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giovedì 26 agosto 2010

Mese di agosto XIV - Opera tragica, quarta puntata: Alessandro nell'Indie

“Guai se quest’uomo sapesse la musica! Nessuno potrebbe stargli a paro.” Le ironiche parole di Rossini, la dicono lunga sulla considerazione di cui godeva tra i contemporanei Giovanni Pacini. Per certi versi è emblematica la vita e la carriera del “maestro delle cabalette” (così era soprannominato, in tono a mezza via tra l’elogio e il disprezzo): nato a Catania nel 1796, di poco più giovane di quello che finirà per essere il suo modello e idolo (Gioachino Rossini) e morto a Pescia nel 1867, è il prototipo del buon artigiano, del professionista onesto ed affidabile, di chi, pur privo di talento, ingegno e particolari capacità, fece una carriera in un certo senso “straordinaria” e ricca di soddisfazioni, seppure costantemente all'ombra dei grandi (a cui guardava – non solo lui, invero – quali esempi, pur senza comprenderli appieno). Dimostrazione di come la volontà e il mestiere (unite al privilegio di buoni studi: frequentò, infatti, la scuola di Mattei) possano supplire alla mancanza di genio, Pacini scrisse più di 70 opere teatrali, che tra alterne vicende di fiaschi e trionfi, barcamenandosi tra successi e insuccessi, lo portarono a lavorare nei maggiori teatri europei ed italiani, scrivendo per i massimi cantanti della sua epoca.

Cantanti che spesso preferirono la rassicurante mediocrità di Pacini – sempre disponibile a farsi da parte e a mettere in ultimo piano le proprie velleità artistiche, per esaltare i capricci e l’esibizionismo, spesso vuoto, di divini e divine – al cimento e alle sfide, a volte molto impegnative, cui i vari Rossini, Donizetti e Bellini li costringevano obtorto collo: con l’aggiunta, costoro, di avere caratteri assai meno malleabili e una consapevolezza di sé incommensurabilmente superiore, rispetto al compositore catanese. E’ noto, ad esempio, come la sua Niobe (eseguita per la prima volta a Napoli nel ’26), divenne il più grande successo di Rubini: in particolare la famosa cavatina “Il soave e bel contento” e successiva cabaletta (la cui celebrità va ascritta non solo all’interpretazione del tenore, inizialmente restio a cantare il brano ritenuto ineseguibile da voce umana, ma anche alla freschezza, alla facilità e all’abilità di Pacini nel trovare i toni e la melodia giusta: certamente non geniale, ma sempre efficace). Da Venezia a Milano, a Roma (dove collaborò con Rossini), a Napoli, a Palermo, e poi gli sfortunati tentativi a Vienna e Parigi. I primi grandi successi (L’ultimo giorno di Pompei, Gli Arabi nelle Gallie, Niobe) si scontrarono con l’astro nascente di Donizetti e Bellini, che offuscarono il favore di cui aveva goduto (Carlo di Borgogna nel ’35 ebbe esito disastroso), sino ad un periodo di rinnovato splendore (almeno in Italia, favorito dagli impegni francesi del primo e dal decesso del secondo). Saffo, La fidanzata corsa, Medea, Buondelmonte: poi arrivò Verdi. E la fortuna non gli arrise più come un tempo. Gli ultimi anni segnarono un lento declino e i suoi lavori non sopravvissero all’autore (anzi, molta parte del suo catalogo era premorta da tempo). Carriera lunga, tuttavia, prolifica e produttiva. Carriera di “serie B” comunque: vissuta all’ombra dei grandi (Rossini prima, Donizetti e Bellini poi). Di fondamentale importanza, tuttavia, per farci comprendere il livello di quel sottobosco musicale che era l’opera italiana di consumo nel primo ‘800, in cui il mestiere, la velocità e la quantità contavano assai più della qualità. Analisi necessaria per farci capire maggiormente – nel confronto – ove risiedesse la grandezza dei Grandi (sino a chiedersi come, in tale universo musicale – di qualità spesso men che mediocre – si siano potute elevare figure di così grande spessore come i summenzionati). Nella maggior parte dei tanti titoli che compongono il suo catalogo, non va, però, ricercata troppa fantasia, né grandi valori musicali (il trattamento dell'orchestra è elementare e si limita ad accompagnare il canto, lasciandosi andare, talvolta, a qualche effetto coloristico; la scrittura vocale - seppure felice e fluida - è ispirata ad un rassicurante lassaiz-faire, in modo da lasciar sfogare tutti gli effetti senza causa dei virtuosi chiamati ad interpretare). Del resto Pacini, solo a metà degli anni '30 - costretto dalle circostanze a ripensare la sua attività - approfondì lo studio dei grandi compositori di area austro-tedesca: Mozart, Haydn e Beethoven (inspiegabilmente ritenuti, tuttavia, inferiori al Boccherini). Studio che però non diede grande profitto: Pacini - pur restandone ammirato - non comprendeva appieno la loro grandezza e tendeva a liquidare l'elaborazione e la complessità della costruzione musicale come “artifizi che rivestono poche e semplici melodie”. Opere, si diceva, dalla struttura che pare ripetersi e ricopiarsi, di titolo in titolo, in schemi fissi e convenzioni di poca o nulla originalità: musicalmente banali, scritte per essere dimenticate la sera successiva, senza pretese artistiche. Prodotti commerciali! Ma prodotti che si vendevano assai bene (meglio di tanti veri capolavori, a giudicare dalle cronache dell'epoca). E pure lo stesso autore era ben consapevole di tale circostanza. Interessantissimo è leggere quanto scrive in quello che è, paradossalmente, il suo vero capolavoro, ossia quella ricca, ricchissima fonte di notizie (indispensabile per comprendere il lavoro nella bottega dell'operista, oltre che di piacevolissima lettura) che sono Le mie memorie artistiche, pubblicate a Firenze nel 1865. Scrive Pacini: “Né a dir vero potei mai pienamente raggiungere lo scopo che mi ero prefisso. Ancor fresco d'età, applaudito, accarezzato, festeggiato su tutte le scene italiane e straniere, poco mi dava pensiero di onorare me stesso e l'arte, come io doveva. Le mie tendenze, le quali miravano a dare un carattere di tinta locale ed un far proprio alla composizione, non poterono fin'allora esser portate a compimento se non che parzialmente: come io credo si riscontri in alcuni pezzi della Sacerdotessa d'Irminsul, nell' Ultimo giorno di Pompei, e più specialmente negli Arabi nelle Gallie e nei Fidanzati. Debbo perciò convenire che molto ancora mi rimaneva a fare per conseguire qualche speranza di prolungata fama. In questa mia prima epoca mi si dava il nome di maestro delle cabalette, poiché in generale avevano qualche pregio di spontaneità, di eleganza e di forma, talché si riteneva da tutti che a me e ostasse ben poco il ritrovare un pensiero melodico di qualche novità, essendo ciò, si diceva, parto del genio e non altro. S'ingannavano a partito. Le mie cabalette non scaturivano come acque limpide da purissima fonte, ma erano bensì frutto di qualche meditazione, conciossiacosaché studiava il modo di dare un accento diverso ai metri della poesia onde non cadere in melodie che ricordassero qualche altro pensiero; cosa troppo facile a veriflcarsi, specialmente nella prima battuta... (omissis) ...II mio strumentale non è stato mai abbastanza accurato, e se qualche volta riuscì vago e brillante, non accadde per riflessione, ma bensì per quel naturale gusto che Iddio mi concesse. Trascurai sovente il quartetto degli strumenti ad arco, né mi curai gran fatto degli effetti che ritrar si potevano dalle diverse famiglie degli altri strumenti. Ebbi sempre però in mira la parte vocale più d'ogni altra cosa, e soprattutto cercai d'indagare i mezzi dei singoli esecutori a cui affidava le mie composizioni, onde adattare al loro organo musica confacente, poiché in tal modo avevo più probabilità di riuscita. Credo che, come il bravo sarto sa tagliare ed adattare l'abito all'uomo, nascondendo i difetti di natura, così debba del paro un esperto maestro non trascurare lo studio dei mezzi che possiede l'artista, e soprattutto non deviar mai da quei precetti che l'arte prescrive sulla tessitura dei differenti registri di voce, onde non forzarli in tal modo da renderli istrumenti inservibili dopo pochissimo tempo. Ciò è un errore imperdonabile, di danno all'arte ed all'esercente. L'amore per l'arte che ho debolmente professata e che professo, non mi ha lasciato mai uà po'di tregua. Invidiava nobilmente i miei rivali, e gli ammirava.” Grande umanità, consapevolezza di pregi e limiti e, soprattutto, onestà! Fatta questa lunga, ma necessaria premessa (prima che gli esegeti dell'odierno pensiero debole, vadano a scovare capolavori dove non ve ne sia traccia), appare opportuno - per tutti i motivi suddetti - proporre uno dei numerosi titoli composti dal buon Pacini. La scelta è caduta sull'Alessandro nell'Indie, non per particolare valore, né eccellenza, ma per semplicemente motivi contingenti (ne è appena comparsa una buona edizione discografica) e perché esemplificativo di quella buona routine che, nei teatri della prima metà dell'800, si alternava ai riconosciuti capolavori di Rossini (e poi di Donizetti e Bellini). Rappresentata per la prima volta al San Carlo di Napoli il 29 settembre del 1824, alla presenza di Sua Maestà, sfoggiava una compagnia di canto al solito d'eccellenza (com'era costume nel teatro partenopeo): la Tosi, la Liparini, Nozzari, Moncada. Ottenne grande successo e fu, almeno fino al 1847 (quando venne scalzato dai Lombardi verdiani), lo spettacolo più replicato al San Carlo (ben 38 rappresentazioni nella stagione 1824/25). L'opera, su libretto di Tottola e Schmidt, recupera un vecchio melodramma di Metastasio (già messo in musica da Vinci, Hasse, Jommelli, Galuppi, Traetta, Anfossi, Cherubini, Cimarosa, Paisiello, Sacchini, Galuppi, Piccinni, J. C. Bach) e riproduce ordinatamente tutte le convenzioni dell'epoca: le forme consuete del primo melodramma ottocentesco, con la rigida suddivisione in numeri, le arie con cabaletta, le strette nei finali etc... L'ascolto rivela i tanti debiti con Rossini, ed evidentemente si dimostra musica che può sopravvivere solo in virtù di interpreti eccezionali. Tuttavia è costruzione molto gradevole. I brani solisti di Alessandro si fanno ammirare per la complessa scrittura belcantista: più che la cavatina “Su le palme, su gli allori” - abbastanza anonima nel suo incedere secondo gli schemi tradizionali (coro introduttivo/cantabile/cabaletta) - è degna di menzione la grande scena dell'atto II “Oggetto sì adorabile” , più ampia e ricca, sin dall'iniziale scambio con Cleofide e Gandarte, in forma di robusto recitativo accompagnato, non privo di taluni pregi: in particolare la scolpitura della frase e la dimensione tragica; ad esso fa seguito la sezione cantabile (molto fiorita) di scrittura centralizzata, ma con frequenti affondi nella parte più basse della tessitura baritenorile; conclude l'immancabile cabaletta con coro, improntata ad un deciso virtuosismo . Altrettanto spettacolari quelli per la Tosi, tra cui primeggia la grande aria che precede il finale dell'opera, “Del caro mio consorte”, e che è forse il brano più interessante dell'opera (oltre ad essere quello di più ampia estensione): dopo il drammatico recitativo introduttivo, l'aria presenta un cantabile suddiviso in due sezioni (la prima di slancio virtuosistico, quasi un'aria di furore di metastasiana memoria; la seconda più elegiaca, introdotta da un suggestivo obbligato di violoncello), a cui segue, dopo una breve parentesi corale, la consueta e spumeggiante cabaletta iper-virtuosistica. I duetti si somigliano un po' tutti, ma l'invenzione melodica è piacevole. Le cabalette guizzano sempre con facilità e leggerezza. I finali d'atto, pur nell'andamento stereotipato (scena di recitativo e concertato in due sezioni con stretta conclusiva), sono costruiti in modo assai efficace. E' una macchina che funziona, insomma, a patto di saperla ben pilotare.

Gli ascolti

Pacini - Alessandro nell'Indie


Prima rappresentazione: Teatro San Carlo di Napoli, 29 settembre 1824

Atto I

Più tollerar non posso...Se cangiar potessi in seno - Laura Claycomb & Jennifer Larmore (2006)

Su le palme, su gli allori...Omai sia tregua all'armi...Perché fra tanti affetti - Bruce Ford (2006)

Atto II

Oggetto sì adorabile - Bruce Ford (2006)

Chi sperava, o Gandarte...Che mi giovò sull'are...Del caro mio consorte...Mio ben, mio tesoro - Laura Claycomb (2006)

Dagli astri discendi...Risolver non so...Su l'armi e su gli affetti - Bruce Ford, Laura Claycomb & Jennifer Larmore (2006)

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venerdì 20 agosto 2010

Mese di agosto XI - Opera tragica, terza puntata: Medea in Corinto

Giovanni Simone Mayr, conosciuto tutt’al più per essere stato il maestro di Donizetti (che nel 1806 ebbe i suoi primi rudimenti musicali proprio grazie alle Lezioni Caritatevoli che il compositore tedesco aveva istituito a Bergamo), fu in realtà autore molto fecondo e, per un certo periodo, conobbe fama, successi e onori. Nato in Baviera nel 1763, ricevette la propria istruzione musicale dal padre, perfezionandosi in breve tempo nello studio della viola di cui divenne riconosciuto virtuoso. Si trasferì presto in Italia (prima a Venezia e poi a Bergamo), dove si svolse la sua parabola artistica. Le sue spoglie riposano nella cattedrale della sua città d’adozione, accanto a quelle dell’allievo prediletto. Uomo di cultura (studiò diritto canonico e teologia all’università di Ingolstadt) e con la passione per la didattica, scrisse quasi 70 opere nell’arco di un trentennio – fino al 1824, quando i disturbi alla vista (che lo portarono alla quasi totale cecità) lo costrinsero a ritirarsi dal teatro – a cui vanno aggiunte almeno 60 sinfonie, 12 oratori (la maggior parte risalente al periodo veneziano) e poi cantate, messe, mottetti, inni, sonate, concerti, balletti, musica da camera, lieder e canzoni.

Scrisse anche un gran numero di testi teorici (ad uso dei suoi allievi). Oggi la quasi totalità del suo vasta catalogo è dimenticata, eppure i suoi lavori furono premiati da generosi successi in Italia e in Europa, e da continue riprese, almeno sino alla metà del secolo. Mayr è figlio della grande cultura musicale europea, che bene aveva appreso la lezione di Haydn, Mozart e Beethoven: fu tra i primi a diffondere in Italia la conoscenza e lo studio dei grandi maestri austriaci e tedeschi (diresse, tra l’altro, la prima esecuzione italiana della Creazione, proprio a Bergamo nel 1809). E già come Cimarosa (i cui Orazi e Curiazi hanno aperto questo nostro breve excursus nell’opera italiana tra Rossini e Donizetti) appare come una specie di estraneo nel panorama musicale della penisola, ancora impantanato nelle formule ormai svuotate dell’Opera Seria. Ogni volta che viene riscoperto un titolo del suo catalogo, infatti, si resta sorpresi per l’abilità della scrittura musicale, che unisce all’eccellenza tecnica (nella costruzione sinfonica dell’ordito orchestrale, con ampie e spettacolari concessioni ad inserti concertanti), la padronanza delle forme e la robustezza dell’ispirazione. Mayr riesce a fondere mirabilmente le conquiste della cosiddetta riforma gluckiana (nei suoi più elaborati sviluppi “francesi”: in particolare Cherubini) da cui gli deriva l’afflato tragico e la tensione drammatica, con le più complesse costruzioni musicali di Haydn e Mozart, lasciando intravedere – pur solo sullo sfondo – l’imminente esplosione romantica (che segnerà in modo più compiuto la generazione successiva: quella del melodramma donizettiano e belliniano) di cui anticipa linguaggi e suggestioni.
Scrisse quasi 70 opere – si diceva – e tra i tanti titoli, particolare attenzione merita quello che è riconosciuto essere il suo capolavoro: Medea in Corinto. Scritta “alla maniera francese”, per soddisfare i gusti della corte di Giacchino Murat, per la celebrata ugola di Isabella Colbran (la futura Signora Rossini), fu rappresentata per la prima volta il 28 novembre 1813, al San Carlo di Napoli. Fu un trionfo. Accanto alla Medea della Colbran, Andrea Nozzari e Manuel Garcia si spartivano i difficilissimi panni tenorili di Giasone ed Egeo, Michele Benedetti (creatore di numerosi ruoli rossiniani: Elmiro, Idraote, Mosé, Ircano, Fenicio, Douglas, Leucippo) interpretò Creonte, Teresa Luigia Pontiggia fu Creusa e nel ruolo minore di Tideo si esibì Domenico Donzelli (una curiosità: tra le comparse – quale figlia di Medea – apparve per la prima volta sul palcoscenico di un teatro la figlia di Garcia, che, nel giro di qualche anno, sarà universalmente conosciuta come Maria Malibran). Fin da subito la stampa, i critici e il pubblico si resero conto di essere di fronte ad uno dei lavori più importanti dell’epoca. L’opera, subito ripresa l’anno successivo, iniziò presto a girare i maggiori teatri italiani ed europei: nel 1821 a Dresda, nel 1823 a Milano e a Parigi dove si “appropriò” del ruolo di Medea, Giuditta Pasta, che poi portò l’opera a Londra (nel 1826, 1827, 1828, 1831, 1833 e 1837), a Napoli e ancora a Parigi (1826) e a Milano (1829). Fino al 1850 a Londra – interpretata da Teresa Parodi (allieva della Pasta) – nella sua ultima apparizione nel secolo XIX. I maggiori cantanti dell’epoca interpretarono l’opera nelle sue tante riprese: Elisabetta Ferron, Fanny Ayton, Carolina Hunger, Domenico Donzelli, Giambattista Rubini, Gilbert Duprez, Vincenzo Galli, Luigi Lablache...

Lo stesso Mayr apportò alcune modifiche per la ripresa del ’23 per meglio adattare il testo alle esigenze dei nuovi interpreti: in particolare accanto a modifiche minori e ad un duetto ripreso da un lavoro precedente, dotò Giasone di una nuova e spettacolare cavatina (di dubbia paternità però, giacché identica – o quasi – ad un brano della coeva Zoraida di Granata: per cui non si riesce a stabilire se questo fosse di mano donizettiana o se quello che compare nell’opera di Donizetti fosse stato in realtà scritto da Mayr) e aggiunse un’impervia cabaletta per Egeo.
Vista da vicino l’opera rappresenta il meglio dello stile di Mayr. La complessità sinfonica è evidente sin dall’overture e dalla ricca ed elaborata introduzione; i numeri si fondono l’uno con l’altro senza cesure e interruzioni, grazie all’uso sapiente dei recitativi accompagnati e dei cantabili che collegano i brani solistici e i pezzi d’insieme. L’uso del coro rivela la familiarità dell’autore con il genere oratoriale, mentre le ricche introduzioni alle arie, sono veri e propri dialoghi tra voce e strumento obbligato. La scrittura vocale è sì fiorita e virtuosistica, ma mai in modo meccanico o fine a sé stesso (l’uso della coloratura richiama quello del Mozart delle grandi arie da concerto) e le pur spettacolari difficoltà appaiono finalizzate all’espressione di drammaticità e tragedia, più che al mero esibizionismo vocale. Di grande spessore drammatico le arie della protagonista, in particolare la scena delle ombre nell’atto II, ma in generale tutti i suoi brani solistici mostrano una superba concezione musicale, incentrata sulla severità e la tragicità dell'accento: dall'aria di sortita con il violino obbligato a quella finale (di cui sono state tramandate due versioni con differenti gradi di coloratura e diversi strumenti solisti: corno inlgese e violino). Più smaccatamente virtuosistici i brani per i due tenori e e per Creusa (in particolare l'episodio che apre l'atto II con la suggestiva arpa obligata e l'elaboratissima scrittura fiorita). Ciò che colpisce, dopo l'ascolto, è la cura del minimo dettaglio e la coerenza compositiva, l'ampio respiro dell'invenzione musicale: il tutto denota una consapevolezza superiore, decisamente superiore, alla stragrande maggioranza della musica coeva, tanto che per raggiungere la stessa eccellenza bisognerà attendere il miglior Rossini napoletano. Opera dunque che presenta molteplici punti di interesse, ma che sconta delle difficoltà oggi quasi insormontabili per una sua compiuta riscoperta: richiede una protagonista che possa padroneggiare il canto declamato e tragico (di ascendenza cherubiniana), due tenori capaci di affrontare ruoli monstre per difficoltà ed esigenze, una seconda donna dalla coloratura sicurissima, un'orchestra che sappia suonare davvero (abituata a Mozart e Haydn, non come certi complessi più o meno festivalieri che paiono ensemble semi dilettantesche e si limitano ad eseguire - spesso maluccio - le mere note) e un direttore d'orchestra capace di non ingarbugliarsi negli intrecci dell'orchestrazione (non un mero accompagnatore di primedonne...destinato, nel caso di Mayr, a soccombere). In gran parte insoddisfacenti i più recenti tentativi di riesumazione (con la sola eccezione della bella incisione Opera Rara): sia i più risalenti nel tempo (1969 e 1977) che paiono costruite solo sulla protagonista (rispettivamente la Galvany e la Gencer) ma che attorno ad essa sfoggiano il nulla (con punte di imbarazzo per i tenori e la direzione d'orchestra), oltre ad essere funestate da tagli sconsiderati; sia l'ultima uscita cronologicamente, registrata dal vivo nel 2009 in Svizzera e basata sulla nuova edizione critica dell'opera (di cui viene scelta la versione del manoscritto del '21, assai più comoda per gli interpreti, e che contempla numerosi raggiusti e tagli d'autore, per adattarla alle più modeste capacità della compagnia milanese). Una nuova produzione di Medea verrà presentata a Monaco, nell'ottobre di quest'anno, con la direzione di Ivor Bolton (onesto kappelmeister del Mozarteum di Salisburgo di ascendenza baroccara, non molto dotato di fantasia, ma in grado, si spera, di non ridurre l'accompagnamento ad una bandaccia), la rediviva Iano Tamar nel title-role, Ramon Vargas nei difficili panni di Giasone (confermandosi ancora tenore in cerca d'autore), nonchè l'immancabile regia alla tedesca: in questo caso il pernicioso Neuenfels.

Gli ascolti

Giovanni Simone Mayr

Medea in Corinto


Melodramma tragico in due atti

Libretto di Felice Romani

Prima rappresentazione: 28 Novembre 1813, Teatro San Carlo di Napoli



Atto I

Come! sen riede...Sommi Dei - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

Cedi al destin Medea - Allen Cathcart & Marisa Galvany (1970), William Johns & Leyla Gencer(1977)

Dolce figliuol d'Urania...Scendi Imene...Vanne a terra - Marisa Galvany, Allen Cathcart, Joan Patenaude, Robert White & Thomas Palmer (1970), Leyla Gencer, William Johns, Cecilia Fusco, Ginfranco Pastine & Gianfranco Casarini (1977)

Atto II

Dove mi guidi?...Ogni piacer è spento...Antica notte - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer(1977)

Ma qual fioco rumor...Se il sangue, la vita - Marisa Galvany & Robert White (1970), Leyla Gencer & Gianfranco Pastine (1977)

Ismene, o cara Ismene...Miseri pargoletti...Era tua sposa - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

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sabato 8 agosto 2009

Zelmira: in attesa della prima.

E’ la Grecia arcaica dell’isola di Lesbo lo sfondo su cui si muovono i personaggi di “Zelmira”, ultima opera napoletana di Rossini, mentre furono le contese personali e professionali tra Rossini e l’impresario Barbaja a far da sfondo, nella realtà della vita, alla composizione dell’opera.
Un libretto assai imperfetto, firmato da Tottola; le condizioni vocali dissestate della Colbran; il matrimonio ormai prossimo tra Gioachino ed Isabella, a riparare l’onore dei due pubblici concubini; le discussioni con lo stesso Barbaja per la proprietà dello spartito, alimentate anche dalla gelosia per la perdita dell’amante, agitarono la gestazione di Zelmira.


Sin dalle prime rappresentazioni fuori dal San Carlo l’opera subì modifiche documentate sia per mano di Rossini, dapprima per Vienna ( aprile 1822 ), quindi, per Parigi nel 1826, sia per mano di alcuni esecutori, dato che le caratteristiche vocali di alcuni esecutori riportati dalle cronologie ottocentesche non coincidevano con quelle dei primi interpreti, basti pensare al caso londinese del 1824 quando Manuel Garcia, tenore baritonale, cantò Ilo, parte da tenore contraltino. Il destino di Zelmira, come già quello di altri titoli, in particolare Ermione, sarebbe stato quello di una veloce dismissione dai palcoscenici, causa l’impressionante difficoltà dei ruoli tenorili e l’insoddisfacente estensione delle due parti femminili, cui nulla valsero gli inserti viennese e parigino predisposti da Rossini stesso. Nell’800 l’opera sopravvisse, di fatto, meno di un ventennio prima di essere abbandonata, a differenza di altre celebri “desaparecides”, come Otello, Ricciardo e Zoraide, Donna del Lago dismesse dopo gli anni ’60.Il libretto, inoltre, è disomogeneo, drammaturgicamente sbilanciato sul I atto, ove si continua a parlare di un delitto passato e di una colpevole…incolpevole! Un soggetto statico, ove di fatto non accade nulla, nella cui seconda parte, non a caso, venne collocata la composizione secondaria per Fanny Eckerling dell’aria di Emma, unico contraltare al grande finale della Colbran. Finale che, poi, Giuditta Pasta si fece riscrivere, per le recite parigine, in modo più consono alle sue caratteristiche vocali.

Ai limiti delle umane possibilità vocali i due ruoli pensati per David e Nozzari, ancor più di quanto sperimentato con le altre opere napoletane.
Al formidabile baritenore spetta, come tradizione, la parte del cattivo, Antenore, mendace usurpatore ed assassino, che alla fine verrà smascherato ed arrestato. Per Nozzari, che nel 1822 aveva ben 47 anni, un’enormità per l’epoca, la scrittura è come al solito fiorita, di forza: richiede ampiezza di accento, con recitativi accompagnati di grande spessore tragico ed una scrittura vocale di estensione mostruosa, pari a circa due ottave e mezza, dal re bem sopracuto al la grave sotto il rigo. La parte è di fatto concentrata sul primo atto, con grande scena di ingresso, l’andante maestoso in “2/4 “Che vidi amici o eccesso”, che introduce il personaggio, ambiguo e bugiardo; grande scena a metà atto, l’allegro vigoroso “Mentre qual fiera ingorda”, ove Antenore accusa apertamente e con violenza l’innocente Zelmira e nella quale Rossini costringe Nozzari, interpretativamente inerte, secondo i contemporanei, a paurosi sbalzi dalla zona acuta a quella grave sotto il rigo; grande scena che introduce il quintetto e, quindi, il finale I, ove Antenore viene incoronato re di Lesbo e Zelmira accusata anche di aver tentato di assassinare Ilo, composta dalla grande scena “ Si figli miei di Lesbo” e successivo terzettino, terzetto, il quintetto “La sorpresa lo stupore”, ed il concertato finale.
Nel secondo atto, dopo il recitativo con Leucippo, di nuovo la vocalizzazione di forza e le puntate in alto della scena “Né lacci miei cadesti “ che introduce il successivo bellissimo quintetto “Ne lacci miei cadesti”. Il tenore che vesta i panni di Antenore deve saper cantare praticamente tutto ed in ogni modo: per lui Rossini ha scritto il canto di grande ampiezza, come nella scena “Mentre qual fiera ingorda..”; ha previsto che accenti “terribilmente” i recitativi come la coloratura, più volte, e non a caso, accentata, come nelle fioriture discendenti di “ dovrà seguirti si or or “ della cavatina di sortita; gli ha imposto l’esecuzione di ogni sorta di coloratura, dai trilli alle terzine, alle quartine, scale e volate di ogni genere e qualità, il tutto sempre di forza, come espressamente indicato in vari punti dello spartito. Il cattivo dell’opera è cattivo sino alla fine e resta aggressivo sino al finale, persino al grande quintetto del II atto, “ Né lacci miei cadesti”, ove in virtù dell’esecuzione di forza della coloratura prescritta, aggredisce e minaccia Polidoro.
La parte venne rimaneggiata, non a caso, in occasione delle recite parigine al Des Italiéns per Bordogni, primo Liebenskof del Viaggio Reim e, quindi, tenore contraltino, come afferma Gossett nella prefazione alla ristampa del 1979. I vertiginosi saliscendi di aria e cabaletta oltre alla profondità della scrittura, che si colloca anche in zona la-do sotto il rigo, evidentemente erano di troppo peso per Bordogni, tanto da indurre Rossini a modificare la scena, riducendone il recitativo e tagliando la cabaletta.

Ilo, principe trojano e consorte dell’infamata Zelmira, riveste il tradizionale ruolo del puro, amante e guerriero. Prodigioso per estensione e virtuosismo, Ilo è il più arduo e massacrante dei ruoli scritti per Giovanni David, che lo tenne in repertorio di fatto sino al 1832, sebbene non sappiamo bene in quali condizioni vocali o con qual raggiusti. Fu l’Ilo della Colbran, della Meric Lalande, della Fodor Mainvieille e persino della Ronzi, a riprova delle difficoltà oggettive incontrate nel trovargli un degno sostituto sul ruolo. Del tutto occasionale fu, infatti, il passaggio a Rubini nelle recite parigine e, successivamente, a quelle napoletane del 1827: si trattava infatti del Rubini prima maniera, ossia versione tenore contraltino, di cui vi parlammo nel post “Florez vs Rubini” parecchio tempo fa e a cui vi rimandiamo. Presso Nozzari, suo vero maestro, Rubini avrebbe dato di lì a pochissimo altro assetto alla propria voce per divenire, appunto, il “Rubini” passato alla storia del canto. Il suo approccio ad Ilo avvenne dunque nella prima fase della carriera, quando il tenore bergamasco ancora seguiva il modello di David: celebre ma non ancora il fenomenale e romantico tenore di Bellini.
La psicologia di Ilo è quella dell’amante che si crede tradito e sconfitto, privato del figlio che pensa ucciso dalla moglie, arrabbiato e dolente, che rinasce nell’anima quando apprende finalmente dell’innocenza di Zelmira ed ottiene giustizia nel finale dell’opera. Rossini ha scritto praticamente tutto anche per questo ruolo. L’eroe entra con una cavatina di impressionante difficoltà acrobatica e tessitura astrale: l’andantino in 4/4 “Terra amica”, che impone sin dalle prime battute un canto di coloratura di forza minuta con numerose scale, di cui una lunghissima che arriva sino al re nat sopracuto; quindi la cabaletta, l‘allegretto “Cara! Deh attendimi..” con i famosi trilli su sol-la centrali e salti al re nat sopracuto scoperto, di grande effetto e presa sul pubblico. La tessitura di Ilo è altissima, ma non ammette il canto eunucoide o infantile che viene dalla voci sbiancate nello sforzo di allungarsi verso l’alto. I recitativi, come anche per gli altri personaggi ( e mi rifaccio apertamente alle osservazioni di P.Gossett in questo ), sono fondamentali nel dare senso drammaturgico e forza ai personaggi, in questo caso ad Ilo, che non è affatto sbiadito o esangue. Il canto fiorito è pressoché continuo, ma deve assumere la cifra esatta del personaggio. Vi è coloratura minuta nel duetto con Zelmira “ A se caro a te son io..”, con una sequenza impressionante di quartine ascendenti e discendenti e ribattute dell’allegro che chiude la scena. Anche nel II atto, al duetto con Polidoro, al tenore, come al basso, non mancano acrobazie di forza variamente assortite nell’allegro “In estasi di gioja”, volate, quartine, trilli, duine…… Il rimaneggiamento parigino del finale implicò, poi, un ulteriore ampliamento della parte, senza alcuna diminuzione del livello di difficoltà, insomma……un vero monstrum vocale cui è ardua impresa rendere l’esatta forza drammatica.

Di limitata lunghezza ed estensione il ruolo della protagonista, che attende a due duetti, un duettino, un terzetto ed un quintetto prima di ritagliarsi una grande scena solistica, quella finale, come gradito alla Colbran, a modello di quelle di Anna Erisso ( Maometto II ) ed Elena ( Donna del Lago ).La scrittura è centralissima e prevalentemente orizzontale, dato che raramente supera la zona del passaggio di registro del soprano. Nel grande finale la linea di canto si spinge fino al si bem acuto in volata , mentre in tutto quanto precede arriva solo occasionalmente al la acuto.
La grande diva, infatti, era ormai al capolinea: Semiramide, già alle porte nel tempo e nella musica di Zelmira, avrebbe avuto, dopo le prime rappresentazioni veneziane del ’23, altre e diverse protagoniste a renderla famosa, perché il ritiro della diva era vicinissimo. Aveva solo 38 anni, ma cantava dall’età di 16.
Zelmira entra senza cavatina di sortita, come già nel Ricciardo e Zoraide, quasi in modo dimesso, mediante un piccolo duetto con Emma e che descrive il loro incontro furtivo. Poi l’”allegro animato” del terzetto con Emma e Polidoro, di scrittura centrale, ove presto arrivano terzine e duine veloci. Al duetto con Ilo la scrittura resta simile, con coloratura minuta anche in un momento largo ed estatico come “Quanto costa al labbro mio”, quindi l’immancabile agilità di forza della stretta “ Che mai pensar che dir “, di nuovo a suon di quartine, come già detto in precedenza.
Celeberrimo il duetto con Emma, l’andante in 4/4 “ Perché mi guardi e piangi”, con la suggestiva introduzione di arpa ed oboe solisti che sarà grande spunto, come altre volte, qualche anno più tardi, per altri compositori. Lo stile patetico si applica ad un momento di grande intensità.
In chiusa di primo atto ancora un terzetto ed il finale primo, quindi di nuovo, nel secondo atto, un quintetto prima di attaccare la grande scena finale del’opera. In questa scena Rossini ricalca un modello già consolidato: una prima sezione, maestoso in 4/4, che riecheggia la prima di “Tanti affetti ..” con agilità ascendenti e discendenti, chiusa da una cadenza lunghissima scritta, e quindi una veloce, un allegro sempre in 4/4 introdotto dal coro, “Deh circondatemi, miei cari oggetti”, con inserimenti di Ilo e Polidoro, come già in “ A chi sperar potea….” di Donna, ove si inserisce il coro. Zelmira non possiede la cifra tragica di Anna Erisso, contenuta a pochi momenti “forti”, come le poche battute che precedono il finale “Non ti appressar! di un ferro…” oppure momenti come “ Me sola uccidi o barbaro..” del quintetto. L’essenza del personaggio è comunque quella lirica e dolente, idonea ad un soprano centrale come ad un mezzo di belle qualità tecniche, in particolare il legato.
Per l’esecuzione parigina dell’opera Rossini lavorò al remake del finale per Giuditta Pasta. La scrittura minutamente fiorita del brano era abbastanza estranea alle caratteristiche vocali della Pasta, famosa per la ricchezza di accenti ma che, evidentemente, non gradiva la coloratura minuta e velocissima ( quella alla Horne per intenderci ) che caratterizza alcune sezioni dei finali composti da Rossini per la moglie. Straordinariamente abile nel rimetter mano a se stesso riconfigurando con nuova grande efficacia composizioni già perfettamente compiute, Rossini collocò all’inizio del finale di Zelmira una nuova aria, “Da te spero o ciel clemente” ( modernamente incisa da Marilyn Horne nel suo disco “Arie alternative di Rossini” ) andantino in ¾, una sorta di preghiera della protagonista, di tessitura centrale e dall’atmosfera sospesa e lirica. Per la sezione successiva, grazie anche qualche modifica al libretto, inserì un allegro in 4/4, protagonisti ancora Zelmira, cui si aggiungono Polidoro, Antenore, Leucippo, “ Dell’innnocenza o Dei, vindici ognor voi siete”, riutilizzando musica già scritta per la cabaletta della grande scena di Ermione. Dopo questa, Rossini ripristinò il vecchio finale nella scena introdotta dal coro, “All’armi all’armi”, ove Zelmira che difende il padre da Polidoro, “Non ti appressar d’un ferro”, quindi, sul tema del vecchio rondò della protagonista “Riedi al soglio”, modificò ulteriormente il finale secondo. Rimasero le prime nove battute delle frasi “Riedi al soglio”, cui attaccò direttamente la sezione finale, “ Deh circondatemi miei cari oggetti”, tagliando le 21 battute intermedie, fioritissime, da “…pura fede amor sincero..” ad “..amor sincero”. Da qui la novità dell’inserimento di Polidoro ed Ilo che succedono a Zelmira col loro canto sul tema, con i famosi passi vocalizzati in zona sopracuta per Ilo, mi bem-re, scritti per Rubini. Un ampio finale a tre, dunque, che non dispensava nulla nemmeno a Polidoro, chiamato anche lui ad eseguire una bella dose di coloratura, trilli inclusi.

La seconda donna, Emma, non ebbe, come detto, una sua grande scena, e quindi la dignità di primadonna, sino alle rappresentazioni di Vienna, al teatro di Porta Carinzia, quando venne cantata da Fanny Eckerling: il cast napoletano, infatti, includeva una cantante non ancora di primo piano, la Cecconi. L’inserimento viennese dell’andantino “Ciel pietoso, ciel clemente” dovette rimanere in uso anche in produzioni successive: alla prima di Parigi, ad esempio venne chiamata la Schiassetti, prima marchesa Melibea della Viaggio a Reims, per cui è logico pensare che anche lei abbia voluto avere la sua scena solista. Il brano è molto bello, di scrittura centrale, tocca nella cadenza in chiusa allo stesso il si bem, e nuovamente in cabaletta, prevedendo moderate difficoltà tecniche per l’interprete.

A differenza di altre volte, il leggendario Galli non fece parte dell’originaria produzione di Zelmira, ed il ruolo del padre della protagonista, Polidoro, venne affidato ad un secondo cantante. Quello del basso cantabile non è certo tra i ruoli più difficili scritti da Rossini per una voce grave, ma consta di una scrittura mediamente alta, alcuni momenti di vero virtuosismo, come il duetto con Ilo, irto di difficoltà ( quartine, duine, scale discendenti..etc..), ed una facile e breve cavatina di sortita al primo atto “Ah!Già trascorse il dì”, di tono dolente. Polidoro partecipa di tutti gli ensemble al primo e secondo atto, ma il personaggio, per quanto sia sempre in scena, resta, anche per psicologia, un secondo cantante. Il finale per Parigi, ove al primo interprete Ambrosi si sostituì Zucchelli, allungò ulteriormente la parte aggiungedovi alcune difficoltà sul piano virtuosistico.
Non sfugge ai melomani bazzicatori di cronologie che i nomi più interessanti tra i bassi che cantarono Zelmira si ritrovano sul ruolo secondario di Leucippo, da Michele Benedetti alla prima di Napoli, già primo Mosè del Mosè in Egitto, oppure il giovane Nicolas Levasseur, futuro Marcel degli Ugonotti e Bertram del Robert le Diable, alla prima di Parigi del ‘26, forse perché alla protervia del cattivo erano necessari una maggiore ampiezza e sonorità di voce.

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In età recente pochissime sono state le produzioni di Zelmira, che non ha trovato, soprattutto nel settore femminile adeguate interpreti. L’opera venne rimessa in circolazione ( breve ), dopo la sporadica ripresa del’65 a Napoli con V.Zeani, grazie a C. Gasdia e, quindi, M. Devia, cantanti diversissime per capacità tecniche, ma assai simili nella resa del personaggio, perché entrambe troppo leggere per il ruolo. Laddove la Gasdia sfarfalleggiava e cempennava la coloratura, la Devia è stata più precisa ed accurata, ma entrambe sono rimaste ben lontane da quella pienezza lirica che la scrittura richiede. A suo agio in zona acuta, laddove ha collocato molti dei rimaneggiamenti operati sul testo, la Devia ha faticato in certi passi di scrittura grave, dove ha finito anche lei per svolazzare senza peso. Il finale venne cantato benissimo, ma la voce era per sua stessa natura estranea al senso della parte, che non ha nulla a che vedere con il canto di un soprano leggero. Idem dicasi per le interpreti di Emma, un soprano leggero prestato ai contralti, con un registro basso del tutto artefatto, Gloria Scalchi; un soprano lirico con la voce ingolata, la musicalissima Ganassi.
Solo i ruoli tenorili hanno avuto l’onore di due grandi cantanti perfettamente idonei ai ruoli, ossia R. Blake e C. Merritt. Spartito alla mano ci hanno dato la più straordinaria e precisa esecuzione di queste terribili scritture, conferendo ai loro personaggi il giusto spessore tragico e l’immagine di veri guerrieri. Si trattava di capacità vocali abnormi, come il confronto con i successivi migliori Antenore ed Ilo che abbiamo udito, ossia B. Ford e W .Matteuzzi dimostra. Al primo sono mancate l’ampiezza e la sonorità di Merritt, la sua precisione nella coloratura e lo squillo in alto. Al secondo, sebbene preciso e squillante, mancò inesorabilmente il peso drammatico di Blake, che tutt’oggi al confronto mostra una voce più scura, oltre che più ampia ed un canto aggressivo, proprio perché Ilo tenorino non è.
Tutti gli altri interpreti, per un motivo o per un altro, non reggono il confronto con i due americani, perché travolti dalla difficoltà dei ruoli. Né si è mai compresa la fretta del ROF di liquidare il vecchio Blake per sostituirlo inopinatamente con l’asfittico P. A. Kelly in occasione della prima performance festivaliera in Pesaro, inferiore, nella coloratura come nell’accento, anche all’americano delle perfomance concertistiche degli ultimi anni, come gli audio dimostrano, quasi che i fenomeni possano trovare normale e fisiologico ricambio!
Quanto a Polidoro, il professionismo di Alaimo e Surjan, che non erano certo dei Ramey, resta lì, a memoria imperitura della sparizione di quello che si chiama “ solido professionista” dell’arte del canto: corretti nell’esecuzione musicale, pertinenti nell’accento, entrambi ancora con una emissione gradevole e composta.
Rossini - Zelmira

Atto I

Che vidi...o amici...oh eccesso! - Chris Merritt (1989)

Terra amica - William Matteuzzi (1988), Rockwell Blake (1989)

Mentre qual fiera ingorda - Chris Merritt (1989)

Perché mi guardi e piangi - Lella Cuberli & Martine Dupuy (1988)

Atto II

Ciel pietoso, ciel clemente - Anna Maria Rota (1965), Sonia Ganassi (1999)

In estasi di gioia - Rockwell Blake & Simone Alaimo (1989)

Ne' lacci miei cadesti - Chris Merritt, Simone Alaimo, Cecilia Gasdia, Gloria Scalchi & Roberto Servile (1989)

Riedi al soglio - Cecilia Gasdia (1989), Mariella Devia (1999)

Finale alternativo : Da te spero, ciel clemente - Marilyn Horne (1986)

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martedì 11 novembre 2008

Florez vs Rubini


Nel 1871 Enrico Panofka, che aveva udito la voce di Rubini dal vivo, così la descriveva: La voce di Rubini era, ad una volta, d’una maschia possanza, meno per l’intensità del suono, che pel suo metallo vibrato, della più nobile lega, e d’una rara flessibilità, al pari d’un soprano leggiero: cosicché egli arrivava alle più alte note del soprano sfogato con una sicurezza ed una purezza d’intonazione così meravigliose, che si sarebbe tentato di crederlo un castrato. Rubini teneva, ad un tempo, del tenore di forza e del tenore leggiero: e cantava in modo impareggiabile ed ugualmente bene, la parte di Otello e la parte d’Almaviva, di Pollione e d’Arturo, d’Elvino e Don Ottavio.
Così l’opera ebbe con Rubini una nuova era per tenori; e poiché egli apparteneva agli uomini di genio, così, non solamente egli non formò scuola, ma ispirò per giunta il suo compositore di predilezione a scrivere particolarmente di lui; dond’è venuto che le ultime Opere di Bellini son quasi scomparse dal repertorio. L’aria che dà la più giusta idea dell’immensa esecuzione di Rubini, era l’aria della Niobe di Pacini.
Uno de rari meriti di questo cantante consisteva nel potere cantare pianissimo, e far già così un grande effetto; di servirsi del primo registro ( volgarmente e falsamente chiamato di petto ) fino al sol solamente, e d’avere unito il primo al secondo registro in modo, da potere, senz’ombra di sforzo, emettere collo stesso vigore il si b, il si e il do. Così il suo do non è mai stato chiamato do di petto; ma era più bello, più luminoso, più potente che la nota forzata dei tenori del do. I quali non si possono abbastanza biasimare, perché hanno ucciso l’arte del canto e un buono numero di poveri giovani, i quali avrebbero potuto essere utili ai teatri; senza la mania di cercare, prima di tutto, il do per ispaccarsi il petto
.( E. Panofka, Voci e cantanti, Firenze, 1871, pg. 97-98 )
Un tenore capace, dunque, di affrontare i ruoli di tenore contraltino come quelli di forza, ossia da tenore centrale, che però legò il suo nome a Bellini più che a Rossini e che, soprattutto, avrebbe praticato poco o nulla il registro di petto negli acuti, eseguiti in falsettone. La grande estensione del tenore bergamasco era figlia della tecnica del falsettone, impiegato dal sol in sù, ossia dopo il passaggio di registro.
Meno preciso nella descrizione delle qualità vocali, ma utile dal punto di vista della carriera di Rubini un autore più tardo del Panofka, il Monaldi, che non lo aveva udito dal vivo ( G. Monaldi, Cantanti celebri del XIX secolo, Roma, 1929, pg.69-77 ) Sottolineava ampiamente le umili origini di Rubini e gli esordi difficili, dapprima con compagnie itineranti nel nord Italia, poi tra Milano, Pavia, Brescia ed alla fine Venezia, per l’Italiana in Algeri con la Marcolini. Con la chiamata da parte di Barbaja a Napoli arrivò l’esordio nella capitale italiana della musica, ma fu un secondo tenore, non ancora un primo. Le cronologie del Teatro San Carlo ( Il teatro di San Carlo di Napoli, a cura di C.Marinelli Roscioni, edizioni Guida, Napoli, 1987, vol. II, cronologia ) attestano la sua esecuzione del Norfolk di Elisabetta Regina d’Inghileterra “extensively”, come dice Gossett nella sua presentazione al disco di Florez e che significa 4 rappresentazioni nella stagione 1820-21 ( Colbran, Dardanelli, Nozzari), 15 nella successiva con lo stesso cast, altrettante nel 1822-23. Precisiamo che in sei mesi si andava in scena circa per 100 sere. Ma a quella data i tenori di Rossini erano altri, David, Nozzari e, fuori di Napoli, Garcia. Poi Donzelli sempre le cronologie del San Carlo ci dicono chiaramente. Solo a partire dal 1826-27, ritirato Nozzari, declinante David, Rubini iniziò ad essere il vero primo tenore del teatro. E siccome dal ‘29 Rossini smise di comporre, Rubini divenne sì il tenore del repertorio rossiniano, ma più di tutto il tenore del nascente romanticismo E che la voce fosse mutata, acquisendo maggior ricchezza al centro, lo comprovano i debutti in ruoli come Otello e Rodrigo di Dhu nella Donna del Lago, anche se non si può escludere che ricorresse ai trasporti. Quindi l’esperienza napoletana di Elisabetta Regina d’Inghilterra, che non pare aver più ripetuto, fu quella del giovane tenore che cerca di farsi spazio tra i grandi ed il cui modello era David.
Non sono, quindi, in contrasto descrizioni come quella del Monaldi di un Rubini che, con Tamburini, fiorisce vellutianamente il duetto del Mosè o che viene accusato di “sparire” nei concertati, con quelle del vigore, della declamazione e della voce maschia. Il più delle volte sono, infatti, riferite a due fasi differenti della carriera.
Il rapporto con Rossini, dunque, nonostante la frequentazione del repertorio e l’adattamento dell’aria di Ermione alla Donna del Lago, rientra nella normale prassi dei rapporti fra esecutore e musicista, che, legato all’obbligo di andare in scena, doveva trovare il rimpiazzo ad un autentico monstrum, spartito alla mano, quale fu Giovanni David jr. Se rapporto privilegiato vi fu fra Rossini ed un tenore della generazione successiva ai Nozzari e David quello fu Domenico Donzelli, comprovato da lettere ed assidua frequentazione, sia a Parigi che Bologna.
L’immagine più fedele della voce di Rubini, o meglio del Rubini capostipite e modello del canto tenorile sino al verismo, è nelle parti scritte per lui da Donizetti e Bellini, il musicista cui espressamente le fonti legano il nome di Rubini. Con l’avvertenza che, miglior conoscitore di voci, Donizetti esibiva i famosissimi sovracuti di Rubini ( vedi la cabaletta di Fernando nel Marino Falliero), ma evitava quei fraseggi in zona che appartiene già agli acuti. Anche per tenori estesissimi e capaci di preziosi ( e comodi ) assottigliamenti e di assoluto controlla del fiato. Prova ne sia che le parti scritte da Bellini o sparirono dal repertorio o quasi con il loro primo esecutore (Gualtiero nel Pirata) o, già per il lo stesso Rubini (Elvino di Sonnambula) subirono da subito ritocchi e raggiusti verso il basso.

Con queste dimostrate premesse l’eguaglianza Rubini - Florez, al di là del fascino della trovata pubblicitaria e commerciale, non regge.
In primo luogo perché, per il momento, Florez ha praticato abitualamente opere ( Cenerentola, Barbiere) che poco furono di Rubini o alla quali Rubini non deve certo la propria fama. I rapporti con il Rossini tragico di Florez sono limitati a Rodrigo di Otello ( Rubini passò alla storia per il title role, invece ) e quindi in comune rimarrebbe il Giacomo V della Donna. Occasionale il rapporto con Arturo dei Puritani sempre da parte del tenore peruviano.
E siccome il signor Florez si dice sia impegnato sino al 2015 e di debutti in Pirata, Niobe e Talismano di Pacini, Anna Bolena e Gianni di Parigi di Donizetti per tacere di Pollione, Edgardo o Arnoldo non se ne parla, o lo si esclude apertamente, che il raffronto sia commerciale non ci vuole troppo a capirlo e dimostrarlo.

Quand’anche così non fosse, scelte come l’aria di Norfolk o di Arnoldo non sono certo connotanti della vocalità e delle qualità di Rubini. Sorge poi, fondato e legittimo che nel primo personaggio Rubini, attesa la scrittura di vera forza e molto centrale, ricorresse a trasporti ed aggiusti.
Una vera operazione culturale vorrebbe l’esecuzione che di questa prassi tenesse conto, soprattutto se il fine dichiarato è la storicizzazione di una cantante.
Insomma il vero omaggio a Rubini avrebbe dovuto essere dedicato a pagine che furono create per i tenore non che il tenore, alcune addirittura occasionalmente, cantò.
Non solo, ma non è questo il solo limite del programma storicizzante del tenore peruviano: l’incolmabile è dato dal raffronto fra il canto che udiamo e le descrizioni del canto e dell’interpretazione di Rubini.
La voce di Florez è quella di sempre, con un cospicuo vibrato e note ormai fastidiose fra il fa ed il sol acuti, limitata negli acuti (atteso che oltre il re nat non osa, pur celebrando un cantante per il quale si scrissero fa sovracuti ), senza alcuna dinamica, anche perché la limitata ampiezza, frutto della combinazione fra limite naturale e limite tecnico, consente poco o nulla, con la tendenza ad emettere acuti sparati e a limitare l’esecuzione dei passi acrobatici.
E questi limiti emergono costanti in tutto quanto il recital, come emergevano nell’antipasto offerto dal concerto di Santander l’anno passato.

Nel dettaglio di alcuni brani.

Scena di Ermione trasferita in Donna del Lago.
Florez comincia malissimo con il recitativo, eseguendolo letteralmente e nella versione semplificata, omessi come sono gli “oppure” previsti da Rossini.
Nell’aria, poi, appare il rapporto assolutamente conflittuale fra Florez ed i trilli, di cui l’aria e la cabaletta sono disseminate (Rubini, per la cronaca, era celebre per il trillo che interpolava nell’aria di don Ottavio) a partire dal “grata sperar” dell’andantino. Il “grata sperar” è proprio ingrato per il nostro, in quanto alla seconda comparsa, debitamente diminuito in tre quartine, Florez non esegue quanto previsto.
Le cose non migliorano nell’allegro. In primo luogo l’accento. Ammesso e non concesso che Giacomo V non sia Oreste, l’accento però è quello di un personaggio da Rossini comico, non tragico. Il limite maggiore è la mancanza di ampiezza che impedisce il rispetto delle poche forcelle, previste in spartito. Tralasciamo che sino a Rossini la dinamica era rimessa all’esecutore e che quanto indicato è il minimo, mentre qui siamo al di sotto del minimo. Per completezza: omesse la forcella sul sol acuto di ma smar e quella su un ben più comodo re centrale di “poter”.
Riuscita decisamente male la cadenza di conducimento fra le due strofe per la presenza di una serie di trilli discendenti dal fa acuto al do centrale e, peggio ancora, il tentativo alla variante di “crudo poter” di inserire ribattiture. Ribattiture che ho sentito eseguire fluidamente da due soli cantanti rossiniani, ossia Blake e Dupuy.
Per altro gli inserimenti nel da capo sono di ridotto tasso acrobatico (ed espressivo, quindi) limitati a qualche acuto come il si bem interpolato sul “vittima” della battuta 109 o la riduzioni del testo, come le quartine omesse alla battuta 113 ed alla battuta 125 sulle parole “piacer voluttà”. La serie di quartine vocalizzate che sono fra le più impressionanti ornamentazioni rossiniane, se ben eseguite, sono decisamente ostiche a Florez ( vedi Otello di quest’estate a Pesaro decisamente ostiche a Florez ). Taciamo anche delle forcelle spazzate via….

Cavatina di sortita di Gualtiero del Pirata , ovvero dell’opera che fece di Rubini RUBINI.
Eroe romantico, malinconico ma eroico, virile anche nella tristezza e non certo sdilinguito è Gualtiero. Ma Florez approda sulle spiagge di Caldora in piena defaillance timbrica, esibendo una voce da opera buffa settencesca, seppure decisamente più piena della realtà del teatro. Il suo canto manca subito di piglio nel recittivo come di ampiezza nell'aria, come dello slancio necessari nella cabaletta. Colpisce anche la difficoltà di trovare colori e pienezza di accento, in parte a causa del mezzo naturalmente inadatto, ma in parte anche a limiti tecnici, evidenti laddove la sfumature dinamiche sono realizzate con suoni opachi, talora indietro come nei la del rallentando della cabaletta, o nell’omissione della forcella scritta su “ di possederti ancor….”.Per quanto l’esecuzione musicale qui appaia più precisa rispetto a quella dell’aria della Donna, Florez dà prova di non sapere proprio che farsene dei segni di corona che costellano il brano, dal recitativo alla cabaletta. Segni sui quali non esegue mai alcuna variante né cadenza, come sarebbe la prassi stilistica del tempo, a maggior ragione nel tentativo discografico di assimilarsi a Rubini.
Insomma, in questa scena i limiti vocali del peruviano emergono pian piano di pari passo con la fatica: il breve passo di agilità della frase “nulla io spero”, da eseguire “di forza” stando a Bellini, scorre via senza accento; le puntature al re di “Ah si vorrei ah si vorrei….”, sono strozzate e veramente ghermita quella del da capo; sino all’omissione del si bem che segue le due battute di quartine di “allor la mortela morte allor..”. Insomma, un’aria poco adatta alle caratteristiche vocali di Florez.

Cavatina di sortita di Ferdinando del Marino Falliero.
Nel recitativo la figura ornamentale sulla parola “addio” è strascicata. Cade sulla zona di passaggio della voce, pergiunta in moto discendente. I mezzi trilli che compaiono sono omessi o pasticciati. Sono anche pasticciate le figure ornamentali di “aure amiche non v’udrò”, dove fra l’altro il solito moto discendente è poco propizio a Florez e dove l’esecuzione richiederebbe una assoluta libertà di tempo e non l’esecuzione metronomica. Non è questa la sede per dirlo, ma tutti i tenori ante Caruso erano maestri nella libertà del tempo, che diveniva poi varietà interpretativa. Le note di lunga tenuta, in particolare il fa di “no giammai” , non sono limpide e saldissime.
Nella cabaletta comparirebbero i fa sovracuti. Sono un optional, ma Florez non li esegue neppure come variante al da capo. Fra l’altro la nota stratosferica, da emettere in falsettone, è scritta ben preparata, in una figura ornamentale breve e non in tessitura stratosferica; non richiede nemmeno lunghezza di fiati. L’omissione sarebbe comprensibile, ma in un disco ove si dichiara apertamente la volontà di riproporre la vocalità di Rubini, come scrive Gossett nel libretto del disco, questa è grave mancanza. (…among modern tenors, Juan Diego Flórez is the acknowledged master of this type of vocalism: the pairing of Flórez and Rubini appears inevitabile… ). Certo, anche il re scritto non è eseguito alla perfezione, perché la figura ornamentale richiede una sicurezza sul passaggio che non sembra, visto il risultato, essere fra le doti preclare di Florez.

E il pensiero non può non andare alle parole di Gianfranco Mariotti alla conferenza stampa di presentazione della stagione 2007: “Naturalmente il divismo non è scomparso – perché dovrebbe – ma è di tipo diverso: meno futile e chiassoso, più colto e riflessivo. Una vera evoluzione della specie si è prodotta nel settore: il moderno cantante rossiniano di livello accompagna di solito al talento la civiltà e l’intelligenza, ma soprattutto una nuova peculiare disponibilità, quella ad accettare i limiti imposti dal rigore musicologico; a rinunciare a un sopracuto o a una cadenza se giudicati incongrui o fuori stile; a cantare eseguendo movimenti impegnativi o scomodi, se ciò giova al risultato finale. Dunque non più genio e sregolatezza, ma il fascino discreto della normalità; un appeal più evoluto e attuale, fatto di professionalità e serietà”.
Beh, su una cosa ha proprio ragione: che il divismo non è morto………..ma quanto al canto dei divi ed alla filologia ………siamo male in arnese!

POSTATO DA DOMENICO DONZELLI E GIULIA GRISI

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