlo. L'unica cosa che mi interessa sono le mie opinioni e non mi sento di far parte di nessun indirizzo di carattere generale, che appartenga a quel blog o a qualsiasi altro ambito. In altre parole, non mi riconosco in nessuno. Per altro i miei interlocutori abituali, come li chiama Lei, non auguravano la morte a quei personaggi, ma dicevano che erano già morti. Il che, a giudicare dalla rabbia che li animava, era difficile da negare. Anime morte, insomma, più morte di quelle di Gogol.E da quello che dicevano trasparivano più problemi personali che non interesse per il canto. Per quanto riguarda poi il fatto che nell'opera il canto non sia tutto, si tratta di una cosa ovvia. C'è la regia, c'è il direttore d'orchestra. E poi il canto ha importanza variabile a seconda del repertorio. Alcune voci che se la possono cavare in un certo repertorio non lo possono in un altro. Anche il canto quindi non rappresenta una sfera omogenea. Senza contare il fatto che un grande direttore d'orchestra può animare l'imperfezione del fatto vocale e sfruttarla a fini espressivi. Ma tutte queste sono ovvietà e c'è da vergognarsi a ripeterle.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Carlotta Marchisio ha detto...

Auguravano la morte, professor Ninci. Non mi costringa a fare dei copia-incolla. La sua smodata quanto astrusa difesa di quei poveri signori, anche in questa sede, mi lascia di sale. Qui, come lei sa e ha avuto modo di apprezzare, siamo persone serie. Le polemiche sterili e scontate le lasciamo ad altri fori e blog, tra cui quello che frequenta. Se vuole entrare in merito di questa Elisir e dell'afonia endemica delle voci moderne (gli spunti di discussione che ho proposto nel mio pezzo) sa bene di essere il benvenuto.
Da parte mia, per continuare con le ovvietà, continuo a credere che l'opera lirica si fondi sulle voci e di riflesso su un buon direttore capace di valorizzarle e sostenerle nell'accompagnamento: se il canto manca o è deficitario, non c'è rappresentazione, a differenza di serate concertistiche, pure di successo, in cui il vuoto registico non inficia per nulla la riuscita dell'esibizione (almeno per quanto mi riguarda...). Per gli amanti della prosa e dei concerti sinfonici ci sono altri luoghi e momenti adibiti.
Lei cita Gogol. Dovrebbe ben sapere allora che quelle anime, seppur morte, oramai inesistenti a livello materiale, continuavano a muovere le fila del presente, condizionandone a loro modo gli sviluppi. Un po' come fanno oggi nell'opera i vari Bonci, i Wundelich e i Chaliapin. Anime morte anche loro, certo, ma ancora moneta di valore, seppur scomoda e ingombrante, per chi ha deciso di non farsi prendere sempre, troppo per... il naso!

Anonimo ha detto...

Che bello leggere commenti da vero esperto della vocalità come il singor Marco Ninci.
C'è da rimanerne finemente rincuorati, sapendo che una persona di cultura come il signor Ninci fa discultura vocale nel senso più risoluto e convinto da parte mia.

Asserire che "nell'opera il canto non sia tutto" è relativamente giusto, nel senso che nell'opera il canto è BASE necessaria e fondamentale di tutto. Su questa base si costruisce il resto!

Mi sorprende che un esperto di filosofia non riconosca questo semplicissimo rapporto di causa-effetto, che è alla base insieme a tanti altri rapporti dei principi della conoscenza.

Tutta la storia mi ricorda molto la diatriba legata alla Legge Comunitaria che prevedeva "la possibilità di commercializzare bibite con colore e aroma d'arancia pur essendo prive del vero succo d'agrume, il cui limite minimo oggi è al 12%". Va da sè l'ilarità delle affermazioni di Ninci

Marco ha detto...

Rispondo brevemente alla Signora Marchisio. La mia non è una difesa di "quei signori", perché io mi faccio difensore solo delle mie idee, che non collimano in nulla con le loro. O lo fanno solo occasionalmente. Tanto meno è smodata e astrusa; mi pare al contrario molto chiara e misurata. Certo, le cose chiare possono diventare astruse perché sono commisurate alla capacità di chi legge. Per anime morte poi io intendo solo certi interlocutori e non i grandi cantanti del passato. Tant'è che le anime morte di Gogol sono una truffa (anche questo dovrebbe sapere, cara Signora). Non mi sognerei mai di dire che Bonci o Wunderlich siano truffe; ma alcuni usi che si fanno di quei lontani modelli si avvicinano pericolosamente a qualche uso ingannevole. Ma il problema è uno solo. Interessa quello che dico solo se io parlo di questo Elisir e dell'afonia delle voci moderne. Lo dice lei. Di questo parla questo blog ed a questo scopo tutti devono accodarsi, "perinde ac cadaveres", diceva Ignazio di Loyola. Se non c'è questo ideale di canto non c'è rappresentazione. Lo ha detto ancora Lei.E' un principio tutt'altro che dimostrato o dimostrabile; tant'è vero che accanto alla "Norma" c'è anche "Mathis der Maler", dove le cose possono andare ed effettivamente vanno diversamente. E così per innumerevoli altri titoli. Tutto qui. E ho l'ardire di pensare che queste discussioni, in luogo di essere sterili, siano di gran lunga più interessanti del misero divertimento con cui tanti vostri plauditores (e non voi, a dire il vero) pregustano l'ennesimo fallimento vocale. Ora non ho più tempo di scrivere; risponderò domani all'uccellatore Papageno, le cui reti, a quel che posso vedere, hanno le maglie troppo larghe per catturare sottili concetti ed al cui interno si ritrovano invece comodamente simpatiche galline.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Marco ha detto...

Scusate, ma, scorrendo la vostra chat, vedo che vi interessate molto di me, addirittura ricorrendo al sito della Normale; a dire la verità, non merito tanto interesse. Buona serata a tutti.
Marco Ninci

mozart2006 ha detto...

Non è solo per amicizia personale che esprimo tutta la mia stima a Marco, le cui idee meritano sempre alta considerazione anche quando non collimano con le mie.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Nell'esprimere la mia solidarietà a Marco Ninci, vorrei invitare chi commenta o chi partecipa alla chat di attenersi ad un minimo di creanza, evitando, se possibile, di non riferirsi ad altri quando costoro non sono presenti in discussione (credo che il principio per cui ciascuno debba intervenire e replicare ad accuse a sé rivolte o a considerazioni che lo riguardino, sia inviolabile). Se possibile chiederei di astenervi dal considerazioni gratuite circa la vita privata o lavorativa.
Detto questo concordo con Marco Ninci circa l'affermazione per cui il canto non è tutto nell'opera, dato che si tratta di teatro musicale (e non un solfeggio da eseguire in conservatorio). Io credo che l'opera sia un fenomeno artistico in cui la musica - intesa come l'espressione artistica del compositore - sia la componente essenziale, essa necessita di interpreti vocali e di un direttore che possa comunicarci qualcosa di più che una mera sequenza di note. L'opera non è un circo all'ultimo acuto, o un cabaret da primadonna, dove esibirsi in ogni vezzo e capriccio...'sta roba non mi interessa, dato che è spazzatura, non opera d'arte. Il cantante resta ovviamente il fulcro dell'opera, ma accanto vi è il direttore d'orchestra (ascoltare la Lucia o i Puritani con pessimi direttori, è insopportabile, anche se canta la Sutherland). Così pure la regia e l'allestimento...si tratta di teatro, non di concerti. Cesconegre - con la sua consueta tolleranza e serenità - vorrebbe addirittura "abolirli"...vabbè, se si degnasse di leggere qualche saggio sull'opera scoprirebbe l'attenzione di Verdi o Wagner all'aspetto teatrale dell'allestimento (o forse andrebbero aboliti anche loro?). Resto sempre più perplesso da questo estremismo. Francamente lo ritengo intollerabile.

Papageno ha detto...

Non si preoccupi signor Ninci! Credo di parlare a nome di tutti ma di lei proprio non ci interessiamo e spendiamo il nostro tempo a fare qualcosa di più costruttivo come istruirci e ascoltare musica, e da parte mia cantare: ci informiamo tuttavia ma niente di più.
Così come la rassicuro sulle mie reti: ne ho a maglie fini e a maglie grosse, e stia attento che i polli come lei non ci finiscano dentro. Ci farei un pessimo brodo visto la stopposità della carne!

Carlotta Marchisio ha detto...

Professor Ninci, spiace molto anche a me. Ma quando una discussione si fonda su divergenze a dir poco siderali diventa sterile. Perché è chiaro che a lei del canto freghi molto poco. Lo si comprende bene, oltre che dai suoi interessanti interventi sulla sinfonica, da cui, ammetto, ho solo da imparare, dal suo apprezzamento nei ocnfronti di una cantante come Angela Denoke (immagino che ad accompagnarla ci sia stato un buon direttore...).
Però finché il 90% (sparo a caso, ma credo di non sbagliarmi poi molto) delle stagioni operistiche continueranno a vedere in cartellone Puccini, Verdi, Donizetti, Rossini, Bellini e Mozart io continuerò a mia volta a ragionare sulla vocalità di questi compositori e sulle qualità artistiche di chi li interpreta. Finché a un Mathis corrispondono 50 Rigoletti, un buon cantante lo misurerò sempre per come si destreggia nella parte del Duca, non certo in quella occasionale di Brandenburg, in particolare in un discorso che si interroga, in chiave olistica, su cosa sia il canto tout court. Fermo restando che anche un Malhus con un Brandenburg zoppo... zoppo rimane!

Carlotta M.

Papageno ha detto...

In risposta a Duprez, che semplifica alle solite frasi populiste (L'opera non è un circo all'ultimo acuto, o un cabaret da primadonna, dove esibirsi in ogni vezzo e capriccio), credo fermamente che l'opera sia non solo canto, ma si basa sul canto. Al periodo storico a me più congeniale, ossia ante-verdiano, gli strumenti servono la voce, che è il centro di tutto. Come solito, ricordo che c'è sempre un lato tecnico ed un lato emozionale, ma senza voce non si va da nessuna parte!
E per questo che dico con fare meno censorio di Cesco, che le opere in forma di concerto mi piacciono di più perché (oltre che per le opere ante regia scenica in cui ci fosse un telone dipinto come unico sfondo)l'attenzione è focalizzata sul canto; e si badi bene, se uno canta bene, esprime tutte le emozioni che vuole col solo canto.

mozart2006 ha detto...

Concordo in tutto con quel che scrive Duprez. E non è per amicizia personale che voglio qui esprimere ancora una volta tutto il mio rispetto e la mia stima per Marco, le cui opinioni sono sempre da considerare ed espresse oltretutto con garbo e civiltà.

Carlotta Marchisio ha detto...

*Mathis in luogo di Malhus, chiaramente*

pasquale ha detto...

certo che nell'opera il canto è la base,ma semplificando al massimo,senza troppe parole,il melodramma cos'è?
e un recitare cantando,quindi c'è una musica da ascoltare una storia e una trama da raccontare,non si può ridurre il teatro a una sala da concerto

pasquale ha detto...

comunque cerchiamo di rimanere in una discussione da persone civili,lasciamo perdere reti galline e polli,ognuno esprima il suo pensiero,nel reciproco rispetto.
Spesso la verità e a metà strada...

Marco ha detto...

Gentile Signora Marchisio, La ringrazio sinceramente per il Suo intervento, così misurato e rispettoso. Lei mi dice che dai miei interventi in ambito sinfonico ha solo da imparare. E Le sono grato per questo. Ma Le dico che anch'io ho da imparare da Lei e da tutti gli altri intervenuti. Il fatto è che considero la mia vita come un continuo imparare, dal momento che il mio pensiero ha un carattere eminentemente dialogico: si chiarifica a contatto con posizioni diverse, quando non addirittura opposte. Senza di queste penso che diverrebbe sterile. Quindi parlare con Lei e con tutti gli altri per me significa imparare, in due sensi: imparare cose che non conosco e articolare meglio le cose che conosco. Queste discussioni quindi sono per me il contrario della sterilità; si risolvono invece nel massimo dell'utilità. E'un po' come la questione della critica musicale,su giornali e riviste. Vedo, passeggiando nel mondo del blog,che in genere le recensioni sono apprezzate se il loro giudizio, la loro valutazione collimano con quelle del lettore. Rigettate nel caso contrario. Ebbene, io credo che la funzione della critica sia un'altra. Dare delle idee, proporre un modello di pensiero originale, fare leva su una concezione generale della musica. Questo è importante. E questo facevano persone diversissime per tempo ed educazione come Eduard Hanslick,Alfred Einstein, Fedele D'Amico, Massimo Mila, Rodolfo Celletti. Una critica secondo me vale quando si impara da lei nel momento in cui non siamo d'accordo con lei. Poi, per il mestiere che faccio, sono estremamente interessato alle questioni generali. Dato per accertato il fatto di una decadenza del canto, cosa che sarebbe sciocco negare, il mio interesse sarebbe portato a cercare le ragioni sociali, psicologiche, sociologiche, storiche di quella decadenza. Non ho né il tempo né la forza né la competenza per fare un'indagine simile; e magari è stata fatta in maniera esauriente. Ma quanto mi piacerebbe imparare qualcosa al riguardo! Un'ultima annotazione sulla Denoke. E' vero, il direttore era eccellente, Nagano, alla Bayerische Staatsoper. Tuttavia un'interpretazione orchestrale così sottile, sfumata, leggera si sposava perfettamente con la voce piccola e penetrante della Denoke, che si sentiva perfettamente in ogni ordine del teatro. Chi era la causa? Chi era l'effetto? Le assicuro che in qual momento porsi una domanda simile non aveva senso. Fu un successo caldissimo, mi creda; nessuno, proprio nessuno ebbe alcunché da obiettare. Ed eravamo a Monaco; le grandi Salome lì le hanno sentite proprio tutte.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Giulia Grisi ha detto...

Non mi è ben chiaro nei dettagli quanto avviene qui.
Mi pare che le espressioni di solidarietà diano però un tono un po'...ridicolo alla faccenda, perchè di grave non vi è nulla.

Caro Prof. Ninci,
lei sa che qua è il benvenuto, anche se abbiamo opinioni dalle sue. Non mi è chiaro da un lato perchè vada a scrivere su un sito notoriamente non moderato dagli amministratori ove volano insulti da fuori di testa per cose scemissime. E dove non 'c'è dialogo alcuno.Ma che ci va a fare scusi, ? E' masochista?
Lei però è da espressione biblica, quanto ai grisini, perchè non può scagliar pietre essendo notoriamente peccatore: ma quanti insulti ha scritto anche lei contro di noi?? su su, siamo obbiettivi....
La solidarietà la esprimiamo agli indifesi, lei mica lo è, anzi...
Secondarimente, che le pulci siano carnivore ...si sa. Hanno addentato pure me, dunque..Però è chiaro che se lei gli fa la lezione universitaria ogni volta, queste vanno in internet a vedere osa lei insegna.....giusto per sapere quale materia mettere nel piano di studi!!!...in un web universitario che vita privata c'è, scusi?

Lei è qui, veda di restarci che fa bene la campana opposta a tutti, lei e noi, ma se pretende di addestrare i piranha dela chat...uhmmm, mi sa che ci resterà male...e morsicato!

Quanto alle signore Pulci qui scriventi, si rammentino che esistono modelli di chat che consentono di praticare la bannatura a vita.......si esprimano urbanamente per favore.


saluti a tutti

Marco ha detto...

Scusi, Signora Grisi, ma io non mi sono mai lamentato di niente. Né ho mai voluto solidarietà da nessuno. Mi sono divertito a vedere che si interessavano di me; anzi, se devo essere sincero, la cosa mi ha anche gratificato. Né mi sento offeso da quello che avviene nella "Voce del loggione"; ho anzi una certa curiosità anche umana per i miei interlòocutori. Non capisco proprio il significato del Suo intervento.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Anonimo ha detto...

Duprez taccia le mie posizioni di estremismo, mi dà implicitamente dell’ignorante invitandomi a documentarmi sul teatro wagneriano quando ciò di cui si parla è Donizetti o comunque tutt’altro ambiente e tutt’altro repertorio, e ritiene per di più INTOLLERABILI le mie prese di posizione.
Tutto ciò mi irrita non poco, come mi irrita in generale chi fa finta di non capire ciò che scrivo e chi usa argomentare con esempi che non c’entrano.
Riporto qui due frasi scritte da Duprez che ritengo parimenti estremistiche ed intollerabili, la prima delle quali presa dal commento da lui pubblicato sotto al ricordo della Sutherland:
>”[…] la Sutherland ha ripulito il belcanto e il melodramma da tutte le incrostazioni che un gusto “corrotto” aveva sovrapposto, e più che le sue maestre […] la Sutherland ha seguito la via della ricerca di una vera filologia, aiutata dal grandissimo Bonynge, nel recuperare fonti e trattati, non accontentandosi di un "tramandare" una tradizione (che ormai non aveva più nulla di autentico) o una tecnica che inevitabilmente non poteva più essere quella originale: io non credo affatto nella possibilità di tramandare alcunchè, ma solo nello studio delle fonti e dello stile.” (Una chiosa: più che di musica mi pare che qui si parli di un esorcismo… “ripulire dalle incrostazioni”… “gusto corrotto”… mamma mia… la Sutherland chi è, il messia?).
>” L'opera non è un circo all'ultimo acuto, o un cabaret da primadonna, dove esibirsi in ogni vezzo e capriccio...'sta roba non mi interessa, dato che è spazzatura, non opera d'arte.”
Riguardo la prima frase riportata, posso solo dire che è proprio grazie a questo approccio dogmatico e inquisitorio, rinnegante il valore della tradizione, se oggi siamo infestati da cani gatte e galline baroccari. Il merito primo della Sutherland è quello di aver cantato con la tecnica giusta. La base è questa. Poi certo, la filologia, qui come in ogni “rinascita” che si rispetti, è elemento indispensabile, a patto però che non la si trasformi in biblico integralismo: è questo che, ad esempio, portò a credere che i greci non colorassero le statue, o, mutatis mutandis, che il barocco vada cantato con la voce ingolata piatta e priva di colore. La filologia senza la tradizione è un paradosso, come voler attraversare un grande fiume senza passare per un ponte. La tradizione è la valvola che permette ad ogni filologia di respirare.
Riguardo la seconda frase, penso invece che l’opera sia ANCHE il luogo deputato all’esibizionismo dei cantanti, dei cantanti VERI, s’intende. E’ sempre stato così (dai tempi dei castrati fino a ieri). Quello che invece nell’opera, come nel teatro di prosa, storicamente non esiste è la figura del regista, invenzione relativamente recente e, ormai, vero e proprio specchietto per le allodole, dato che il belcanto è morto.
Ancora una volta, in Duprez osservo una visione anti-storica che davvero trovo intollerabile, e che in tutta franchezza certe volte mi fa passare la voglia di frequentare questo blog (blog in teoria preposto alla TUTELA della tradizione, come troneggia nel suo sottotitolo). Sì, poiché in un blog dove campeggia la scritta ”tutelare l’antica arte del canto”, sentirmi dire che i miei strali contro i registi sono intollerabili, e vedere solidarietà espressa (per che motivo?) verso chi invece considera il canto solo come un tassello secondario di quella sinfonia che è per lui il teatro in musica, penso sia una palese mancanza di coerenza. L’incoerenza, quella sì, è intollerabile.

Con questo, non vorrei incrinare l’intesa che fragilmente veniva formandosi con i collaboratori del blog. Se mi sento di dirvi qualcosa, ve la dico senza peli sulla lingua. A costo di essere ostracizzato.

P.S. i registi vanno CANCELLATI.

Saluti

Giulia Grisi ha detto...

ohohoh,
io però non ho detto che i registi non vadano cancellati!...nonon.
vuoi una gomma? te la passo

pasquale ha detto...

caro Cesco per fortuna che ti limiti a scrivere,perche se staresti dentro l'ambiente faresti solo disastri,riguardo ai registi se oltre a cantare si recita,ci va anche qualcuno che diriga le scenografie e i movimenti sul palco,oltre al direttore concertatore..la Grisi puo anche dire che sei una pulce,per me sei solo un esaltato.La tutela del bel canto non ha bisogno di difensori come te.

Marco ha detto...

"Il canto come tassello secondario di quella sinfonia che è il teatro in musica", dice Cesconegre. Naturalmente io non ho mai detto nulla di tutto questo. Certe volte, quando mi imbatto in una simile disperante incapacità di capire quello che si legge, mi domando chi porta la responsabilità di tutto questo; e mi rispondo "noi insegnanti".
Marco Ninci

Domenico Donzelli ha detto...

Carissimi Tutti,in effetti l'elisir d'amore è divenuto una sorta di estratto di tigre che ha tirato fuori il meglio di tutti noi.
Allora siccome sono diciamo vecchio almeno come ascoltatore preciso che non ho molta simpatia per registi, drammaturghi etc. Mi rendo conto che può trattarsi di una posizione di ricercato antiquariato, che si fonda sul fatto che i registi all'epoca della Traviata non c'erano. Però... spesso una Bellincioni venne paragonata ad una Duse, un Garcia padre a Talma, la Grisi alla Ristori etc... e allora mi domando non dobbiamo oggi tenere conto del teatro anche noi. Però per completezza mi dico anche, ma se noi oggi vedessimo recitare Rachel, Talma, la Ristori, la Pezzana, la Duse, la Bernard come reagiremmo e sopratutto apprezzeremmo i testi che furono i loro cavalli di battaglia che so Fedora, Teresa Raquin, o i polpettoni di Hugo.
Insomma quadrare il cerchio o quasi. Però quando vedo regie che stravolgono l'opera, regie di persone palesemente ignoranti anche ai miei ignoranti occhi (la mia è poi la cultura, se tale può definirsi, che davono i licei italiani in un'epoca molto sofferta della storia scolastica italiana)allora sono d'accordo con Cesco e voglio l'opera in forma di concerto. Giulio Cesare di Handel non ammette le truppe di occupazioni inglesi del 1946 vuole l'Egitto come lo vedeva il mondo barocco.
Esattamente come sul passato vocale che più i ventenni di oggi che il sottoscritto ventenne è reperibile e disponibile non può essere liquidato semplicemente e comodamente come roba vecchia deve essere tenuto ben chiaro anche per l'insegnamento di onestà professionale e costante studio che è ben chiaro da ogni ascolto.
Perdonate il delirio !!!!!
ciao dd

pasquale ha detto...

Donzelli ha detto:"Allora siccome sono diciamo vecchio almeno come ascoltatore preciso che non ho molta simpatia per registi, drammaturghi etc. Mi rendo conto che può trattarsi di una posizione di ricercato antiquariato, che si fonda sul fatto che i registi all'epoca della Traviata non c'erano"

Se non c'erano i registi ci doveva pur essere qualcuno che doveva provvedere o no?

Papageno ha detto...

Sempre riferito a Ninci:
sapiens nihil affirmat quod non probet (o probat a seconda della versione da lei preferisce).

Se io non conosco bene la vocalità wagneriana, anche se conosco il tema vocalità, non ne parlo.

Marianne Brandt ha detto...

Concordo con Duprez e Marco Ninci.
Perchè?
Perchè, anche se le mie idee non sono totalmente in linea con loro, esprimono il loro parere con la loro testa, con la preparazione che gli è propria e senza gettare la discussione sul personale, cosa che francamente mi infastidisce non poco.

A chi è venuto in mente di postare i dati del signor Ninci, nella chat per giunta?
Perchè farlo?
Che bell'atto di coraggio!
A chi interessa cosa fa nella vita e questo cosa ha a che fare con il blog o con Donizetti o con l'Elisir?
Qui, ed evidentemente ancora non si è compreso, conta il confronto di idee, anche diverse dalle nostre, conta il dialogo.

RIPETO, IL CONFRONTO!!!

Le beghe personali devono restare FUORI da qui e se proprio vi va di attaccarvi fatelo pure tramite mail, telefono, dal vivo, ma non trasformate il Blog ne "La voce del loggione", valvola di sfogo di pochi infelici.

Se poi volete utilizzare l'Elisir per andare fuori tema e trasformare il tutto in una gara di insulti, proclami, assolutismi, avete sbagliato tutto, mi spiace!
Tacciare poi Duprez di incoerenza o antistoricità o Ninci di difendere l'indifendibile, è una cosa che francamente si commenta da sola. Vi invito solo a leggere meglio.

Scusate, esprimere civilmente il proprio parere non è più possibile?
Esprimere un parere diverso è peccato tra i più nefandi e punibili con la morte? Proprio qui che abbiamo più volte stigmatizzato lo stesso comportamento tenuto da altri blog e forum? ANDIAMO...

Marianne Brandt

Marco ha detto...

Senta, Signora Marianne, ripeto che io non mi sono lamentato di nulla; mi divertiva il fatto che si fossero interessati di me e soltanto questo. Non sono offeso di niente e, come ho avuto modo di dire, ho chiarito a me stesso certe idee e, esprimendole, forse ho interessato altri lettori. Papageno dice che ho delle lacune in filosofia e non capisco il nesso causa-effetto nella sua applicazione al canto. Bene, vorrei rispondergli esaurientemente e lo farò, perché, e spero mi vemga riconosciuto, io parlo con tutti, a tutti rispondo e non lascio cadere nessuna voce. Anche se purtroppo non credo che potrò dimostrare nulla perché in questi campi la certezza assoluta della dimostrazione non c'è né ci può essere. E, aggiungo, per fortuna.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Carlotta Marchisio ha detto...

1) Professor, Ninci, mi trova in buon parte d'accordo. In particolare sull'approccio dialogico dello scambio, anche se può capitare ogni tanto di sembrare assolutisti, sia da una parte che dall'altra della campana. Mi auguro di rileggerla presto da queste parti, magari con interventi del tenore di quelli passati, che ho seguito con attenzione e proficuo interesse.

2) Caro Pasquale. I richiami alla creanza valgono pure per chi si sente di difendere la posizione apparentemente più coerente e quindi più facilmente... difendibile. Quindi anche per te. Trovo poco corretto dare dell'esaltato a chi esprime, seppur con colori non certo tenui, un'opinione diversa dalla tua. Opinione che peraltro appoggio nei presupposti generali.
Mi rendo conto che si tratti di pura fantascienza, ma sono convinta che una proposta cartellonistica che prevedesse alcune opere in forma di concerto non priverebbe di rispetto né il compositore, né tantomeno il librettista (il verso musicato scaturiva per buona parte dei casi da collaborazione e calibrazione dettagliata di parola e musica, sempre, a seconda della specifica sensibilità del compositore, a fini espressivi). Anzi, potrebbe funzionare forse come sforzo iniziale per ricollocare in posizione più "morale" la componente vocale, così spesso bistrattata e decentrata rispetto alle tanto inutili e fumose disquisizioni su regie e allestimenti (si leggano a proposito riviste specialistiche e libretti di sala in Francia e non solo). Perché di questo passo finiremo per leggere recensioni su illuminazione, costumi e materiali scenografici. E direi che ci siamo quasi, considerata la recente... stroncatura alle palle di fieno fonoassorbenti!

Carlotta M.

Marianne Brandt ha detto...

Marco, sono intervenuta solo ed esclusivamente perchè i toni della discussione e certi atteggiamenti semplicemente non mi sembravano nè adatti a questo contesto nè inerenti al tema in questione.
Il fatto che non eri offeso mi era già chiaro ben prima del mio intervento ;-).

Saluti

Marianne Brandt

pasquale ha detto...

Carlotta ha detto "Mi rendo conto che si tratti di pura fantascienza, ma sono convinta che una proposta cartellonistica che prevedesse alcune opere in forma di concerto non priverebbe di rispetto né il compositore, né tantomeno il librettista (il verso musicato scaturiva per buona parte dei casi da collaborazione e calibrazione dettagliata di parola e musica, sempre, a seconda della specifica sensibilità del compositore, a fini espressivi)."

Giustamente è pura fantascienza.
Il vero melodramma è il recitare cantando,il concertato,è qualcosa di diverso.
E in ogni caso,sulle recensione c'è la critica sulla parte musicale è poi anche la critica sulle scene regie luci allestimenti ecc ecc.
Poi riguardo a dare dell'esaltato,ma secondo te in qualsiasi campo dove portano gli estemismi? per me alla rovina o alla demagogia

Marianne Brandt ha detto...

Cara Carlotta, dopo aver letto le "recensioni" su siti specializzati, riviste patinate, forum e chi più ne ha più ne metta, posso dire che siamo GIA' alle recensioni su regia, illuminazione, costumi e materiali scenografici... con i cantanti a far da sfondo liquidati di solito con due aggettivi, ma non di più... ciò non toglie che quando vado in un teatro dell'opera voglio sentire le voci, ma anche seguire una storia che rispetti lo spirito della composizione sia essa una regia rispettosa o innovativa, purchè appassionante e coerente.
Certo qualche opera in forma di concerto servirebbe ad ammortizzare i costi ;-)

Marianne Brandt

Marco ha detto...

Caro Papageno, come Le ho promesso, Le rispondo. Tuttavia vorrei fare un breve preambolo. Lei solleva dubbi sulla mia competenza professionale e si sorprende che io non abbia chiaro il nesso causa-effetto. Ora, entrare in argomenti di questo genere è, più ancora che volgare, futile. So che Lei si dedica all'arte del canto; per nessuna ragione al mondo io direi che Lei canta male, anche se sapessi (cosa che ovviamente non so) che Lei è il peggior cantante dell'universo. Si tratta di un comportamento legato alla raffinatezza personale, una caratteristica cui io non rinuncerei per nessun motivo, anche se è chiaro che non a tutti la si può imporre per comando. Altra cosa è lo sberleffo, pratica lecita perché non entra nel personale e può essere praticata con eleganza, pur se non a tutti è lecito farlo con la necessaria leggerezza. Venendo al Suo scritto, Lei afferma che il canto è la "base" dell'opera; su quello tutto si costruisce. Il rapporto fra la "base" e il "tutto" viene riportato al rapporto causa-effetto. Ora, non ho bisogno di dirLe che in filosofia l'identificazione fra "base" e "causa" non è affatto automatica, come Lei sembra pensare. La "base" per i filosofi greci è la materia. Per Aristotele essa è una causa, anche se non l'unica, per Platone e i neoplatonici no, per esempio. Ma passons. Le vorrei indicare un passo di un mio intervento del 1° novembre dove Lei, se avesse letto meno frettolosamente, avrebbe trovato la risposta alle sue questioni: "E poi il canto ha importanza variabile a seconda del repertorio. Alcune voci che se la possono cavare in un certo repertorio non lo possono in un altro. Anche il canto quindi non rappresenta una sfera omogenea".

Marco ha detto...

Le ricordo che in quel Suo intervento Lei parlava dell'opera in generale, non di un periodo particolare. E' solo dopo che ha detto che i Suoi interessi si rivolgono soprattutto al periodo preverdiano.Cosa significa che la sfera del canto non è omogenea? Se le origini dell'opera rispondono perfettamente alla teoria del canto come "base", l'equilibrio fra questo ed altri fattori si sposta nel corso del divenire storico. Il canto rimane sempre un fattore fondamentale, ma si modifica il senso di quel "costruire". Posso accettare che nel repertorio donizettiano, belliniano e di certo Rossini (non però nel "Guglielmo Tell") la funzione del direttore sia quella di sostenere al meglio le voci, che sono quindi considerate un dato non variabile dell'opera: ad esse ci si deve conformare sostenendole nel loro valore primigenio ed assoluto. Ma questo atteggiamento non sarebbe più possibile già in Mozart, che introduce nella sua opera una complessità sinfonica sconosciuta a qualunque compositore coevo italiano. Basti pensare ai due mostruosi "ensembles" del finale secondo e quarto delle Nozze di Figaro. Qui la funzione del direttore non è solo quella di sostenere le voci, ma anche di indirizzarle ad un linguaggio comune. Ecco che il "costruire" acquista una complessità nuova, dove al concetto di "base" si sostituisce l'equilibrio fra fattori diversi e reciprocamente imprescindibili.

Marco ha detto...

Non posso per ragioni di spazio trattare Verdi. Vado quindi brevemente a Wagner. Qui l'equilibrio non voglio dire che si sposti in favore dell'elemento sinfonico, ma certo la prevalenza del canto è completamente scomparsa.Il direttore davvero indirizza le voci. E le medesime voci possono approdare ad esiti completamente diversi. Agli inzi degli anni Cinquanta il "Ring" a Bayreuth fu diretto sia da Keilberth che da Krauss. I cast non erano molto diversi. Ma le visioni dei due maestri erano così diverse che gli stessi cantanti offrivano prestazioni divergenti. E questo sempre nel sommo rispetto dell'elemento vocale, che evidentemente portava in sé potenzialità differenti. E non è da dimenticare che la grande riforma dell'interpretazione wagneriana degli anni Sessanta e Settanta porta la firma si un grandissimo direttore, Herberth von Karajan. Non parlo dell'elemento registico, perché lo spazio che ho occupato è già troppo lungo. Tutto questo per dimostrare che quel concetto di "costruire" si evolve fino a contenere la realtà di elementi perfettamente in equilibrio, come se il rapporto di causa ed effetto fosse reciproco, la causa che è anche effetto, l'effetto che è anche causa.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Caro Cesconegre, non vedo per quale ragione dovrei giustificarmi con te circa le mie posizioni e i miei convincimenti in ambito storico-musicale. Ribadisco solo alcune considerazioni:
1) intollerabile è ogni forma di estremismo ed integralismo, così come la convinzione - che chiaramente traspare da ogni tuo scritto - per cui le idee differenti dalle tue siano pure idiozie, da eliminare insieme a chi le professa (o comunque da impedirne l'espressione);
2) la Sutherland non si è limitata a cantare secondo una tecnica "giusta" bensì, attraverso una ricerca filologica seria, ha riprodotto uno stile che, nel belcanto e nel melodramma, la tradizione aveva falsificato (per chiare ragioni storiche, note a tutti peraltro: mutamento di estetica, di stile compositivo, di funzione del teatro d'opera) e che aveva "incrostato" con elementi estranei alla corretta estetica del periodo: tagli, omissioni di coloratura, variazioni incoerenti;
3) ribadisco che la lettura di qualche testo di storia musicale (e non solo le agiografie di divi e divini) sarebbe utile per poter ragionare sul grande valore che la maggior parte dei compositori attribuivano all'aspetto teatrale dell'opera: Verdi, ad esempio, curava in maniera dettagliata la messinscena (e questo accadeva in tutta Europa già da un bel pezzo: si pensi all'Opéra);
4) la figura del regista è necessaria ed ineliminabile, oggi, poichè la funzione dell'opera è mutata rispetto all'epoca. Ovviamente vi sono registi bravi e meno bravi, ma l'idea di riproporre il capocomico è semplicemente grottesca, così come certe comunità amish che rifiutano nel XXI secolo l'energia elettrica e la modernità poichè non contenuta nella Bibbia o perchè inviata dal Demonio (non dico nulla sulle esternazioni circa il teatro di prosa perchè sono elucubrazioni non degne di risposta);
5) l'opera in forma di concerto è la negazione di sé stessa: piacerebbe solo a te (per fortuna); così come le scene disegnate sul cartone;
6) l'opera non è solo esibizione, ma oggi è un fenomeno artistico complesso: se a te piace il circo accomodati pure;
7) la solidarietà a Marco Ninci è doverosa, in quanto non ritengo sia civile impedire a qualcuno di esprimere il suo parere (anche se tu non sei d'accordo: immagino lo vorresti obbligare al silenzio) e soprattutto indegno pubblicare links con recapiti personali del soggetto.
Detto questo, dunque, ti invito CALDAMENTE a non curarti della mia supposta incoerenza (dato che non ti devo proprio alcuna spiegazione), né ad interrogarti sulla mia asserita mancanza di visione storica: di sacre inquisizioni proprio non ho necessità (soprattutto se vengono da parte di un ospite del blog, della cui "lezione" faccio volentieri a meno).

Anonimo ha detto...

Rispondo punto per punto a Duprez.
Io non ti chiedo di giustificare a me i tuoi convincimenti, ma come tu ti permetti di insinuare che io sia estremista e che non voglia sentire le opinioni degli altri, così io ti dico che frasi come “io non credo affatto nella possibilità di tramandare alcunché” o “l’opera non è una gara all’ultimo acuto da primadonna… ‘sta roba non mi interessa perché è spazzatura” sono parimenti sciocche ed estremiste. Oltre ad essere incoerenti con un blog di cui tu sei collaboratore ed in cui troneggia un’apologia della tradizione a caratteri cubitali, un blog dichiaratamente preposto alla “tutela dell’antica arte del canto”. Comincio a pensare che tutte queste programmatiche esternazioni altro non siano che facili proclami cui evidentemente non sapete né volete tener fede. D’altronde, qui sopra ho letto pure che Fagioli è un cantante gradevole. Specchietti per le allodole, e l’allodola è chi nella tradizione ci crede veramente, come me.
Al punto primo ho già risposto
Punto secondo: la tiritera sulla tecnica e sullo stile comincia seriamente ad annoiarmi. Ne abbiamo già parlato e davvero mi viene la nausea a ripetermi. Ripeto che il merito primo della Sutherland è che sapeva cantare. Con questo, non nego l’importanza del suo lavoro di riscoperta filologica.
Punto terzo: non nego neppure l’importanza della messinscena, soprattutto in compositori come Verdi e ancor più Wagner, ma ribadisco che il teatro non è fatto dai registi. Io mi oppongo alla centralità che sempre più assumono le figure del regista e dello scenografo. Per quanto mi riguarda, sarebbe meglio che le scene fossero sempre le stesse, disegnate su di un cartone, poiché il teatro non lo fanno né i registi né gli scenografi, ma lo fanno gli attori, se di prosa si tratta, o i cantanti se si tratta di lirica. I nomi dei registi vanno cancellati da tutte le locandine. Il teatro è ben altra cosa dalla materiale esibizione di coreografie e di stravaganti trovate registiche che pretendono d’essere “originali” e che vogliono essere la spina dorsale di uno spettacolo. Il ruolo del regista, ammettendone l’esistenza, può essere solo accessorio e marginale, sempre prono alle esigenze, primarie, di musica e canto.
Punto quarto: la funzione dell’opera è mutata, dici tu. E quale sarebbe la funzione dell’opera??? Sarebbe meglio dire che l’opera è morta, come morta è ad esempio la lingua latina e come morto è il Rinascimento. In quanto patrimonio artistico, l’opera andrebbe conservata, e non snaturata. Parlare di “funzione dell’opera”, oggi che l’opera nella realtà sociale è un prodotto museale, mi pare una contraddizione in termini.
Punto quinto: l’opera in forma di concerto sarebbe un ottimo modo per risparmiare sugli allestimenti, facendo leva esclusiva su ciò che più conta ed interessa cioè la musica. Per il resto, mi associo alle considerazioni fatte in merito da Carlotta Marchisio che trovo esemplari per il loro buon senso.
Punto sesto: non ho scritto che l’opera è solo esibizione, anzi ho scritto in maiuscolo (sapendo che tu avresti fatto finta di non leggere) che l’opera è ANCHE esibizionismo vocale. Come solito, banalizzi quello che dico e falsifichi le mie frasi.
Punto settimo: sorvolo sulle tue antipatiche ironie a proposito della mia presunta intolleranza nei confronti delle altrui opinioni, e mi chiedo invece quando mai tu abbia letto una mia parola rivolta a Marco Ninci, utente con il quale credo di non aver mai scambiato una sola battuta. Quando mai poi io avrei pubblicato links inerenti la persona del suddetto Ninci?
Questo atteggiamento prevenuto e scorretto nei miei confronti comincia a seccarmi parecchio. Se vi sto sulle scatole, ditelo apertamente così alzo i tacchi e me ne vado. Voi potete fare a meno delle mie lezioni, io posso fare a meno di leggervi.

Anonimo ha detto...

Un pensiero per Ninci. Penso che nessuno qui dentro voglia rinnegare l’importanza del direttore d’orchestra nella rappresentazione di un’opera. Quello che io sostengo è che neppure il miglior direttore potrà mai rendere piacevole l’ascolto di un cantante che cantare non sa. Se anche l’opera fosse una sinfonia, se anche il canto non fosse l’elemento centrale, comunque sarebbe insopportabile ascoltare, in vece del canto, continui grugniti abbaiamenti e coccodè. Come nella musica strumentale si pretende professionalità da parte di solisti ed orchestrali, così nella musica vocale si deve pretendere professionalità dai cantanti. E la professionalità non si sostanzia solo nella musicalità o nella resa del personaggio, ma sta anche e soprattutto nel suono cui ogni voce deve essere educata.
Un'altra cosa devo dirle Ninci. Lei è intervenuto qui criticando un certo Sig. Gobseck partecipante ad una discussione sulla Voce del loggione, senza che il detto Gobseck potesse replicare vista la sua assenza. Questo è un comportamento subdolo. Peraltro, per curiosità sono andato a leggermi quella discussione, e non ho potuto fare a meno di notare che su quel sito lei ha fatto più volte il nome mio e quello di Semolino, ovviamente in nostra assenza (non metto piede nelle fogne), presentandoci come personaggi stravaganti dalle idee bizzarre, e sbeffeggiandoci per giunta. Ora, con lei io non ho più nulla da dire.

Saluti

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ovviamente il discorso vale anche all'inverso: con un direttore scadente anche la prestazione vocale migliore, appare noiosa, sgradevole e sbagliata. Certo dipende, in parte dal repertorio, anche se non vedo per quale ragione si debba infliggere a Donizetti e Bellini (o al primo Verdi e al Rossini non napoletano) battisolfa della peggior specie: vero che le opere sono assai più "semplici ed involute" (musicalmente parlando) rispetto a Mozart, Weber, Wagner, il Rossini napoletano e francese, il Verdi successivo agli "anni di galera", ma non per questo bisogna affidarsi all'eventuale bravura della primadonna. Tra l'altro anche tale repertorio presuppone costruzioni vocali complesse che necessitano non solo di una primadonna col nulla intorno (come le scorribande donizettiane della Caballé), ma di ottimi cantanti almeno nei 3 ruoli su cui la drammaturgia dell'epoca incentrava il dramma.

pasquale ha detto...

Cesco vedi cerchiamo di capirci riguardo ai registi,quando dico che il melodramma e un recitare cantando,la musica e il canto sono le fondamenta,ma al tempo stesso i cantanti devono essere anche attori,quindi non sono eccessivo a dire che un cantante lirico è anche un attore,che recita,ora cerchiasmo di capirci se oltre a cantare si deve anche raccontare una storia una trama è logico che ci deve essere una persona che deve fare da regista (possibilmente bravo) uno scenografo un tecnico delle luci chi crea i costumi e via dicendo fino a chi fa i lavori sporchi(in gerco teatrale)cioè i falegnami i macchinisti la sartoria ecc,quindi oltre ai cantanti quanda gente ci lavora per rappresentare un melodramma,d'altronte il pubblico va al teatro per vedere questo oltre al canto.
Ora ritornando al puro canto e musica,è chiaro che cantare un opera in forma di concerto per un pubblico piu attento al canto e magari anche nel giudicare le voci è l'orchestra, è molto meglio,l'attenzione è focalizzato sulla voce del cantante,non è distratta da altri fattori,è naturalmente si abbatterebberò i costi,e si potrebbe anche fare ameno dei famosi registi,ma queste recite(come i revival) sono eccezioni,perche il vero melodramma come ho scritto prima è il recitare cantando.Ora un altro esempio come ascotare musica in forma concertato,e quando si ascoltano le registrazione dischi mp2 ecc.per me son le sole forme ammissibile di ascoltare opere che non siano il recitare cantando(naturalmente adesso con i DVD vale anche la recita)ora Cesco io per esempio quando faccio delle belle passeggiate ascolto spesso con il mp3 portabile arie di opere o musica classica dove apprezzo molto meglio come il cantante canta.Capisco la tua opinione,come quella di Semolino,comunque anche te se vuoi ti puoi chiudere in una stanza pieni di cilindri 78 giri anche 33 giri cosi veglierai come un antico guerriero sul "tutelar l'antica arte del canto" io preferisco andare a godermi le opere al teatro con tanto di direttore,regista,scenografie effetti speciali luci costumi ecc,...tanto ormai è quasi di moda alla fine a buare i registi.
Comunque Cesco non sò perchè ma mi dai l'impressione che hai qualche anno di più di quello che dici.

Marco ha detto...

Guardi, Cesconegre, che la professionalità sarebbe bene pretenderla da tutti, strumentisti, direttori, registi, cantanti, tecnici delle luci e compagnia cantando. Non è che quando manca la professionalità del cantante la cosa sia più grave che nel caso in cui manca la professionalità dell'orchestra o di altri fattori. Riguardo allo sbeffeggiamento in contumacia, la Sua opinione mi stupìsce. Qui si parla malissimo (ed anche con una certa ragione) della Voce del Loggione in assenza dei suoi gestori o frequentatori; ma nessuno si è mai lamentato di questo, com'è giusto che sia. Come su quel blog si parla malissimo di questo; ma la questione dell'assenza qui non ha mai suscitato critiche, perché giustamente si puntava alla sostanza delle cose. Ma di cosa parla? Senza contare poi il fatto che io l'ho sbeffeggiata anche su questo blog; allora Le è piaciuto di più? Per quanto riguarda la pubblicazione del mio indirizzo,di cui per altro nulla mi importa, era opera di Papageno, non Sua; né Duprez gliel'ha attribuita esplicitamente. Io sono sempre più stupito di questa incapacità di leggere. Per quanto infine riguarda la questione in sé dello sberleffo, devo dire che nei Suoi confronti questa è una tentazione irresistibile; con le Sue intemperanze, le Sue stravaganti e, devo dire, piuttosto rancide idee (anch'io ho l'impressione che Lei dimostri più anni di quelli che ha realmente), Lei è un oggetto fatalmente predestinato.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Beh, io credo che l'opera in forma di concerto sia la negazione stessa dell'opera. L'opera è teatro musicale: ha una valenza drammatica ben precisa. Non è un concerto sinfonico con voci. Anzi, credo che l'esecuzione concertante precluda parte della comprensione musicale! Tra l'altro reggerebbe pochissimo con il melodramma italico (dove l'aspetto orchestrale resta involuto ed elementare nella costruzione). E poi sai che noia ascoltare duetti, recitativi, scene appassionate o tragiche o comiche, avendo davanti 4 signori in abito da sera compostamente seduti di fronte a orchestra e coro...per non parlare della sfasatura timbrica che si avrebbe con i cantanti davanti agli strumenti (quando i compositori scrivevano esattamente per una situazione inversa). A questo punto tanto vale ascoltarsi un cd...si risparmiano pure i soldi del biglietto.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Vorrei rispondere anche a due considerazioni di Cesconegre che ritengo sbagliate nei contenuti:
1) LA FUNZIONE DELL'OPERA: l'opera non è morta, è morta una certa fruizione dell'opera. Mentre nessuno oggi, GIUSTAMENTE, si sognerebbe di parlare latino o dipingere come Raffaello, l'opera si continua ad eseguire. E' cambiato il rapporto con il pubblico, la diffusione, la fruizione, la creatività (oggi il cinema ha occupato molto dello spazio che prima era monopolio del teatro: musicale e di prosa). E' fatto artistico (mentre prima era più di consumo). Ed è innegabile tale evoluzione (potrà piacere o meno, ma non si possono fare crociate contro la modernità) è nelle cose ed è illusorio (quanto ingenuo e sciocco) volerlo negare o cercare di restaurare chissà cosa...
2)LA FIGURA DEL REGISTA: il regista è essenziale nell'opera come e soprattutto nella prosa. Affidarsi a guitti che calcano il palcoscenico significa trasformare in circo ogni dramma e commedia. Il regista plasma l'interpretazione degli attori. Ne guida il lavoro e la recitazione. Tanto che il medesimo attore appare diverso a seconda di chi lo dirige. Cosa sarebbe Goldoni senza le regie di Strehler o il suo Brecht? Non è accettabile pensare che gli attori possano fare quel che vogliono...magari con quelle orribili voci impostate e "birignao" stile Eleonora Duse...non è teatro quello è IMMONDIZIA. Del resto il regista, nella prosa, esiste da almeno 2 secoli (secoli che costituiscono l'età dell'oro del teatro moderno). Prima esistevano le compagnie...ma spesso il regista era l'autore (si pensi a Shakespeare), non un capocomico qualunque (figura ridicolizzata, ad esempio, da Goethe in Faust).

Marco ha detto...

Sono totalmente d'accordo con le parole di Duprez. Il rapporto dell'opera con il pubblico è completamente cambiato. Questo non impedisce che si sia continuato, anche nel secondo dopoguerra, a comporre opere belle e bellissime. Basti pensare a Britten, basti pensare a quell'opera splendida che è "Die Soldaten" di Bernd Alois Zimmermann, basti pensare a quel magnifico atto unico che è "Das Gehege" (La gabbia) di Wolfgang Rihm. Ma è sacrosanto che le nuove creazioni non sono più un fatto di consumo, ma esclusivamente di proposta artistica. E questo cambia completamente le cose. Il secondo argomento poi è incontrovertibile. A un certo punto si è sentita la necessità di un coordinatore, sia scenico che musicale, dell'insieme. Un coordinatore che fosse in grado di imporre a tutti un linguaggio comune e reciprocamente coerente. E' una necessità storica, frondata sulla sempre maggiore complessità delle composizioni; battersi contro questa significa confinarsi in una retroguardia priva della minima possibilità di risultare significativa.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Papageno ha detto...

In risposta a Duprez, richiamerei alla contestualizzazione del termine opera, perché abbiamo nominalmente opera dal Peri in poi, ma come facile ed innegabile da intendere, il rapporto canto-regia (riassumendo) cambia a dismisura dall'Euridice alla Traviata (e.g.). Come esposto ieri con Carlotta, credo che l'affermazione di Duprez di opera come "teatro musicale" con "valenza drammatica ben precisa" sia corretta, ma storicamente non è accettabile dire che l'opera non sia "un concerto sinfonico con voci" perché fino al Bel Canto (settecentesco) tutto dipende dal canto e la musica è asservita alle voci.

Se poi parliamo di opera dal verdi giovanile in poi, posso capire come la regia serva per il peso musicale rilevante e complesso delle diverse parti; o come suggerisce Marianne, da Henze in poi. Ma essendo materia di cui non sono esperto, mi fermo qui per dare la parole a chi competente!

Papageno ha detto...

Cosa per altro già definita, perché l'unica cosa di cui si parla è l'opera in generale ma credo di interpretare dalla trilogia verdiana in poi visto lo scavo psicologico che dal secondo dopoguerra si attua per questi ruoli e quindi una maggiore coordinazione di tutti i ruoli, e su altri versanti di sola opera "contemporanea" volendo assolutizzare metonimicamente il discorso che si sviluppa in 50 anni di opera contemporanea per i 400 anni di opera totali: cosa che ovviamente è una mistificazione!

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Non sono affatto d'accordo Papageno: proprio il melodramma e il belcanto sarebbero mortificati da esecuzioni concertanti, proprio per la centralità della voce, proprio per l'importanza dell'aspetto teatrale. Il melodramma ottocentesco si basa su collaudate formule drammatiche che valgono a variegare la vicenda narrata (la musica non dipinge atmosfere o sensazioni). Solo il dramma musicale wagneriano può (almeno in parte) reggere l'esecuzione in forma di concerto, dato il contenuto sinfonico delle partiture e la loro complessa e raffinata elaborazione (e anche così, però, verrebbe falsato e compromesso l'ideale artistico sotteso). In un'opera a cabaletta, con i recitativi (magari al cembalo), e i numeri chiusi, l'esecuzione concertistica è semplicemente letale.
Non sono affatto d'accordo, poi, sulla necessità di contestualizzare: l'opera è sempre teatro, da Peri a Henze. Cambieranno i linguaggi, le drammaturgie, la complessità, ma teatro rimane.

Anonimo ha detto...

Il discorso sulla sfasatura timbrica nell'opera in forma di concerto è condivisibile, però in tutta sincerità non mi annoierebbe affatto sentire un'opera in forma di concerto in cui figurino cantanti bravi e ben preparati! E' chiaro che ciò che m'interessa di più è la musica, e ritengo pertanto che gli elementi davvero essenziali di un'opera siano la musica e la parola cantata (che in sé racchiude la recitazione). Altrimenti i cd non avrebbero ragione di esistere!

Poi è chiaro che le mie esternazioni sui registi volevano essere intenzionalmente esagerate. Ciò che io davvero trovo detestabile è che oggi il motivo d'interesse principe d'uno spettacolo sia diventato il nome del regista. Io davvero eliminerei i nomi di tutti i registi dalle locandine degli spettacoli: devono essere costretti ad un discreto anonimato. Il loro ruolo va ridimensionato. Mi capita di parlare con alcuni giovani amici, cantanti al principio della loro carriera, e mi sento raccontare cose terrificanti sulla condizione di autentica schiavitù in cui sono ridotti i cantanti alle prese con i registi. Per non parlare delle umiliazioni cui i cantanti vengono sovente sottoposti. Non bisogna permettere a questi personaggi da strapazzo di rovinare il nostro teatro. L'allestimento non deve costituire mai particolare motivo di interesse di una rappresentazione. Ripeto ancora, il teatro che piace a me è fatto principalmente da bravi cantanti e da bravi attori (ovviamente coordinati fra loro, ma non c’è bisogno di un regista blasonato per organizzare una discreta, modesta e rispettosa messinscena). I registi siano relegati ad un più consono comprimariato. E soprattutto, imparino il rispetto, e siano loro a servire musica e cantanti!

Per quanto riguarda la morte dell'opera, il fatto che ancora si continui ad eseguirla è semplicemente dovuto al fatto che si tratta di musica, e la musica è un fenomeno artistico che si manifesta solo nella dimensione effimera della sua esecuzione: la musica è fatta di suoni che scorrono nel tempo, non è un oggetto fisso ed immobile. La musica non si realizza nella nota scritta, ma scaturisce attraverso il divenire dei suoni. E quindi, così come oggi andiamo nei musei ad ammirare i capolavori di Leonardo, e così come nelle scuole si leggono ancora i poemi di Lucrezio e di Virgilio, allo stesso modo l'opera viene ancora rappresentata nei teatri. Ciò non toglie che l'era dell'opera lirica sia finita, e già da un bel pezzo. Se si vuole fare i filologi, non ha senso farlo solo a metà: visto che l'opera è anche teatro, si faccia filologia anche sul modo in cui all'epoca avveniva l'allestimento degli spettacoli. Un allestimento come quello proposto per questo Elisir è un esempio perfettamente calzante di come una regia sciocca ed incoerente con la musica possa essere innalzata a motore creativo trainante (traviante direi io) lo spettacolo. Le incrostazioni nell’opera non riguardano solo i tagli dei da capo e le variazioni incoerenti con lo stile, ma coinvolgono anche questo modo arbitrario e fasullo di concepire lo spettacolo.

Mi si potrebbe obiettare un’incoerenza quando, in nome della filologia, rinnego il ruolo del regista, proprio io che considero la tradizione come ponte imprescindibile per comunicare con il passato, proprio io che vedo nella tradizione lo strumento ermeneutico più vitale per capire la nostra storia. Rinnegare la regia nel teatro significa infatti rinnegare una tradizione che ormai da un secolo si è consolidata. Ma io, infatti, non rinnego la regia tout court. Io mi oppongo al fatto che essa venga considerata come elemento fondamentale di una forma d’arte che, invece, nel suo nocciolo, è puro canto recitato. La teatralità dell’opera è insita nella parola cantata: il resto è solo cornice, pura forma, nel senso esteriore e materiale del termine.

Marco ha detto...

Pregherei Papageno di usare una lingua che assomigli un po' di più all'italiano.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Papageno ha detto...

"Cambieranno i linguaggi, le drammaturgie, la complessità, ma teatro rimane"

Certo Duprez, infatti l'Euridice di Peri si interpretava in teatri da 2000 posti, oppure il Combattimento di Tancredi e Clorinda in spazi immensi.

Chiaramente sono ironico!

Rassicuro un certo utente petulante che sto seguendo un corso elementare di Italiano, a giovamento di coloro che leggono il Corriere fuorché la persona petulante medesima.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

E che significa, Papageno, quella tua ironia? Spiegalo perchè non l'ho capita. Che l'opera sia teatro da Peri a Henze è evidente a chiunque, è insito nella stessa forma dell'arte. E questo non cambia, sia che per un pubblico di poche decine di letterati e annoiati gentiluomini, sia per un pubblico più moderno.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Bah...Cesco, che dire? Non sono affatto d'accordo. Secondo me tu confondi gli eccessi e le storture con la pratica normale. Attori coordinati e cantanti organizzati non sarebbero in grado di dare una visione complessiva di un testo tearale o di un'opera musicale. Del resto è il mondo moderno, il teatro moderno, a imporre una figura di artista che diriga (leggi le teorie di Artaud, o di Appia, di Hoffmanshtal, di Brecht...ma anche Strindberg, Ibsen etc..). Non so per quale recondito motivo tu nutra questo odio esagerato (ed esagitato, consentimelo) per una figura FONDAMENTALE del teatro moderno. E' il regista che FA uno spettacolo, non certo gli attori. Nell'opera è diverso, dato che c'è di mezzo la musica ed un testo da riproporre secondo determinate modalità. E una regia operistica rispettosa del contenuto musicale non fa che migliorare la fruizione e meglio servire il testo. Per farlo non occorrono scene dipinte e cavolate del genere: ci sono regie contemporanee assolutamente splendide (nel barocco, ad esempio) e i grandi registi che hanno dato qualcosa di più all'opera ci sono eccome. Si chiamano Carsen, Guth, Sellar, Strehler e molti altri. Certo poi ci sono i concerti in costume di Pizzi, insopportabili. Ma spettacoli come quelli di Pelly, potranno pure infastidire le anime belle, ma, pur se perfettibili, sono ottimi esempi di vera regia teatrale. Ti dirò di più, oggi, a fronte di performance musicali periclitanti, è spesso la regia a salvare la serata (come l'Elisir scaligero o il Candide di Carsen). Smettiamola di fare crociate contro la modernità: non viviamo più all'epoca del calesse e dei cilindri a cera!
Per quanto riguarda le opere concertanti...contento tu, ma io mi annoio e non ci vado per principio (il cd è altra cosa, è altro ascolto: mentre si ascolta un cid non si sta immobili in poltrona, ma si cammina, si legge, si segue la partitura, si mette in pausa...). L'opera è teatro. Punto.
Circa la filologia: è un concetto bislacco quello che proponi...allora perchè usare strumenti moderni, diapason moderno, poltrone moderne, luce elettrica, buca ribassata, direttore d'orchestra???? Quello che proponi è archeologia, non musica.
E poi una domanda? Se non te ne frega un tubo della regia, che te ne importa se i registi si sbizzarriscono? Un minimo di coerenza: se ritieni inutile ed ininfluente l'aspetto teatrale, chiudi gli occhi e non azzardarti a criticare chi ambienta Nabucco in una tana di formiche rosse...

Non prenderla male Cesco, ma sono sollevato che posizioni come la tua siano più che marginali (e destinate ad ammorbidirsi con la maturità)..

Marianne Brandt ha detto...

Ehm... Pappy, "Incoronazione di Poppea" e "Ritorno di Ulisse in patria" furono messe in scena al Teatro Santi Giovanni e San Paolo di Venezia, un ambiente di ben 900 posti!
Durante il periodo in cui visse Haendel c'erano teatri sia da 800 (Theater am Gänsemarkt di Amburgo) sia da 1000 (Sheldonian Theatre) sia da 3000 posti (Teatro Farnese di Parma, dove Monteverdi stesso montò una sua opera), sia da 3300 posti (King's Teatre di Londra dopo vari ampliamenti settecenteschi che ne triplicarono l'ampiezza).
Il teatro di Busseto (300 posti) nonostante l'orchestra ridotta e la ristettezza dello spazio, permettevano tranquillamente alle voci di Sartori e della Pentcheva, nell' "Oberto" di arrivare al pubblico senza infastidirlo minimamente!
Stesso discorso per i frammenti dell' "Aroldo" della sera successiva in cui 3 giovani cantanti accompagnati al piano, cantavano a pieno regime senza preoccuparsi dello spazio ridotto.
In più le cronache del '600 riportano che l'apparato scenico e costumistico approntato nella sala di Palazzo Pitti per l' "Euridice" di Peri impressionò per l'inventiva e lo sfarzo... la regia alla fine c'è sempre stata dai Greci al 2011.

Marianne Brandt

Carlotta Marchisio ha detto...

Ciò che personalmente fatico ad accettare, è la facile concezione per cui in un'opera canto, direzione e regia contribuiscano alla riuscita dello spettacolo in proporzioni relative del 33 % l'una. Un Nabucco senza voci, per quanto sostenuto da un'orchestra e un direttori ottimi, rimane fallimentare. E non mi pare si possa affermare il contrario. M rendo conto che dal Verdi post trilogia in poi, con le dovute eccezioni (Weber, per dirne uno), la componente strumentale assuma sempre più centralità, e le proporzioni tra canto e direzione vanno via via sempre più appaiandosi, ma per quanto mi riguarda sempre in senso asintotico. Perché anche un Freischütz con un'Agathe e un Max da arresto, pur sostenuti da Furtwangler o da Kleiber, sarebbe condannato alla débable (problematico, ammetto, anche il caso inverso). Così come un’Elektra senza… Elektra. E cosa sarebbe stato poi di quella storica serata fiorentina senza la Minnie della Steber, nonostante la presenza di Mitropoulos a innervare di genio la partitura senza dubbio più sinfonica di Puccini?

Carlotta Marchisio ha detto...

Gilberto, la “tradizione”, spesso di dubbio gusto, dei Gavazzeni e dei Serafin ha un merito insindacabile: è servita a mantenere continuativa una certa prassi vocale, un’attenzione primaria alle voci che, siamo tutti d’accordo, è scomparsa. Erano, prima di tutto, estranei al “fighettume “ di tanti direttori di oggi, per cui se non dirigi Wagner sei una mezza calza. E a furia di sparare fango sul Verdi “di galera” siamo arrivati a un punto in cui quasi più nessun direttore di questi anni sappia dirigere il repertorio, e li vedi (ma soprattutto senti!) cadere sulle bucce di banana che han loro stessi gettato (le vecchie nuove leve) o scivolando come ignare pere senza nemmeno accorgersi che il bernoccolo è spuntato (le “promesse”), per di più laddove l’accompagnamento sinfonico assume ruolo di primo piano: arriva il tronfio Barenboim in Scala per spiegarci cosa sia il Simone, e fa la frittata. Arriva il salvatore Mariotti (dopo il monco Idomeneo bolognese), e non sa tenere insieme un Barbiere. Arriva il nuovo presunto genio Rustioni, e combina un altro disastro. Insomma, direttori che oltre a non capire nulla di canto, nemmeno han da dire granché sul podio. Ma dopo le esternazioni di Pappano contro Mayerbeer , a conferma e quindi in netta continuità con quanto sostengo, non credo ci sia nulla da aggiungere. Se non che mi pare naturale per ognuno di noi sviluppare più sensibilità per un aspetto anziché un altro. Che tu sia più attendo e all’accompagnamento orchestrale mi pare evidente (e ciò costituisce in buona parte il rigore e la forza argomentativa dei tuoi interessantissimi pezzi). Perché altrimenti non definiresti l’Adina della Machaidze “garbata, senza eccessi”. Io, da parte mia, considero quella performance quasi offensiva per gli stridori metallici e la banalità d’accento, per non parlare degli acuti, lunghi chiodi da sradicare ogni volta dalle orecchie . Questo sì, mi pare circo.

Carlotta Marchisio ha detto...

Se allestimento e regia fossero elemento così di prim’ordine, dovremmo considerare zoppi tutti gli ascolti fatti su registrazioni anteriori all’avvento del video, e anche questo mi pare eccessivo. Personalmente se decido di ascoltare un cd d’opera lo faccio in assoluta tranquillità, come immagino faccia la gran parte degli appassionati (poi può pure capitare che metta su una Bohème mentre cucino, ma è evento più unico che raro). Quando ascolto la Margherita della Favero, certi bizzarri temperamenti possono anche portarmi a immaginare come fosse in scena, ma quando inserisco il disco della Lucia della Sutherland il mio primo pensiero non è certo l’immagine fotografica della stanza di Enrico. Stesso discorso per la Gioconda dell’Arangi-Lombardi: l’ultimo mio problema è il cortile del Palazzo Ducale… Non è nemmeno secondario che giusto il pubblico delle prime file di platea e dei primi palchetti laterali riescano a cogliere le sfumature espressive del volto e di altri micromovimenti. L’espressività ,se arriva, parte dalla voce, e così è sempre stato, con l’eccezione dei teatri di ridotte dimensioni che ha opportunamente specificato Marianne. Pasquale, la “recitazione” tu dove la vedi? O stai sempre in terza fila, o fai scorpacciate di DVD. Poi mi chiedo quante nuove produzioni interessanti abbia visto nell’ultimo anno. Salvo alcune, solite riprese (una su tutte i meravigliosi quanto mal cantati Contes d’Hoffmann di Carsen a Parigi: a differenza di quanto tu sostieni, senza canto la serata non la sfanghi. E così è andata...), mi rispondo una: la Lulu di Stein alla Scala. E a questo punto mi domando ancora se il teatro di regia non sia, in termini generali, fallimentare, al di là della fellatio di Cio-Cio-San a Pinkerton e dei cessi pubblici per il Ballo in Maschera, bizzarrie certamente estreme ma che marcano comunque a loro modo il problema di fondo, ossia la totale inutilità della maggior parte delle regie d’opera attuali e la necessità di un ripensamento serio su cosa significhi allestire un’opera oggi. Basta andare su youtube e cercare il Nemorino di Valletti per rendersi conto di come una scala scrostata e un improbabile cappotto siano sufficienti ad accompagnare quella che è stata un’interpretazione che ha fatto la storia del personaggio nel secondo Novecento. Un’espressione sola, azzeccata e una mimica più che essenziale. E poi il canto, sostenuto da un fraseggio leggero ma punteggiato di idee che ad andar male ti dà la pelle d’oca. Questo significa essere attori nell’opera. “Attori vocali”, la cui espressività si affida in massima parte, se non in maniera esclusiva, al canto. Spero non chiederai anche a me di chiudere gli occhi e non pensare agli allestimenti. Perché è proprio col progressivo affermarsi dello scenografo e del regista che il canto di scuola è andato via via scomparendo, fino a finire nelle retrovie più buie. La “distrazione” a opera di questi signori hanno trasformato il teatro d’opera in qualcosa di totalmente snaturato nei suoi fondamenti. Sono convinta che si tratti di dati di fatto su cui riflettere, e non di un ingenuo planning per chissà quale crociata “apocalittica”.

Carlotta Marchisio ha detto...

*Mi scuso per gli eventuali errori. Ho scritto molto di fretta*

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Però, Carlotta, tu confondi diversi livelli di lettura. E soprattutto mostri taluni pregiudizi che, a mio avviso, non dimostrano nulla e non hanno quella evidenza che tu sostieni. Procedo con ordine:
1) già definire "fighettume" l'arte direttoriale post Serafin e Gavazzeni, mi farebbe normalmente incazzare...mi modero e comprendo, ma credo sia una semplificazione inaccettabile. Serafin e Gavazzeni hanno avuto certamente mestiere, ma hanno pure dimostrato una pochezza di sensibilità alle ragioni stilistiche che lascia sconcertati. All'epoca di Serafin - che ha tanti meriti, ma pure moltissimi difetti (tra tutti le sue discutibilissime idee in ambito interpretativo del melodramma, da cui egli eliminava quanto SECONDO LUI fosse ormai "superato": atteggiamento dunque insopportabile, peggiore di quello del peggior baroccaro) - operavano De Sabata, Votto, Gui...direttori di ben altro spessore, soprattutto in ambito operistico. Io comprendo questa vostra fede intransigente nella "tradizione" (mi fa sorridere, ma tant'è...), ma la questione non sta nello scontro tra questa e la tanto odiata (da voi) modernità. Furtwangler ha scritto sacrosante parole sulla tradizione (il brutto ricordo dell'ultima brutta esecuzione cui abbiamo assistito) e da lì io non mi sposto. Dire che un direttore che non sia battisolfa, tagliatore, anonimo accompagnatore, sia un "fighetto" è una battuta di scarsissimo livello. Così come la considerazione su Barenboim che vorrebbe "insegnarci" il Simone (stesse odiose parole riservate a Karajan quando diresse la miglior Traviata udita al Piermarini - parlo di lettura orchestrale - anche lì qualcuno fece le solite sceneggiate di arte varia, scandalizzato perchè un austriaco venisse a "insegnarci Verdi"). Barenboim ha diretto (male) il Boccanegra. Punto. Mariotti ha diretto un discreto Barbiere (con l'attenuante di non averlo mai provato e di essere stato catapultato lì da un giorno all'altro). Fatto sta che il miglior teatro d'opera che ascolto è quello dei grandi direttori (Karajan, Abbado, Levine, Kleiber...) tutti "fighetti" wagneriani...Carlotta? A questo punto non ci si lamenti dei Santi e degli Oren...se si schifano i più grandi si prendano i battisolfa. Ma, per cortesia, non ci si lamenti poi della direzione. Infatti mi fa ridere leggere considerazioni schifate sui Rustioni i Fogliani i Rizzi etc...quando da una parte si denigrano i "fighetti wagneriani" dall'altro non si digeriscono i battisolfa...insomma, decidetevi: o forse preferireste l'accompagnamento al piano, così da non disturbare la "percezione del canto"?
2) non conosco le parole di Pappano su Meyerbeer, ma se riguardano il ridimensionamento di quegli inutili carrozzoni (goffi e tronfi) che sono i suoi grand-opéra, allora sono d'accordo con lui. Pappano è un grande direttore e l'ha pienamente dimostrato: schifare Pappano a favore di...di chi poi, è puro gusto di provocazione.
3) sull'Adina della Machaidze: mi sembra di aver usato il giusto equilibrio, non era un portento, ma neppure uno schifo...del resto ci vuole metodo e coerenza. Non si può esaltare l'Adina della Noni e schifare quella della Machiadze (che non è certo peggiore).

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

4) sulla regia continuiamo a non capire. Che l'opera sia teatro non sono io a dirlo, ma lo stesso genere, i compositori e gli interpreti. E poi smettiamola di confrontare l'ascolto in disco con il teatro, sono due unità incommensurabili. Il disco ha una funzione e il teatro un'altra. Tanto che a casa, quando metti un cd (o un cilindro di cera...se tanto preferisci) regoli il volume, metti in pausa, ripeti, ti alzi, leggi, vai al cesso, stai in pantofole etc... A teatro no: è qualcosa di diverso. Del resto se leggo l'Otello di Shakespeare mi mancherà qualcosa, ossia la visione di uno spettacolo nato per il teatro, lo apprezzerò ugualmente, ma resta qualcosa di meno...idem per l'opera.
5) l'attore vocale non basta...ed è formula abusata: se però voi preferite i concerti per voci e orchestra accomodatevi, non spacciateli, però, per teatro musicale...
6) non tutto il teatro di regia è merda...nel senso che non tutte le regie d'opera sono teatro di regia alla tedesca. Semplificare e banalizzare è scorretto. Tu potrai preferire il cartone dipinto, il 99.99 % degli esser umani no...se vado a teatro voglio avere una regia emozionante, un allestimento che mi coinvolga, un'esecuzione che mi convinca ed una direzione che mi emozioni. Se manca qualche elemento, manca qualcosa... E poi che cos'è la distrazione? Distrazione da che? Snaturamento da che? Ecco quel che mi fa ridere...e di gusto: chi ritiene che la regia nell'opera sia inutile e ininfluente, si permette di disquisire di regie snaturanti e distrattive: ma decidetevi una buona volta. Se la regia è elemento essenziale allora parlatene, se la ritenete superflua che ve ne frega di vedere un Ballo in Maschera ambientato nelle latrine?

Carlotta Marchisio ha detto...

Duprez, non ce l'ho con il "post-serafini" o il "post-gavazzeni" tout court, ci mancherebbe!I difetti filologici di questi due direttori mi son ben noti, tant'è che l'ho ben specificato. Con "fighettume" non intendevo certo comprendere qualsivoglia direttore degli ultimi 40 anni, o i direttori che tentano di dare un'impronta personale al loro lavoro, wagneriano o non wagneriano che sia. La mia boutade, presa alla lettera, stava solo a indicare l'atteggiamento generale nei confronti di un repertorio (il primo Verdi, per esempio), costantemente snobbato non solo dagli addetti ai lavori, ma anche da loggionisti e pubblico in generale perché "si canta e basta". Mi rimangio invece quel brutto "insegnarci", poiché di tutto soffro tranne che di nazionalismo.

Tra la soubrettina Noni, che non ho per nulla esaltato, tantomeno rispetto alla Machaidze, semmai alla Lungu (ma da queste parti, io compresa, siamo tutti concentrati suoi nostri rondò più che sull'ascolto di quelli degli altri), non ho molto da aggiungere se non proporre questo ascolto.

http://www.youtube.com/watch?v=9DVf6NC3or4

Non mi dispiacerebbe conoscere anche l'opinione degli altri utenti e collaboratori. E sapere da loro se trovano più rifinita la tecnica della Noni o quella delle altre due, senza troppi preamboli. Una o l'altra?

Non pretendo il cartone dipinto, ma una regia che, oltre a essere coerente, ossia rispettare compositore e librettista, non costringa il cantante a delle prestazioni funamboliche, chissà in quali angoli del palcoscenico (considerazioni peraltro condivise dallo stesso Caoduro, intervenuto a capo di bagarre riproponendo papale papale la stessa attenuante che avevo chiaramente già espresso in sede di recensione). Ultima della serie, il recente Don Giovanni veneziano.
La "distrazione". Non ne sto parlando in riferimento alla singola recita, mi pareva chiaro. Stavo giusto tentando di proporre una chiave di lettura, per cui non mi sembra casuale il nesso tra il progressivo sfilacciarsi del canto di scuola e il rispettivo invigorimento del teatro di regia. Da che l'attenzione è iniziata a convergere su elementi esterni al canto, che continuo a considerare il fulcro della rappresentazione, mi pare che il pubblico operistico abbia abbandonato quella funzione regolatrice che fino a pochi decenni fa continuava a presiedere. Oggi è sufficiente che un pessimo cantante come Villazon si stropicci la maglietta per mandare tutti in visibilio (letto su un blog). Accodiamoci alla maggioranza. Non è un problema. Ma io vorrei anche sentir cantare ogni tanto.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ma Carlotta...pure io gradirei regie rispettose della musica e della logica drammatica dell'opera (che non significa affatto rispettare epoca e didascalie del libretto). Sollevi un problema vero (l'ha scritto anche un diretto interessato: Caoduro): consentire al cantante - pur in una visione registica "moderna" (ossia attenta all'aspetto teatrale) - di cantare e di farsi sentire. Ma questo non attiene a regie moderne o antiche, nè alla presenza di un capocomico o di un regista vero: attiene, semmai, alle capacità e alle conoscenze di quest'ultimo. Un grande regista (d'opera: giacchè il linguaggio del teatro musicale è differente da quello del teatro di prosa) sa bene come fare, come gestire il palco, come non costringere i cantanti a posizioni innaturali o inudibili (Strehler, Ponnelle e più recentemente Sellar, Carsen, Guth e molti altri). Piuttosto sono certi campioni del "concerto in costume" tipo Pizzi e pure l'ultimo Zeffirelli e Pier'Alli, a mostrare di non saper gestire il cantante.

Ho citato la Noni perchè interprete legata ad alcuni Elisir storici...io l'ho sentita e risentita e davvero siamo su livelli molto bassi: meglio davvero la Machaidze (peraltro la Noni - come altre Adine dell'epoca - non ha mai cantato interamente la parte).

Sulla presunta sottovalutazione dell'opera preverdiana...hai ragione in parte: un certo snobismo è innegabile, ma non è del tutto ingiustificato. O meglio sono costruzioni splendide di piena dignità (adoro Donizetti), ma musicalmente spesso povere, orchestralmente involute e persino rozze nella strumentazione o nella tecnica compositiva. Ovviamente hanno aspetti diversi per cui si ascoltano: l'invenzione melodica e la bellezza del canto, non certo lo splendore orchestrale. Ma neppure pretendevano di averlo. Del resto all'epoca, in Italia l'unica orchestra decente stava a Napoli, e pure successivamente lo stesso Verdi accettava commissioni solo da teatri che disponessero di un direttore d'orchestra (sinonimo di attenzione all'aspetto strumentale). A livello di pura tecnica e complessità compositiva credo che l'ultimo dei compositori tedeschi avesse da insegnare a chiunque nell'Italia dell'epoca (poi ovviamente l'opera non è solo tecnica, ma invenzione e ispirazione). Lo stesso Nicolai - se non sbaglio - scoppiò a ridere quando venne a sapere che Mercadante era ritenuto, in patria, un maestro nell'uso del contrappunto! Questo non sminuisce affatto l'opera italiana, che si basa su altri fattori (leggi le belle parole dedicate all'argomento da Gossett). Però, si deve ammettere, un conto è eseguire Cherubini, Weber, Schubert...altra cosa Donizetti e Mercadante. Questo significa che l'opera italiana può fare a meno del direttore? Assolutamente NO! Ovvio che il melodramma si gioverebbe assai di direttori come Abbado, ma purtroppo i grandi direttori (cresciuti a sinfonica) preferiscono repertori più ricchi di soddisfazioni. E' naturale. Ma resta il fatto che rimpiango una Norma dirette da Karajan (che conosceva bene il melodramma e l'aveva praticato). Un esempio chiarissimo è la Sonnambula della Callas: ascolta il live diretto da Bernstein e poi tutti gli altri. Le differenze si sentono eccome.

Antonio Tamburini ha detto...

scusate se mi intrometto, ma Alda Noni, e con lei Eugenia Ratti, Margherita Carosio e mettiamoci dentro anche Bidu Sayao non erano delle virtuose di rango, erano talora querule ed esibivano suoni ora pigolanti, ora bianchicci, ora un poco aperti in fascia centrale, ma conoscevano almeno la respirazione professionale e per conseguenza non sfoggiavano in acuto le "trapanate" e i vistosi cali d'intonazione della briosa Machaidze.
Né le suddette signore si sarebbero mai sognate di esibire le loro vocine in titoli quali Puritani e Maria Stuarda.

Fra l'altro dovrebbe uscire, dopo mesi di incubazione, un recital in cd della Machaidze diretto nientepopodimenoche da Richard Bonynge: chissà se l'illustre bacchetta è riuscito a mettere la proverbiale "pezza" alla zoppicante divetta...

Carlotta Marchisio ha detto...

Beh, hai citato la Noni perché l'avevo inserita io stessa in recensione come implicito metro di paragone medio per la Lungu, e non sulla Machaidze, come hai invece mal ricordato tu.
E sostenere che la Machaidze sia tecnicamente migliore della Noni è boutade almeno degna della mia precedente sui "direttori fighetti" :)

(Alda Noni, "Chiedi al'aura lusinghiera")

http://www.youtube.com/watch?v=aaqhbp5ezTw

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ma scusa, può essere un metro di paragone una Noni che, come ben dici, è querula, pigolante, bianchiccia, aperta? Dove le "trapanate" in acuto sarebbero diverse? ..beh l'unico vantaggio è che con la Noni puoi abbassare il volume dello stereo...o alzarlo, dove necessita. E poi io confronto l'Adina dell'una con l'Adina dell'altra...non certo le avventurose Elvire o Stuarde.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ma Carlotta, non dico che la Machaidze sia "tecnicamente migliore" (a parte che non sarebbe follia), dico che non è certo peggiore e che, facendo un bilanciamento di pregi e difetti (pregi e difetti che ci sono in tutti i cantanti, dai cilindri ad oggi) ritengo più gradevole e completa l'Adina della Machaidze della vuota soubrettina della Noni.
Ps: e comunque ti assicuro che il riferimento alla Noni prescinde completamente dalla tua recensione, semplicemente ho citato una Adina spesso indicata come modello.

pasquale ha detto...

di certo è logico che in una recita di un melodreamma la componente musicale e vocale è la parte fondamentale,non si può ripartire in parte uguali la parte musicale con gli allestimenti,componenti di scena e anche le scelte del regista il quale in teoria può sbizzarirsi come vuole,purche abbia la competenza di sapere muovere i cantanti ( a meno che qualcuno lo faccia di proposito a farlo cantare in posizioni tali da dire è ora di mettere i microfoni per esigenze di scenografia)Se paragoniamo una recita a una casa se c'è qualcosa che non funziona nelle scene o nelle luci o come spesso accade per scelte discutibili dei registi o loro collaboratori,è come se crollasse il tetto o una parete ma la casa resta in piedi,ma se sono i cantanti o l'orchestra che non sono all'altezza la casa crolla perche la parte musicale sono le fondamenta della recita operistica.
Quindi la parte musicale e vocale,insomma è il piatto forte ,è il resto a il contorno,naturalmente un contorno molto importante per il "recitare cantando".Stò anche pensando da un punto di vista molto pratico,se tutti i teatri metterebberò in programmazione solo opere in forma di concerto,tutta quelle gente che lavora per allestire una recita come la vediamo di solito si troverebbero senza la classica"pagnotta" da portare a casa..che fanno vanno a mangiare a casa di Cesco o di Carlotta?

Carlotta Marchisio ha detto...

La sottoscritta in recensione:
"Il confronto con un’Alda Noni o una Margherita Carosio, le tanto bistrattate subrettine di pochi lustri fa, risulterebbe a dir poco impietoso".

Gilberto nel commento:
"3) sull'Adina della Machaidze: mi sembra di aver usato il giusto equilibrio, non era un portento, ma neppure uno schifo...del resto ci vuole metodo e coerenza. Non si può esaltare l'Adina della Noni e schifare quella della Machiadze (che non è certo peggiore)".

Mi pare chiaro il riferimento critico alla recensione, peraltro assolutamente legittimo, ci mancherebbe.
Se mi sbaglio, sarà stata una beffa del caso. Un po' come trovare su un palco d'opera una bella ragazza come la Machaidze. Alla fine, come sosteneva Dostoevskij nell'Idiota e come ribadisce oggi Todorov, "la bellezza salverà il mondo". Speriamo sia compreso anche quel poco che rimane del canto professionale! :)

Anonimo ha detto...

Carlotta Marchisio: BRAVA! BRAVA! BRAVA!

Se ho voglia domani scrivo qualcosa in risposta a Duprez... ma la Marchisio ha già detto tutto quello che volevo dire io!!

BRAAAAAAAAAAVAAAAAAAAAAAAAAA!!!!!!

Antonio Tamburini ha detto...

Adesso non vorrei passare per sostenitore a oltranza della Noni, però sfido chiunque a trovare un acuto della Alda (o di altra cantante citata nel post precedente) che sia urlacchiato, o per usare la felice espressione di Mozart2006, "minibarrito" al pari di quelli della Machaidze. Sarebbe come paragonare le "svaccate" di Mafalda Favero con quelle di Natalie Dessay in Manon: la prima esibiva, col gusto dell'epoca, almeno un po' di voce e sapeva legare i suoni. Basta poco a distinguere la professionista, magari difettosa, dalla dilettante, magari di gran voce (anche se quest'ultimo non è il caso della Machaidze).

Marianne Brandt ha detto...

http://www.youtube.com/watch?v=aaqhbp5ezTw&translated=1

Alda Noni

http://www.youtube.com/watch?v=P3Cs388y3Z0

Nino Machaidze

Per quanto condivida ogni lettera di Duprez, siccome c'ero in Scala, non condivido le sue perplessità tra la Noni e la Machaidze.
Posso dire tranquillamente che la bella, spiritosa, spigliata, attrice Nino era vocalmente abbastanza devastante (voce disuguale, acida, ogni acuto uno stridore, ogni passaggio un vibratino sconnesso, oltre ad essere morbida come la lana d'acciaio).

Con tutto il rispetto, ma la Noni sarà stata querula, pigolante, leziosa quanto si vuole, fin troppo chiara, ultraleggera, eppure la voce è luminosa, possiede un suono pulito, è soave nel cantabile, intonata e spigliata sia per il gusto dell'epoca che per il nostro (nonostante sia ovviamente datata e preferirei un po' di corpo in più nella voce).

Marianne Brandt

Carlotta Marchisio ha detto...

Pasquale, mi conforta sapere che anche per te il canto e la musica vengano prima di regia e allestimento. E' una considerazione che, almeno in questo blog, davo per scontata. Mi sbagliavo.
Sulla "pagnotta" che io dovrei offrire alle maestranze dei teatri... Che dirti? A casa Marchisio gli operai sono sono sempre benvenuti! Nonostante non mi occupi né di sindacati, né tantomeno di dopolavoro.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Intendiamoci Carlotaa: è ovvio che nel teatro d'opera la musica sia il piatto forte (cantanti e orchestra in EGUAL MISURA), questo è scontato. Rispondevo solo all'auspicio (inconcepibile) di allestire tutte le opere in forma di concerto, ad eliminare regista, luci, scenografie..ed amenità del genere. L'opera è teatro musicale e le due cose (il teatro e la musica) sono inscindibili, negare un fattore sarebbe snaturante. Soprattutto in un repertorio basato sulla vocalità che, privato della componente scenica e registica, risulterebbe di una noia letale. Immaginare una Semiramide in forma concertante mi mette i brividi, e inizio ora a sbadigliare... Purtroppo ho esperienza diretta di esecuzioni in forma di concerto di opere barocche, e non è affatto piacere restare inchiodati per 3 ore e mezza ad ascoltare signori vestiti di scuro che alternano recitativi secchi (in cui non accade assolutamente nulla - mentre in realtà dovrebbero essere il motore dell'azione) ad interminabili tiritere tripartite...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Circa la Noni, ti assicuro essere un caso...che casualmente calza a pennello :) Vorrei però rassicurarvi sul fatto che non sia un fan della Machaidze, dico solo che a fronte di innegabili durezze, la preferisco al bianco anonimato della Noni. Nella mia recita la Nino non era affatto improponibile (come invece il tenore o il Dulcamara terribilmente old style di Maestri).

Marco ha detto...

Mah, credo che discutere sulla prevalenza del canto sulla regia o viceversa sia del tutto futile. Il problema non è questo. Il problema è invece, e un interessante scritto di Cesconegre lo inquadra, se alla regia sia concesso di raggiungere la dignità di un'interpretazione. Vale a dire. Può la regia fare un suo discorso interpretativo sull'opera che va in scena in quel momento? Un discorso che illumini anche alcuni nessi impliciti nella musica, presenti nella musica,ma che non a tutti è lecito scorgere nella musica? Cesconegre lo esclude recisamente. Per lui, mi sembra di capire, la regia ha nell'opera la parte che nel Trovatore ha Ruiz o nel "Capriccio" di Strauss il maggiordomo. Se obbedisce alla regola del "non disturbare il manovratore", bene; altrimenti se ne può fare a meno. Con minore radicalità mi sembra che anche la Signora Marchisio condivida questa idea.

Marco ha detto...

Ora,io penso che l'attribuzione di questo ruolo alla regia sia un discorso completamente astratto, che prescinde dalla considerazione di ciò che la regia è stata ed è concretamente. Ecco il senso di questo discorso: adoro il canto, tutto quello che non è canto ha da servire il canto; non impedirne l'espressione è la regola suprema.Quindi, nella più benevola delle interpretazioni, un ruolo puramente negativo. Tuttavia la regia, nelle sue grandi incarnazioni, è sempre stata capace di un discorso autonomo; un discorso il quale non soltanto non impediva l'espandersi della dimensione vocale, ma la inquadrava in un preciso contesto teatrale, ben al di là di quella dialettica iniziale del personaggio che è insita nella natura stessa della voce umana. Cesconegre (non so se sia il caso anche della Signora Marchisio) sembra ignorare i nomi di Alfred Roller, di Gustav Gruendgens, di Walter Felsenstein, di Luchino Visconti, di Giorgio Strehler. Chi ha visto l'emozionante narrazione strehleriana del Simon Boccanegra,del Ratto dal Serraglio, delle Nozze di Figaro non potrà mai dimenticarla. Da qui la conclusione necessaria: il discorso teorico sulla necessità della regia si fonda su esempi storici concreti. In questo senso il fatto che ci siano moltissime regie scadenti non significa nulla. Ci sono moltissimi direttori scadenti e moltissimi cantanti scadenti; per questo ciò che rappresentano è inutile? Per un solo giusto la città viene salvata.
Cordiali saluti
Marco Ninci

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Sono completamente d'accordo con Marco Ninci: il regista non solo può, ma DEVE appropriarsi della dignità di interprete. Deve mostrare ciò che, nell'ottica di una sua visione, la musica sottende: i meccanismi, gli archetipi, i valori, i conflitti. Il lavoro fatto da Strehler è emblematico, e non può certo essere sostituito da un capocomico o, peggio, lasciato all'improvvisazione dei cantanti (o degli attori). Se vedo spettacoli come Le Nozze di Figaro, Don Giovanni, Falstaff, vedo un narrazione della vicenda che apre squarci emotivi nuovi ed inediti nell'opera rappresentata. Lo stesso accade con la malinconia sottile del suo Goldoni: Strehler vive il testo e lo forza (in un certo senso) con risultati di grande poesia. Chiunque abbia visto il suo Arlecchino può capire: la serie di controscene, il teatro nel teatro, il dialogo col pubblico...è tutta opera di una visione registica, non certo merito degli interpreti! Nell'opera i vincoli, giustamente, sono maggiori, e la libertà si declina in altro modo (penso alle prospettive palladiane del suo Don Giovanni, o al Falstaff padano...non seguono le didascalie del libretto, ma per fortuna!). E non parliamo del ruolo delle luci...essenziale nella resa poetica del testo, e senza regia - come auspicherebbe qualcuno - non sarebbe possibile. Recentemente ho assistito ad una splendida Locandiera, dove un sapiente gioco di luci richiamava la pittura di Tiepolo e Vermeer, lo spazio vuoto del palco (con poche suppellettili) era riempito da questa luce e ancora ho negli occhi la dissolvenza finale, coi protagonisti che sfumano nel cielo di sfondo. Tutto questo non sta scritto nel testo di Goldoni, ma vederlo emoziona e convince. E senza regia sarebbe impossibile.

Giulia Grisi ha detto...

Peccato però che i registi di oggi non facciano questo, .Don Giovanni scaligero docet.
Dunque, dato che non sanno fare,perchè sono ignoranti, anzi, stravolgono, disturbano, imbrattano, sgangherano, i testi, e pergiunta mettono il becco nelle scelte di cast, codizionando le D. Artistiche con i loro estetismi da suana,molti concludono che sia meglio abolirli.
Io, vociomane, non mi sono mai posta questo problema in gioventù, davanti a Pizzi, Ronconi, Strehler.
Davanti ai Mussbach, alle Dante, o agli eccessi di certi spettacli di Michieletto, e di CArsen etcc..francamente sono il loro drastico ridimensionamento.

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Basterebbe pretendere che chi dirige l'opera la ami e la conosca. A me Carsen piace molto, adoro Strehler, meno Ronconi e per nulla Pizzi (che fa mediocri concerti in costume). Di Michieletto non ho visto nulla dal vivo... Certo ci sono porcherie vere: Mussbach ad esempio, ma pure l'ultimo Lohengrin scaligero (o quello di Bayreuth). Però sono casi estremi...purtroppo si diffondono. E lì ci vorrebbe una direzione artistica che sapesse discernere il buono dal marcio. Però abolire o ridimensionare mi sembra cura peggiore del male.

Carlotta Marchisio ha detto...

Ho trovato un passo di Celletti che trovo calzante. Lungi da me considerarne l'autore una Pitonessa, mi pare tuttavia che intercetti bene quale sia il disagio mio e di altri utenti del blog, nonché di buona parte degli spettatori di oggi. Spero che almeno lui non faccia "ridere di gusto".

Parlando degli obblighi che hanno i moderni sagrestani della Tosca per divertire il pubblico, così prosegue Celletti: "Ma al conto dovete aggiungere i registi, ai quali ora è consentito anche di intervenire sull'accento e sulle flessioni della voce e che, naturalmente, da quegli efferati nemici della musica, dell'opera, del gusto e dell'intelligenza che QUASI SEMPRE sono (maiuscolo di Carlotta), pretendono che il canto diverga verso il parlato e il gridato".

Non conosco l'anno esatto di redazione del saggio da cui ho attinto il passo ("Caratteristi e comprimari", in "La grana della voce", 2000), poiché si tratta di una raccolta, ma per certo risale a più di dieci anni fa. Mi chiedo come avrebbe reagito oggi Celletti davanti a Mussbach, Michieletto, Nekrosius (che ritira premi!) e compagnia bella. E ovviamente al canto che li accompagna...........

Marco ha detto...

Io non capisco la Signora Marchisio. Dal fatto che ci sono molti cattivi registi trae la conseguenza che la regia sia un elemento accessorio, inifluente e privo di autonomia interpretativa. Tanto varrebbe dire che dal fatto che ci sono molti cattivi cantanti si può dedurre che il canto sia accessorio, ininfluente e privo di automia interpretativa. Lo stesso discorso vale per i direttori d'orchestra. La regia èun elemento fondamentale. Che la si pratichi male non prova nulla contro di lei e la sua funzione.
Coediali saluti
Marco Ninci

Carlotta Marchisio ha detto...

Ninci, non so come ripeterglielo. Se i ruoli di regista e scenografo interferiscono con il canto (accento e fraseggio), con la musica, con la scelta dei cantanti (per loro, attori), con la disposizione degli stessi in chissà quali angoli del palcoscenico (bizzaria denunciata dagli stessi cantanti), se tutto ciò è diventata prassi scontata, anche in produzioni che a livello concettuale possono essere pure interessanti (Pelly), allora un ripensamento della loro funzione mi pare sia d'obbligo.

Domenico Donzelli ha detto...

posso dire la mia quale post n° 94?
1) l'opera nasce per essere rappresentata e quindi ha ragione in linea teorica chi rifiuta rappresentazioni concertistiche e vuole, oltre che sentire, anche vedere
2) solo che il vedere del 1710 o del 1850 era commisurato e modellato sul vedere che praticavano gli attori di allora. Come ho scritto quale sarebbe la nostra reazione innanzi la Duse o Talma.
3) quindi il principio teoricamente valido deve essere applicato con molto molto granu salis:
3.1. ossia se non posso imporre allestimenti che richiamino la recitazione coeva all'opera
3.2.non devo neppure inserire elementi che costuiscano una sovrastruttura tale da:
3.2.1. far dimenticare al pubblico la musica
3.2.2. imporre al pubblico ed agli artisti letture che siano in contrasto e con le esigenze del poter cantare, che è in parte una disciplina sportiva (mica pretendiamo che i saltatori in lungo prestino con tacchi a spillo ed abito da sera) e con il messaggio principale del titolo, spesso indiscutilmente legato al tempo ed alla mentalità. Le cosiddette "traviate" hanno avuto spazio, con gli egualmente ipocriti nomi di "mantenute" o di "amiche", sino all'immediato dopoguerra quando debellato anche il bacillo di Cock e per situazioni come il ballo in maschera da almeno cinquant'anni esistono divorzio e separazione. Peggio ancora quando si allestiscono titoli afferenti il Mito.
4) abbiamo vissuto e visto negli ultimi trent'anni palesi violazioni di questi elementari principi vuoi per ignoranza crassa dei registi e dei costumisti, vuoi per la loro assoluta povertà di qualsiasi idea,che non sia vista rivista e stravista, davanti alla presunzione di negare idee ed ideali del compositore e della sdi lui epoca. Il tutto quale ulteriore dettaglio di ignoranza.
5) davanti a questo cui aggiungo che quasi sempre i cantanti narrano di non avere avuto illuminazioni di sorta dal demiurgo la risposta facciamo l'opera in forma di concerto potrebbe essere antistorica tanti quanto quella di lasciarla scempiare da un regista e scenografo che ripetono il solito bagaglio di solite idee di cui un girono mi divertirò a fare l'elenco. Sono puntualmente sempre le stesse.
Evviva l'astrazione delle colenne neoclassiche per le opere di argomento mitologico, evviva i saloni gotici per tutti i titoli che odorino di Tudor e Stuart. Anzi Tudorri e Stuardi non perchè siano belli, ma perchè non mi distraggono dal testo musicale (acrobazie dei cantanti comprese) e perchè non tradiscono nessuno, aiutando a capire.
saluti dd

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

E io rilancerò col post n° 95, per dare sostanzialmente ragione all'ottimo Domenico circa lo scempio che TALUNI supposti geni della regia impongono all'opera, ma a considerare il fatto che tali scempi non sono attribuibili tout court alla presenza di un regista, quanto alla presenza di un CATTIVO regista. Per intenderci, non credo si debba distinguere tra allestimenti fedeli al libretto e altri che lo rivoluzionano, quello che ricerco in una regia è che:
1) non sia anti musicale (ossia che abbia la consapevolezza di fare teatro musicale e non prosa: i due linguaggi sono diversi e spesso accade che ottimi registi teatrali o cinematografici si trovano a disagio nel gestire la parola cantata: un esempio è Herzog);
2) non tradisca la drammaturgia originaria o il senso delle parole (non trasformare amici in amanti o uomini in donne o esseri umani in insetti), mantenendo i conflitti insiti nella vicenda.
Per il resto carta bianca: non mi interessa l'epoca storica, né la presenza di scene forti o legate all'attualità, purchè giustificate musicalmente ed interpretativamente.
Tutti i grandi registi hanno "stravolto" l'ambientazione e hanno spesso "ricercato" all'interno della mera narrazione un diverso livello di lettura. A partire da Visconti con la sua "scandalosa" Traviata. Ma si può parlare di Ponnelle (che riscrive la drammaturgia e sposta la vicendi di qualche centinaio d'anni, quando non di un intero millennio come con Monteverdi), di Strelher (il Don Giovanni palladiano; il Falstaff padano, il Lohengrin con il gioco di colonne smaltate che per nulla riportano all'ambientazione wagneriana), di Ronconi. Aggiungo Sellars (il suo Giulio Cesare e la trilogia Mozart/Da Ponte) e il Carsen migliore, ad esempio. Ecco io credo che tutto questo non possa distrarre nessuno, tutt'altro...anzi aiuta a comprendere ed esalta la bellezza della musica. E, quando c'è, dell'esecuzione. Molto più dei concerti in costume di Pizzi, ad esempio, con le colonne e gli archi sempre uguali e la totale immobilità delle masse.

Per Carlotta: il passo di Celletti si riferisce ad un particolare contesto e va letto nell'ambito della pubblicazione in cui è contenuto (non certo un saggio critico, bensì un volume "leggero" dai chiari intenti ironici e con finalità "polemiche"). Celletti esagera volutamente per mettere alla berlina certi atteggiamenti che andavano diffondendosi allora. E tutt'al più potrebbe essere riciclato per mettere ugualmente alla berlina taluni eccessi che registi poco capaci e originali, continuano a proporre. Non è certo un atto d'accusa alla figura del regista in sè né la dimostrazione (?) dell'inutilità di una regia d'opera. Io dico che volenti o nolenti la regia teatrale (per la prosa e l'opera) è una realtà incontrovertibile. Ha portato enormi benefici a entrambi i generi (e pure eccessi deprecabili), ma come non è proponibile tornare ad un teatro fatto di voci impostate col birignao e la tronfia e goffa retorica dei guitti di palcoscenico, così mi sembra improponibile tornare al cartone o inventarsi l'asettica opera concertante. Meglio sarebbe pretendere delle buone regie e dei buoni registi, così come dei buoni cantanti.

Anonimo ha detto...

Gli interventi di Duprez e di Donzelli sono molto interessanti ed istruttivi, ma l’unica che veramente riesce a cogliere nel segno il problema è Carlotta Marchisio, quando scrive:
>”[…] è proprio col progressivo affermarsi dello scenografo e del regista che il canto di scuola è andato via via scomparendo, fino a finire nelle retrovie più buie. La “distrazione” a opera di questi signori hanno trasformato il teatro d’opera in qualcosa di totalmente snaturato nei suoi fondamenti. Sono convinta che si tratti di dati di fatto su cui riflettere, e non di un ingenuo planning per chissà quale crociata “apocalittica”.”

Questione sulla quale pure io avevo tentato, meno efficacemente, di esprimermi in un mio precedente intervento:
>”Ciò che io davvero trovo detestabile è che oggi il motivo d'interesse principe d'uno spettacolo sia diventato il nome del regista. […]L'allestimento non deve costituire mai particolare motivo di interesse di una rappresentazione.”

Il Ninci mette l’accento sulla domanda se al regista spetti o meno autonomia interpretativa.

Potremmo rispondere che, storicamente, quando il teatro lirico era ancora un fenomeno “vivo”, l’autonomia interpretativa spettava essenzialmente ai cantanti.

Ma non è questa la risposta che cerco per giustificare la mia insofferenza verso i registi. Come correttamente scrive la Marchisio, all’ascesa del ruolo della regia è corrisposto parallelamente il decadimento del canto di scuola. E’ solo una coincidenza? Io non credo: certo non voglio nemmeno insinuare che la colpa di questo decadimento sia solo dei registi, ma osservo semplicemente come l’affermarsi delle regie abbia notevolmente contribuito a scardinare l’attenzione del pubblico dall’aspetto vocale della rappresentazione, ed in questo senso quindi indirettamente abbia relegato il canto ad una posizione non più importante come prima, facilitandone in questo modo la decadenza. Un pubblico più attento a ciò che vede rispetto a ciò che sente sopporta infatti con più facilità l’ascolto di pessimi cantanti. Basta fare due più due, ed il risultato è scontato: oggi, 2010, il canto non c’è più, e ci sono solo le regie.

La “distrazione” operata dalle regie non è quella che si verifica al momento della recita quando coreografie e movimenti sulla scena ci fanno trascurare l’ascolto della musica, ma è quella attraverso la quale nel corso degli anni il pubblico si è sempre più disinteressato al canto facendo invece sempre più attenzione all’allestimento. In questo modo le regie hanno sottomesso a sé la musica e soprattutto il canto. E’ una distrazione che ha operato con gli anni e che progressivamente ha deviato le attenzioni ed i gusti del pubblico.

In questo senso io invoco un necessario ridimensionamento del ruolo dei registi e nego loro qualsiasi dignità d’interpreti. E’ una riflessione drastica ma inevitabile per chi ama il canto. Virtualmente, la regia potrebbe benissimo conciliarsi con canto e musica. Storicamente però così non è stato.

Carlotta Marchisio ha detto...

Duprez, come al solito mi metti in bocca concetti che mai ho espresso. Il mio pensiero a riguardo è completamente allineato con quello di Giulia e Domenico. Basterebbe rileggere i miei interventi per comprendere che mai ho scritto sull'inutilità della regia d'opera. Semmai ne ho voluto evidenziare, per quanto mi riguarda, una funzione ancillare a canto e musica. A maggior ragione in questi ultimi anni.

Un'altra cosa. Da quando un concetto per aver dignità d'opinione deve essere inserito in una trattazione critica? Celetti non soltanto in quel saggetto ha espresso critiche nei confronti dei registi moderni (ricordo un numero di "Amadeus")! E "La grana della voce" è una raccolta di saggi che di polemico ha ben poco: ci sono riflessioni sulla vocalità wagneriana e del Rossini serio che, pur non avendo lo spazio e le regole di un'esposizione accademica, certo non sono barzellette. E poi, cerchiamo ogni tanto di affidarci anche alla limpidezza del valore denotativo di un assunto, senza rilevare ogni volta arbitrarie connotazioni a ciò che viene affermato: così Celletti scrive, così leggiamolo! Mi pare che il senso dell'affermazione sia evidente. Non sarà certo quel quid d'ironia (che poi ne costituiva la forma, prima che il contenuto) a delegittimarne il significato alla base! Non sarebbe per nulla onesto. Insomma, forse senza gran consapevolezza, mi pare che anche tu Duprez faccia parte del club: ti scagli contro chi (secondo te!) organizza crociate contro la modernità, ma poi te ne rimani lì fermo ad annusare beato la rosa di Gertrude Stein...

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Non annuso alcuna rosa, Carlotta. Mi limito a proporre dei ragionamenti e a rifuggere un certo dogmatismo ed evidenti semplificazioni.
Ritengo che tale sia attribuire, come fa Cesconegre, allo sviluppo dell'arte registica (fenomeno che storicamente inizia con la fine del XIX secolo) la responsabilità del "decadimento" del canto. Sono due entità ontologicamente diverse, e non correlate tra loro, pertanto non vedo come l'una possa riverberarsi sull'altra. Sarebbe come dire che in un ristorante, prima ottimo, ora si mangia male perchè hanno cambiato i quadri alle pareti. Negare la piena dignità d'interprete al regista significa eliminare un aspetto importante dello spettacolo musicale. L'interpretazione registica aiuta la musica e contribuisce alla riuscita di uno spettacolo. Per quanto uno possa essere nostalgico di un'epoca eroica dell'opera, risalente all'anteguerra, non può non rendersi conto di come quel periodo sia trascorso (come il rinascimento o l'illuminismo), il mondo sia cambiato, le modalità espressive mutate e le forme musicali e teatrali si siano evolute (scontando, poi, la presenza di altri generi, allora inesistenti, che hanno preso il posto dell'opera nel mero intrattenimento: il cinema ad esempio). Il cambiamento ha portato ad alcuni sacrifici, ma anche a molti miglioramenti: penso all'ampliamento del repertorio, alla maggior consapevolezza stilistica, alla ricerca di una correttezza espressiva (Sutherland, Callas, Gencer, Verrett, Merritt, Blake, Horne etc..non sarebbero state concepibili nell'opera dei primi '900). Non è vero che l'opera è morta, è morta una sua funzione (l'intrattenimento e la "popolarità"), non la sua esecuzione, né è da considerare alla stregua di un quadro: anche l'esecuzione è vita, il teatro musicale (e non) non può ridursi ad una "visita al museo".
Circa le parole di Celletti, premetto che io non ho alcuno culto del libro, nel senso che non ho bibbie o vangeli a cui attenermi e ortodossie a cui devo tributi: leggo e valuto. Liberamente. Senza impelagarmi in ingenui culti della personalità. E' innegabile che quello scritto di Celletti non voglia essere una disamina ragionata e sistematica dell'apporto del regista all'opera lirica, bensì un libello polemico. Sferzante ed intelligente (come è uso all'autore), ma molto ironico. Non occorre, ovviamente, la presenza in un saggio critico perchè un concetto abbia rilevanza, ma va sempre considerato il contesto nella valutazione di qualsiasi assunto (scorretto è estrapolare pensieri senza considerare il contenitore). Tutto qui.
Un'ultima cosa a Cesco: trovo che, invece, proprio storicamente la regia si concilia con la musica, anzi, nell'opera (soprattutto in un certo repertorio: quello che non regge con la sola musica) è spesso indispensabile per la comprensione della stessa. E il fatto che siamo arrivati a 99 commenti dedicati al problema, non è che una conferma a quanto sostengo: se la regia fosse inutile e ininfluente perchè parlarne così a lungo?

Anonimo ha detto...

Duprez, faccio senza dirti che non condivido una sola parola di quello che hai scritto.

La semplificazione più evidente è quella con cui tu sistematicamente banalizzi le cose che io scrivo, non so se per incapacità di leggere o se per mal celata mala fede.

Fatto sta che dai tuoi pensieri mi pare di capire che tu non riesca a renderti conto di come oggi il teatro lirico sia ridotto ad un circo per registi e scenografi in cui quel che resta del canto è sempre asservito ad esigenze che con il canto sono del tutto incompatibili. Oltretutto, di cantanti veri e propri oggi non ne esistono praticamente più, dal momento che il canto di scuola è stato quasi completamente dimenticato. Se vuoi negarlo ti invito a farmi a qualche nome. Penso tu farai fatica a propormene più di tre o quattro. Questi sono i risultati a cui porta la negazione della tradizione e sopratutto questo dogma con cui si è inculcato nella testa della gente che per fare teatro e per "capire la musica" ci sia bisogno della regia. Nella musica non c'è niente da capire, c'è solo da ascoltare e godere.

L'opera è morta. Eseguirla ancora non significa riportarla in vita, ma significa semplicemente permetterne la fruizione. Si tratta di musica, per fruirla bisogna suonarla. Se fosse un dipinto, per essere fruito dovrebbe essere esposto in una galleria d'arte. Mutatis mutandis, si tratta sempre di prodotti da museo. Quel che oggi si fa con il teatro in musica equivale a disegnare un paio di mustacchi sulla faccia della Gioconda.

Saluti

Gilbert-Louis Duprez ha detto...

Ti tranquillizzo Cesconegre, sono in grado di capire e non applico alcuna mal fede. E, ti farà piacere sentirlo, mi rendo perfettamente conto di tutto ciò che mi sta intorno. Purtroppo, come diceva Russell "non c'è bisogno di dogmi, ma di libera ricerca". Purtroppo non ho questo rapporto livoroso e incazzoso con la modernità. Purtroppo non mi piacciono crociate e crociati, nè intransigenze fuori tempo massimo. Credo che l'opera non sia morta, ma semplicemente abbia mutato funzione storica e linguaggio (non è una tragedia). Credo anche che la tradizione non sia affatto un totem. Infine ritengo che cullarsi in nostalgie reazionarie - peraltro sostenute da un soggetto che non ha certo l'età anagrafica che mostrano i suoi convincimenti - sia passatempo del tutto sterile e meramente provocatorio. Ti informo che le restauazioni di supposte ortodossie non sono mai riuscite a nessuno (vedi il Congresso di Vienna), né i roghi e le inquisizioni servono a bloccare la naturale evoluzione della specie (e nonostante la condanna a Galileo, la terra non è mai rimasta immobile al centro dell'universo, nonostante i dotti censori che hanno preteso che così fosse).
Nel merito torno a ribadire come non vi sia correlazione alcuna, né potrebbe mai esserci, tra presenza della figura del regista come autonomo interprete e preteso decadimento del canto (avvenuto da che anno, poi, se è lecito sapere? ..ah quando cantava Caffariello..).
Detto questo ti invito nuovamente, ma inutilmente temo, a rivolgerti con un minimo di cortesia: ti ribadisco la condizione di ospite, e l'ospite non dovrebbe permettersi di insinuare che chi gli regala uno spazio dove poter liberamente esprimere anche opinioni che personalmente trova inaccettabili, sia "incapace di leggere" o "in mala fede". Quindi, se ti è possibile, cambia registro ed atteggiamento: qui chiunque ha trovato spazio e libertà di espressione, e non si è mai permesso di insultare o dare lezioncine. Il mondo dell'opera sul web è vasto e non mancano arene dove dar sfogo a istinti bellicosi e provocazioni gratuite.

Anonimo ha detto...

@Duprez Gli unici a dare "lezioncine" anche moraleggianti qui siete tu e la tua collega Marianne Brandt, e così facendo dimostrate una certa incapacità di accettare critiche. Sono vostro ospite e, senza insultare nessuno, se devo dirvi qualcosa lo faccio senza peli sulla lingua e lo faccio apertamente qui di fronte a voi, senza fare il subdolo andando a scrivere male di voi su altri forum. Se non vi sta bene non vi resta che non pubblicarmi. Evitatemi però le vostre lezioncine: di insulti da me non ne avete mai ricevuti.
Poi, posso accettare ironie sulla mia età da parte di un Marco Ninci che so essere molto più anziano di me, ma da un astratto e misterioso "Gilbert-Louis Duprez" accetto solo un contronto tra idee. Per quanto ne so tu Duprez di anni potresti averne venti, trenta, quaranta... Chi sei? Io chi sono? Mi conosci? Io ti conosco? Siate coerenti almeno con l'impostazione impersonale e anonima che avete voluto darvi.

Ogni periodizzazione è sempre e solo una mera semplificazione con scarso valore sostanziale, ma, giusto per intenderci, è innegabile che il canto all'italiana già con gli anni Cinquanta abbia iniziato un verticale declino.

Per il resto, non vale la pena continuare con la diatriba. Sulle regie continuo a pensarla a modo mio. Evidentemente, di fronte a tante incomprensioni e sbadate semplificazioni di ciò che io scrivo, devo rassegnarmi all'idea che quello che non si sa spiegare sono io.


Saluti

Marianne Brandt ha detto...

"@Duprez Gli unici a dare "lezioncine" anche moraleggianti qui siete tu e la tua collega Marianne Brandt"

Evidentemente ne hai bisogno, è per il tuo bene ;-)

"e così facendo dimostrate una certa incapacità di accettare critiche."

Quali critiche? Io e Duprez contestiamo il tuo pensiero ed il tuo modo di esprimerti. Le pagine del Blog, e di un forum sono piene di critiche a cui abbiamo risposto, quindi le critiche le abbiamo sempre accettate.
Inizia ad accettarle anche tu.

E poi nemmeno a me interessa chi tu sia nella vita vera, ne approfondisco l'argomento e non vedo nessun problema in questo.

Per il resto, la solita storia...

Ciao ciao

Marianne Brandt

Carlotta Marchisio ha detto...

Duprez, non mi stupisci. La mia premessa alla citazione di Celletti contemplava una specificazione ben evidente: "Lungi da me considerarne l'autore una Pitonessa". Perché dunque vuoi attribuirmi chissà quale ingenuo culto del libro e della personalità, quando io stessa ho messo subito le mani avanti, ben consapevole dell'appunto che mi sarebbe stato fatto? E poi: di quale "contesto" parli? Il saggio da cui proviene quel passo riguarda l’apporto che comprimari e caratteristi riversano in una rappresentazione. E' una trattazione leggera, non ha nulla dell'esposizione accademica, ma di polemica io non vedo traccia! Vogliamo delegittimare qualsiasi posizione espressa al di fuori dell'”istituzionalità” manualistica (ricordo che anche su “Amadeus” il critico sollevò più di un dubbio sui registi dell’ultim’ora)? Stessa cosa per quanto riguarda gli altri saggi: si parla della figura della nutrice, della vocalità wagneriana e quella del Rossini serio, dell'essenza anfotera dell'imitazione, del declino del contralto, etc. Ma di quale "libello polemico" parli? O forse in quel titolo ("La grana della voce") attribuisci alla parola "grana" una sorta di sinonimo di matrice vernacolare a "preoccupazione" o "disturbo", con buona pace di Barthes? Ti dirò di più: è proprio la sua struttura frammentaria a saggi, peraltro scritti in momenti del tutto diversi, a negare qualsiasi definizione rigida di contesto (e a portarmi a un invito un po’… “sborone” :rendiamo dignità alla denotazione e riappropriamoci della referenzialità del significante! :)).

p.s.
Un breve appunto.
Sono convinta che sia del tutto fuori luogo continuare a lanciare epiteti come “crociato”, “livoroso”, “incazzoso”, “reazionario”, elementi la cui funzione non va oltre quella della definizione di un trito disegno mortifero da “apocalittico” echiano, il cui senso non è molto dissimile da quello attribuito da Pasolini a chi tendeva a “dare del fascista”…

Carlotta Marchisio ha detto...

Sul rapporto tra teatro di regia e canto di scuola. Non ho mai parlato di correlazione diretta. Mi sono limitata a constatare una tendenza, un nesso, una proporzionalità inversa tra il progressivo accrescimento dell’uno e il rispettivo affiochirsi dell’altro. Nessuna implicazione di causa ed effetto, nessuna rigidità di scambio vettoriale. Semmai, la rilevazione di un epifenomeno. Perché è indiscutibile, al di là di qualsiasi ipotesi complottistica, che il ruolo primario che hanno assunto regista e scenografo (mettere il becco nella scelta dei cast, nelle inflessioni della voce e quindi nel fraseggio, nella disposizione dei cantanti sul palcoscenico, sì nella “distrazione” dalla musica attraverso la mutuazione di tecniche peculiari al teatro di prosa – la degenerazione della “contro-azione” su tutte – etc.) sia stato avallato a monte con salvacondotti mediatici distribuiti a tambur battente, per cui critica di settore (quotidiana e specialistica), introduzioni televisive agli spettacoli (“Arte”, “RAI”, Classica”, etc.), approfondimenti saggistici sui libretti di sala (una lezione su come friggere l’aria l’intervista a Tiezzi sul suo Boccanegra scaligero; elucubrazioni da ricovero a firma Marelli sulla Sonnambula parigina, etc.) hanno definito nell’agenda dello spettatore, che ha sempre presieduto a una certa funzione regolatrice nel premiare o redarguire le voci, delle nuove priorità, che paradossalmente han fatto risultare coerenti alcune forzature che fino a pochi anni fa sarebbero state viste come blasfeme: una su tutte, l’introduzione dell’archetto microfonico per gli spettacoli all’aperto (Bregenz, Arena, etc). Non è un caso che in tutto il mondo gli unici ad essere contestati oggi siano i registi. Per questo sono (anzi, siamo: la sottoscritta, Giulia, Domenico, Cesco…) per il ridimensionamento della loro funzione (impensabile, ma tant’è). E non serve a nulla rievocare i fasti delle regia di Visconti e di Strehler per legittimare le sempre più frequenti bizzarrie, perché quei bei tempi sono ormai ricordi. Ora si possono contare sulla dita di una mano i registi capaci come i suddetti di rendere vivi e sfumati i loci di senso sottesi a una partitura e a un libretto. Sarebbe come se la critica cinematografica italiana degli anni Novanta, di fronte alla crisi del cinema nostrano , con blanda cecità si fosse risposta: “Vabbè, ma abbiamo avuto Antonioni e Fellini!” Quello sì sarebbe stato abbandono di senso critico (e un affronto a Russell, che tu citi)!
A furia di introduzioni esogene, a furia di operare sui cromosomi del teatro d’opera interventi genetici, ci siamo trovati davanti una chimera, una nuova struttura per ora difficile da inquadrare. Che non è certo una tragedia, come dici tu, Gilberto. Avremo per certo flotte di “studiosi” che tireranno fuori i “cultural studies”, verremo deliziati di analisi esaustive e suggestive, sociologiche e culturali, leggeremo delle nuove direzioni che hanno preso i processi della cultura popolare (magari con qualche intervento della sempre ottima Griswold ) etc. Tutto bello e interessante. E però. Povero melomane, mi vien da dire…

Carlotta Marchisio ha detto...

Correggo una frase del P.S.: ***..."di un trito RITRATTO mortifero DELL'“apocalittico” echiano***