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lunedì 30 agosto 2010

Mese di agosto XVI - Opera tragica, quinta puntata: Il Crociato in Egitto

La fama, che ancor oggi accompagna il Crociato in Egitto è più virtuale che sostanziale. Il capolavoro del Meyerbeer italiano è oggetto più di riflessioni, chiacchiere e sogni dei melomani, che non di rappresentazioni teatrali.

A torto perché di autentico capolavoro si tratta, ma a ragione perché, come sempre accade per i titoli del maestro e non solo per quelli siglati grand-opéra, richiede una tale parata di stelle da sconsigliarne la riproposizione, più oggi che venti o trent’anni or sono.
L’esperienza veneziana della stagione 2007 costituisce monito e consiglio in tal senso. Come lo costituiscono le edizioni sempre differenti e per interventi dell’autore e per interventi degli esecutori con cui il titolo circolò per almeno trent’anni dopo la prima.
Le ultime riprese del Crociato, intorno agli anni '60 del secolo XIX, coeve alle ultime di Semiramide, opera cui il Crociato è in stretto contatto e largamente tributario, vennero accompagnate da robuste dubitative critiche ad opera di Antonio Ghislanzoni, futuro scapigliato e librettista di Aida, che nei panni di critico affermò:" Il crociato di Meyerbeer parve al pubblico nostro musica troppo antica. I vecchi, ammiratori entusiasti del passato, i dotti avversari delle nuove forme, ebbero un bel predicare le bellezze del grande spartito – il publico rispose cogli sbadigli, manifestazione spontanea dei sensi, più eloquente di ogni critica. Sarebbe ingiusto il gravare sugli esecutori tutta la responsabilità del mal esito. Il crociato, non esitiamo a dirlo, è opera inamissibile oggigiorno. Le cause son molte, né vogliamo enumerarle. A noi la musica del Crociato è nuovo argomento per confermarci nella opinione altre volte manifestata, che «il genio non può rinunziare impunemente alla propria natura, né piegarsi a servili compiacenze». Meyerbeer che imita Rossini, Meyerbeer che vuol essere italiano nella melodia e nelle forme, perdendo la sua fisionomia originale, impicciolisce, diviene fiacco e impotente – il suo lavoro tuttoché commendevole dal lato dell’arte, porta una impronta bastarda. Se nel Crociato qualche pezzo ci scuote, se l’introduzione, se la marcia grandiosa, se il finale dell’atto primo ci esaltano per un istante, gli è che in tali punti Meyerbeer ci si presenta nel suo vero aspetto, gli è che noi indoviniamo il futuro autore del Roberto, degli Ugonotti, e del Profeta, sentiamo i primi entusiasmi della sua libera natura chenon vuole né può essere italiana".
Oggi non si può, però condividere l’opinione di Antonio Ghislanzoni che individua il meglio del Crociato nei passi che costituiscono il preannuncio del Meyerbeer francese, mentre nella realtà sono il tributo che l’autore paga a Rossini ed alla Semiramide in particolare. Mi riferisco al grandioso concertato, che chiude il primo atto piutttosto che al quartetto della conversione. Attenuante e discolpa per Ghislanzoni è che difficilmente conoscesse i grandi concertati del Rossini napoletano, non più rappresentato, mentre erano gli anni sessanta quelli della massiccia proposizione dei titoli del grand-opéra.
Gli spunti di riflessioni mossi dal Crociato possono essere moltissimi.
Ne lascio agli esperti uno ossia l’orchestrazione e l’uso della banda che supera quello fatto sino ad allora da Rossini e che poi andrà scemando nel melodramma romantico. Nel Crociato la banda in scena è la sigla della marzialità dell’opera, accompagna l’entrata dei cavalieri ed il grandioso finale primo luogo di scontro affettivo e religioso.
Il crociato costituisce, più dei titoli di Rossini l’esemplificazione di come si confezionassero e per la prima e per le riprese le opere nell’Italia del 1825 circa.
Rimando per l’esauriente cognizione al saggio contenuto nell’edizione di Opera Rara, i cui libretti illustrativi sono, sempre, di gran lunga più interessanti dei CD, che accompagnano e commentano.
Mi limito a segnalare la più significativa peculiarità del Crociato ovvero la presenza di tre voci femminili in ruoli protagonistici, in luogo delle solite due rappresentate da prima donna e da musico. Nel Crociato sono, appunto, tre, in quanto la compagnia scritturata a Venezia prevedeva anche un illustre contralto donna, Brigida Lorenzani, cui venne affidata la parte della pietosa antagonista di Palmide, che drammaturgicamente non esiste, tanto è che le due arie (di grande difficoltà, perché scritte per una illustre e completa cantante) vennero eliminate alla prima ripresa (Firenze e Trieste) quando la compagnia scritturata mancava di una terza prima donna. Con la sublime arte del “metti e togli” che connota la produzione melodrammatica italiana vennero reinseriti numeri, autentici o imprestati, quando la Felicia di turno fosse prima donna di rango quale la giovane Felicia Malibran a Londra nel 1825 o Marietta Alboni a Parigi nel 1860.
E’, però, interessantissimo seguire la documentate ed autentiche vicende dei numeri riservati al protagonista maschile Armando. Scritto per Velluti, l’ultimo castrato a calcare le scene d'opera circolò non solo grazie a quest’ultimo, ma per opera di due grandissime cantanti Carolina Bassi-Manna e Giuditta Pasta. Ciascuno dei protagonisti, complice Meyerbeer, lasciò il segno.
Ho il sospetto che Velluti stesso non fosse risultato troppo soddisfatto delle scelte per i suoi numeri solistici dell’autore, che richiamano una vocalità ed un gusto protorossiniano. Alla prima ripresa di cui fu protagonista a Firenze comparve, previa sparizione dei numeri solistici di Felicia ed annessione del di lei recitativo di sortita “Popoli dell’Egitto”, la cavatina “Cara mano” ed il finale dell’opera, che come da consolidata tradizione era il rondò del protagonista divenne un duetto dei due amanti “Ravvisa qual alma”.
Era solo l’inizio delle legittime manipolazioni perché alla ripresa di Trieste con l’arrivo della Bassi, primadonna assoluta di Meyerbeer in ogni senso, venne inserita l’aria “Oh come rapida”, tratta dall’opera l’Esule di Granata (e per la cronaca parafrasata da Mercadante in tonalità differente nella Didone abbandonata) e la primadonna si riprese i propri diritti chiudendo l’opera con il rondò finale. Naturalmente non già quello originale “Verrai meco in Provenza” ma altro tratto dall’opera Semiramide riconosciuta sempre di Meyerbeer, che costituiva non già aria, ma addirittura “l’opera di baule” della Bassi.
L’idea dell’aria “Oh come rapida” elegante e raffinata, per Armando era seconda alle primedonne perché alla scelta si attenne, per la ripresa agli Italiani nel 1825, Giuditta Pasta, che andò oltre, pretendendo per il numero una cabaletta “L’aspetto adorabile”. Anche questa altro busillis perché taluni spartiti la danno come opera di Niccolini, che doveva rappresentare il “refugium peccatorum” di madama Pasta alla ricerca di arie consone, visto che nel Tancredi di Rossini inseriva, variata da Rossini, l’aria del Tancredi di Niccolini.
In questa duplice versione Bassi-Pasta il numero incontrò il favore di altra primadonna del tramonto della vocalità rossiniana, ossia Barbara Marchisio, che protagonista dell’ultima ripresa scaligera del Crociato utilizzò il numero, ma quale cavatina di sortita. E per la cronaca questo numero ha eseguito a Montpellier nel 1990 Martine Dupuy.
Mi domando e rigiro la domanda ai lettori se la storia dell’opera attraverso le prime donne e le loro pretese non abbia un fascino particolare e sia una via interessante ed ardua da seguire.
Evito di raccontare gli inserimenti di altri autori il Rossini di Semiramide, che altre primedonne, precisamente Rosmunda Benedetta Pisaroni apportavano allo spartito indossando i panni di Armando.
Le modifiche, diciamo d’autore, ma non solo, gli accomodi talvolta dimostrano come i ripensamenti siano talvolta felici e drammaturgicamente azzeccati. E non solo in Meyerbeer, ma anche in Rossini la cui Zelmira riveduta e corretta per Giuditta Pasta con il riutilizzo di Ermione è un vero colpo di genio. E di colpi di genio ne troviamo uno mirabile nel Crociato. I cavalieri di Rodi entrano preceduti dal marziale e spettrale coro “Vedi il legno”, che i cavalieri in ogni loro scena inspirano, solo che il climax viene meno con la tradizionale aria di Felicia “Pace io reco” e che invece ne esce esaltato e completato dalla cavatina “Queste destre” di Adriano di Monforte, questa non originale della versione veneziana, ma predisposta per Niccolò Tacchinardi a Trieste. E la stessa impressione di un miglioramento drammaturgico o di una rilevante modifica del personaggio si ha con l’ascolto della cabaletta di Adriano “La gloria celeste” in luogo dell’originale “Or dei martiri la palma”. Passiamo da un'immagine di Chiesa e religione meditativa ad una di Chiesa e religione militante e, magari, militare. Forse più consona ai cavalieri di Rodi, a mezza strada fra il consacrato ed il guerriero.
Altro ancora insegna l’ascolto del capolavoro ossia come ad un anno di distanza dalla Semiramide e dopo una militanza in teatri italiani di seconda serie (Padova e Torino) Meyerbeer si lanci in scelte musicali e drammaturgiche, che superano quelle dell’ammirato maestro e costituiscono i numeri originali, che sempre verranno eseguiti in ogni ripresa del Crociato, quasi che la competenza della prima donna escludesse modifiche agli ensemble. Alludo al meraviglioso terzetto, che principia come aria strofica di Felicia “Giovinetto cavaliere” e dove cantano per terze, secondo la tradizione belcantistica, i loro differenti sentimenti non due voci femminili (come ad esempio in Zelmira o in Otello), ma tre o il quartetto (Adriano, Armando, Felicia, Palmide) “Oh cielo clemente”, che all’atto secondo accompagna il battesimo della già convertita Palmide.
Con riferimento a questa scena è facile – seguendo le indicazioni di Antonio Ghislanzoni in veste di critico musicale- sentire i prodromi di un’altra grande scena religiosa di Meyerbeer, ovvero la conversione e matrimonio di Valentina di St. Bris , nei momenti che precedono il tragico epilogo di Ugonotti.
Ma anche i luoghi topici del melodramma rossiniano si colorano nel Crociato di qualche cosa, che sarà il dopo, ovvero il grand-opéra, e penso al grandioso finale primo, costruito secondo le regole del grande finale rossiniano, con tanto di canone “Sogni e ridenti”, ma che al ritmo marziale della banda fa esplodere il contrasto religioso. Elemento nuovo (anche se in Maometto II se ne fa cenno), ma che per ovvi motivi –l’appartenza ad una minoranza di Meyerbeer- costituirà uno dei caposaldi della drammaturgia del maestro berlinese. Come un elemento di assoluta novità è il dettaglio del personaggio di Adriano di Monforte, il Gran Maestro dei cavalieri di Rodi, in equilibrio, fra militare e consacrato composto a strati fra la versione Crivelli, quella Tacchinardi e la definitiva Domenico Donzelli. E’ facile con un simile personaggio presagire il sacerdote laico dell’opera l’Eleazaro di Juive, che il correligionario Halévy, mutuò direttamente dal libro dei Maccabei, quale esempio di fede e religiosità assolutamente tegragona. Credo sia, e non perché ruolo per Domenico Donzelli, il primo caso di personaggio tenorile sfaccettato e musicalmente e drammaturgicamente. Tralasciamo l’estrema difficoltà vocale del ruolo e chiudiamo questo agosto, che abbiamo voluto doverosamente rossiniano, ma al di fuori delle deputate istituzioni e percorsi.
DD & GG


Gli ascolti

Meyerbeer - Il Crociato in Egitto


Prima rappresentazione: Gran Teatro la Fenice, Venezia, 7 marzo 1824

Atto I

Cara mano dell'amore - Martine Dupuy (1990)





Sortita di Adriano: Vedi il legno...Popoli dell'Egitto...Queste destre l'acciaro di morte - Rockwell Blake (1990)

Va': già varcasti, indegno...Non sai quale incanto...Il brando invitto - Rockwell Blake & Martine Dupuy (1990)

Giovinetto cavalier - Caterina Calvi, Denia Mazzola & Martine Dupuy (1990)

Gran Profeta, là dal cielo - Rockwell Blake, Caterina Calvi, Martine Dupuy, Denia Mazzola, Michele Pertusi & Jean Loupien (1990)

Atto II





O Cielo clemente - Martine Dupuy, Rockwell Blake, Denia Mazzola & Caterina Calvi (1990)

Tutto è finito...Suona funerea...L'acciar della fede - Rockwell Blake (1990)

Aria aggiunta per Armando: O tu, divina fè...Ah, come rapida - Martine Dupuy (1990)

Ah, che fate!...Rapito io sento il cor...Verrai meco di Provenza - Michael Maniaci (2007)

Finale alternativo: Ravvisa qual alma - Martine Dupuy & Denia Mazzola (1990)



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giovedì 26 agosto 2010

Mese di agosto XIV - Opera tragica, quarta puntata: Alessandro nell'Indie

“Guai se quest’uomo sapesse la musica! Nessuno potrebbe stargli a paro.” Le ironiche parole di Rossini, la dicono lunga sulla considerazione di cui godeva tra i contemporanei Giovanni Pacini. Per certi versi è emblematica la vita e la carriera del “maestro delle cabalette” (così era soprannominato, in tono a mezza via tra l’elogio e il disprezzo): nato a Catania nel 1796, di poco più giovane di quello che finirà per essere il suo modello e idolo (Gioachino Rossini) e morto a Pescia nel 1867, è il prototipo del buon artigiano, del professionista onesto ed affidabile, di chi, pur privo di talento, ingegno e particolari capacità, fece una carriera in un certo senso “straordinaria” e ricca di soddisfazioni, seppure costantemente all'ombra dei grandi (a cui guardava – non solo lui, invero – quali esempi, pur senza comprenderli appieno). Dimostrazione di come la volontà e il mestiere (unite al privilegio di buoni studi: frequentò, infatti, la scuola di Mattei) possano supplire alla mancanza di genio, Pacini scrisse più di 70 opere teatrali, che tra alterne vicende di fiaschi e trionfi, barcamenandosi tra successi e insuccessi, lo portarono a lavorare nei maggiori teatri europei ed italiani, scrivendo per i massimi cantanti della sua epoca.

Cantanti che spesso preferirono la rassicurante mediocrità di Pacini – sempre disponibile a farsi da parte e a mettere in ultimo piano le proprie velleità artistiche, per esaltare i capricci e l’esibizionismo, spesso vuoto, di divini e divine – al cimento e alle sfide, a volte molto impegnative, cui i vari Rossini, Donizetti e Bellini li costringevano obtorto collo: con l’aggiunta, costoro, di avere caratteri assai meno malleabili e una consapevolezza di sé incommensurabilmente superiore, rispetto al compositore catanese. E’ noto, ad esempio, come la sua Niobe (eseguita per la prima volta a Napoli nel ’26), divenne il più grande successo di Rubini: in particolare la famosa cavatina “Il soave e bel contento” e successiva cabaletta (la cui celebrità va ascritta non solo all’interpretazione del tenore, inizialmente restio a cantare il brano ritenuto ineseguibile da voce umana, ma anche alla freschezza, alla facilità e all’abilità di Pacini nel trovare i toni e la melodia giusta: certamente non geniale, ma sempre efficace). Da Venezia a Milano, a Roma (dove collaborò con Rossini), a Napoli, a Palermo, e poi gli sfortunati tentativi a Vienna e Parigi. I primi grandi successi (L’ultimo giorno di Pompei, Gli Arabi nelle Gallie, Niobe) si scontrarono con l’astro nascente di Donizetti e Bellini, che offuscarono il favore di cui aveva goduto (Carlo di Borgogna nel ’35 ebbe esito disastroso), sino ad un periodo di rinnovato splendore (almeno in Italia, favorito dagli impegni francesi del primo e dal decesso del secondo). Saffo, La fidanzata corsa, Medea, Buondelmonte: poi arrivò Verdi. E la fortuna non gli arrise più come un tempo. Gli ultimi anni segnarono un lento declino e i suoi lavori non sopravvissero all’autore (anzi, molta parte del suo catalogo era premorta da tempo). Carriera lunga, tuttavia, prolifica e produttiva. Carriera di “serie B” comunque: vissuta all’ombra dei grandi (Rossini prima, Donizetti e Bellini poi). Di fondamentale importanza, tuttavia, per farci comprendere il livello di quel sottobosco musicale che era l’opera italiana di consumo nel primo ‘800, in cui il mestiere, la velocità e la quantità contavano assai più della qualità. Analisi necessaria per farci capire maggiormente – nel confronto – ove risiedesse la grandezza dei Grandi (sino a chiedersi come, in tale universo musicale – di qualità spesso men che mediocre – si siano potute elevare figure di così grande spessore come i summenzionati). Nella maggior parte dei tanti titoli che compongono il suo catalogo, non va, però, ricercata troppa fantasia, né grandi valori musicali (il trattamento dell'orchestra è elementare e si limita ad accompagnare il canto, lasciandosi andare, talvolta, a qualche effetto coloristico; la scrittura vocale - seppure felice e fluida - è ispirata ad un rassicurante lassaiz-faire, in modo da lasciar sfogare tutti gli effetti senza causa dei virtuosi chiamati ad interpretare). Del resto Pacini, solo a metà degli anni '30 - costretto dalle circostanze a ripensare la sua attività - approfondì lo studio dei grandi compositori di area austro-tedesca: Mozart, Haydn e Beethoven (inspiegabilmente ritenuti, tuttavia, inferiori al Boccherini). Studio che però non diede grande profitto: Pacini - pur restandone ammirato - non comprendeva appieno la loro grandezza e tendeva a liquidare l'elaborazione e la complessità della costruzione musicale come “artifizi che rivestono poche e semplici melodie”. Opere, si diceva, dalla struttura che pare ripetersi e ricopiarsi, di titolo in titolo, in schemi fissi e convenzioni di poca o nulla originalità: musicalmente banali, scritte per essere dimenticate la sera successiva, senza pretese artistiche. Prodotti commerciali! Ma prodotti che si vendevano assai bene (meglio di tanti veri capolavori, a giudicare dalle cronache dell'epoca). E pure lo stesso autore era ben consapevole di tale circostanza. Interessantissimo è leggere quanto scrive in quello che è, paradossalmente, il suo vero capolavoro, ossia quella ricca, ricchissima fonte di notizie (indispensabile per comprendere il lavoro nella bottega dell'operista, oltre che di piacevolissima lettura) che sono Le mie memorie artistiche, pubblicate a Firenze nel 1865. Scrive Pacini: “Né a dir vero potei mai pienamente raggiungere lo scopo che mi ero prefisso. Ancor fresco d'età, applaudito, accarezzato, festeggiato su tutte le scene italiane e straniere, poco mi dava pensiero di onorare me stesso e l'arte, come io doveva. Le mie tendenze, le quali miravano a dare un carattere di tinta locale ed un far proprio alla composizione, non poterono fin'allora esser portate a compimento se non che parzialmente: come io credo si riscontri in alcuni pezzi della Sacerdotessa d'Irminsul, nell' Ultimo giorno di Pompei, e più specialmente negli Arabi nelle Gallie e nei Fidanzati. Debbo perciò convenire che molto ancora mi rimaneva a fare per conseguire qualche speranza di prolungata fama. In questa mia prima epoca mi si dava il nome di maestro delle cabalette, poiché in generale avevano qualche pregio di spontaneità, di eleganza e di forma, talché si riteneva da tutti che a me e ostasse ben poco il ritrovare un pensiero melodico di qualche novità, essendo ciò, si diceva, parto del genio e non altro. S'ingannavano a partito. Le mie cabalette non scaturivano come acque limpide da purissima fonte, ma erano bensì frutto di qualche meditazione, conciossiacosaché studiava il modo di dare un accento diverso ai metri della poesia onde non cadere in melodie che ricordassero qualche altro pensiero; cosa troppo facile a veriflcarsi, specialmente nella prima battuta... (omissis) ...II mio strumentale non è stato mai abbastanza accurato, e se qualche volta riuscì vago e brillante, non accadde per riflessione, ma bensì per quel naturale gusto che Iddio mi concesse. Trascurai sovente il quartetto degli strumenti ad arco, né mi curai gran fatto degli effetti che ritrar si potevano dalle diverse famiglie degli altri strumenti. Ebbi sempre però in mira la parte vocale più d'ogni altra cosa, e soprattutto cercai d'indagare i mezzi dei singoli esecutori a cui affidava le mie composizioni, onde adattare al loro organo musica confacente, poiché in tal modo avevo più probabilità di riuscita. Credo che, come il bravo sarto sa tagliare ed adattare l'abito all'uomo, nascondendo i difetti di natura, così debba del paro un esperto maestro non trascurare lo studio dei mezzi che possiede l'artista, e soprattutto non deviar mai da quei precetti che l'arte prescrive sulla tessitura dei differenti registri di voce, onde non forzarli in tal modo da renderli istrumenti inservibili dopo pochissimo tempo. Ciò è un errore imperdonabile, di danno all'arte ed all'esercente. L'amore per l'arte che ho debolmente professata e che professo, non mi ha lasciato mai uà po'di tregua. Invidiava nobilmente i miei rivali, e gli ammirava.” Grande umanità, consapevolezza di pregi e limiti e, soprattutto, onestà! Fatta questa lunga, ma necessaria premessa (prima che gli esegeti dell'odierno pensiero debole, vadano a scovare capolavori dove non ve ne sia traccia), appare opportuno - per tutti i motivi suddetti - proporre uno dei numerosi titoli composti dal buon Pacini. La scelta è caduta sull'Alessandro nell'Indie, non per particolare valore, né eccellenza, ma per semplicemente motivi contingenti (ne è appena comparsa una buona edizione discografica) e perché esemplificativo di quella buona routine che, nei teatri della prima metà dell'800, si alternava ai riconosciuti capolavori di Rossini (e poi di Donizetti e Bellini). Rappresentata per la prima volta al San Carlo di Napoli il 29 settembre del 1824, alla presenza di Sua Maestà, sfoggiava una compagnia di canto al solito d'eccellenza (com'era costume nel teatro partenopeo): la Tosi, la Liparini, Nozzari, Moncada. Ottenne grande successo e fu, almeno fino al 1847 (quando venne scalzato dai Lombardi verdiani), lo spettacolo più replicato al San Carlo (ben 38 rappresentazioni nella stagione 1824/25). L'opera, su libretto di Tottola e Schmidt, recupera un vecchio melodramma di Metastasio (già messo in musica da Vinci, Hasse, Jommelli, Galuppi, Traetta, Anfossi, Cherubini, Cimarosa, Paisiello, Sacchini, Galuppi, Piccinni, J. C. Bach) e riproduce ordinatamente tutte le convenzioni dell'epoca: le forme consuete del primo melodramma ottocentesco, con la rigida suddivisione in numeri, le arie con cabaletta, le strette nei finali etc... L'ascolto rivela i tanti debiti con Rossini, ed evidentemente si dimostra musica che può sopravvivere solo in virtù di interpreti eccezionali. Tuttavia è costruzione molto gradevole. I brani solisti di Alessandro si fanno ammirare per la complessa scrittura belcantista: più che la cavatina “Su le palme, su gli allori” - abbastanza anonima nel suo incedere secondo gli schemi tradizionali (coro introduttivo/cantabile/cabaletta) - è degna di menzione la grande scena dell'atto II “Oggetto sì adorabile” , più ampia e ricca, sin dall'iniziale scambio con Cleofide e Gandarte, in forma di robusto recitativo accompagnato, non privo di taluni pregi: in particolare la scolpitura della frase e la dimensione tragica; ad esso fa seguito la sezione cantabile (molto fiorita) di scrittura centralizzata, ma con frequenti affondi nella parte più basse della tessitura baritenorile; conclude l'immancabile cabaletta con coro, improntata ad un deciso virtuosismo . Altrettanto spettacolari quelli per la Tosi, tra cui primeggia la grande aria che precede il finale dell'opera, “Del caro mio consorte”, e che è forse il brano più interessante dell'opera (oltre ad essere quello di più ampia estensione): dopo il drammatico recitativo introduttivo, l'aria presenta un cantabile suddiviso in due sezioni (la prima di slancio virtuosistico, quasi un'aria di furore di metastasiana memoria; la seconda più elegiaca, introdotta da un suggestivo obbligato di violoncello), a cui segue, dopo una breve parentesi corale, la consueta e spumeggiante cabaletta iper-virtuosistica. I duetti si somigliano un po' tutti, ma l'invenzione melodica è piacevole. Le cabalette guizzano sempre con facilità e leggerezza. I finali d'atto, pur nell'andamento stereotipato (scena di recitativo e concertato in due sezioni con stretta conclusiva), sono costruiti in modo assai efficace. E' una macchina che funziona, insomma, a patto di saperla ben pilotare.

Gli ascolti

Pacini - Alessandro nell'Indie


Prima rappresentazione: Teatro San Carlo di Napoli, 29 settembre 1824

Atto I

Più tollerar non posso...Se cangiar potessi in seno - Laura Claycomb & Jennifer Larmore (2006)

Su le palme, su gli allori...Omai sia tregua all'armi...Perché fra tanti affetti - Bruce Ford (2006)

Atto II

Oggetto sì adorabile - Bruce Ford (2006)

Chi sperava, o Gandarte...Che mi giovò sull'are...Del caro mio consorte...Mio ben, mio tesoro - Laura Claycomb (2006)

Dagli astri discendi...Risolver non so...Su l'armi e su gli affetti - Bruce Ford, Laura Claycomb & Jennifer Larmore (2006)

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venerdì 20 agosto 2010

Mese di agosto XI - Opera tragica, terza puntata: Medea in Corinto

Giovanni Simone Mayr, conosciuto tutt’al più per essere stato il maestro di Donizetti (che nel 1806 ebbe i suoi primi rudimenti musicali proprio grazie alle Lezioni Caritatevoli che il compositore tedesco aveva istituito a Bergamo), fu in realtà autore molto fecondo e, per un certo periodo, conobbe fama, successi e onori. Nato in Baviera nel 1763, ricevette la propria istruzione musicale dal padre, perfezionandosi in breve tempo nello studio della viola di cui divenne riconosciuto virtuoso. Si trasferì presto in Italia (prima a Venezia e poi a Bergamo), dove si svolse la sua parabola artistica. Le sue spoglie riposano nella cattedrale della sua città d’adozione, accanto a quelle dell’allievo prediletto. Uomo di cultura (studiò diritto canonico e teologia all’università di Ingolstadt) e con la passione per la didattica, scrisse quasi 70 opere nell’arco di un trentennio – fino al 1824, quando i disturbi alla vista (che lo portarono alla quasi totale cecità) lo costrinsero a ritirarsi dal teatro – a cui vanno aggiunte almeno 60 sinfonie, 12 oratori (la maggior parte risalente al periodo veneziano) e poi cantate, messe, mottetti, inni, sonate, concerti, balletti, musica da camera, lieder e canzoni.

Scrisse anche un gran numero di testi teorici (ad uso dei suoi allievi). Oggi la quasi totalità del suo vasta catalogo è dimenticata, eppure i suoi lavori furono premiati da generosi successi in Italia e in Europa, e da continue riprese, almeno sino alla metà del secolo. Mayr è figlio della grande cultura musicale europea, che bene aveva appreso la lezione di Haydn, Mozart e Beethoven: fu tra i primi a diffondere in Italia la conoscenza e lo studio dei grandi maestri austriaci e tedeschi (diresse, tra l’altro, la prima esecuzione italiana della Creazione, proprio a Bergamo nel 1809). E già come Cimarosa (i cui Orazi e Curiazi hanno aperto questo nostro breve excursus nell’opera italiana tra Rossini e Donizetti) appare come una specie di estraneo nel panorama musicale della penisola, ancora impantanato nelle formule ormai svuotate dell’Opera Seria. Ogni volta che viene riscoperto un titolo del suo catalogo, infatti, si resta sorpresi per l’abilità della scrittura musicale, che unisce all’eccellenza tecnica (nella costruzione sinfonica dell’ordito orchestrale, con ampie e spettacolari concessioni ad inserti concertanti), la padronanza delle forme e la robustezza dell’ispirazione. Mayr riesce a fondere mirabilmente le conquiste della cosiddetta riforma gluckiana (nei suoi più elaborati sviluppi “francesi”: in particolare Cherubini) da cui gli deriva l’afflato tragico e la tensione drammatica, con le più complesse costruzioni musicali di Haydn e Mozart, lasciando intravedere – pur solo sullo sfondo – l’imminente esplosione romantica (che segnerà in modo più compiuto la generazione successiva: quella del melodramma donizettiano e belliniano) di cui anticipa linguaggi e suggestioni.
Scrisse quasi 70 opere – si diceva – e tra i tanti titoli, particolare attenzione merita quello che è riconosciuto essere il suo capolavoro: Medea in Corinto. Scritta “alla maniera francese”, per soddisfare i gusti della corte di Giacchino Murat, per la celebrata ugola di Isabella Colbran (la futura Signora Rossini), fu rappresentata per la prima volta il 28 novembre 1813, al San Carlo di Napoli. Fu un trionfo. Accanto alla Medea della Colbran, Andrea Nozzari e Manuel Garcia si spartivano i difficilissimi panni tenorili di Giasone ed Egeo, Michele Benedetti (creatore di numerosi ruoli rossiniani: Elmiro, Idraote, Mosé, Ircano, Fenicio, Douglas, Leucippo) interpretò Creonte, Teresa Luigia Pontiggia fu Creusa e nel ruolo minore di Tideo si esibì Domenico Donzelli (una curiosità: tra le comparse – quale figlia di Medea – apparve per la prima volta sul palcoscenico di un teatro la figlia di Garcia, che, nel giro di qualche anno, sarà universalmente conosciuta come Maria Malibran). Fin da subito la stampa, i critici e il pubblico si resero conto di essere di fronte ad uno dei lavori più importanti dell’epoca. L’opera, subito ripresa l’anno successivo, iniziò presto a girare i maggiori teatri italiani ed europei: nel 1821 a Dresda, nel 1823 a Milano e a Parigi dove si “appropriò” del ruolo di Medea, Giuditta Pasta, che poi portò l’opera a Londra (nel 1826, 1827, 1828, 1831, 1833 e 1837), a Napoli e ancora a Parigi (1826) e a Milano (1829). Fino al 1850 a Londra – interpretata da Teresa Parodi (allieva della Pasta) – nella sua ultima apparizione nel secolo XIX. I maggiori cantanti dell’epoca interpretarono l’opera nelle sue tante riprese: Elisabetta Ferron, Fanny Ayton, Carolina Hunger, Domenico Donzelli, Giambattista Rubini, Gilbert Duprez, Vincenzo Galli, Luigi Lablache...

Lo stesso Mayr apportò alcune modifiche per la ripresa del ’23 per meglio adattare il testo alle esigenze dei nuovi interpreti: in particolare accanto a modifiche minori e ad un duetto ripreso da un lavoro precedente, dotò Giasone di una nuova e spettacolare cavatina (di dubbia paternità però, giacché identica – o quasi – ad un brano della coeva Zoraida di Granata: per cui non si riesce a stabilire se questo fosse di mano donizettiana o se quello che compare nell’opera di Donizetti fosse stato in realtà scritto da Mayr) e aggiunse un’impervia cabaletta per Egeo.
Vista da vicino l’opera rappresenta il meglio dello stile di Mayr. La complessità sinfonica è evidente sin dall’overture e dalla ricca ed elaborata introduzione; i numeri si fondono l’uno con l’altro senza cesure e interruzioni, grazie all’uso sapiente dei recitativi accompagnati e dei cantabili che collegano i brani solistici e i pezzi d’insieme. L’uso del coro rivela la familiarità dell’autore con il genere oratoriale, mentre le ricche introduzioni alle arie, sono veri e propri dialoghi tra voce e strumento obbligato. La scrittura vocale è sì fiorita e virtuosistica, ma mai in modo meccanico o fine a sé stesso (l’uso della coloratura richiama quello del Mozart delle grandi arie da concerto) e le pur spettacolari difficoltà appaiono finalizzate all’espressione di drammaticità e tragedia, più che al mero esibizionismo vocale. Di grande spessore drammatico le arie della protagonista, in particolare la scena delle ombre nell’atto II, ma in generale tutti i suoi brani solistici mostrano una superba concezione musicale, incentrata sulla severità e la tragicità dell'accento: dall'aria di sortita con il violino obbligato a quella finale (di cui sono state tramandate due versioni con differenti gradi di coloratura e diversi strumenti solisti: corno inlgese e violino). Più smaccatamente virtuosistici i brani per i due tenori e e per Creusa (in particolare l'episodio che apre l'atto II con la suggestiva arpa obligata e l'elaboratissima scrittura fiorita). Ciò che colpisce, dopo l'ascolto, è la cura del minimo dettaglio e la coerenza compositiva, l'ampio respiro dell'invenzione musicale: il tutto denota una consapevolezza superiore, decisamente superiore, alla stragrande maggioranza della musica coeva, tanto che per raggiungere la stessa eccellenza bisognerà attendere il miglior Rossini napoletano. Opera dunque che presenta molteplici punti di interesse, ma che sconta delle difficoltà oggi quasi insormontabili per una sua compiuta riscoperta: richiede una protagonista che possa padroneggiare il canto declamato e tragico (di ascendenza cherubiniana), due tenori capaci di affrontare ruoli monstre per difficoltà ed esigenze, una seconda donna dalla coloratura sicurissima, un'orchestra che sappia suonare davvero (abituata a Mozart e Haydn, non come certi complessi più o meno festivalieri che paiono ensemble semi dilettantesche e si limitano ad eseguire - spesso maluccio - le mere note) e un direttore d'orchestra capace di non ingarbugliarsi negli intrecci dell'orchestrazione (non un mero accompagnatore di primedonne...destinato, nel caso di Mayr, a soccombere). In gran parte insoddisfacenti i più recenti tentativi di riesumazione (con la sola eccezione della bella incisione Opera Rara): sia i più risalenti nel tempo (1969 e 1977) che paiono costruite solo sulla protagonista (rispettivamente la Galvany e la Gencer) ma che attorno ad essa sfoggiano il nulla (con punte di imbarazzo per i tenori e la direzione d'orchestra), oltre ad essere funestate da tagli sconsiderati; sia l'ultima uscita cronologicamente, registrata dal vivo nel 2009 in Svizzera e basata sulla nuova edizione critica dell'opera (di cui viene scelta la versione del manoscritto del '21, assai più comoda per gli interpreti, e che contempla numerosi raggiusti e tagli d'autore, per adattarla alle più modeste capacità della compagnia milanese). Una nuova produzione di Medea verrà presentata a Monaco, nell'ottobre di quest'anno, con la direzione di Ivor Bolton (onesto kappelmeister del Mozarteum di Salisburgo di ascendenza baroccara, non molto dotato di fantasia, ma in grado, si spera, di non ridurre l'accompagnamento ad una bandaccia), la rediviva Iano Tamar nel title-role, Ramon Vargas nei difficili panni di Giasone (confermandosi ancora tenore in cerca d'autore), nonchè l'immancabile regia alla tedesca: in questo caso il pernicioso Neuenfels.

Gli ascolti

Giovanni Simone Mayr

Medea in Corinto


Melodramma tragico in due atti

Libretto di Felice Romani

Prima rappresentazione: 28 Novembre 1813, Teatro San Carlo di Napoli



Atto I

Come! sen riede...Sommi Dei - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

Cedi al destin Medea - Allen Cathcart & Marisa Galvany (1970), William Johns & Leyla Gencer(1977)

Dolce figliuol d'Urania...Scendi Imene...Vanne a terra - Marisa Galvany, Allen Cathcart, Joan Patenaude, Robert White & Thomas Palmer (1970), Leyla Gencer, William Johns, Cecilia Fusco, Ginfranco Pastine & Gianfranco Casarini (1977)

Atto II

Dove mi guidi?...Ogni piacer è spento...Antica notte - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer(1977)

Ma qual fioco rumor...Se il sangue, la vita - Marisa Galvany & Robert White (1970), Leyla Gencer & Gianfranco Pastine (1977)

Ismene, o cara Ismene...Miseri pargoletti...Era tua sposa - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

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sabato 14 agosto 2010

Mese di agosto VII - Opera tragica, seconda puntata: Achille di Paer

Quando nel dicembre del 1816 l’Achille di Ferdinando Paer (su libretto del tenente Giovanni de Gamerra) venne ripreso alla Scala, l’opera piacque poco. In particolare si rimproverò al protagonista di non essere all’altezza del primo interprete, il tenore Antonio Brizzi, che aveva creato l’opera a Vienna, al Teatro di Porta Carinzia il 6 giugno 1801 e l'aveva ripresa, in seguito, a Dresda nel 1806.
Siccome il protagonista ambrosiano era nientemeno che Domenico Donzelli, viene da chiedersi che razza di “monstrum” vocale fosse Brizzi.

Una cronaca del tempo così lo descrive: “La sua voce è più da robusto baritono, ma possiede nondimeno un’estensione eccezionale”. In effetti da alcuni critici il cantante viene classificato come baritono senz’altro. È plausibile che l’eccezionale estensione fosse raggiunta e mantenuta con un accorto uso del falsettone, procedimento oggi ritenuto sconveniente e sorpassato. Il che forse spiega perché sia così difficile allestire titoli, come l’Achille (ma anche gran parte dei drammi seri di Rossini), che prevedano l’impiego di una voce di baritenore. Vedasi in proposito la recentissima cronaca pesarese!
Alcune fonti riportano, fra i nomi degli esecutori alla prima viennese, quello dell’evirato Girolamo Crescentini. La circostanza pare dubbia, dato che l’organico dell’opera non prevede parti di musico (e non risulta che la parte di Patroclo, la cui caratterizzazione più delle altre si presterebbe alla bisogna, abbia subito rielaborazioni in tal senso). È ipotizzabile che a Crescentini fosse affidato il ruolo della protagonista femminile, Briseide, nell’impossibilità di assegnare a un cantante così illustre la parte della seconda donna, Ippodamia, grande Sacerdotessa di Pallade. La presenza del castrato in un ruolo muliebre non sarebbe a ogni modo contraria all’estetica del melodramma eroico e confermerebbe, per chi avesse dubbi in proposito, la perfetta sostituibilità delle voci femminili con quelle dei castrati e viceversa. Nella ripresa di Dresda, la parte di Briseide fu sostenuta da Francesca Riccardi, moglie del compositore e futura creatrice, in Ferrara, di Amenaide nella seconda versione del Tancredi rossiniano.
Sempre nelle cronache scaligere si descrive il melodramma di Paer come una di quelle opere che “non camminano” senza il loro creatore. È ben vero che, in difetto di un grande protagonista, Achille rischia di risultare un’opera zoppa, ma la musica ha nondimeno alcuni momenti di grande interesse, fin dalla sinfonia, che descrive il sorgere del sole sull’accampamento greco e che il compositore collega direttamente all’introduzione, affidata al coro maschile e ad Achille. In questa sortita e nella successiva aria bipartita (e in nuce già rossiniana) “Languirò vicino a quelle”, il Pelide deve sfoggiare non solo grande sicurezza nella coloratura (che insiste spesso nella zona del secondo passaggio) e acuti svettanti (malgrado la tessitura piuttosto bassa), ma anche la capacità di mutare il colore della voce a seconda che l’eroe evochi l’amata Briseide o gli allori bellici che gli consentiranno di conquistarla definitivamente.
Segue a questo autentico tour de force del protagonista la cavatina di Patroclo, “Quel foco tenero”, che è in effetti un’arietta col da capo piuttosto tradizionale ma assai gradevole, seppure scandita da fioriture più adeguate a un azzimato cicisbeo che a un valoroso guerriero. L’amico e confidente di Achille ha in quest’opera voce di basso, ma nella partitura che si trova al Conservatorio di Napoli questo brano è trasposto quattro toni sopra. Appare ragionevole credere che, in qualche occasione, il ruolo sia stato sostenuto da un tenore, ma in questo caso altri rimaneggiamenti avranno certo interessato la parte del protagonista, in modo tale da mantenere la differenza timbrica fra i due guerrieri, differenza prevista dall’autore e sfruttata ad esempio nel duettino al secondo atto, “Giusti Numi, ah sostenete”, in cui le voci procedono ora per terze, ora a canone.
La parte di Briseide è più in ombra non solo rispetto alla coppia Achille/Patroclo, ma all’antagonista, Agamennone, altra voce di basso nobile cui il compositore assegna un’elaborata aria (purtroppo non entusiasmante sotto il profilo qualitativo) all’inizio del secondo atto. La figlia di Briseo, Re di Lirnesso, ha il suo grande momento poco prima del finale dell’opera, con una grandiosa scena “di catene” cui partecipano Ippodamia e il Coro femminile. La parte richiama per alcuni aspetti quella di Achille, in primo luogo per la scrittura tendenzialmente centrale, cui si unisce la necessità di un vigoroso registro acuto (fino al do5). Decisivi risultano il controllo e la qualità del legato, specie nella sezione lenta centrale. Di passaggio ricordiamo che, nel Tancredi ferrarese, la Riccardi chiese e ottenne una nuova aria del carcere per Amenaide, molto più brillante e “d’effetto” rispetto all’originaria cavatina “No, che il morir non è”. Non è azzardato presumere che analoghi rimaneggiamenti abbiano interessato questa scena, nelle produzioni in cui Briseide venne affidata all’ugola della signora Paer.
Rimane da dire dei finali, che sono forse le pagine più impressionanti della partitura. Il primo consiste di un quartetto con coro (accanto ad Achille, Agamennone e Briseide interviene il secondo basso, Briseo) che non ha nulla da invidiare ai grandi concertati del giovane Rossini (penso soprattutto al finale primo di Tancredi e, in altro genere, agli ensemble della Pietra di paragone e del Turco in Italia), mentre il secondo prevede dapprima un recitativo accompagnato di Achille, che assiste al compiersi della battaglia fuori scena, quindi un duetto fra lo stesso e Briseide, una Marcia funebre per Patroclo (che avrebbe ispirato a Beethoven quella inserita nel secondo movimento della Terza sinfonia), infine un duetto fra Briseide e Agamennone, che si muta in terzetto all’ingresso di Achille e in quartetto con la comparsa del gran Sacerdote di Apollo, che riporta l’esito di un oracolo: gli Dei ingiungono all’eroe di restituire la fanciulla al padre. In totale, quasi mezz’ora di musica che il compositore regge senza ricorrere a recitativi secchi e costruendo una struttura, che coniuga il massimo di libertà formale e la più rigorosa aderenza alle esigenze del libretto. In questo, più ancora che nella raffinata orchestrazione, e malgrado il trattamento sfrenatamente virtuosistico e profondamente “italiano” delle voci, si può rintracciare l'influenza diretta della riforma gluckiana, ancora ben presente alla memoria del pubblico viennese agli inizi del XIX secolo.
Da segnalare infine che nelle riprese di Parigi (1808) e Napoli il titolo acquistò un finale lieto (Achille rifiuta di rinunciare a Briseide e guida i Greci alla vittoria su Ettore) e, quel che più conta, una nuova aria conclusiva per il protagonista, “Tergi l’amaro pianto”.


Gli ascolti

Paer - Achille


Atto I

Speme, fermezza e gloria - Iorio Zennaro (1989)

Languirò vicino a quelle - Iorio Zennaro (1989)

Quel foco tenero - Alfonso Antoniozzi (1989)

Le ostili spoglie - Paolo Gavanelli, Iorio Zennaro, Giusy Devinu & Carlo De Bortoli (1989)

Atto II

Non ostinarti allora - Paolo Gavanelli & Giusy Devinu (1989)

Giusti Numi, ah sostenete - Iorio Zennaro & Alfonso Antoniozzi (1989)

Frena le lagrime - Giusy Devinu (con Valeria Esposito - 1989)

Fra quanti vari affetti...Di chi fedel t'adora...Ecco il suo busto esangue...Serena, o cara...Achille, ascoltami - Iorio Zennaro, Giusy Devinu, Paolo Gavanelli & Alfonso Marchica (1989)

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martedì 3 agosto 2010

Mese di agosto I - Opera tragica, prima puntata: Gli Orazi e i Curiazi

Gli Orazi e i Curiazi, che ebbero la loro prima rappresentazione al teatro La Fenice di Venezia il 26 dicembre 1796 devono fama e sopravvivenza forse non solo alla qualità - altissima - della musica, ma all’amore che grandi cantanti ebbero per la coppia Orazia e Curiazio degli infelici amanti, politicamente opposti come Romeo e Giulietta.

L’amoroso, sopranista, venne creato da Girolamo Crescentini (1762-1846), Orazia, invece, da Giuseppina Grassini (1773-1850); entrambi portarono, poi, il melodramma nella Parigi napoleonica. Nessun altro titolo e nessun altro argomento erano più in sintonia con il neoclassicismo napoleonico. Inoltre nella capitale francese il melodramma beneficiò della sostituzione delle arie originali cimarosiane di Orazia con altre composte da Marco Portogallo (1762-1830). Altri motivi di fama accompagnano l’opera: ad esempio la grande aria di Curiazio “Quelle pupille tenere”, (atto primo scena quinta) che rimaneggiata nei tempi e nella struttura divenne il motivo di interesse per il ruolo da parte di altro sopranista Giovann Battista Velluti (1760-1841), interprete, fra l’altro a Napoli nel 1806-’07, mentre Orazia rimase uno dei “ruoli” della Grassini che con lo stesso 1817 diede l’addio alla Scala ed alle scene, prima che un’altra grande tragedienne, sua allieva, Giuditta Pasta lo cantasse spessissimo nella prima fase della carriera.
Per fortuna di Cimarosa e nostra, credo la circostanza sia ignota alla attuale reincarnazione di Giuditta Pasta.
Se ciò non bastasse l’opera seria che si prova nel dramma di Gnecco (anno 1811) sono proprio gli Orazi e Curiazi e tacciamo dei peana che Stendhal spese per questo melodramma, per lui il paradigma e più alta realizzazione dell’opera seria italiana.
Che cosa trova e ascolta oggi chi si avventura negli Orazi e Curiazi?
In primo luogo, come insegna Stendhal, lo stile italiano dalla melodia semplice ed ispirata che imperò sino al Tancredi di Rossini, poi, votato all’armonia ed alla costruzione melodica d’Oltralpe.
Modello assoluto l’aria di Curiazio, le famose pupille tenere, ma anche le originali cimarosiane di Orazia “Nacqui è ver fra grandi eroi" (atto primo) e “Se pietà nel cor serbate” (atto secondo, scena ottava). Per capire come venisse vissuta e intesa l’arte di Giuseppina Grassini si può richiamare la recensione pubblicata sul Corriere delle dame all’indomani dell’ interpretazione di Orazia che così giudica la prestazione. “La scienza logica della vera musica essa la fa consistere non già nell’impeto esagerato di svolgere i tuoni, ma nella dolce e compassata energia, che sostiene la musica senza sforzo e senza esagerazione. Essa a quando a quando ci rese accorti che sa sorprendere l’orecchio coi ricami di bravura, ma sempre si ricompose nei confini dell’ingenua arte del canto italiano”.
E poi trova lo stile tragico riservato soprattutto ad Orazia ed ai grandi recitativi. Alla protagonista femminile spetta il finale ossia l’invettiva contro Roma e gli dei, per altro dopo una sezione di duetto con il fratello “Svenami ormai crudele” tragica e nobile al tempo stesso. In questo senso la matrona romana supera i personaggi drammatici di Traetta come Antigone ed Ifigenia ed anche la Vitellia mozartiana, costituisce Orazia l’indiscusso modello drammatico e vocale delle grandi tragiche del belcanto, che conosceranno l’apice con Isabella Colbran. Certo alla tragedienne del belcanto è fatto obbligo di essere vocalmente una grande virtuosa si chè alla Grassini, non bastando quanto composto da Cimarosa, provvide all’integrazione doviziosamente Marco Portogallo. Con una tale dovizia che Anna Caterina Antonacci, Orazia nell’edizione romana del 1989, che riproponeva i numeri di Portogallo, è ben inferiore al compito. Offriamo, però, l’esecuzione e per esemplificare quella che nel canto di agilità potesse essere l’arte di Giuseppina Grassini e per il confronto fra arie originali ed alternative.
Quanto, poi, ad un altro topos del melodramma ante Rossini ossia le elaborate strutture musicali, che superino l’aria tripartita, il momento più alto è realizzato nel finale secondo, affidato al giovane Curiazio, che lacerato fra amore per Orazia ed amore di patria, scende in un oscuro anfratto a consultare gli oracoli incontrandovi e scontrandosi con gli altri protagonisti. L’ascendenza con le scene dei travesti di Handel incatenati e languenti (Bertarido di Rodelinda, ad esempio) è evidente, ma ancor più chiaro che Curiazio precede, nel vagabondare dell’anima, Arsace di Aureliano, Tancredi e anche Arsace di Semiramide, oppresso da edipiche rivelazioni. Quello che accomuna in questi melodrammi il musico è, sotto il profilo drammaturgico, il contrasto che vive, esplicitato in musica dapprima con melodie lunghe e lamentose (“A versar l’amato sangue” piuttosto che “In sì barbara sciagura”) e poi, una volta assunta l’eroica decisione in perigliosi passi acrobatici. Sarebbe molto interessante sapere quali fossero gli abbellimenti di Crescentini o Velluti in una scrittura di suo già piuttosto minuta.
Ai guerrieri sono poi riservati i momenti epici e marziali, quelli che più nella nostra immaginazione evocano scultura e pittura neoclassica. Al registro centrale ampio e probabilmente brunito di Marco Orazio è affidata la grande aria “Se alla patria ancora donai” all’atto primo scene settima ed ottava per la quasi è tautologico parlare di evidenti anticipazioni dell’aria di Argirio. La struttura dell’aria recitativo, aria (in tempo andante) e cabaletta con intervento e dialogo del coro è una delle prime applicazioni di un modello che imperverserà nell’opera italiana sino al 1850.
Il titolo più famoso del giovane Rossini deve essere chiamato in causa per i due grandi duetti: quello di sfida fra Orazio e Curiazio, che chiude il primo atto è costituito, come tutti i grandi duetti del melodramma ottocentesco, da tre sezioni di cui prima e terza in tempo veloce e la centrale in tempo lento, formula questa che proprio in Tancredi apparirà semplificata in due sole sezioni; la mozione degli affetti, invece, spetta al duetto del secondo atto fra gli innamorati, di struttura più semplice, ossia un primo movimento “Se torni vincitor” e la chiusa in sticomitia fra le due voci come avverrà per la stretta dell’ultimo grande duetto rossiniano, ossia il “Tu serena intanto il ciglio” della Semiramide.
Preciso: gli Orazi e i Curiazi sono del 1796, Semiramide del 1823. Le date non servono per nozionistica erudizione, ma per confermare – credo - le ragioni dell’ammirazione che Stendhal aveva per questo, oggi obliato, titolo e le ragioni di una permanenza quasi quarantennale in repertorio in pieno “ciclone” Rossini.


Gli ascolti

Domenico Cimarosa

Gli Orazi e i Curiazi


Tragedia per musica in tre atti

Libretto di Antonio Simeone Sografi

Prima esecuzione : 26 Dicembre 1796, Teatro La Fenice di Venezia


Atto I

Germe d'illustri eroi...Oh, dolce e caro istante - Gianna Rolandi, Anna Caterina Antonacci & Franco Farina (1989)

Quelle pupille tenere - Daniela Dessì (1983), Gianna Rolandi (1989)

Non dubitar...Se alla patria ognor donai - Mario Bolognesi (1983), Franco Farina (1989)

Lascia almen ch'io riprenda...Nacqui è ver fra grandi eroi - Katia Angeloni (1983)

Aria alternativa di Marcos Antonio Portugal (1798):
Lascia almen ch'io riprenda...Frenar vorrei le lagrime - Anna Caterina Antonacci (1989)

Quando nel campo armata - Daniela Dessì & Mario Bolognesi (1983)

Atto II

Lasciami per pietà...Se torni vincitor - Gianna Rolandi & Anna Caterina Antonacci (1989)

Se pietà nel cor serbate - Katia Angeloni (1983)

Aria alternativa di Marcos Antonio Portugal (1798):
Ah sì, succeda...Ah, pietà del pianto mio - Anna Caterina Antonacci (1989)

Eccoti, Orazio alfine...Dolce fiamma di gloria, d'onore - Franco Farina (1989)

Qual densa notte...Ei stesso intrepido...A versar l'amato sangue...Dunque al campo - Daniela Dessì (con Katia Angeloni, Mario Bolognesi, Giuseppe Fallisi, Tai Li Chu-Pozzi - 1983), Gianna Rolandi (con Anna Caterina Antonacci, Franco Farina, Edoardo Guanera, Patrizia Dordi, Yoko Hadama - 1989)

Giusti Dei! - Katia Angeloni (1983)

Dov'è lo sposo mio?...Svenami ormai, crudele - Katia Angeloni & Mario Bolognesi (1983), Anna Caterina Antonacci & Franco Farina (1989)

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