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mercoledì 30 marzo 2011

Le cronache di Giuditta Pasta - Thomas Hampson in concerto alla Scala

Solido successo lunedì sera alla Scala per il concerto di canto del baritono veterano Thomas Hampson.

Concerto esclusivamente dedicato ai Lieder in lingua tedesca, per la goduria del pubblico straculturale, piamente munito dei programmi di sala con le traduzioni delle saggezze poetiche e filosofiche comunicate nei diversi brani di Schubert, Liszt e Mahler – pubblico che, ahimè, è stato letteralmente costretto a godere anche in forma di bis di tre altri Lieder di Mahler. Implacabile contro le implorazioni “Fa' il repertorio!” e “Opera!”, quale quarto bis Mister Hampson ci ha regalato una canzone tedesca di Meyerbeer che per conto mio avrebbe potuto essere anche un brano di Hugo Wolf in una rielaborazione dell’ultimo Alban Berg e rivisto da parte sua da Dallapiccola.
Cantante di veneranda e ormai trentennale carriera, dall'aspetto maschio e decisamente simpatico, Thomas Hampson ci ha dimostrato quello che è e quello che è sempre stato quale vocalista e liederista. Voce non di grande volume né di particolare fascino timbrico, complice una posizione della voce abbastanza “bassa” e l’assenza di una vera proiezione, il timbro risulta pieno e bello solo nel registro centrale quando canta sul mezzo-forte e senza spingere. In basso la voce è abbastanza vuota e costretta a forzare le note gravi, problema evidente già nel primo Lied schubertiano “Der Atlas”. In alto, appena richiesto un canto sul piano, il baritono sfalsetta sistematicamente e quando canta sul forte gli acuti risultano spinti, scolorati e rauchi – entrambi caratteristiche nella “migliore” tradizione di Dietrich Fischer-Dieskau di cui peraltro Hampson sembrava talvolta una copia di prima mano. Personalmente, capisco pienamente il pubblico che ieri ammirava il baritono americano, perché in un mondo musicale in cui la liederistica di un Dietrich Fischer-Dieskau è quasi unanimemente considerata come un classico ed un patrimonio intoccabile, un altro modo di cantare il Lied tedesco non sembra possibile neanche nella più lontana teoria. Forse solo nei dischi di un Heinrich Schlusnus, una Lotte Lehmann o Herbert Janssen che ormai sono sorpassati e apprezzati solo da qualche passatista. Inesistenti forse anche gli eminenti liederisti del dopoguerra, come Fritz Wunderlich o Christa Ludwig che sarebbero due vere testimonianze del Lied cantato al posto del Lied declamato. L’onnipresenza di Fischer-Dieskau nel canto di Thomas Hampson si attesta non solo attraverso la sua succitata organizzazione vocale, ma anche nel suo approccio generale all’arte del Lied, ossia la prevalenza del declamato, perfettamente realizzato nell’alternanza fra suoni “parlati”, da una parte, con voce spinta e, dall’altra, quelli abbastanza aggressivi e “abbaiati” con voce falsettata e sussurrata. Il legato è escluso per principio e, quando applicato nei rari momenti di cantabile, come per esempio nel “Urlicht” di Mahler (il brano sicuramente meglio riuscito dell’intera serata), risulta molto insicura sia per intonazione sia per l’incoerenza stilistica dovuta agli inevitabili “salti” di tipo di emissione sotto e sopra il passaggio. L’approccio declamatorio di Hampson è peraltro segnato da un altro “vizio” della tradizione fischer-dieskauiana, ossia una comprensione troppo letterale delle forme e funzioni dell’espressività liederistica che l’abbassa spesso ad un naturalismo abbastanza banale. Con una tale visione declamatoria-naturalistica dell’estetica del lied, peraltro uguale e completamente indifferente sia in Schubert che in Liszt, Mahler e… Meyerbeer, diventa irrilevante anche una varietà più grande nella loro realizzazione vocale e finisce in un’interminabile e monotona alternanza fra suoni sforzati e sfalsettati. Un elemento fondamentale di questo approccio è l’enfatizzazione del lato testuale dei Lieder e l’articolazione dei versi con una chiarezza quasi da teatro di prosa. Thomas Hampson possiede in effetti una pronuncia tedesca impeccabile. Eppure, si chiede quale può essere il piacere o il senso estetico di un canto liederistico tutto centrato sul lato linguistico davanti ad un pubblico la cui maggioranza è decisamente non-germanofono e ha bisogno di rivolgersi alle traduzioni riprodotte nel programma di sala. Quest’autocelebrazione dell’articolazione testuale nell’ambito della liederistica rappresenta poi una sorte di contradictio in adjecto, perché un Lied che, bene o male, rimane quello che vuol dire in tedesco “das Lied”, una canzone, un pezzo cantato, ma in cui l’articolazione del testo diventa l’obiettivo a spese del lato musicale, dimostra una visione estetica basata su dei truismi ed un’unidimensionalità generale dovuta ad una carenza tecnica vocale. Non è né originale né “emozionante” o particolarmente “suggestivo” un canto per cui gli unici “colori” vocali trovati per le parole articolate sono la monotonia bicolore dei falsetti-sussurri e grida-sforzati, invece di portare e carezzare le parole ammorbidendole e variandone le dimensioni espressive-cromatiche con delle inflessioni venute da una varietà e flessibilità rese unicamente possibili da una tecnica vocale che, primariamente, permette l’esistenza di un’omogeneità dello strumento e, secondariamente, nel ambito di questa coerenza, una molteplicità di accenti e modi vocali.
In quanto al pianista della serata, Wolfram Rieger, i suoi accompagnamenti ci sono apparsi piuttosto privi d’ispirazione. Oltre i piccoli errori ortografici, ha dimostrato un suono piuttosto secco e generico, senza veramente creare un’atmosfera di continuità né fra le diverse sezioni dei lieder come “Der Schildwache Nachtlied” di Mahler ed il laconismo grave e pesante degli accordi disparati del “Doppelgänger” schubertiano né fra i diversi lieder, terminando pure ogni brano con un gesto discreto e quasi sacrale di compimento a cui il pubblico, massimamente all’altezza del rito, rispondeva con un religioso silenzio di raccoglimento.


Gli ascolti


Denza

Si vous l'aviez compris - Mattia Battistini (1924)


Rotoli

La gondola nera - Mattia Battistini (1911)


Tosti

La serenata - Mattia Battistini (1911)

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lunedì 14 marzo 2011

Le cronache di Giuditta Pasta - Luisa Miller all'Opéra di Parigi

La nostra frenetica Pasta è volata alla volta di Parigi causa i suoi mille impegni di diva. Tra un successo e l'altro ha avuto modo di recarsi all'Opéra, ove ha assistito alla Luisa Miller verdiana, protagonista Krassimira Stoyanova.

Il 10 marzo abbiamo assistito alla seconda recita di “Luisa Miller” all’Opéra Bastille di Parigi. Recita che può facilmente servire per fare una piccola anatomia delle tendenze generali sia del canto attuale sia delle predilezioni di un pubblico moderno.
L’allestimento di Gilbert Deflò è puramente decorativo. Il signor Deflo ci risparmia un’interpretazione originale ed ultra-moderna della “tragedia borghese” verdiana-schilleriana e si accontenta con un sottofondo che dipinge un sereno paesaggio provinciale. Sul primo piano si alternano le varie scene con una semplicità scenografica che lascia tutta la libertà ai cantanti, cioè li abbandona interamente alle loro capacità vocali e drammatiche. Il pubblico parigino non ha voluto apprezzare questa circostanza ed è anzi comprensibile la sua fredda distanza verso questa regia (o assenza di regia), perche le decorazioni quali decorazioni mancavano visibilmente di gusto e di quella discreta invenzione che rende autenticamente suggestiva anche la più semplice scenografia. Ma si chiede se l’illuminato pubblico di Parigi avrebbe preferito vedere una “lettura” moderna ed “attuale” dell’opera verdiana che, pur essendo basata sulla tragedia di Schiller, non contiene quasi più nessun potenziale per essere rappresentata come qualcos’altro che un solito melodramma del Verdi degli “anni di galera” con tutta la brillantezza di tante delle pagine vocali e le sue debolezze drammatiche. C’è poco che sia così grottesco come il progetto di rendere “problematico per l’attualità” un banale melodramma italiano che non richiede altro che essere ben eseguito musicalmente per potere affermare la sua validità attuale.
Eppure, se anche “Luisa Miller” fosse un’opera della più grande intensità e coerenza drammatica, il maestro Daniel Oren, direttore dello spettacolo parigino, sarebbe stato perfettamente in grado di distruggerla fino nell’ultimo dettaglio. Ha diretto l’intero spartito con un’assenza totale di senso della struttura e dell'equilibrio musicale (addirittura scandaloso nella sinfonia!). Ha prodotto solo un fracasso insopportabile anche nei semplici accordi che richiedevano di essere eseguiti sul forte, ed ha accompagnato i cantanti senza qualsiasi flessibilità ed istinto ad hoc per le esigenze di ciascun di loro, per non parlare del rumore con cui era sempre pronto a coprire i solisti nei momenti vocali decisivi, come nella seconda aria di Luisa o l’aria di Rodolfo. Una prova senza lode né infamia, invece, da parte del coro dell’Opéra.
Passiamo al cast ed iniziamo dalle voci maschili. I due bassi che incarnavano i ruoli del Conte e di Wurm, ossia Orlin Anastassov e Aratjun Kotchinian, sono degli esemplari rappresentanti della moderna scuola slava del canto di basso. Le voci sono emesse tutta di gola, rigide nella gestione della linea vocale e si lasciano portare dall’unica intenzione di una cruda e selvaggia dimostrazione di “Guardate quanto volume ho!”. Il baritono Franck Ferrari, che interpretava il padre Miller, s’iscrive in quella lista interminabile dei baritoni dal timbro anonimo, sgraziato ed invecchiato, fraseggio abbaiante, particolarmente malmessa negli acuti, che finiscono sia nella gola sia nel naso sia in entrambi. Peculiarità del signor Ferrari il fatto di non sentirsi nella grandiosa sala della Bastille quando cantava nel registro acuto.
Marcelo Alvarez quale Rodolfo non mi è affatto piaciuto. Non posso comprendere che cosa ci sia di così “emozionante” nel suo canto squarciagola, dall’emissione volgare, che alterna suoni aperti e nasali, nominali "mezze-voci", che sono nient’altro che dei suoni mal falsettati alla Jonas Kaufmann. Il legato è debolissimo ed un una espressività ispirata al peggior naturalismo e sentimentalismo. Tuttavia, è questo tipo di canto, completamente spinto, aggressivo e privo di qualsiasi mediazione e stilizzazione, a piacere al pubblico parigino. E’ stato Marcelo Alvarez, infatti, a ricevere i più grandi applausi sia dopo la sua aria che alle uscite singole, mentre il pubblico non ha saputo tirare una differenza qualitativa fra la Federica spoggiata e calante di una Maria Jose Montiel e la formidabile Luisa del soprano bulgaro Krassimira Stoyanova, premiandole entrambe con un applauso tanto genericamente caloroso quanto indifferente alla qualità e alle premesse tecniche delle rispettive prestazioni.
Krassimira Stoyanova, pur non essendo più un’artista giovane, ha mostrato una voce più fresca dei suoi colleghi. Non mi ha convinto nella prima aria (“Lo vidi in primo palpito”) dove ha omesso tutti i picchettati prescritti dallo spartito verdiano, senza veramente compensare la mancanza della brillantezza vocale dell’aria con un fraseggio particolarmente incisivo. Tuttavia, già dall’inizio, la Stoyanova ha regalato alle nostre orecchie un suono interamente immascherato, rotondo, morbido ed omogeneo in tutti i registri, una linea vocale naturalissima ed agile, ed innumerevoli smorzature, messe di voce, mezze-voci e pianissimi che non erano né falsettati, né indietro, come quelli appena udibili di Alvarez. Al contrario, le mezze-voci della Stoyanova riempivano l’intera sala della Bastille e circondavano l’orecchio, confermando ancora una volta che le vere mezze-voci sono quelle che non sono caratterizzate né da una riduzione del volume e della pienezza del colore né da una trasposizione della voce nella gola o qualsiasi altro posto oltre la maschera. Il personaggio incarnato dalla Stoyanova è stato massimamente lirico, e questo unicamente per una gestione coerente dei suoi mezzi vocali che, per quanto attestano una bella preparazione tecnica, sono tanto ingenerosi di natura. La voce della Stoyanova non è grande per volume, ma è resa udibile al massimo da un'ottima proiezione. Sono soprattutto gli acuti ad essere di natura limitati nel volume (non saprei dire se la causa sia l’usura della voce per l'alto ritmo della carriera...). Il soprano bulgaro, perciò, sceglie di conformare la concezione del personaggio alle sue premesse vocali naturali e rende Luisa autenticamente lirica, tutta fatta di piani e pianissimi. Ha cantato l’aria e la cabaletta del secondo atto senza un sol suono spinto e sforzato ed è stata massimamente sonora e drammatica attraverso una minima perdita di energia, grazie al suo canto gestito tutto sul fiato ed eterei pianissimi e mezze-voci. Eppure il suo atto è stato il terzo dove, eccetto due acuti un po’ spinti, ha incarnato una Luisa pronta alla morte, morente prima ancora di aver bevuto il veleno. Solidissima nel duetto con il padre, offrendoci una “La tomba è un letto” tutto morbido, sul piano e preciso nell'esecuzione; davvero commovente nella preghiera e stupenda nel terzetto finale cantando “Ah vieni meco” con un legato ed un’espressività eccezionali.
E' stata lei a dimostrare che cosa sia il canto di scuola, non avendo mai cantato “forte”, generico, alla Alvarez. Può essere che alla Stoyanova manchi talvolta un poco di passione (come nella prima aria) o di slancio e che non sia particolarmente carismatica, ma un canto come quello di Krassimira Stoyanova suona, soprattutto per i nostri giorni, come un vero lusso. Ed è finalmente stata un personaggio completo, soprattutto per la sua coerenza vocale. Ma il pubblico parigino sembra avesse un’idea molto differente della coerenza ed attrattività artistica, mancando l’ascolto di un canto non-sforzato, dolce e flessibile e apprezzando le cosiddette mezze-voci solo laddove siano emesse di gola, inudibili, falsettate ed in radicale ed assurda opposizione ad un canto a squarciagola o tutto forte negli altri casi. Cantare piano o mezza-voce equivarrebbe a cantare senza essere udito, e cantare forte equivarrebbe a cantare spingendo e sforzando. E’ un’estetica sonora che sembra avere profondamente impregnato le orecchie dei parigini (e a questo punto non solo dei parigini...). Ancora una volta si conferma il triste fatto che cantanti capaci (che ci sono anche oggi!) come Krassimira Stoyanova non corrispondono con la loro estetica vocale e preparazione tecnica (che rende possibile ad un soprano di limitato volume come lei di cantare alla Bastille senza essere microfonata) al gusto generale del pubblico. Una psicologia del personaggio dipinta non dalle energiche gesticolazioni, ma dalle rifinitezze della tecnica vocale, non piace. E’ ormai una vox clamans in deserto (scusate il riferimento al latino.... sono grisino!). Forse ci vuole un/a cantante di simile compostezza tecnica che abbia al contempo più carisma e fascino scenico per (re)insegnare alle orecchie moderne la differenza fra il bel canto ed il mal canto? Perché è evidente che questo dovrebbe fare un cantante, sul palcoscenico, oggi. Ed un ascoltatore critico (grisino o no, cattivo o no) non può fare altro che cercare di distinguere e di fare valere questa differenza qualitativa.


Verdi - Luisa Miller

Preludio - Francesco Molinari-Pradelli (1969)

Atto II

Quando le sere al placido - Fernando de Lucia (1908)

Atto III

La tomba è un letto sparso di fiori...Andrem raminghi e poveri - Luisa Maragliano & Mario Zanasi (1969)

Hai tu vergato questo foglio? - Richard Tucker, Luisa Maragliano & Mario Zanasi (1969)

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sabato 5 febbraio 2011

Le cronache di Giuditta Pasta - Cavalleria e Pagliacci alla Scala: secondo cast

L’altro ieri ci siamo recati alla Scala per la penultima replica del dittico verista con l’intero secondo cast che, come in tanti altri casi, è stato per certi versi più accettabile del nominale “primo”.

Penso soprattutto alla prestazione di Antonello Palombi quale Canio – voce ampia e metallica che, pure cantando indietro e sulle corde vocali, è lontana anni luce dall’esibizione vergognosa di Jose Cura. Uno si chiede perche non si poteva mettere in primo cast Palombi la cui presenza alla prima avrebbe aiutato ad evitare la tragedia che è successo dopo la caduta del sipario sui Pagliacci cantati quasi senza Canio. Kristine Opolais quale Nedda canta con una voce bianchina, priva di sonorità e della minima sicurezza intonativa negli acuti, ma risulta meno irritante rispetto a Oksana Dyka e, alla fine… è anche molto più bella da vedere. Alberto Mastromarino quale Tonio è incapace di legare due suoni, emette continuamente suoni fissi, muggiti, berciati e canta con un registro acuto completamente indietro e dei falsettacci inascoltabili. Il Silvio di Gabriele Viviani, pure possedendo uno strumento non di scarsa importanza, è privo di musicalità e delle basi elementari di tecnica per quale tutta la bellezza dei cantabili nel duetto d’amore viene distrutta.
Siamo messi abbastanza peggio nella Cavalleria rusticana. Marianne Cornetti quale Santuzza possiede una voce molto voluminosa, ma alla fine resta monocorde, senza l’incisivo fraseggio che ha dimostrato Luciana D’Intino, e vibra eccessivamente appena sale negli acuti. Il Turridu di Francesco Anile è fra le cose peggiori che io personalmente abbia sentita alla Scala. La voce è tutta bloccata in gola ed il timbro è anonimo, anzi sgraziato. Ivan Inverardi canta, come Claudio Sgura, un Alfio né buono né male. Lola e Mamma Lucia sono state incarnate dagli stessi mezzo-soprani come alla prima, sulle cui prestazioni non perderò più tempo e spazio. Vorrei invece invitarvi a riflettere sull’artista la cui presenza è senza dubbio stata la cosa più soddisfacente dell’intero dittico e l’unica ragione che avesse potuto stimolare a risentire questa produzione una seconda o anche una terza volta, ossia il Maestro Daniel Harding.
Alla prima io personalmente avevo preferito la sua direzione della Cavalleria a quella dei Pagliacci, perche quest’ultimo avevo personalmente trovato pesante ed indifferenziato. Restava comunque il fatto che qui non si trattava di un direttore che non può nemmeno manipolare l’orchestra scaligera, come nel caso di tanti direttori prima di lui, ma invece di una lettura voluta e trasmessa all’orchestra con grande efficienza tecnica. Il problema era proprio la concezione. Nella Cavalleria aveva invece usato le numerose pagine orchestrali e corali, ma, per esempio, nel pezzo più celebre della partizione, ossia l’Intermezzo, pure eseguito con precisione e suono pulito, non riusciva a dire qualcosa, rimaneva sterile, completamente privo di legato e di cantilena; questo brano di bellezza infinita e potenziale emotivo passava sotto silenzio, senza un sol applauso. L’altro ieri invece, abbiamo risentito un intermezzo pieno di dinamismo, di una linea legata negli archi, con un coerente sviluppo delle enfasi e delle alternazioni fra crescendo e diminuendo, però senza mai cedere ad un’esagerazione, tenendo molto contenuto ed intimo sia la sonorità sia gli accenti. Ed il pubblico non ha tardato ad applaudire con convinzione. La comunicazione era avvenuta.
L’intermezzo della Cavalleria è sicuramente il pezzo diretto con più lirismo dal Maestro Harding nell’ambito di entrambe opere, mentre il resto del dittico e soprattutto i Pagliacci sono interpretati come due affreschi sinfonici. Dopo la “A te la mala Pasqua” di Santuzza sentiamo un’esplosione orchestrale nella quale gli ottoni sembrano fossero direttamente saltati da una partizione di Bruckner. Nel duetto di Silvio e Nedda ritroviamo armonie tristanesche in mezzo alla provincia calabrese e l’inizio dell’intermezzo dei Pagliacci ricorda vividamente, come l’ha giustamente notata una mia cara amica, l’aggressivo brontolio degli archi all’inizio della marcia funebre di Siegfried. Il finale orchestrale che viene dopo “La commedia è finita!” sembra la coda della Sinfonia dei Mille di Mahler. E’ Harding a portare sulle proprie spalle l’intero Prologo e le scene solistiche successive, qua coprendo un(a) cantante per se improponibile, là movendo avanti l’azione senza fermarsi. E sono soprattutto i Pagliacci che gli permettono di dare uno slancio profondamente sinfonico all’intera partizione, i brani solistici inclusi. La separazione fra passaggi propriamente sinfonici e passaggi vocali è invece molto più marcata nella Cavalleria, limitando così per un direttore le possibilità sia di aiutare un cantante con il rinforzo del lato sinfonico nell’orchestra sia di fare della partizione un flusso drammatico ininterrotto ed unitario. E’ proprio per questo che considero i Pagliacci e non la pur bellissima Cavalleria come il trionfo personale del Maestro Harding che, avendo strumentalizzato a fondo l’intero potenziale sinfonico del testo di Leoncavallo, ci ha fatto sentire delle cose – colori, citazioni, accenti – che nessuno ha saputo o voluto enfatizzare fino adesso. Il direttore inglese fa dei Pagliacci un’esperienza autenticamente sinfonica ed arriva a fare funzionare lo spettacolo, a dare vita al dramma, senza avere cantanti capaci di farlo sul palcoscenico. Dopo due settimane di recite, dobbiamo attestare con piacere che Daniel Harding ha approfondito la sua lettura, ha ripensato fondamentalmente il suo approccio iniziale, ed ha mostrato e direttamente trasmesso in suono la sua grande responsabilità, anzi responsività, dando reazioni adeguati alla critica ricevuta ed alle sfide dalla parte di gente appassionata di questa musica. E’ per questo che già all’inizio dei Pagliacci l’applauso che l’ha accolto era abbastanza fermo. Ricevendo un applauso tutto per se dopo l’intermezzo dei Pagliacci, era l’unico ad ottenere un vero successo durante le uscite singole, con un applauso fragoroso, parecchi gridi di “Bravo!” e “Bravo, Maestro!” che sottolineavano il suo merito personale e singolare. Nella Cavalleria, in mezzo a un preludio molto convincente le ottime esecuzioni dei brani corali, ha finalmente saputo rompere anche il gelido incantesimo di sterilità e di silenzio nell’intermezzo ed ha giustamente riscosso un altro grande successo alla fine.
Ci sono stati tanti discordi sulla sua direzione, ai certi piacevano più i Pagliacci, agli altri la Cavalleria, a una terza categoria il suo dittico non piaceva affatto. In ogni caso, una cosa resta sicura: contrariamente a tanti direttori che abbiamo visto alla Scala negli ultimi tempi, Harding è stato l’unico a dirigere l’orchestra con autorevolezza, a farla suonare con pulizia e precisione, dando al contempo una lettura particolarissima delle due opere. (Non c’è bisogno di dire che quando un direttore fa un fracasso indistinguibile, qualsiasi discorso sull’interpretazione è a priori liquidato. Mi riferisco alla Carmen ed al concerto sinfonico di Dudamel o alla Valchiria di Barenboim.) Quando si guarda nella buca mentre dirige Harding, uno si accorge subito che gli orchestrali stano rispondendo con la giusta reazione a ogni suo gesto – gesto sempre esatto e completamente privo di un’esagerata coreografia auto-celebrativa. Un altro grande merito – forse il più importante in quanto si tratta di opera – è la sua capacità di cambiare tempi e volumi dell’orchestra a seconda delle risorse individuali di ogni cantante. Non sappiamo se questa “capacità” sia stata ottenuta per via di una sua autonoma riflessione sulla vocalità o invece per via di “negoziazioni” con i cantanti. In ogni caso, qualunque ne sia la causa, rimane il fatto che nell’ultimo periodo alla Scala Harding è l’unico direttore d’opera che abbia saputo dimostrare questa spontaneità di fronte ai cantanti.
Con la Sinfonia alpina (di cui presto vi riferiremo) ed il dittico verista – due prestazioni molto sorprendenti e controverse, nel caso dei Pagliacci passati anzi dai fischi ai “Bravo, Maestro!” – l’attuale stagione scaligera conclude per il direttore inglese. Ed un’ultima volta vorremo sottolineare che, comunque poco rispettose siano per i cliché locali tradizionali – siciliani, calabresi o alpini – le sue interpretazioni e nonostante il suo passato piuttosto baroccaro e la frequentazione dei cantanti fissi per vocazione come Patricia Petibon lascino qualche dubbio sulla concezione che può avere della regole e stili di vocalità, la sua professionalità di direttore e la disposizione spontanea a negoziare con i propri concetti e le situazioni particolari lo rende una figura isolata ed autenticamente interessante nell’ambito delle ultime stagioni scaligere.

Giuditta Pasta

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domenica 16 gennaio 2011

Giuditta Pasta presenta: Rose Pauly - Elektra

Così mi scrive oggi l'amica Giuditta che si trova in una terra lontana lontana:


Oggi viviamo in un’epoca in cui Elektra –uno dei ruoli più pesanti del repertorio straussiano ed dell’intero repertorio di soprano – viene continuamente cantata da soprani che, secondo i criteri odierni, sembra abbiano tutte le qualità richieste per incarnare una plausibile Elektra, ma, per una ragione o un’altra, non riescono ad affermarsi nella sua interpretazione con la necessaria credibilità o assiduità. Quali sono questi criteri? L’uno è il “tonnellaggio” della voce: oggi una Linda Watson, ad esempio, che possiede la potenza vocale per affrontare i ruoli definiti come “hochdramatisch”, è completamente priva anche della più elementare duttilità, per non parlare dei problemi d’intonazione, della penosa emissione e della piattezza del fraseggio. Secondo requisito, l' intensità drammatica. Ne ha tanto, tantissimo una Evelyn Herlitzius, ma la sua voce, una volta così potente, si riduce da un mese all'altro, perché priva del sostegno del fiato. Si può inoltre citare Eva Johansson, soprano di voce dura, spinta, incolore, vibrante, o Irene Theorin – idem e peggio – o ancora Susan Bullock – persona dal mestiere difficilmente identificabile.

Sarebbe quindi rinfrescante per le nostre orecchie come per le concezioni attuali riscendere all’origine della discografia di Elektra e del canto straussiano, ricordando il soprano che fu la più famosa Elektra degli anni '30 – l’ebrea-ungherese Rose Pauly. Stimata anche da Richard Strauss stesso per le interpretazioni che faceva dei ruoli come la Tintora, Salome, Helena, la sua esecuzione concertante di Elektra al Carnegie Hall sotto la bacchetta di Artur Rodzinski nel marzo di 1937 è stata non solo il suo debutto americano quale principessa micenea, ma anche la prima completa, sebbene molto tagliata, registrazione dell’opera. (Oltre ai tagli tradizionali, i tagli toccano alla scena delle servitrici, il dialogo fra Elektra e sua madre dopo il racconto di Clitemnestra dei suoi incubi e l’intera seconda scena con Crisotemide fino all’arrivo di Oreste.) Era il 1927, dopo 9 anni di carriera, quando Rose Pauly cantò la sua prima Elektra alla Krolloper di Berlino sotto la direzione di Otto Klemperer. L’ampiezza del suo repertorio, come l’analisi delle altre incisioni, merita una recensione specifica che verrà più avanti. Qui ci accontentiamo di parlare della sua straordinaria Elektra, straordinaria sotto tutti gli aspetti. La voce della Pauly, dal colore piuttosto chiaro e con un evidente carenza di materia nel centro e nei gravi, è la più grande antitesi possibile delle voci scure e pesanti di qualche altra famosa Elektra, come Astrid Varnay o Deborah Polaski. Non priva di una certa fragilità basilare neanche nel registro centrale ed acuto, è pure l’antitesi della spontanea saldezza metallica di una Birgit Nilsson. La voce della Pauly assomiglia piuttosto a quella della tragica e commovente Hildegard Behrens che, pure suggerendo una certa leggerezza a causa del suo timbro particolare, risulta molto penetrante negli acuti. I critici americani sia della sua Elektra concertante sia di quelle proposte più tardi al Metropolitan non mancano di sottolineare che Rose Pauly non si distinguesse per una voce particolarmente rotonda e fluida. Lo strumento mostra degli importanti limiti naturali che, pure, fanno della Pauly una figura tanto più affascinante quanto lei rappresenta quell’alto livello, dal punto di vista sia della qualità sia della longevità vocale, che avrebbe potuto emulare una Behrens qualora avesse avuto i necessari fondamenti tecnici. Il timbro, al contempo giovanile ed intenso, che seppe conservare anche con la frequentazione di un repertorio molto pesante attesta la sua sana tecnica vocale. Si parla poi della grandissima presenza scenica della Pauly e della sua interpretazione istrionica di Elektra, ruolo in cui ogni gesto, movimento ed inflessione della voce si amalgamava in un indivisibile fiotto drammatico. Eppure, Rose Pauly non è una “attrice cantante”, fatta di compromessi vocali, come tanti famosi soprani specialisti del repertorio tedesco.
Ascoltiamo i momenti sintomatici della sua Elektra, tenendo conto del lato spontaneo ed accidentale dei piccoli difetti vocali che pur emergono qua e là, in un’incisione che è un’unica testimonianza fra le parecchie esecuzioni del ruolo durante l’intera carriera di una cantante che aveva saputo ottenere tecnicamente il massimo da un mezzo molto imperfetto di natura.
Nel monologo d’ingresso accenta il primo “Allein! Weh, ganz allein” con una grande malinconia ed una particolare insistenza drammatica e sonora sui rispettivi Re4 e Do-bemolle4 dei due “Al-LEIN”. La voce diventa gradualmente molto magra con la discesa nella terza ottava, come nel caso del “in seine kalten Klüfte“ della successiva frase, che insiste nella zona Sol3-Re3. Tuttavia, la Pauly non si rifugia mai nel parlato, come spesso fa una Behrens, ad esempio; dà invece il massimo appoggio di respirazione all’intera zona situata sotto il primo passaggio e riesce ad ottenere un suono rotondo nei limiti del materialmente possibile oltre al calcolato effetto drammatico. Sono ancora i Re4 del “Aga-MEM-non!” che risultano piuttosto pieni ed il Fa4 sostenuto con grande facilità su “VA-ter”, rivolgendosi a un Fa3 emesso di petto nel salto di un’ottava. Avanzando verso la prima culminazione con un fraseggio segnato da una spaventosa serietà, anzi serenità, della fissazione sull’ora della vendetta, fa un altro salto dal La-bemolle4 al Fa3 su “die STUNDE”, stavolta senza l’applicazione della voce di petto, evitando così un patetismo esagerato. Riesce a dare la massima risonanza alle frasi seguenti che insistono nella zona grave estrema della terza ottava e prepara le frasi culminanti che delirano del momento del ritorno di Agamemnon con un Mi4 tenuto con una stravolgente intensità. Ancora incerta nella zona di passaggio, sul Do-bemolle4 del “Dein Auge, das starre, offne, sah herein ins Haus”, ottiene più sonorità e saldezza sul Re4 “Haus” e, salendo gradualmente più alto, persiste giustamente sulle note situate al di là del Re4. Anche se il Si bemolle4 sulla quale Elektra salta bruscamente dal Si bemolle3 nella frase “und ein königlicher REIF…” risulta un poco febbrile, la coerenza e la tensione drammatica che la Pauly riesce a creare fino all’esplosione orchestrale è esemplare per l’intera discografia di questo monologo. E’ esemplare per la coerenza vocale ed il calcolo drammatico anche l’esecuzione delle frasi seguenti in cui Elektra supplica il padre di mostrarsi. L’accento diventa languido, portato da un formidabile legato ad esempio su “im Mauerwinkel”, scendendo dal Mi bemolle4 al Sol3, e “zeig dich deinem Kind” che sale dal Mi bemolle3 al La3 – frasi che gravitano o fra le note della zona del passaggio o la zona grave della terza ottava, entrambi punti molto deboli per la voce della Pauly e che il soprano ungherese padroneggia con grande omogeneità. Nella sezione conseguente (“Von den Sternen stürzt alle Zeit herab” etc), trovo particolarmente ammirevole nel canto di Pauly la flessibilità, la fluidità del fraseggio che resta coerentissima malgrado le permanenti e veloci saliti e discesi saltanti o graduali sulla scala fra il Do3 e Si bemolle4. Il passaggio narrante della danza trionfale dei figli di Agamemnon si imposta sul Do#3 e culmina su un vigoroso e lungo Si bemolle4 di cui l’attacco risulta un poco impuro. Nella sezione finale, punto dove tanti soprani arrivano esauste e che si distingue con una scrittura vocale costituita da una catena di frasi lunghissime che culminano in un salto su un Do sopracuto sostenuto, eseguito dalla Pauly con estrema precisione e rotondità, il nostro soprano dimostra una formidabile gestione del fiato, con un piccola caduta solo alla fine della parola “Siegestänze” che, benché si distendesse su quattro battute e fosse portata da un’aggressiva e rumorosa cavalcata orchestrale, viene affrontata da lei su un unico e lunghissimo fiato.
Nel momento finale della scena del litigo con Clitemnestra, quando Elektra le dipinge meticolosamente il momento della sua morte, dal “Was bluten muss?” in poi Pauly impregna ogni sillaba con un fraseggio ed un’articolazione della più grande precisione ed incisione possibile, rinforzando così l’effetto velenoso ed istrionico della perversa descrizione della caccia alla madre. Arrivata al momento culminante, proclama “Und ich” con un suono metallico e sicuro sul So4 ed insiste con un saldissimo fiato sui Sol#4 e La bemolle4 del “un seh dich endlich sterben!” Rifà un secondo tour de force quando accenta “Und wer dann noch lebt…” su un Fa#4, salendo poi su un La#4 un po spinto, ma compensa il difetto con un trionfale, lunghissimo Do sopracuto (“…der jauchzt”) che sommerge la magma orchestrale, insiste ancora una volta sui Sol4 (“…und kann sich seines Lebens…”) e chiude il suo discorso di odio con un potentissimo Si bemolle4 (“…freun!”).
All’inizio della scena con Oreste, la Pauly incarna la principessa diffidente con una perfetta ambiguità, fra paura e curiosità. E’ soprattutto in questa scena che la Pauly dimostra l’incredibile capacità di fraseggiare con accento polivalente, convocando in un’unica frase tutta una polifonia di due, tre, quattro diversi sentimenti e pensieri. Nell’estensiva lamentazione della morte di Oreste, accenta l’inizio che gravita quasi interamente nella sua parca zona centro-grave con un’espressione di tagliente ammarezza per stendersi con tanta più generosità di suono sul Mi4 e Re4 di “Herold des Unglücks!” La sua gestione della zona sotto il primo passaggio è così destra che la sua legatura con la zona centro-acuta riesce ad evitare ogni spaccatura e concorre alla massima omogeneità vocale-drammatico nell’esecuzione del lamento. Il doppio dolore per la morte del fratello e per la propria impotenza trova una manifestazione di grandissima intuizione musicale nelle frasi consecutive in cui la Pauly sale gradualmente dalla zona centro-grave ripetendo con insistenza “Daß das Kind nie wiederkommt, nie wiederkommt”. Anche nella successiva sezione („daß die da drinnen liegen” etc.) la Pauly naviga fra i bruschi cambiamenti di temperamento, colore e scrittura musicale, con massima sicurezza vocale ed un istinto infallibile per il giusto accento. La sezione agitata che va fino al momento del riconoscimento mette ancora una volta in evidenza la flessibilità della Pauly nell’esprimere in sincronia o diacronia la frustrazione della principessa umiliata, il disprezzo per lo straniero, lo choc per la nuova che Oreste vive, l’implorazione per salvare il fratello ed il dubbio circa l’identità dello straniero. L’isterico La4 su “O-REST!” ottiene una qualità febbrile e profondamente perturbata non per incertezza vocale, ma per l’investimento di tutte le capacità drammatiche e vocali della Pauly che riesce a riunire i limiti timbrici della sua voce con la necessità interna del dramma.
Dopo l’esplosione orchestrale del riconoscimento Pauly mormora con infinita morbidezza tre volte il nome “Orest”, facendo sull’ultimo Mi bemolle4 un diminuendo che si conclude con un commovente pianissimo tremolante. E’ dolcissima nella lunga frase “Traumbild, mir geschenktes Traumbild, schöner als alle Träume!” in cui, come nelle frasi seguenti, dimostra un legato esemplare ed una coordinazione perfetta fra la problematica zona centrale e grave e quella acuta. Ondula con immensa musicalità sui frammenti melodici sempre più insistenti che culminano in un altro lungo La bem4 interrotto pure bruscamente per manco di fiato. Ed un altro La bem4 ancora sull’affettuoso “O-REST”, ripetuto due volte nella zona centro-acuta con un morbidissimo piano. Dopo viene un’evocazione di grande sensualità di suono e di accento della sfiorita beltà e pudore virginale della principessa, pure non privo di qualche attacco impuro sugli acuti e suoni un poco vuoti e forzati nei gravi estremi (zona sotto il Do2). Nella benedizione del vendicatore Oreste ritrova invece la completa sicurezza nella zona acuta, attaccando ripetutamente il La4 che rappresenta il “centro” di questo gruppo di frasi agitati-isterici e accentandole con un’avidità malata per la distruzione della “coppia iniqua”.
La tensione nella scena in cui Elektra aspetta sola l’uccisione di Clitemnestra è riprodotta dalla Pauly con un’espressione di estrema eccitazione e priva di ogni esagerato realismo delle frasi che precedono il grido della madre. Arrivato Egisto, la Pauly si immerge nei primi suoni del valzer che anticipano la danza finale con frasi di formidabile legato e tutte saturate di diabolico sarcasmo ed ipocrisia. La risposta ai gridi del morente Egisto “Agamemnon hört dich!” è un blocco monumentale impregnato da un’impassibile crudeltà. Nell’estatica scena finale con la sorella sorprende ancora una volta la saldezza e la freschezza della voce, perché ogni frase, balzante dal centro-acuto ai generosi gridi di gioia del registro acuto, è non solo piena di un’espressione di perversa passione, ma ancora brillante vocalmente per lo squillo nella zona centro-acuta ed acuta, suggerendo così l’immagine di uno stato completamente sublimato e psicotico. Fa un meraviglioso glissando dal La#4 al Fa#3 sul ultimo “TAN-zen” e lascia al bravissimo maestro Rodzinski di concludere la tempestosa Danza di Morte.
Scrivendo della sua performance di Elektra al Metropolitan, i critici americani non ebbero molte parole per il lato scenico della sua prestazione. E noi, sfortunati come siamo di non possedere alcun documento visivo dell’azione scenica di Rose Pauly, proviamo ad immaginare questa carismatica signora, ispirandoci dall’abbondante materiale acustico di cui possiamo ricapitolare quanto segue le principali caratteristiche e la sua relazione ai nostri tempi: la voce della Pauly non ha né la pesantezza dello strumento di una Linda Watson, né il centro-grave corposo di una Polaski o di una Varnay, meno ancora le lussuose risorse vocali (ahimè, barbariche) di una Jones o di una Herlitzius da sprecare generosamente. Possedeva una voce di minore attrattiva sopra il passaggio ed un minimo di risorse nel centro-grave, ma comunque di grande estensione che, con l’applicazione della giusta tecnica, le permise di mettere il suo strumento al servizio di un ruolo non solo di esigentissima estensione, ma anche di enormi se non impossibili esigenze vocali e drammatiche. Non dimentichiamo che la Pauly aveva già una carriera di 20 anni dietro di lei quando incise la sua Elektra americana. Nel contesto di questa circostanza storica trovo ammirevole la freschezza e la autentica giovanilità del suo mezzo oltre che l’esattezza dell’intonazione e l’anatomica concretezza del fraseggio nel dipingere la psicologia del personaggio – tutto questo in un ruolo che diventa così spesso una ammasso indistinto di dizione vaga, fraseggio paralitico ed intonazione arbitraria. E’ per questa maestria tecnica, oltre che per il talento artistico, che oggi Rose Pauly potrebbe servire di referenza sia ai soprani pesanti, ma assolutamente insipidi, come a quelli meno dotati ma spinti, fino a farsi passare per autentiche voci wagneriane e straussiane. Alla fin fine, facendo una parafrasi di due noti amici: soprano di referenza per come cantare Strauss senza la voce straussiana (?)...


Giuditta Pasta

Gli ascolti

Richard Strauss

Elektra


Rose Pauly - 1937

Allein, weh ganz allein!
Was bluten muss?
Ich muss hier warten... Orest!... Der ist selig, der tun darf! (con Julius Huehn)
Ich hab' ihm das Beil nicht geben können... Darf ich nicht leuchten? (con Frederick Jagel)
Ob ich nicht höre? (con Charlotte Boerner)


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mercoledì 15 dicembre 2010

Le cronache di Giuditta Pasta: Ariadne auf Naxos all'Opéra Bastille

All’Opéra Bastille di Parigi la sera del 14 dicembre ha avuto luogo la terza rappresentazione di “Ariadne auf Naxos” di Richard Strauss, con la bacchetta di Philippe Jordan e la regia di Laurent Pelly, nella solita revisione del 1916.

“Ariadne” è un’opera che, vista la sua orchestrazione ed il generale ambito cameristico, sarebbe sicuramente stata più adatta alle dimensioni della sala del Palais Garnier. Se si contava su una grande affluenza del pubblico ed un maggior guadagno economico, quello che abbiamo visto il 14 dicembre erano numerosi posti liberi anche nelle categorie meno costose della grandiosa sala della Bastille.
In quanto alla regia di Pelly, dall’inizio sino alla fine la vostra umile serva ha creduto di avere un déjà vu. Tutto - oggetti, scene, gestione delle luci, ambiente, drammaturgia – sembrava identico all’allestimento del Elisir d’amore scaligero (e precedentemente parigino) di Pelly. Lo stesso minibus, le stesse corse e viavai, lo stesso humour volgare e banale, gli stessi costumi e scenografie stile “La strada” di Fellini. Solo alla fine dell’opera, quando Pelly ricorre a cambiamenti radicali e molto belli nell’illuminazione, riusciamo a vedere una vera differenza fra il mondo della buffonata e quello sublime e patetico di Ariadne. Durante lo spettacolo la sola differenza fra la “gnocca” Zerbinetta che si dimena in bikini e l’Ariadne mesta e vestita quasi di cenci, è quella fra una prostituta fortunata ed una prostituta sfortunata.
Nel Prologo (che Strauss ha aggiunto all’atto unico nella seconda versione dell’opera), colmo di personaggi minori ed apparizioni frammentarie dei personaggi centrali, si distingue la figura del Compositore. Il nominale mezzosoprano francese Sophie Koch, cantante amatissima a Parigi, si è esposto con uno strumento di maggiore ampiezza ed un fraseggio espressivo ed elegante nella tradizione declamatoria di una Brigitte Fassbaender. Anche i vizi vocali di Koch si inseriscono nella medesima tradizione. La voce è segnata da una certa disomogeneità nell’emissione, la cantante cerca di scurire il suono nel centro, dove la voce è più chiara di natura, le noti gravi (che nel ruolo del Compositore sono comunque poche) sono gonfiate e chiuse nella gola, in alto la voce è generosa, ma raramente distaccata dal corpo e guidata interamente sul fiato. Anche Sophie Koch, come tante altre sue colleghe, è in verità non un mezzosoprano, ma un soprano corto, anzi cortissimo. Comunque, dopo il Prologo il pubblico parigino l’ha premiata con un grande applauso, sia per la familiarità con l’artista sia per il suo talento di attrice. E’ evidente che la sua espressività (alla tedesca) non è completamente collocata nella sua vocalità e ha permanentemente bisogno di strumenti extra-vocali, ma nella sala di Bastille questo sembrava l’ideale stesso di una prestazione lirica. Ci associamo con un applauso tiepido e passiamo al primo atto.
Nel trio della Naiade, Driade e Eco che in complesso “funzionava”, dobbiamo comunque sottolineare la durezza dalla parte di Elena Tsallagova (Naiade) nella gestione della zona acuta in cui si distendono le sue meravigliose frasi di coloratura. Bisogno segnalare anche il vuoto che la Driade di Diana Axentii fa sentire nel registro basso dove gravita il suo ruolo di “terza voce”. Più continua invece l’Eco di Yun Jung Choi che resta un ruolo piuttosto centrale e senza eccessive esigenze vocali. Esagerato nella loro buffoneria il quartetto di Arlecchino, Scaramuccio, Truffaldino e Brighella. L’unico credibile vocalmente è stato il basso François Lis quale Truffaldino.
Ricarda Merbeth quale Primadonna-Ariadne ha cantato con voce incolore e di penosa emissione durante l’intera serata. Nel Prologo c’era ancora la speranza che si stesse riscaldando per il tour de force dell’Opera, ma invano… Senza entrare nei dettagli si può dire che Ricarda Merbeth è inudibile nel registro centrale e grave e che grida in quello acuto. Ogni nota esce dal suo corpo separatamente, come se ogni volta ci fosse bisogno di uno sforzo inumano, con ciò distruggendo l’infinita bellezza di ogni frase della principessa abbandonata. Inutile nel “Ein Schönes war” che richiede un legato ed un fiato di esemplare stabilità; indistinta all’inizio e spinta alla fine del “Es gibt ein Reich”. Nel duo finale con Bacchus, ogni volta che tentava di cantare piano, emetteva suoni simili al borbottio di acqua (forse di quello dei lidi di Naxos…). Gli applausi che ha ricevuti alla fine erano comunque più che cordiali. Ed è Ricarda Merbeth a passare oggi per una delle più grandi “specialiste” del repertorio straussiano (Daphne, Imperatrice) e wagneriano (Senta, Eva, Elsa, Sieglinde). E’ una di quei soprani con voce grossa, timbro incolore, fraseggio senza capo né coda che affrontano e dominano il repertorio lirico-spinto di Wagner e Strauss. Si chiamano Manuela Uhl, Michaela Kaune, Anja Harteros, Ricarda Merbeth, Camilla Nylund etc.
Impresentabile anche il collega diretto di Ricarda Merbeth, co-specialista del repertorio tedesco Stefan Vinke nel ruolo del Tenore-Bacchus. Voce grande perfettamente ingolata, di colore sgraziato, priva di ogni nobiltà sia nel accento sia nel timbro, spinta della prima nota fino all’ultima. Non ci resta che immaginare come suonasse il Bacchus della prima assoluta nel 1912 a Stoccarda, ossia Hermann Jadlowker. Stefan Vinke, già sentito come Siegfried in una Götterdämmerung a Colonia, condivide con Simon O’Neill, la nuova star del canto wagneriano, la stessa voce di caratterista, pero possiede uno strumento dieci volte più ampio del tenore neozelandese. Ed è un sonoro “buu” che ha ricevuto alla fine, tra applausi neutrali.
Il duetto finale di Ariadne e Bacchus sarebbe stato insopportabile senza la direzione del maestro Philippe Jordan che, dopo un Prologo poco originale ed anzi abbastanza fiacco, ci ha regalato una lettura dell’Opera così compatta da compensare le modeste prestazioni vocali della maggioranza dei cantanti. Soprattutto a partire della scena di Zerbinetta l’impressione era che stesse suonando un’altra orchestra. Tutto è divenuto più spontaneo, più corposo, più dinamico, l’armonia straussiana è sorta in tutta la sua sontuosità. E’ nella scena finale che Jordan ha guidato l’orchestra a un culmine di qualità trascendente e ricchissima sonorità, salvandoci inoltre dai gridi di Merbeth e Vinke.
La migliore della serata è stata senza dubbio Jane Archibald quale Zerbinetta. La sua voce è troppo piccola per una sala come Bastille, soprattutto nel registro centrale e grave dove ha la tendenza a parlare invece di dare un poco di corpo alla sua risonanza. Eppure, quando sale nel registro acuto e sovracuto, la voce diventa morbida, mai gridata o pigolata come nel caso della maggioranza delle attuali “colorature”. Oltre ad incarnare Zerbinetta con una civetteria naturale, si è mostrata capace di dare senso ed un tocco di vero virtuosismo alle colorature che eseguiva. Il legato non è perfetto e la risonanza fra i diversi acuti o sovracuti non è sempre uguale, certi risultano piuttosto bianchini, gli altri invece più metallici ed ampi. È soprattutto nella seconda parte della sua grande aria che ha saputo convincere ed è stata premiata con un applauso fermo e caloroso sia dopo l’aria sia durante le uscite singole. Il giovane soprano canadese è piaciuto alla vostra umile serva in primo luogo per la naturalezza del suo timbro e la spontaneità nell’esecuzione. Comunque ci si deve chiedere se il ruolo di Zerbinetta, come lo troviamo nella partitura, fosse concepito per dei “canarini”, visto che la prima Zerbinetta della versione di 1912 è stata Margarethe Siems (e quella della versione di 1916 – Selma Kurz). Se consideriamo da un lato che la Siems ha creato anche ruoli straussiani come la Marschallin e Chrysothemis e che Zerbinetta è stata scritta espressamente per la sua voce, e se ascoltiamo d’altronde le sue registrazioni che variano da “Je suis Titania” a “D’amor sull’ali rosee”, si capisce che la Siems era tutto salvo un mero soprano di coloratura. Bisogna anche considerare che “Ariadne auf Naxos” è un’opera molto “tecnica”, molto Jugendstil in un certo senso, con ornamenti volutamente esagerati e stilizzati, il barocco del barocco, il paradosso e l’umorismo di un’opera cameristica in mezzo alle Elettre e Donne senz’ombre del tardo romanticismo. Questo si sente sia nella sofisticata scrittura vocale sia nella strumentazione stravagante (orchestra ridotta, ma nondimeno molto complessa; la presenza del pianoforte etc.). Quindi, la “pointe” di questo pezzo molto sperimentale non può semplicemente consistere nell’esposizione di un soprano canarino nel ruolo di Zerbinetta, perché ci mancherebbe il vertice dell’ironia di Strauss e Hoffmannsthal, consistente nell’esporre una primadonna “completa” come Margarethe Siems in un “riduttivo” ruolo di coloratura come Zerbinetta. Sottile passaggio simile a un dettaglio autenticamente Jugendstil – al contempo miniaturesco ed opulente.



Giuditta Pasta



Richard Strauss
Ariadne auf Naxos
Oper in einem Aufzuge nebst einem Vorspiel
Libretto: Hugo von Hoffmansthal


Philippe Jordan Direzione musicale
Laurent Pelly Regia e costumi

Franz Mazura Der Haushofmeister
Martin Gantner Ein Musiklehrer
Sophie Koch Der Komponist
Stefan Vinke Der Tenor (Bacchus)
Xavier Mas Ein Tanzmeister
Vladimir Kapshuk Ein Perückenmacher
Jane Archibald Zerbinetta
Ricarda Merbeth Primadonna (Ariadne)
Elena Tsallagova Najade
Diana Axentii Dryade
Yun Jung Choi Echo
Edwin Crossley-Mercer Harlekin
François Piolino Scaramuccio
François Lis Truffaldino
Michael Laurenz Müller Brighella

Orchestre de l’Opéra national de Paris


Gli ascolti


Meyerbeer - Les Huguenots

Atto II

O beau pays de la Touraine - Margarethe Siems (1908)


Strauss - Der Rosenkavalier

Atto I

Kann mich auch ein Mädel erinnern - Margarethe Siems (1908)


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mercoledì 17 novembre 2010

Le cronache di Giuditta Pasta - Matti Salminen in concerto a Berlino

Cari amici e carissimi nemici del blog,
la diletta Giuditta Pasta ci regala un'altra delle sue cronache. In italiano, per la prima, ma speriamo non l'ultima volta. E in vista della consueta novena pre-ambrosiana, la nostra collega "porta su la voce" parlandoci di canto wagneriano - ma non solo - e recensisce, nello specifico, il recente concerto berlinese di Matti Salminen.
Buona lettura e ottimi ascolti.


Appena arrivata a Berlino, città amatissima dalla vostra umile serva per i suoi numerosi luoghi di cultura musicale, teatrale e museale e, non da ultimo, per i meravigliosi ristoranti asiatici, mi sono accorta di un cartello della Deutsche Oper che invitava la sera stessa, il primo novembre, al concerto di giubileo del rinomato basso finlandese Matti Salminen che celebrava i suoi 40 anni di palcoscenico. Considerando Matti Salminen il più grande basso wagneriano degli ultimi decenni e avendo già avuto la fortuna quest’anno di vederlo, pure più giovane, nei ruoli di Filippo II e di Hagen all’opera di Colonia, non ho esitato a recarmi subito alla Deutsche Oper. Senza nutrire grandi aspettative nei confronti di quelle caratteristiche vocali, per cui questo cantante non è mai stato eccezionale, aspettavo l’inizio del concerto con una calma ed un godimento anticipato, legato al sentimento di una certa garanzia che solo i grandi artisti sono capaci di emanare.
Matti Salminen, malgrado i suoi 65 anni, è forse ancora il possessore della voce più importante del “suo” repertorio e di un carisma che travolge alla stessa stregua della sua voce, perché, come avviene per i veri cantanti, la sua voce, emessa dalla sua imponente figura, rimane comunque l’unico ed autentico “contenitore” del suo carisma. Abbiamo certo un’interessante generazione di bassi wagneriani che sono in carriera almeno già da un decennio: Hans-Peter König, Kwanchul Youn, Franz-Josef Selig o ancora Georg Zeppenfeld e Juha Uusitalo, ma nessuno fra loro combina in sé quelle capacità che rendono Matti Salminen una figura di massima importanza per la storia del repertorio tedesco. E’ il metallo penetrante che manca a König (forse il miglior giovane Hagen in circolazione); è il volume ed un vero colore individuale che manca a Youn (comunque cantante musicalissimo e molto comunicativo in un ruolo come Gurnemanz); è la minima stabilità tecnica che manca a una voce di non scarso volume e fascino, come quella di Selig. Zeppenfeld condivide con gli altri lo stesso timbro senza metallo ed Uusitalo canta con una voce di bellissimo timbro, ma emessa quasi tutta di gola. Era la combinazione di un volume gigantesco, un timbro metallico, un controllo esemplare ed un’intensità artistica elettrizzante che faceva di Salminen un Hunding che nel primo atto della Valchiria poteva occupare quasi l’intero spazio e mutilare qualunque Siegmund e Sieglinde (vedere il famoso Ring di Boulez/Chereau) o un Re Marke che in un Tristan und Isolde cantato da Rene Kollo e Johanna Meier poteva fare dimenticare l’intero duettone estatico che precede la scena (spesso ingiustamente sottovalutata!) del vecchio re. Non è mai stato, per esempio, un interprete ideale del canto mozartiano; il suo Sarastro ed Osmin sono meno sicuri per intonazione e per nobiltà di fraseggio che quelli del finlandese della generazione anteriore, Martti Talvela, per non parlare di un gigante della famiglia dei bassi come Alexander Kipnis. E comunque, la combinazione di una straordinaria potenza vocale e la qualità di grandissimo interprete fanno di Salminen anche un valido mozartiano.
Prima di cominciare la relazione della serata, vorrei condividere con i lettori (che a loro volta aspettano l’inizio di questo “concerto”) un’altra considerazione più concreta sull’artista in questione. Da un lato parliamo di un cantante per il quale l’approccio al repertorio italiano è troppo “tedesco” e “nordeuropeo” per l’assenza di un vero legato e per il canto non di gola ma comunque “intubato” e talvolta poco flessibile e non privo di qualche fissità negli attacchi (soprattutto degli acuti). D’altronde, anche quando si parla del repertorio tedesco da un punto di vista più “italiano”, la medesima “tecnica” è a sua volta criticata in quanto funesto prodotto dell’”amnesia” che ha colpito i cantanti nordeuropei del dopoguerra e, con qualche eccezione (fra cui Jurinac, Nilsson, Wunderlich), ha fatto dimenticare la superba tecnica della grande scuola delle Lehmann, Siems, Leider, Schumann-Heink, Schlusnus, Slezak e tanti altri – cantanti per cui non esisteva (e sarebbe stato assurdo) una differenza tra tecnica “tedesca” ed “italiana”, quella tedesca essendo pure la conseguenza (sistematizzata e canonizzata) dell’assenza di quella italiana. In seguitò si aprì un interminabile dibattito all’interno della medesima nuova “scuola” tedesca sulla scissione fra espressione o espressività artistica e materializzazione vocale, dibattito in seguito al quale venne privilegiata l’espressività, non di rado a spese della vocalità. Possiamo affermare che questo sia un fatto e la prospettiva giusta per la valutazione (“discriminativa” e “selezionista”) di intere generazioni di cantanti. Eppure deprecare delle generazioni che sono state “fatte” dai nomi come Varnay, Talvela, Fischer-Dieskau, Stewart, Behrens e, alla fine, anche un Matti Salminen, sarebbe non solo molto ingiusto nonostante i giusti rimproveri contro la loro “tecnica”, ma, da un punto di vista pragmatico, anche contraddittorio, perché per un wagneriano o un straussiano questo equivarrebbe una completa capitolazione davanti alla “morte” del repertorio tedesco dagli anni 50, una capitolazione insomma che materialmente un germanofilo operistico non si può permettere né dovrebbe fare. A mio modesto giudizio questo è l’ambito teorico attraverso cui sarebbe plausibile non solo la (de)valutazione delle generazioni in questione, ma in primo luogo anche il loro apprezzamento. Ed è questo l’ambito vocale attraverso cui o si apprezza un Matti Salminen o no.

In quanto all’evento del primo novembre, il concerto circondato da un’atmosfera festiva era diretto da Ulf Schirmer, direttore professionale, anzi interessante soprattutto nel repertorio straussiano. L’orchestra della Deutsche Oper ha suonato con grande compattezza ed è stata una degna “solista” che alternava delle celebri ouverture con i numeri solistici di Salminen. Intensa e nel complesso molto pulita l’esecuzione delle ouverture dell’Olandese volante e di Fidelio. Un vero fuoco d’artificio l’ouverture delle Allegre comari di Windsor di Otto Nicolai. Peccato solo per la sinfonia del Barbiere di Siviglia eseguita quasi nello stesso modo come Beethoven, priva della giusta misura rossiniana fra leggerezza ed insistenza. Fra i diversi numeri sul palcoscenico è apparsa la veterana del canto Karan Armstrong, sicuramente molto più brava per aver mantenuta quell’apparenza elegante che per la sua passata carriera vocale, e con grande autoironia per il suo tedesco e non senza una simpatica civetteria ha ricordato al pubblico diversi dettagli importanti dalla biografia musicale del basso finlandese. Spesso anche Salminen interveniva nel suo discorso e con un tedesco quasi perfetto ed un umorismo entusiasmante e privo di ogni volgarità raccontava la propria vita. Ha anche approfittato dell’occasione per includere due giovani bassi nel suo concerto, tentando di creare una sorta di continuità nel “mestiere”. Di loro parleremo più tardi. Frattanto qualche nota sullo stato vocale di Salminen nel corso della serata.
Ha cantato l’aria di Daland dal Olandese volante con frasi e note spezzate nel centro e centro-acuto. Le cose sono andate decisamente meglio negli acuti, dove il basso è riuscito a legare bene e dove inoltre il suo timbro ha conservato la sonorità metallica e penetrante. Indimenticabile , per esempio, il suo “Hoiho!” nel secondo atto della Götterdämmerung del giugno scorso, cantato con massima omogeneità e rotondità del suono e coprendo il fortissimo dell’orchestra senza sforzi di sorta. In quanto al secondo numero solistico del concerto, nell’aria di Rocco da Fidelio la voce ha già cominciato a risuonare con più omogeneità di volume e di colore, restando tuttavia incapace di legare le frasi al centro. Invece nell’aria di Filippo II, preceduta da un breve ricordo del suo studio a Roma con Luigi Ricci ed accompagnata con grande malinconia e perfetta misura dall’orchestra del maestro Schirmer, il vecchio basso ha saputo concentrare tutte le sue capacità. Ha intonato “Ella giammai m’amò” con una tristezza collocata in un piano pieno e caloroso, e ha continuato con un centro ormai voluminoso e rotondo per arrivare all’esplosione su “No, amor per me non ha” con una linea di canto stabilissima oltre che tenuto su un forte dall’espressione lacerante. Lo stesso discorso vale per “Dormirò sol” e “Se il serto regal”, nel secondo dimostrando un bel legato su “a me desse” per risolvere la frase in un “il poter” di abbondante risonanza. Una voce ampia da fare male alle orecchie nel culmine su “di leggere nei cor”, poi alternato con il secondo “Ella giammai m’amò” cantato piano con controllo perfetto e finendo con un’ultima sconvolgente esplosione vocale su “Amor per me non ha”, legando le note ed accentuando le parole con grandissima espressività. È questa l’aria che il pubblico berlinese ha meritatamente premiato con il più grande applauso ed con quell’entusiasmo che si diffonde fra gli ascoltatori solo dopo una prestazione di grabde impatto vocale e comunicativo (un entusiasmo ed un applauso, di tutt’altra sonorità, che ai nostri giorni diventa sempre più raro). All’aria di Filippo Salminen ha aggiunto la scena con il Grande Inquisitore, nella quale ha dato la possibilità di esibirsi al giovane basso croato Ante Jerkunica, che è già un membro stabile della Deutsche Oper. Jerkunica ha impressionato con una voce ampia ed un’emissione di grande qualità sia nel registro centrale che in quello basso, oltre che un’intonazione sicura e un fraseggio marcato. Già nella prima frase “Son io dinanzi al Re” ha saputo intonare le prime note con autorità ed una voce non di colore molto “nero” come al suo tempo il monumentale e spaventevole Grande Inquisitore di Salminen, ma pure d’un suono completamente immascherato e tagliente, per scendere sul La bemolle del “Re” senza frattura alcuna e senza che la voce andasse indietro. Ha convinto fino al “Ed io l’Inquisitor” dove sono arrivati i problemi con le note estremamente acute, quasi inudibili e mancate come più avanti nel “Doman saresti presso il Grande Inquisitor…”. E’ sicuramente un difetto “di natura” che si potrebbe migliorare con un maggior sostegno nel fiato. A causa di questi errori Jerkunica ha ovviamente perso la coscienza di sé ed ha distrutto l’aura grave e minacciosa che aveva creato con la primissima frase. Salminen, stanco dallo sforzo di avere dato fondo alle sue risorse nell’aria precedente, ha cantato con intonazione incerta ed ha in generale preferito restare all’ombra del suo giovane collega.

Nella seconda parte del concerto Salminen ha proposto “La calunnia” di Don Basilio con la stessa disomogeneità nei registri come all’inizio del concerto e rifugiandosi in un umorismo fuori vocalità, tuttavia buttando suoni da vero “colpo di cannone” sui due “Come un colpo di cannone” nel mezzo dell’aria. Si è sentito anche qualche suono fisso e berciato per stanchezza e, perciò, mancanza di appoggio sul fiato. In seguito Salminen ha presentato al pubblico un giovane basso finlandese, Timo Rihonen, di cui ha parlato apertamente in termini encomiastici, sostenendo che, al momento, questo giovane sarebbe allo stesso livello del giovane Matti, allorquando questi affrontò la sua prima esibizione importante su un palcoscenico nel lontano 1969, al Teatro Nazionale di Helsinki nel ruolo di Filippo II. Eppure, quando Timo Rihonen si è messo a cantare l’aria di Falstaff “Als Büblein klein an der Mutter Brust“ dalle Allegre comari di Windsor di Otto Nicolai, benché il timbro sia sembrato da vero basso, l’emissione si è mostrata tutta ingolata e tirata, non avendo però né il volume né la ricchezza dello strumento di un Salminen a titolo di compensazione per questo difetto. Come nel caso di Jerkunica, la tecnica sbagliata di Rihonen ha “suonato” quando in una frase che saliva in zona acuta la voce è andata tutta indietro e si sono prodotti dei veri ululati. Dopo un benevolente applauso “di convenienza” (NB: il pubblico di Berlino non ha nulla in comune con un qualsiasi pubblico di m…!), Salminen è tornato per cantare due tanghi finlandesi. L’ha fatto con un microfono… il che si potrebbe spiegare con la pesante orchestrazione di queste meravigliose melodie o/e con l’evidente riduzione delle forze del basso dopo l’onorevole esecuzione dell’aria di Filippo. In ogni caso il pubblico berlinese non ha visto nulla di straordinario in questo fatto ed ha anche applaudito con entusiasmo le melodie che un cantante dalla voce piena di passione cantava ormai con la sola passione.
L’ultimo pezzo nel programma era il malinconico monologo finale di Sir Morosus “Wie schön ist doch die Musik” („Com’è bella la Musica”) dalla Donna silenziosa di Richard Strauss. Seduto in una sontuosa poltrona portata in scena per questo ultimo numero, in cui Sir Morosus riflette sulla bellezza della musica e del silenzio, Salminen ha cantato quasi senza voce. Un momento pieno di tristezza, come si poteva notare anche dalla postura ed da qualche gesto di Salminen medesimo. Inondato dalla morbida ma nondimeno abbondante ed opulenta orchestrazione straussiana, Salminen ha declamato con voce ridotta talvolta fino all’inudibile. Gli sono comunque riconoscente, per avere saputo evocare nell’aria di Filippo la sua voce maestosa con tutta la sua dignità di cantante, determinando con questo l’ambiente dell’intera serata. “Wie schön ist doch die Musik - aber wie schön erst, wenn sie vorbei ist!” – “Com’è bella la Musica – ma ancora di più quando è finita”. Un momento di verità per un cantante che ormai non è solo una voce del passato, ma anche una voce passata. Voce del passato nel senso di un passato di grandi esecuzioni wagneriane, di un passato dell’attualizzazione della meravigliosa musica finlandese attraverso voci tonanti come Talvela e Salminen, di un passato del teatro lirico, quando anche in ruoli “fuori” stile e tecnica il cimento era affrontato con maggior correttezza e professionismo. Salminen, con tutti i suoi difetti non così rari d’intonazione e d’emissione, ha saputo cantare con massima resa drammatica Monteverdi, Bach, Weber, Wagner, Mozart, Verdi e Mussorgsky. Ha sempre investito la sua unica e potentissima voce con grande adeguatezza musicale ed esattezza dell’intenzione artistica, rendendola un genuino strumento individuale. Ed è una bella notizia sapere che Matti Salminen, a 65 anni e già con una certa pesantezza senile nei suoi movimenti, parteciperà ancora sia al prossimo Ring des Nibelungen della Deutsche Oper sia ad altre rappresentazioni in alcuni importanti teatri europei: finché sarà capace di collocare in una recita di Götterdämmerung o di Don Carlo tutte le sue capacità vocali per eseguire pezzi centrali come l’aria di guardia o la chiamata di Hagen con un metallo, una rotondità del suono ed un’ampiezza di volume eccezionali o ancora l’aria di Filippo con fraseggio ed emissione non italianissimi, ma comunque di massimo livello drammatico, io personalmente sarò felice di saperlo ancora attivo sui palcoscenici e sempre pronto a dare quello che gli resta ancora da dare.


Gli ascolti

Mozart

Die Entfuhrung aus dem Serail


Atto I

Wer ein Liebchen hat gefunden - Alexander Kipnis (1931)

Die Zauberflote

Atto II

In diesen heil'gen Hallen - Alexander Kipnis (1930)








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lunedì 30 agosto 2010

Mese di agosto XVI - Opera tragica, quinta puntata: Il Crociato in Egitto

La fama, che ancor oggi accompagna il Crociato in Egitto è più virtuale che sostanziale. Il capolavoro del Meyerbeer italiano è oggetto più di riflessioni, chiacchiere e sogni dei melomani, che non di rappresentazioni teatrali.

A torto perché di autentico capolavoro si tratta, ma a ragione perché, come sempre accade per i titoli del maestro e non solo per quelli siglati grand-opéra, richiede una tale parata di stelle da sconsigliarne la riproposizione, più oggi che venti o trent’anni or sono.
L’esperienza veneziana della stagione 2007 costituisce monito e consiglio in tal senso. Come lo costituiscono le edizioni sempre differenti e per interventi dell’autore e per interventi degli esecutori con cui il titolo circolò per almeno trent’anni dopo la prima.
Le ultime riprese del Crociato, intorno agli anni '60 del secolo XIX, coeve alle ultime di Semiramide, opera cui il Crociato è in stretto contatto e largamente tributario, vennero accompagnate da robuste dubitative critiche ad opera di Antonio Ghislanzoni, futuro scapigliato e librettista di Aida, che nei panni di critico affermò:" Il crociato di Meyerbeer parve al pubblico nostro musica troppo antica. I vecchi, ammiratori entusiasti del passato, i dotti avversari delle nuove forme, ebbero un bel predicare le bellezze del grande spartito – il publico rispose cogli sbadigli, manifestazione spontanea dei sensi, più eloquente di ogni critica. Sarebbe ingiusto il gravare sugli esecutori tutta la responsabilità del mal esito. Il crociato, non esitiamo a dirlo, è opera inamissibile oggigiorno. Le cause son molte, né vogliamo enumerarle. A noi la musica del Crociato è nuovo argomento per confermarci nella opinione altre volte manifestata, che «il genio non può rinunziare impunemente alla propria natura, né piegarsi a servili compiacenze». Meyerbeer che imita Rossini, Meyerbeer che vuol essere italiano nella melodia e nelle forme, perdendo la sua fisionomia originale, impicciolisce, diviene fiacco e impotente – il suo lavoro tuttoché commendevole dal lato dell’arte, porta una impronta bastarda. Se nel Crociato qualche pezzo ci scuote, se l’introduzione, se la marcia grandiosa, se il finale dell’atto primo ci esaltano per un istante, gli è che in tali punti Meyerbeer ci si presenta nel suo vero aspetto, gli è che noi indoviniamo il futuro autore del Roberto, degli Ugonotti, e del Profeta, sentiamo i primi entusiasmi della sua libera natura chenon vuole né può essere italiana".
Oggi non si può, però condividere l’opinione di Antonio Ghislanzoni che individua il meglio del Crociato nei passi che costituiscono il preannuncio del Meyerbeer francese, mentre nella realtà sono il tributo che l’autore paga a Rossini ed alla Semiramide in particolare. Mi riferisco al grandioso concertato, che chiude il primo atto piutttosto che al quartetto della conversione. Attenuante e discolpa per Ghislanzoni è che difficilmente conoscesse i grandi concertati del Rossini napoletano, non più rappresentato, mentre erano gli anni sessanta quelli della massiccia proposizione dei titoli del grand-opéra.
Gli spunti di riflessioni mossi dal Crociato possono essere moltissimi.
Ne lascio agli esperti uno ossia l’orchestrazione e l’uso della banda che supera quello fatto sino ad allora da Rossini e che poi andrà scemando nel melodramma romantico. Nel Crociato la banda in scena è la sigla della marzialità dell’opera, accompagna l’entrata dei cavalieri ed il grandioso finale primo luogo di scontro affettivo e religioso.
Il crociato costituisce, più dei titoli di Rossini l’esemplificazione di come si confezionassero e per la prima e per le riprese le opere nell’Italia del 1825 circa.
Rimando per l’esauriente cognizione al saggio contenuto nell’edizione di Opera Rara, i cui libretti illustrativi sono, sempre, di gran lunga più interessanti dei CD, che accompagnano e commentano.
Mi limito a segnalare la più significativa peculiarità del Crociato ovvero la presenza di tre voci femminili in ruoli protagonistici, in luogo delle solite due rappresentate da prima donna e da musico. Nel Crociato sono, appunto, tre, in quanto la compagnia scritturata a Venezia prevedeva anche un illustre contralto donna, Brigida Lorenzani, cui venne affidata la parte della pietosa antagonista di Palmide, che drammaturgicamente non esiste, tanto è che le due arie (di grande difficoltà, perché scritte per una illustre e completa cantante) vennero eliminate alla prima ripresa (Firenze e Trieste) quando la compagnia scritturata mancava di una terza prima donna. Con la sublime arte del “metti e togli” che connota la produzione melodrammatica italiana vennero reinseriti numeri, autentici o imprestati, quando la Felicia di turno fosse prima donna di rango quale la giovane Felicia Malibran a Londra nel 1825 o Marietta Alboni a Parigi nel 1860.
E’, però, interessantissimo seguire la documentate ed autentiche vicende dei numeri riservati al protagonista maschile Armando. Scritto per Velluti, l’ultimo castrato a calcare le scene d'opera circolò non solo grazie a quest’ultimo, ma per opera di due grandissime cantanti Carolina Bassi-Manna e Giuditta Pasta. Ciascuno dei protagonisti, complice Meyerbeer, lasciò il segno.
Ho il sospetto che Velluti stesso non fosse risultato troppo soddisfatto delle scelte per i suoi numeri solistici dell’autore, che richiamano una vocalità ed un gusto protorossiniano. Alla prima ripresa di cui fu protagonista a Firenze comparve, previa sparizione dei numeri solistici di Felicia ed annessione del di lei recitativo di sortita “Popoli dell’Egitto”, la cavatina “Cara mano” ed il finale dell’opera, che come da consolidata tradizione era il rondò del protagonista divenne un duetto dei due amanti “Ravvisa qual alma”.
Era solo l’inizio delle legittime manipolazioni perché alla ripresa di Trieste con l’arrivo della Bassi, primadonna assoluta di Meyerbeer in ogni senso, venne inserita l’aria “Oh come rapida”, tratta dall’opera l’Esule di Granata (e per la cronaca parafrasata da Mercadante in tonalità differente nella Didone abbandonata) e la primadonna si riprese i propri diritti chiudendo l’opera con il rondò finale. Naturalmente non già quello originale “Verrai meco in Provenza” ma altro tratto dall’opera Semiramide riconosciuta sempre di Meyerbeer, che costituiva non già aria, ma addirittura “l’opera di baule” della Bassi.
L’idea dell’aria “Oh come rapida” elegante e raffinata, per Armando era seconda alle primedonne perché alla scelta si attenne, per la ripresa agli Italiani nel 1825, Giuditta Pasta, che andò oltre, pretendendo per il numero una cabaletta “L’aspetto adorabile”. Anche questa altro busillis perché taluni spartiti la danno come opera di Niccolini, che doveva rappresentare il “refugium peccatorum” di madama Pasta alla ricerca di arie consone, visto che nel Tancredi di Rossini inseriva, variata da Rossini, l’aria del Tancredi di Niccolini.
In questa duplice versione Bassi-Pasta il numero incontrò il favore di altra primadonna del tramonto della vocalità rossiniana, ossia Barbara Marchisio, che protagonista dell’ultima ripresa scaligera del Crociato utilizzò il numero, ma quale cavatina di sortita. E per la cronaca questo numero ha eseguito a Montpellier nel 1990 Martine Dupuy.
Mi domando e rigiro la domanda ai lettori se la storia dell’opera attraverso le prime donne e le loro pretese non abbia un fascino particolare e sia una via interessante ed ardua da seguire.
Evito di raccontare gli inserimenti di altri autori il Rossini di Semiramide, che altre primedonne, precisamente Rosmunda Benedetta Pisaroni apportavano allo spartito indossando i panni di Armando.
Le modifiche, diciamo d’autore, ma non solo, gli accomodi talvolta dimostrano come i ripensamenti siano talvolta felici e drammaturgicamente azzeccati. E non solo in Meyerbeer, ma anche in Rossini la cui Zelmira riveduta e corretta per Giuditta Pasta con il riutilizzo di Ermione è un vero colpo di genio. E di colpi di genio ne troviamo uno mirabile nel Crociato. I cavalieri di Rodi entrano preceduti dal marziale e spettrale coro “Vedi il legno”, che i cavalieri in ogni loro scena inspirano, solo che il climax viene meno con la tradizionale aria di Felicia “Pace io reco” e che invece ne esce esaltato e completato dalla cavatina “Queste destre” di Adriano di Monforte, questa non originale della versione veneziana, ma predisposta per Niccolò Tacchinardi a Trieste. E la stessa impressione di un miglioramento drammaturgico o di una rilevante modifica del personaggio si ha con l’ascolto della cabaletta di Adriano “La gloria celeste” in luogo dell’originale “Or dei martiri la palma”. Passiamo da un'immagine di Chiesa e religione meditativa ad una di Chiesa e religione militante e, magari, militare. Forse più consona ai cavalieri di Rodi, a mezza strada fra il consacrato ed il guerriero.
Altro ancora insegna l’ascolto del capolavoro ossia come ad un anno di distanza dalla Semiramide e dopo una militanza in teatri italiani di seconda serie (Padova e Torino) Meyerbeer si lanci in scelte musicali e drammaturgiche, che superano quelle dell’ammirato maestro e costituiscono i numeri originali, che sempre verranno eseguiti in ogni ripresa del Crociato, quasi che la competenza della prima donna escludesse modifiche agli ensemble. Alludo al meraviglioso terzetto, che principia come aria strofica di Felicia “Giovinetto cavaliere” e dove cantano per terze, secondo la tradizione belcantistica, i loro differenti sentimenti non due voci femminili (come ad esempio in Zelmira o in Otello), ma tre o il quartetto (Adriano, Armando, Felicia, Palmide) “Oh cielo clemente”, che all’atto secondo accompagna il battesimo della già convertita Palmide.
Con riferimento a questa scena è facile – seguendo le indicazioni di Antonio Ghislanzoni in veste di critico musicale- sentire i prodromi di un’altra grande scena religiosa di Meyerbeer, ovvero la conversione e matrimonio di Valentina di St. Bris , nei momenti che precedono il tragico epilogo di Ugonotti.
Ma anche i luoghi topici del melodramma rossiniano si colorano nel Crociato di qualche cosa, che sarà il dopo, ovvero il grand-opéra, e penso al grandioso finale primo, costruito secondo le regole del grande finale rossiniano, con tanto di canone “Sogni e ridenti”, ma che al ritmo marziale della banda fa esplodere il contrasto religioso. Elemento nuovo (anche se in Maometto II se ne fa cenno), ma che per ovvi motivi –l’appartenza ad una minoranza di Meyerbeer- costituirà uno dei caposaldi della drammaturgia del maestro berlinese. Come un elemento di assoluta novità è il dettaglio del personaggio di Adriano di Monforte, il Gran Maestro dei cavalieri di Rodi, in equilibrio, fra militare e consacrato composto a strati fra la versione Crivelli, quella Tacchinardi e la definitiva Domenico Donzelli. E’ facile con un simile personaggio presagire il sacerdote laico dell’opera l’Eleazaro di Juive, che il correligionario Halévy, mutuò direttamente dal libro dei Maccabei, quale esempio di fede e religiosità assolutamente tegragona. Credo sia, e non perché ruolo per Domenico Donzelli, il primo caso di personaggio tenorile sfaccettato e musicalmente e drammaturgicamente. Tralasciamo l’estrema difficoltà vocale del ruolo e chiudiamo questo agosto, che abbiamo voluto doverosamente rossiniano, ma al di fuori delle deputate istituzioni e percorsi.
DD & GG


Gli ascolti

Meyerbeer - Il Crociato in Egitto


Prima rappresentazione: Gran Teatro la Fenice, Venezia, 7 marzo 1824

Atto I

Cara mano dell'amore - Martine Dupuy (1990)





Sortita di Adriano: Vedi il legno...Popoli dell'Egitto...Queste destre l'acciaro di morte - Rockwell Blake (1990)

Va': già varcasti, indegno...Non sai quale incanto...Il brando invitto - Rockwell Blake & Martine Dupuy (1990)

Giovinetto cavalier - Caterina Calvi, Denia Mazzola & Martine Dupuy (1990)

Gran Profeta, là dal cielo - Rockwell Blake, Caterina Calvi, Martine Dupuy, Denia Mazzola, Michele Pertusi & Jean Loupien (1990)

Atto II





O Cielo clemente - Martine Dupuy, Rockwell Blake, Denia Mazzola & Caterina Calvi (1990)

Tutto è finito...Suona funerea...L'acciar della fede - Rockwell Blake (1990)

Aria aggiunta per Armando: O tu, divina fè...Ah, come rapida - Martine Dupuy (1990)

Ah, che fate!...Rapito io sento il cor...Verrai meco di Provenza - Michael Maniaci (2007)

Finale alternativo: Ravvisa qual alma - Martine Dupuy & Denia Mazzola (1990)



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venerdì 20 agosto 2010

Mese di agosto XI - Opera tragica, terza puntata: Medea in Corinto

Giovanni Simone Mayr, conosciuto tutt’al più per essere stato il maestro di Donizetti (che nel 1806 ebbe i suoi primi rudimenti musicali proprio grazie alle Lezioni Caritatevoli che il compositore tedesco aveva istituito a Bergamo), fu in realtà autore molto fecondo e, per un certo periodo, conobbe fama, successi e onori. Nato in Baviera nel 1763, ricevette la propria istruzione musicale dal padre, perfezionandosi in breve tempo nello studio della viola di cui divenne riconosciuto virtuoso. Si trasferì presto in Italia (prima a Venezia e poi a Bergamo), dove si svolse la sua parabola artistica. Le sue spoglie riposano nella cattedrale della sua città d’adozione, accanto a quelle dell’allievo prediletto. Uomo di cultura (studiò diritto canonico e teologia all’università di Ingolstadt) e con la passione per la didattica, scrisse quasi 70 opere nell’arco di un trentennio – fino al 1824, quando i disturbi alla vista (che lo portarono alla quasi totale cecità) lo costrinsero a ritirarsi dal teatro – a cui vanno aggiunte almeno 60 sinfonie, 12 oratori (la maggior parte risalente al periodo veneziano) e poi cantate, messe, mottetti, inni, sonate, concerti, balletti, musica da camera, lieder e canzoni.

Scrisse anche un gran numero di testi teorici (ad uso dei suoi allievi). Oggi la quasi totalità del suo vasta catalogo è dimenticata, eppure i suoi lavori furono premiati da generosi successi in Italia e in Europa, e da continue riprese, almeno sino alla metà del secolo. Mayr è figlio della grande cultura musicale europea, che bene aveva appreso la lezione di Haydn, Mozart e Beethoven: fu tra i primi a diffondere in Italia la conoscenza e lo studio dei grandi maestri austriaci e tedeschi (diresse, tra l’altro, la prima esecuzione italiana della Creazione, proprio a Bergamo nel 1809). E già come Cimarosa (i cui Orazi e Curiazi hanno aperto questo nostro breve excursus nell’opera italiana tra Rossini e Donizetti) appare come una specie di estraneo nel panorama musicale della penisola, ancora impantanato nelle formule ormai svuotate dell’Opera Seria. Ogni volta che viene riscoperto un titolo del suo catalogo, infatti, si resta sorpresi per l’abilità della scrittura musicale, che unisce all’eccellenza tecnica (nella costruzione sinfonica dell’ordito orchestrale, con ampie e spettacolari concessioni ad inserti concertanti), la padronanza delle forme e la robustezza dell’ispirazione. Mayr riesce a fondere mirabilmente le conquiste della cosiddetta riforma gluckiana (nei suoi più elaborati sviluppi “francesi”: in particolare Cherubini) da cui gli deriva l’afflato tragico e la tensione drammatica, con le più complesse costruzioni musicali di Haydn e Mozart, lasciando intravedere – pur solo sullo sfondo – l’imminente esplosione romantica (che segnerà in modo più compiuto la generazione successiva: quella del melodramma donizettiano e belliniano) di cui anticipa linguaggi e suggestioni.
Scrisse quasi 70 opere – si diceva – e tra i tanti titoli, particolare attenzione merita quello che è riconosciuto essere il suo capolavoro: Medea in Corinto. Scritta “alla maniera francese”, per soddisfare i gusti della corte di Giacchino Murat, per la celebrata ugola di Isabella Colbran (la futura Signora Rossini), fu rappresentata per la prima volta il 28 novembre 1813, al San Carlo di Napoli. Fu un trionfo. Accanto alla Medea della Colbran, Andrea Nozzari e Manuel Garcia si spartivano i difficilissimi panni tenorili di Giasone ed Egeo, Michele Benedetti (creatore di numerosi ruoli rossiniani: Elmiro, Idraote, Mosé, Ircano, Fenicio, Douglas, Leucippo) interpretò Creonte, Teresa Luigia Pontiggia fu Creusa e nel ruolo minore di Tideo si esibì Domenico Donzelli (una curiosità: tra le comparse – quale figlia di Medea – apparve per la prima volta sul palcoscenico di un teatro la figlia di Garcia, che, nel giro di qualche anno, sarà universalmente conosciuta come Maria Malibran). Fin da subito la stampa, i critici e il pubblico si resero conto di essere di fronte ad uno dei lavori più importanti dell’epoca. L’opera, subito ripresa l’anno successivo, iniziò presto a girare i maggiori teatri italiani ed europei: nel 1821 a Dresda, nel 1823 a Milano e a Parigi dove si “appropriò” del ruolo di Medea, Giuditta Pasta, che poi portò l’opera a Londra (nel 1826, 1827, 1828, 1831, 1833 e 1837), a Napoli e ancora a Parigi (1826) e a Milano (1829). Fino al 1850 a Londra – interpretata da Teresa Parodi (allieva della Pasta) – nella sua ultima apparizione nel secolo XIX. I maggiori cantanti dell’epoca interpretarono l’opera nelle sue tante riprese: Elisabetta Ferron, Fanny Ayton, Carolina Hunger, Domenico Donzelli, Giambattista Rubini, Gilbert Duprez, Vincenzo Galli, Luigi Lablache...

Lo stesso Mayr apportò alcune modifiche per la ripresa del ’23 per meglio adattare il testo alle esigenze dei nuovi interpreti: in particolare accanto a modifiche minori e ad un duetto ripreso da un lavoro precedente, dotò Giasone di una nuova e spettacolare cavatina (di dubbia paternità però, giacché identica – o quasi – ad un brano della coeva Zoraida di Granata: per cui non si riesce a stabilire se questo fosse di mano donizettiana o se quello che compare nell’opera di Donizetti fosse stato in realtà scritto da Mayr) e aggiunse un’impervia cabaletta per Egeo.
Vista da vicino l’opera rappresenta il meglio dello stile di Mayr. La complessità sinfonica è evidente sin dall’overture e dalla ricca ed elaborata introduzione; i numeri si fondono l’uno con l’altro senza cesure e interruzioni, grazie all’uso sapiente dei recitativi accompagnati e dei cantabili che collegano i brani solistici e i pezzi d’insieme. L’uso del coro rivela la familiarità dell’autore con il genere oratoriale, mentre le ricche introduzioni alle arie, sono veri e propri dialoghi tra voce e strumento obbligato. La scrittura vocale è sì fiorita e virtuosistica, ma mai in modo meccanico o fine a sé stesso (l’uso della coloratura richiama quello del Mozart delle grandi arie da concerto) e le pur spettacolari difficoltà appaiono finalizzate all’espressione di drammaticità e tragedia, più che al mero esibizionismo vocale. Di grande spessore drammatico le arie della protagonista, in particolare la scena delle ombre nell’atto II, ma in generale tutti i suoi brani solistici mostrano una superba concezione musicale, incentrata sulla severità e la tragicità dell'accento: dall'aria di sortita con il violino obbligato a quella finale (di cui sono state tramandate due versioni con differenti gradi di coloratura e diversi strumenti solisti: corno inlgese e violino). Più smaccatamente virtuosistici i brani per i due tenori e e per Creusa (in particolare l'episodio che apre l'atto II con la suggestiva arpa obligata e l'elaboratissima scrittura fiorita). Ciò che colpisce, dopo l'ascolto, è la cura del minimo dettaglio e la coerenza compositiva, l'ampio respiro dell'invenzione musicale: il tutto denota una consapevolezza superiore, decisamente superiore, alla stragrande maggioranza della musica coeva, tanto che per raggiungere la stessa eccellenza bisognerà attendere il miglior Rossini napoletano. Opera dunque che presenta molteplici punti di interesse, ma che sconta delle difficoltà oggi quasi insormontabili per una sua compiuta riscoperta: richiede una protagonista che possa padroneggiare il canto declamato e tragico (di ascendenza cherubiniana), due tenori capaci di affrontare ruoli monstre per difficoltà ed esigenze, una seconda donna dalla coloratura sicurissima, un'orchestra che sappia suonare davvero (abituata a Mozart e Haydn, non come certi complessi più o meno festivalieri che paiono ensemble semi dilettantesche e si limitano ad eseguire - spesso maluccio - le mere note) e un direttore d'orchestra capace di non ingarbugliarsi negli intrecci dell'orchestrazione (non un mero accompagnatore di primedonne...destinato, nel caso di Mayr, a soccombere). In gran parte insoddisfacenti i più recenti tentativi di riesumazione (con la sola eccezione della bella incisione Opera Rara): sia i più risalenti nel tempo (1969 e 1977) che paiono costruite solo sulla protagonista (rispettivamente la Galvany e la Gencer) ma che attorno ad essa sfoggiano il nulla (con punte di imbarazzo per i tenori e la direzione d'orchestra), oltre ad essere funestate da tagli sconsiderati; sia l'ultima uscita cronologicamente, registrata dal vivo nel 2009 in Svizzera e basata sulla nuova edizione critica dell'opera (di cui viene scelta la versione del manoscritto del '21, assai più comoda per gli interpreti, e che contempla numerosi raggiusti e tagli d'autore, per adattarla alle più modeste capacità della compagnia milanese). Una nuova produzione di Medea verrà presentata a Monaco, nell'ottobre di quest'anno, con la direzione di Ivor Bolton (onesto kappelmeister del Mozarteum di Salisburgo di ascendenza baroccara, non molto dotato di fantasia, ma in grado, si spera, di non ridurre l'accompagnamento ad una bandaccia), la rediviva Iano Tamar nel title-role, Ramon Vargas nei difficili panni di Giasone (confermandosi ancora tenore in cerca d'autore), nonchè l'immancabile regia alla tedesca: in questo caso il pernicioso Neuenfels.

Gli ascolti

Giovanni Simone Mayr

Medea in Corinto


Melodramma tragico in due atti

Libretto di Felice Romani

Prima rappresentazione: 28 Novembre 1813, Teatro San Carlo di Napoli



Atto I

Come! sen riede...Sommi Dei - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

Cedi al destin Medea - Allen Cathcart & Marisa Galvany (1970), William Johns & Leyla Gencer(1977)

Dolce figliuol d'Urania...Scendi Imene...Vanne a terra - Marisa Galvany, Allen Cathcart, Joan Patenaude, Robert White & Thomas Palmer (1970), Leyla Gencer, William Johns, Cecilia Fusco, Ginfranco Pastine & Gianfranco Casarini (1977)

Atto II

Dove mi guidi?...Ogni piacer è spento...Antica notte - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer(1977)

Ma qual fioco rumor...Se il sangue, la vita - Marisa Galvany & Robert White (1970), Leyla Gencer & Gianfranco Pastine (1977)

Ismene, o cara Ismene...Miseri pargoletti...Era tua sposa - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

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