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martedì 6 settembre 2011

Julia Lezhneva: Rossini Arias. Recensione in sette punti

Punto primo: la cantante. Tre anni fa il Rossini Opera Festival apriva con un concerto di canto di Juan Diego Flórez, intitolato “Il presagio romantico” e dedicato a pagine tratte da La donna del lago e Guillaume Tell. Partner femminile della stella peruviana fu Julia Lezhneva, sconosciuta giovinetta balzata si può dire dal nulla a uno dei più prestigiosi (almeno sulla carta) palcoscenici internazionali, e anzi il massimo (sempre sulla carta) per quanto concerne il cigno di Pesaro. Le accoglienze furono piuttosto tiepide e tali da indurre alla direzione del Festival, da una parte, a reclutare la signorina per l’edizione di quell’anno dell’Accademia rossiniana diretta da Alberto Zedda (come se un corso di perfezionamento “ex post” potesse riscattare quella diciamo stentata serata inaugurale), dall’altro, ad astenersi dal riproporla nelle edizioni successive, come di consueto avviene per i "pulcini" del corso di perfezionamento. Nel frattempo però la Lezhneva era entrata nel giro, come usa dirsi, dedicandosi al repertorio barocco (sarà prossimamente Sesto in un Giulio Cesare diretto da Alan Curtis) e arrivando a collaborare con Marc Minkowski, che l’ha voluta quale paggio negli “Ugonotti” recentemente allestiti a Bruxelles e l’accompagna in questo suo primo recital discografico. Dedicato, manco a dirlo, a Rossini.

Punto secondo: il programma. Come si sa, al giorno d’oggi, il disco non ha ragione d’essere senza il divo e il divo non può esistere senza il disco. Forte di una frequentazione esclusivamente concertistica (ma aspetto di essere smentito dai biografi della signorina) dei rondò di Cenerentola, Elena d'Angus e Zelmira, Julia Lezhneva affronta un programma che unisce, appunto, “Nacqui all’affanno e al pianto”, “Tanti affetti”, la canzone del salice, la cavatina di Semiramide, la preghiera di Pamira e l’aria di Mathilde dal secondo atto del Guillaume Tell. Una scaletta all’insegna dell’eclettismo, che ai tempi di Rossini avrebbero affrontato, con le dovute cautele, una Cinti Damoreau e ancora di più un’Alboni, cantante cui la Lezhneva può in certo modo apparentarsi, o così almeno dovrebbero coerentemente sostenere coloro che l'hanno voluta e magari applaudita quale Urbano. In tempi a noi più vicini una Onégin o una Matzenauer, ovvero una Callas prima maniera, avrebbero senza fatica retto un programma che impone alla voce di passare dal registro di mezzosoprano a quello di soprano centrale, e soprattutto alla cantante di passare dal genere di mezzo carattere a quello tragico, senza perdere smalto, fluidità di vocalizzazione, credibilità e proprietà di accento e di fraseggio. Purtroppo l’ascolto del disco suggerisce ben altri modelli canori, e soprattutto ben diversi termini di comparazione vocale.

Punto terzo: la voce. La prima ottava suona larvale, al punto che i microfoni stentano a captarla, anche perché, nel tentativo di esibire una voce morbida e levigata, la Lezhneva non ricorre a un appoggio costante e sistematico, e quando tenta di coprire il suono (ad esempio nel recitativo di Pamira e nell’aria di Mathilde), riesce solo a produrre suoni tubati, che non hanno neppure la consistenza necessaria a farli definire gutturali. Solo dal do centrale in su la voce acquista un poco di volume, pur senza possedere particolare bellezza timbrica, mentre a partire dal mi/fa (note immediatamente successive al secondo passaggio di registro) compaiono suoni stridenti e asprigni, spia di un’organizzazione vocale, a essere buoni, da principiante. Sentire ad esempio la scala ascendente su “ogni mio duol sparì” nella cavatina di Semiramide o le scale cromatiche del rondò di Elena, eccellente realizzazione, applicata al registro sopranile, del famoso “scalino” vocale teorizzato (e giammai praticato) da Ebe Stignani. Tacciamo poi degli acuti (e parliamo dei la bemolle del Tell come dei si bemolle della Donna e dei si naturali della Cenerentola), ghermiti, quando non gridacchiati, con udibile sforzo. Una vocalità di soprano leggero, insomma, cui l’imperizia tecnica preclude il repertorio che le sarebbe proprio (Philine, Oscar del Ballo, o se proprio vogliamo rimanere a Rossini, le farse veneziane e Jemmy del Tell) a favore di ruoli di cabotaggio centrale, malgrado la cantante non possieda la pienezza timbrica e tanto meno l’accento, sontuoso ed aulico, richiesto da personaggi come questi, trattati dall’autore nel segno dell’astrazione pura.

Punto quarto: il virtuosismo. Di ortodossa matrice baroccara. Sentire le agilità ora accennate, ora sgallinacciate, specie quando cadano nella zona medio-grave della voce (quartine vocalizzate nella seconda parte del rondò di Elena), ora sgranate al rallentatore, con ulteriore impoverimento della linea musicale (preghiera di Pamira), i trilli meccanici e molli (inseriti spesso a sproposito, come nella canzone del salice, in ossequio al principio per cui le note tenute vanno “abbellite” indipendentemente dal carattere della melodia e dalla circostanza drammatica), i sospiri aggiunti e le note in chiusura di frase pigolate (rondò di Elena - "tanTA felicità"), nel discutibile tentativo di “colorare” le frasi alla maniera dei cosiddetti specialisti di musica antica. E tralasciamo le variazioni, scolastiche per numero, qualità e soprattutto esecuzione.

Punto quinto: l’interprete. Tutte le pagine del disco, che siano improntate a gioia o disperazione, vengono proposte con il medesimo accento querulo e piagnucolante, con le stesse inflessioni di infantile dolore, che non mancheranno di suscitare l’entusiasmo dei cultori di certi fenomeni discografici, persuasi che Rossini e l’opera in generale non siano che il pretesto per l’esibizione della presunta “personalità” dei divi, che si contrapporrebbe alla “mera esecuzione” offerta da quei cantanti che, non essendo divi, non possono e non debbono esprimere altro che mancanza di fantasia e originalità speculativa. Alla poetica degli accenti nascosti si sostituirebbe insomma quella degli accenti inudibili. Inudibili ovviamente per orecchie poco o nulla esercitate. Come le nostre, insomma.

Punto sesto: l’accompagnamento. Marc Minkowski, già specialista di musica barocca e ora più in generale faro della musica francese, rende un ben povero servizio a Rossini, raddoppiando in orchestra la mollezza, l’assenza di inflessioni, la secchezza di suono offerte dalla solista. Forse parte del “merito” spetta alla modestia delle forze coinvolte (Sinfonia Varsovia e Warsaw Chamber Opera Choir, a dir poco dilettantesco specie nella Donna del lago), ma la Sinfonia della Cenerentola, unica pagina puramente sinfonica del disco, suona piatta e meccanica, animata solo nei crescendo, che risultano tuttavia più caotici e rumorosi che travolgenti e brillanti.

Punto settimo: il fantasma. In questo disco, come in recenti cimenti teatrali, aleggia, o per meglio dire incombe, il fantasma di una cantante, mitica e poderosa in ogni senso, che periodicamente agenzie di canto, case discografiche, teatri e primedonne si piccano di richiamare in vita, in tutto o in parte. A questa cantante il Corriere dedicherà prossimamente una serie di riflessioni. Non già, come maligneranno alcuni, per manifesta incapacità di cogliere nell’ubertoso panorama odierno la presenza di numerose eredi potenziali (benedette o meno dal disco), ma per chiarire in primo luogo a noi stessi in che cosa consista la parabola storica e musicale di quell’incognita chiamata Isabella Colbran.



Gli ascolti

Rossini


La Cenerentola


Atto II

Della Fortuna instabile...Nacqui all'affanno e al pianto - Frederica von Stade (1974)


La Donna del lago

Atto I

O mattutini albori - Angeles Gulín (1974), Frederica von Stade (1981), Lucia Aliberti (1990), Julia Lezhneva (2008)

Atto II

Fra il padre e fra l'amante - Frederica von Stade (1981)










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venerdì 20 agosto 2010

Mese di agosto XI - Opera tragica, terza puntata: Medea in Corinto

Giovanni Simone Mayr, conosciuto tutt’al più per essere stato il maestro di Donizetti (che nel 1806 ebbe i suoi primi rudimenti musicali proprio grazie alle Lezioni Caritatevoli che il compositore tedesco aveva istituito a Bergamo), fu in realtà autore molto fecondo e, per un certo periodo, conobbe fama, successi e onori. Nato in Baviera nel 1763, ricevette la propria istruzione musicale dal padre, perfezionandosi in breve tempo nello studio della viola di cui divenne riconosciuto virtuoso. Si trasferì presto in Italia (prima a Venezia e poi a Bergamo), dove si svolse la sua parabola artistica. Le sue spoglie riposano nella cattedrale della sua città d’adozione, accanto a quelle dell’allievo prediletto. Uomo di cultura (studiò diritto canonico e teologia all’università di Ingolstadt) e con la passione per la didattica, scrisse quasi 70 opere nell’arco di un trentennio – fino al 1824, quando i disturbi alla vista (che lo portarono alla quasi totale cecità) lo costrinsero a ritirarsi dal teatro – a cui vanno aggiunte almeno 60 sinfonie, 12 oratori (la maggior parte risalente al periodo veneziano) e poi cantate, messe, mottetti, inni, sonate, concerti, balletti, musica da camera, lieder e canzoni.

Scrisse anche un gran numero di testi teorici (ad uso dei suoi allievi). Oggi la quasi totalità del suo vasta catalogo è dimenticata, eppure i suoi lavori furono premiati da generosi successi in Italia e in Europa, e da continue riprese, almeno sino alla metà del secolo. Mayr è figlio della grande cultura musicale europea, che bene aveva appreso la lezione di Haydn, Mozart e Beethoven: fu tra i primi a diffondere in Italia la conoscenza e lo studio dei grandi maestri austriaci e tedeschi (diresse, tra l’altro, la prima esecuzione italiana della Creazione, proprio a Bergamo nel 1809). E già come Cimarosa (i cui Orazi e Curiazi hanno aperto questo nostro breve excursus nell’opera italiana tra Rossini e Donizetti) appare come una specie di estraneo nel panorama musicale della penisola, ancora impantanato nelle formule ormai svuotate dell’Opera Seria. Ogni volta che viene riscoperto un titolo del suo catalogo, infatti, si resta sorpresi per l’abilità della scrittura musicale, che unisce all’eccellenza tecnica (nella costruzione sinfonica dell’ordito orchestrale, con ampie e spettacolari concessioni ad inserti concertanti), la padronanza delle forme e la robustezza dell’ispirazione. Mayr riesce a fondere mirabilmente le conquiste della cosiddetta riforma gluckiana (nei suoi più elaborati sviluppi “francesi”: in particolare Cherubini) da cui gli deriva l’afflato tragico e la tensione drammatica, con le più complesse costruzioni musicali di Haydn e Mozart, lasciando intravedere – pur solo sullo sfondo – l’imminente esplosione romantica (che segnerà in modo più compiuto la generazione successiva: quella del melodramma donizettiano e belliniano) di cui anticipa linguaggi e suggestioni.
Scrisse quasi 70 opere – si diceva – e tra i tanti titoli, particolare attenzione merita quello che è riconosciuto essere il suo capolavoro: Medea in Corinto. Scritta “alla maniera francese”, per soddisfare i gusti della corte di Giacchino Murat, per la celebrata ugola di Isabella Colbran (la futura Signora Rossini), fu rappresentata per la prima volta il 28 novembre 1813, al San Carlo di Napoli. Fu un trionfo. Accanto alla Medea della Colbran, Andrea Nozzari e Manuel Garcia si spartivano i difficilissimi panni tenorili di Giasone ed Egeo, Michele Benedetti (creatore di numerosi ruoli rossiniani: Elmiro, Idraote, Mosé, Ircano, Fenicio, Douglas, Leucippo) interpretò Creonte, Teresa Luigia Pontiggia fu Creusa e nel ruolo minore di Tideo si esibì Domenico Donzelli (una curiosità: tra le comparse – quale figlia di Medea – apparve per la prima volta sul palcoscenico di un teatro la figlia di Garcia, che, nel giro di qualche anno, sarà universalmente conosciuta come Maria Malibran). Fin da subito la stampa, i critici e il pubblico si resero conto di essere di fronte ad uno dei lavori più importanti dell’epoca. L’opera, subito ripresa l’anno successivo, iniziò presto a girare i maggiori teatri italiani ed europei: nel 1821 a Dresda, nel 1823 a Milano e a Parigi dove si “appropriò” del ruolo di Medea, Giuditta Pasta, che poi portò l’opera a Londra (nel 1826, 1827, 1828, 1831, 1833 e 1837), a Napoli e ancora a Parigi (1826) e a Milano (1829). Fino al 1850 a Londra – interpretata da Teresa Parodi (allieva della Pasta) – nella sua ultima apparizione nel secolo XIX. I maggiori cantanti dell’epoca interpretarono l’opera nelle sue tante riprese: Elisabetta Ferron, Fanny Ayton, Carolina Hunger, Domenico Donzelli, Giambattista Rubini, Gilbert Duprez, Vincenzo Galli, Luigi Lablache...

Lo stesso Mayr apportò alcune modifiche per la ripresa del ’23 per meglio adattare il testo alle esigenze dei nuovi interpreti: in particolare accanto a modifiche minori e ad un duetto ripreso da un lavoro precedente, dotò Giasone di una nuova e spettacolare cavatina (di dubbia paternità però, giacché identica – o quasi – ad un brano della coeva Zoraida di Granata: per cui non si riesce a stabilire se questo fosse di mano donizettiana o se quello che compare nell’opera di Donizetti fosse stato in realtà scritto da Mayr) e aggiunse un’impervia cabaletta per Egeo.
Vista da vicino l’opera rappresenta il meglio dello stile di Mayr. La complessità sinfonica è evidente sin dall’overture e dalla ricca ed elaborata introduzione; i numeri si fondono l’uno con l’altro senza cesure e interruzioni, grazie all’uso sapiente dei recitativi accompagnati e dei cantabili che collegano i brani solistici e i pezzi d’insieme. L’uso del coro rivela la familiarità dell’autore con il genere oratoriale, mentre le ricche introduzioni alle arie, sono veri e propri dialoghi tra voce e strumento obbligato. La scrittura vocale è sì fiorita e virtuosistica, ma mai in modo meccanico o fine a sé stesso (l’uso della coloratura richiama quello del Mozart delle grandi arie da concerto) e le pur spettacolari difficoltà appaiono finalizzate all’espressione di drammaticità e tragedia, più che al mero esibizionismo vocale. Di grande spessore drammatico le arie della protagonista, in particolare la scena delle ombre nell’atto II, ma in generale tutti i suoi brani solistici mostrano una superba concezione musicale, incentrata sulla severità e la tragicità dell'accento: dall'aria di sortita con il violino obbligato a quella finale (di cui sono state tramandate due versioni con differenti gradi di coloratura e diversi strumenti solisti: corno inlgese e violino). Più smaccatamente virtuosistici i brani per i due tenori e e per Creusa (in particolare l'episodio che apre l'atto II con la suggestiva arpa obligata e l'elaboratissima scrittura fiorita). Ciò che colpisce, dopo l'ascolto, è la cura del minimo dettaglio e la coerenza compositiva, l'ampio respiro dell'invenzione musicale: il tutto denota una consapevolezza superiore, decisamente superiore, alla stragrande maggioranza della musica coeva, tanto che per raggiungere la stessa eccellenza bisognerà attendere il miglior Rossini napoletano. Opera dunque che presenta molteplici punti di interesse, ma che sconta delle difficoltà oggi quasi insormontabili per una sua compiuta riscoperta: richiede una protagonista che possa padroneggiare il canto declamato e tragico (di ascendenza cherubiniana), due tenori capaci di affrontare ruoli monstre per difficoltà ed esigenze, una seconda donna dalla coloratura sicurissima, un'orchestra che sappia suonare davvero (abituata a Mozart e Haydn, non come certi complessi più o meno festivalieri che paiono ensemble semi dilettantesche e si limitano ad eseguire - spesso maluccio - le mere note) e un direttore d'orchestra capace di non ingarbugliarsi negli intrecci dell'orchestrazione (non un mero accompagnatore di primedonne...destinato, nel caso di Mayr, a soccombere). In gran parte insoddisfacenti i più recenti tentativi di riesumazione (con la sola eccezione della bella incisione Opera Rara): sia i più risalenti nel tempo (1969 e 1977) che paiono costruite solo sulla protagonista (rispettivamente la Galvany e la Gencer) ma che attorno ad essa sfoggiano il nulla (con punte di imbarazzo per i tenori e la direzione d'orchestra), oltre ad essere funestate da tagli sconsiderati; sia l'ultima uscita cronologicamente, registrata dal vivo nel 2009 in Svizzera e basata sulla nuova edizione critica dell'opera (di cui viene scelta la versione del manoscritto del '21, assai più comoda per gli interpreti, e che contempla numerosi raggiusti e tagli d'autore, per adattarla alle più modeste capacità della compagnia milanese). Una nuova produzione di Medea verrà presentata a Monaco, nell'ottobre di quest'anno, con la direzione di Ivor Bolton (onesto kappelmeister del Mozarteum di Salisburgo di ascendenza baroccara, non molto dotato di fantasia, ma in grado, si spera, di non ridurre l'accompagnamento ad una bandaccia), la rediviva Iano Tamar nel title-role, Ramon Vargas nei difficili panni di Giasone (confermandosi ancora tenore in cerca d'autore), nonchè l'immancabile regia alla tedesca: in questo caso il pernicioso Neuenfels.

Gli ascolti

Giovanni Simone Mayr

Medea in Corinto


Melodramma tragico in due atti

Libretto di Felice Romani

Prima rappresentazione: 28 Novembre 1813, Teatro San Carlo di Napoli



Atto I

Come! sen riede...Sommi Dei - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

Cedi al destin Medea - Allen Cathcart & Marisa Galvany (1970), William Johns & Leyla Gencer(1977)

Dolce figliuol d'Urania...Scendi Imene...Vanne a terra - Marisa Galvany, Allen Cathcart, Joan Patenaude, Robert White & Thomas Palmer (1970), Leyla Gencer, William Johns, Cecilia Fusco, Ginfranco Pastine & Gianfranco Casarini (1977)

Atto II

Dove mi guidi?...Ogni piacer è spento...Antica notte - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer(1977)

Ma qual fioco rumor...Se il sangue, la vita - Marisa Galvany & Robert White (1970), Leyla Gencer & Gianfranco Pastine (1977)

Ismene, o cara Ismene...Miseri pargoletti...Era tua sposa - Marisa Galvany (1970), Leyla Gencer (1977)

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martedì 3 agosto 2010

Mese di agosto I - Opera tragica, prima puntata: Gli Orazi e i Curiazi

Gli Orazi e i Curiazi, che ebbero la loro prima rappresentazione al teatro La Fenice di Venezia il 26 dicembre 1796 devono fama e sopravvivenza forse non solo alla qualità - altissima - della musica, ma all’amore che grandi cantanti ebbero per la coppia Orazia e Curiazio degli infelici amanti, politicamente opposti come Romeo e Giulietta.

L’amoroso, sopranista, venne creato da Girolamo Crescentini (1762-1846), Orazia, invece, da Giuseppina Grassini (1773-1850); entrambi portarono, poi, il melodramma nella Parigi napoleonica. Nessun altro titolo e nessun altro argomento erano più in sintonia con il neoclassicismo napoleonico. Inoltre nella capitale francese il melodramma beneficiò della sostituzione delle arie originali cimarosiane di Orazia con altre composte da Marco Portogallo (1762-1830). Altri motivi di fama accompagnano l’opera: ad esempio la grande aria di Curiazio “Quelle pupille tenere”, (atto primo scena quinta) che rimaneggiata nei tempi e nella struttura divenne il motivo di interesse per il ruolo da parte di altro sopranista Giovann Battista Velluti (1760-1841), interprete, fra l’altro a Napoli nel 1806-’07, mentre Orazia rimase uno dei “ruoli” della Grassini che con lo stesso 1817 diede l’addio alla Scala ed alle scene, prima che un’altra grande tragedienne, sua allieva, Giuditta Pasta lo cantasse spessissimo nella prima fase della carriera.
Per fortuna di Cimarosa e nostra, credo la circostanza sia ignota alla attuale reincarnazione di Giuditta Pasta.
Se ciò non bastasse l’opera seria che si prova nel dramma di Gnecco (anno 1811) sono proprio gli Orazi e Curiazi e tacciamo dei peana che Stendhal spese per questo melodramma, per lui il paradigma e più alta realizzazione dell’opera seria italiana.
Che cosa trova e ascolta oggi chi si avventura negli Orazi e Curiazi?
In primo luogo, come insegna Stendhal, lo stile italiano dalla melodia semplice ed ispirata che imperò sino al Tancredi di Rossini, poi, votato all’armonia ed alla costruzione melodica d’Oltralpe.
Modello assoluto l’aria di Curiazio, le famose pupille tenere, ma anche le originali cimarosiane di Orazia “Nacqui è ver fra grandi eroi" (atto primo) e “Se pietà nel cor serbate” (atto secondo, scena ottava). Per capire come venisse vissuta e intesa l’arte di Giuseppina Grassini si può richiamare la recensione pubblicata sul Corriere delle dame all’indomani dell’ interpretazione di Orazia che così giudica la prestazione. “La scienza logica della vera musica essa la fa consistere non già nell’impeto esagerato di svolgere i tuoni, ma nella dolce e compassata energia, che sostiene la musica senza sforzo e senza esagerazione. Essa a quando a quando ci rese accorti che sa sorprendere l’orecchio coi ricami di bravura, ma sempre si ricompose nei confini dell’ingenua arte del canto italiano”.
E poi trova lo stile tragico riservato soprattutto ad Orazia ed ai grandi recitativi. Alla protagonista femminile spetta il finale ossia l’invettiva contro Roma e gli dei, per altro dopo una sezione di duetto con il fratello “Svenami ormai crudele” tragica e nobile al tempo stesso. In questo senso la matrona romana supera i personaggi drammatici di Traetta come Antigone ed Ifigenia ed anche la Vitellia mozartiana, costituisce Orazia l’indiscusso modello drammatico e vocale delle grandi tragiche del belcanto, che conosceranno l’apice con Isabella Colbran. Certo alla tragedienne del belcanto è fatto obbligo di essere vocalmente una grande virtuosa si chè alla Grassini, non bastando quanto composto da Cimarosa, provvide all’integrazione doviziosamente Marco Portogallo. Con una tale dovizia che Anna Caterina Antonacci, Orazia nell’edizione romana del 1989, che riproponeva i numeri di Portogallo, è ben inferiore al compito. Offriamo, però, l’esecuzione e per esemplificare quella che nel canto di agilità potesse essere l’arte di Giuseppina Grassini e per il confronto fra arie originali ed alternative.
Quanto, poi, ad un altro topos del melodramma ante Rossini ossia le elaborate strutture musicali, che superino l’aria tripartita, il momento più alto è realizzato nel finale secondo, affidato al giovane Curiazio, che lacerato fra amore per Orazia ed amore di patria, scende in un oscuro anfratto a consultare gli oracoli incontrandovi e scontrandosi con gli altri protagonisti. L’ascendenza con le scene dei travesti di Handel incatenati e languenti (Bertarido di Rodelinda, ad esempio) è evidente, ma ancor più chiaro che Curiazio precede, nel vagabondare dell’anima, Arsace di Aureliano, Tancredi e anche Arsace di Semiramide, oppresso da edipiche rivelazioni. Quello che accomuna in questi melodrammi il musico è, sotto il profilo drammaturgico, il contrasto che vive, esplicitato in musica dapprima con melodie lunghe e lamentose (“A versar l’amato sangue” piuttosto che “In sì barbara sciagura”) e poi, una volta assunta l’eroica decisione in perigliosi passi acrobatici. Sarebbe molto interessante sapere quali fossero gli abbellimenti di Crescentini o Velluti in una scrittura di suo già piuttosto minuta.
Ai guerrieri sono poi riservati i momenti epici e marziali, quelli che più nella nostra immaginazione evocano scultura e pittura neoclassica. Al registro centrale ampio e probabilmente brunito di Marco Orazio è affidata la grande aria “Se alla patria ancora donai” all’atto primo scene settima ed ottava per la quasi è tautologico parlare di evidenti anticipazioni dell’aria di Argirio. La struttura dell’aria recitativo, aria (in tempo andante) e cabaletta con intervento e dialogo del coro è una delle prime applicazioni di un modello che imperverserà nell’opera italiana sino al 1850.
Il titolo più famoso del giovane Rossini deve essere chiamato in causa per i due grandi duetti: quello di sfida fra Orazio e Curiazio, che chiude il primo atto è costituito, come tutti i grandi duetti del melodramma ottocentesco, da tre sezioni di cui prima e terza in tempo veloce e la centrale in tempo lento, formula questa che proprio in Tancredi apparirà semplificata in due sole sezioni; la mozione degli affetti, invece, spetta al duetto del secondo atto fra gli innamorati, di struttura più semplice, ossia un primo movimento “Se torni vincitor” e la chiusa in sticomitia fra le due voci come avverrà per la stretta dell’ultimo grande duetto rossiniano, ossia il “Tu serena intanto il ciglio” della Semiramide.
Preciso: gli Orazi e i Curiazi sono del 1796, Semiramide del 1823. Le date non servono per nozionistica erudizione, ma per confermare – credo - le ragioni dell’ammirazione che Stendhal aveva per questo, oggi obliato, titolo e le ragioni di una permanenza quasi quarantennale in repertorio in pieno “ciclone” Rossini.


Gli ascolti

Domenico Cimarosa

Gli Orazi e i Curiazi


Tragedia per musica in tre atti

Libretto di Antonio Simeone Sografi

Prima esecuzione : 26 Dicembre 1796, Teatro La Fenice di Venezia


Atto I

Germe d'illustri eroi...Oh, dolce e caro istante - Gianna Rolandi, Anna Caterina Antonacci & Franco Farina (1989)

Quelle pupille tenere - Daniela Dessì (1983), Gianna Rolandi (1989)

Non dubitar...Se alla patria ognor donai - Mario Bolognesi (1983), Franco Farina (1989)

Lascia almen ch'io riprenda...Nacqui è ver fra grandi eroi - Katia Angeloni (1983)

Aria alternativa di Marcos Antonio Portugal (1798):
Lascia almen ch'io riprenda...Frenar vorrei le lagrime - Anna Caterina Antonacci (1989)

Quando nel campo armata - Daniela Dessì & Mario Bolognesi (1983)

Atto II

Lasciami per pietà...Se torni vincitor - Gianna Rolandi & Anna Caterina Antonacci (1989)

Se pietà nel cor serbate - Katia Angeloni (1983)

Aria alternativa di Marcos Antonio Portugal (1798):
Ah sì, succeda...Ah, pietà del pianto mio - Anna Caterina Antonacci (1989)

Eccoti, Orazio alfine...Dolce fiamma di gloria, d'onore - Franco Farina (1989)

Qual densa notte...Ei stesso intrepido...A versar l'amato sangue...Dunque al campo - Daniela Dessì (con Katia Angeloni, Mario Bolognesi, Giuseppe Fallisi, Tai Li Chu-Pozzi - 1983), Gianna Rolandi (con Anna Caterina Antonacci, Franco Farina, Edoardo Guanera, Patrizia Dordi, Yoko Hadama - 1989)

Giusti Dei! - Katia Angeloni (1983)

Dov'è lo sposo mio?...Svenami ormai, crudele - Katia Angeloni & Mario Bolognesi (1983), Anna Caterina Antonacci & Franco Farina (1989)

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mercoledì 6 gennaio 2010

Joyce Di Donato canta "Colbran-The Muse"

E così, dopo il Rubini di J.D.Florez e Maria (Malibran) di C. Bartoli, eccoci al recital dedicato ad un’altra figura mitica del belcanto italiano, (Isabella) Colbran, la Musa, di J. Di Donato. Di nuovo restiamo delusi ancor prima di aver ascoltato il disco dato che il programma è dedicato a ruoli composti per lei esclusivamente da Rossini, dimenticando la Di Donato di attingere brani dal nutrito gruppo di opere che altri e diversi musicisti di primo e secondo piano composero per la Diva spagnola.

Il programma del disco ci restituisce, dunque, una visione parziale della vocalità del cosiddetto “soprano Colbran”, ossia quella di cui si è tanto parlato in questi anni di penombra della Rossini renaissance, in cui si è giunti a far coincidere inopinatamente la vocalità della mitica cantante con quella del “mezzo acuto”( peraltro regolarmente incarnato da soprani lirici dalla voce indietro… ), dimenticando tutti che la signora, tra il 1811 ed il 1822, oltre alle 10 opere per lei composte da Rossini, diede voce alle protagoniste di Vestale di Spontini, Medea in Corinto di Mayr, Donna Caritea Regina di Spagna di Farinelli, la Donzella di Raab di Garcia, Arianna a Nasso e Alonso e Cora di Mayr, Il Califfo di Bagdad di Garcia; la Morte di Semiramide di Nasolini; Ginevra di Scozia di Mayr; Il Sogno di Partenope di Mayr; Gabriella di Vergy di Carafa; Aganadeca di Saccenti; Paul e Virginie di Guglielmi; Mennone e Zemira di Mayr; Ifigenia in Tauride di Carafa; Boadicea Regina delle Amazzoni di Morlacchi; Solimano II e Adelaide di Baviera di Carlini; Sofonisba di Paer; l’Apoteosi di Ercole di Mercadante ( in compagnia della Pisaroni, David e Nozzari ); Valmiro e Zaida di Zampieri, naturalmente inframezzate da titoli rossiniani anche diversi da quelli per lei notoriamente composti, quali Tancredi ( nel title role, presso teatro del Fondo ); Torvaldo e Dorliska; Gazza Ladra etc..Il tutto ad un ritmo di serate che a cavallo del 1816-1818 era nell’ordine di circa 100-120 serate l’anno presso il solo Teatro di San Carlo di Napoli, palcoscenico principale della sua carriera.
Insomma, sarebbe bastato alla signora Di Donato un pomeriggio napoletano in quel luogo straordinario che è la Biblioteca del Conservatorio di S. Pietro a Majella, ove giace la più parte degli spartiti rappresentati al Teatro San Carlo, oppure sottotitolare più correttamente il disco “The Muse of Rossini” per evitare almeno la topica filologica del titolo del disco.
Detto questo, entriamo nel merito della voce e dell’esecuzione offertaci dalla signora Di Donato, che nessuna ridefinizione del sottotitolo può salvare dalle critiche.

Tralasciando di contestare per la milionesima volta l’equivalenza indimostrata dai guru del ROF Colbran = mezzosoprano acuto, o meglio Colbran = mezzosoprani acuti attuali, alla signora Di Donato fa difetto, nel tentativo di assurgere se stessa al ruolo di moderna Colbran, una tecnica di canto di tradizione italiana ( quella di scuola Horne – Callas - Sutherland tanto per intenderci ) ed un gusto schiettamente rossiniano.
Sul lato tecnico, la signora Di Donato è carente sia sul passaggio grave, ove la voce resta vuota oppure di petto, che su quello alto, caratterizzato da evidenti fissità, mi-fa in particolare. Le note acute ( la nat e si bem.) sono sottili rispetto al centro, mentre i gravi non si prestano ad una emissione stilizzata. Ne soffre anche l’agilità, in particolare l’esecuzione delle quartine, che risulta priva di vigore, sfarfalleggiata e poco fluida, sia nel canto di forza che in quello di grazia.
Per quanto il mezzo naturale si sia impoverito negli armonici come nella pienezza del suono che, al contrario, possedeva nei primi anni di carriera, la Di Donato può convincere soltanto laddove il canto rossiniano non richieda qualità di legato per la presenza di frasi declamate ed aggressive, ossia nel finale di Armida. Anche quando il carattere del personaggio è lirico, come nella preghiera di Desdemona, la signora Di Donato tende a cantare secondo l’odierno modo “baroccaro”, privando Rossini della sua imprescindibile connotazione classica, metaforica ed aulica, che solo l’emissione belcantista di tradizione italiana può restituire. L’accento, infatti, si fa “mignardise”, arrivano puntuali i sospiretti e le pause non previste che tolgono nobiltà alla linea di canto ( si veda la scena di Desdemona di Otello, ad esempio ). Rievocare la Colbran significa implicitamente eccellere sia nello stile tragico sia in quello grazioso grazie all’accento aulico ed allo slancio nel virtuosismo. La Di Donato, invece, ci fa sentire agilità “bartolesche”, insopportabili ed inadeguate allo stile di Rossini ( si vedano l’aria di Armida ed il rondò di Donna del Lago ), segno della barocchizzazione in atto del compositore ed opportunamente abbracciata anche da questa cantante. Dato che nel canto “baroccaro” gli interpreti finiscono per essere tutti uguali per modalità e risorse espressive, tanto che persino i timbri si fanno così smunti da rassomigliarsi l’un con l’altro, i brani finiscono per perdere le loro specificità drammaturgiche, perchè risolti nell’antinomia lento-velocissimo, pianino – forte, con le agilità senza mordente e slancio drammatico, mitragliate nevroticamente “Bartoli style”.
Il genio di Rossini è rispettato limitatamente, perché la diva americana inciampa inaspettatamente in passi come il rondò di Elena e la cavatina di Elisabetta Regina d’Inghilterra, mentre il mito di Isabella Colbran è inspiegabile, poiché nulla di ciò che venne grandiosamente scritto per lei può essere stato concepito per il modo di cantare esibito dalla Di Donato in questo disco.

Tanto per esemplificare sperando di non essere noiosi ripetitivi, atteso che i vizi dell’esecutrice e dell’interprete ricompaiono precisi e puntuali in ogni brano.

“D’amore al dolce impero”; “ Se il mio crudel..”, Armida
Alle prese con la maga Armida, che pare fosse una delle realizzazioni più complete di Isabella Colbran (la di Donato propone sia la famosa aria con variazioni che il grandioso finale), la novella Colbran esibisce voce vuota e fioca nella zona grave, difficoltà a scandire ed accentare le agilità, con particolare riferimento alle quartine vocalizzate, sicchè le agilità di forza divengono agilità di grazie, accennate secondo al miglior scuola del “farfuglio” messa in onda dalle Caballé e Ricciarelli e diventata la peculiarità della attuali cantanti.
Le cose vanno leggermente meglio con il grandioso finale, forse il passo migliore dell’intero recital. Abbastanza facile perché il passo non richiede mai canto legato, come accade nella sezione centrale.
Buono l’attacco del recitativo, sempre in difficoltà nelle quartine di “L’alma tua nudrita” .
L’altro guaio e limite piuttosto evidente sono le note tenute che suonano fisse. E se la sezione centrale, che non richiede canto legato non prevede neppure inutili sospetti, al più consoni a personaggi di mezzo carattere, ma non ai soprani tragici. N più nel canto spianato la cantante suona fissa nella zona, che sarebbe del passaggio, secondo il dettato baroccaro e gli acuti (vedi i si nat scoperto di “vieni” o i si bem estremi delle quartine) suonano piccoli e senza ampiezza. Caratteristiche che sono il risultato del cantare senza adeguato sostegno del fiato.
Una postilla per la direzione bandistica e pesante, che fa assurgere ad direttore di rango persino il vituperato Tullio Serafin, che riscoprì l’opera in compagnia di Maria Callas.

“Tanti affetti”, La Donna del Lago
Quando affronta il finale di donna del lago ossia il famoso “Tanti affetti”, brano brillante, ma non strettamente di genere grande agitato come il finale di Armida la di Donato ricorre prevalentemente ad emissioni flautate ( e, poi, prive di appoggio); la tessitura non propriamente acuta, ma nella zona del passaggio porta a suoni spesso stonati ( vedasi il “tronco accento”) o a patteggiamenti di sonorità ed ampiezza come i suonini di “tu sapessi a me donar”. Non che la circostanza sia una novità, perché alcuni soprani alle prese con Elena d’Angus hanno sfarfalleggiato ed alleggerito, ma in un recital che si proporrebbe di celebrare la grandiosa vocalità di Isabella Colbran, la cantante che Rossini, pur sentite la Pasta, la Malibran, la Sontag e la Grisi, continuò a ritenere la più grande è proprio stridente.
La perla è rappresenta dalle variazioni “neo liberty”, non autografe ( e sì che l’edizione critica del titolo gronda varianti d’autori o coeve) , come gli staccati inseriti nelle ripetizioni. E poi abbiamo scritto dell’antirossinianità di molte esecutrici e del Barbiere e della Semiramide ree di avere interpolato picchettati e staccati.

“Quanto è grata all’alma mia”, Elisabetta Regina d’Inghilterra
Se Armida è il pezzo migliore la cavatina di sortita di Elisabetta, che fu il primo ruolo di Rossini per Isabelita è il peggiore. Non andremo a tirare fuori i difetti vocali, che sono gli usati, ma l’ingresso di una regina che sembra una pastorella dell’Arcadia…o Almirena di Rinaldo!!!!
Rossini non è mai stato slavato; l’insignificante contrasto piano-forte, lento-veloce non è la dinamica ed agogica libera e staccata dal metronomo, che era risaputo essere un punto di forza degli esecutori del bel canto, ma una acritica e noiosa adesione alla moda baroccara. Per altro non potrebbe che essere così, in quanto il canto non di scuola ed immascherato non consente di sfumare e modificare in maniera continua ed impercettibile, ma solo di procedere a strappi e balzelloni, senza autentico legato e dinamica

“Bel raggio lusinghier”, Semiramide
Qui si confronta con il Gotha del belcanto.... e volano i fendenti che le arrivano dal passato prossimo come da quello remoto! Una cosuccia questo Bel raggio di fronte a certe dame dei 78 o alla Sutherland o ad alcune sue dirette ed autentiche eredi…..!
Buono l'accento del tempo d'attacco, ma sempre con gli acuti sottili e le agilità “sorvolate” e senza peso, con le quali non può competere con le grandi esecutrici di questa aria. Arriva poi una interpolazione-non interpolazione (!) tra la prima e la seconda strofa del “Dolce pensiero”, ossia una nota tenuta pergiunta fissa, negazione in termini del significato che queste aggiunte ricoprono da che esiste il belcanto, tanto che l'ascoltatore resta in attesa che arrivi qualcosa....che non si sente.
Prosegue scopiazzando malamente la Horne nella prima sezione del da capo, abortendo completamente la sezione finale dell’aria dove, non potendo interpolare verso l’alto da soprano vero, né inabissarsi nel pentagramma come un mezzo vero, decide di restare sul centro, impantanandosi tra due strilletti e tre coccodè che non dicono nulla. Non trova una soluzione musicale di effetto e slancio idonea alla chiusa di un pezzo che va in crescendo, e non ammosciandosi, senza, peraltro, farci sentire, del soprano centrale o mezzo che dir si voglia, una voce piena e corposa.
Insomma un insoluto perfetto, cui peraltro ormai siamo avvezzi al giorno d’oggi, privo anche della presupposta sensualità del personaggio di Semiramide.



Insomma, questi dischi intitolati alle figure mitiche del belcanto continuano ad essere iniziative di natura commerciale, finalizzate alla pubblicizzazione di eventi teatrali impellenti, e non di natura culturale, come invece si vorrebbe far credere. Le prerogative vocali del cantante ottocentesco, prescelto perché privo di testimonianze audio, quindi, più facilmente mistificabili, non vengono né ricostruite sulla base di indagini accurate sul corpus degli spartiti per questo composte, né riproposte in modo adeguato alle prassi vocali che la tradizione ci ha tramandato. E regolarmente le prerogative che li resero famosi non appartengono ai cantanti che pretendono rievocarli! Salta agli occhi la differenza di stile e contenuti che intercorre tra le brevi note che accompagnano le scelte mirate ed oculatissime di un Bonynge per i due volumi dell’Art of Primadonna di Joan Sutherland o quelli dei recitals rossiniani o dei Souvenirs of a Golden Age di una Horne che, intrisi di conoscenze e riflessioni accurate, mai proponevano la completa assimilazione dell’esecutore moderno ad una figura del passato, non foss’altro perché quelle signore erano certe che avrebbero posto anche il loro, di nome, nella storia del canto. Per loro il canto era un'arte solidamente fondata sulla cultura, la conoscenza del passato, la perizia vocale, l'onestà intellettuale. Per noi è solo ......business!



Gli ascolti

Rossini

Otello


Atto III

Assisa a piè d'un salice - Marilyn Horne (1971)

La donna del lago

Atto II

Tanti affetti - Martine Dupuy (1992)

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lunedì 10 agosto 2009

Zelmira, versione Parigi 1826

Allestire opere come Zelmira fu da subito ardua impresa e tale rimase sino alle moderne riprese della Rossini renaissance. A maggior ragione lo è in tempi come quelli correnti, carenti di fuoriclasse, ma mentre si può invocare la clemenza del pubblico in fatto di tenori, attese le mostruose scritture dei due protagonisti, meno lecito è il farlo in punto di primedonne o di bassi, almeno stando a quel che Rossini in questo titolo esige.
In questa produzione di Zelmira il ROF è riuscito miracolosamente nel contrario, andando oltre le aspettative con le voci acute maschili e deludendo nel resto, nella scelta della protagonista soprattutto.

Gregory Kunde, Antenore,si è ritagliato una seconda carriera da baritenore, fatto che gli fa grandissimo onore, perché ne prova l’alta perizia tecnica che ha fatto grande tenore belliniano. L’ampiezza del mezzo vocale, conquista degli ultimi anni, oltre ad un buon virtuosismo di forza, gli consentono, ad onta dell’età, di dar senso agli antagonisti di Nozzari. Kunde ha cantato come un vecchio leone, esperto e intelligente, gestendo virtù e limiti con sapienza…antica. Spartito alla mano si è scontato pochissimo di quanto previsto, eseguendo anche bellissime variazioni nella cabaletta della sortita. Qui la voce, come capita ai cantanti di lungo corso, ha impiegato tempo a carburare ed i brutti suoni sono stati tanti, in alto soprattutto, ma il tenore ha eseguito tutto a meno della cadenza dell’aria .
Nella seconda scena solista, “Mentre qual fiera ingorda”, terribile per i salti e la coloratura, si è riacconciato, con mestiere, alcuni battute delle frasi iniziali e di quelle bassissime, al la sotto il rigo, “..le leggi infrange ognor..”, come pure le code della successiva cabaletta, ma non ha mai rinunciato a cantare di forza e ad accentare. Nel terribile “Figli miei di Lesbo” che introduce il grandioso è stato davvero impressionante. L’età del tenore si sente laddove mostra il “buco” in zona di passaggio alto, più raramente in quello basso: ha stonato ad esempio, negli attacchi sul fa del quintetto del I atto, “La sorpresa o stupore”, ed in qualche momento del quintetto del II atto, ma il canto come il personaggio nel complesso hanno girato sino alla fine, con pertinenza d’accento, recitativi compresi.

J.D. Florez ha domato la scrittura di Ilo oltre le aspettative, e non è poco data l’altezza ed il virtuosismo che connotano la parte. Il tenore peruviano, definito dai commentatori radiofonici il più grande tenore rossiniano vivente è al di sotto delle esigenze della parte. E prima che vocalmente come interprete. Basta sentire come esegue i recitativo di Ilo all’inizio del secondo atto privo del tono dolente e disperato che compete ad Ilo, prodromo degli eroi belliniani, Gualtiero in primis Personaggio questo che viene largamente anticipato nel terzetto “il figlio mio” atto primo, dove Florez manca di ampiezza nel recitativo e dove nel cantabile non può che aprire i suoni per simulare la tragicità di cui la voce nondispone. Quanto all’aspetto vocale Florez oggi canta sempre con evidente nasalità in zona acuta, aprendo il suono sul passaggio e sui primissimi acuti e vibrando più sopra. Quanto agli acuti estremi (do e re di cui è costellata la parte) sono raggiunti di preferenza sulla vocale “I” ed a condizione di rallentare il tempo prima di sparare la nota acuta. Fra l’altro sparare gli acuti estremi, ossia sostituire i passi vocalizzati con acuti (come accade nell’esecuzione della semplificata cadenza del’aria o nel duetto con Polidoro alla frase “splende sereno”), spianare le figure acrobatiche nei da capo, che richiederebbe un aumento e non la riduzione della coloratura ( note ribattute del da capo del duetto con Zelmira), semplificare le cadenze (recitativo di sortita sulla parola “amato”, quella alla chiusa dell’andantino della sortita) mancare di mordente nelle agilità è la negazione del canto e dello stile rossiniani.
Intendiamoci bene: il rappezzo ,il raggiusto sono giusti e leciti e lo insegna proprio in questa Zelmira l’autore medesimo, ma lo spirito dell’autore ossia quello del personaggio non possono essere modificati e traditi. Qui Ilo non era un eroe di ispirazione classica, ma un fanciullo. Ed il problema non è vocale è interpretativo.
Queste osservazioni non vogliono essere una dorata pillola per una recensione di gran lunga migliore verso Kunde, che verso Florez. Ma il personaggio di Antenore, scritto per un cantante (Andrea Nozzari) che era prima di tutto un cantante e, subordinatamente, un interprete non ha le sfaccettature che Ilo, prodromo degli eroi romantici offre e richiede.

Marianna Pizzolato, habitué del Festival, possiede la più bella fra le voci in scena. Difetta nel suo utilizzo. In primis per motivi tecnici, particolarmente sul primo passaggio, che non è eseguito correttamente e che si ripercuote su entrambe le zone estreme della voce; se correttamente eseguito ne trarrebbe giovamento anche la vocalizzazione, che risulterebbe più precisa e meno fosforescente. Ha cantato bene il terzetto del primo atto ( la migliore di certo), un po’ meno il duetto con Zelmira, ove ha tubato vistosamente frasi come “ …qual pensier funesto..”. Quanto all’aria, ha potuto disimpegnarsi nell’aria ma è stata in debito d’ossigeno nella cabaletta, strillacchiando qua e là.

Quanto alla protagonista, Kate Aldrich, non se ne comprende il motivo della scelta. E’priva delle qualità vocali, tecniche ed interpretative che la parte richiede. Le è stato sufficiente il breve recitativo di ingresso con Emma “non fuggirmi” per esemplificare il campionario delle proprie carenze a partire da centri veristi e dalla voce “indietro” dal fa4 e per giunta in una scrittura centrale e comoda. Le carenze si fanno più evidenti con il crescere delle difficoltà della parte come accade nell’agilità di forza del duetto con Ilo “ Che mai pensare” o la modestia del legato sia nella sezione del duetto che, ancor più,nel famoso”perché mi guardi e piangi” eseguito meccanicamente e senza languore e la struggente poesia che il passo richiede. Velo pietoso ( e per entrambe le cantanti ) riguardo i passi acrobatici delle code. Al terzetto con Ilo e Polidoro sotto la spinta tragica del momento la voce diviene una vocina vetrose che grida malamente “oh qual calunnia, che pena è questa”.
Arrivati al finale abbiamo avuto la riproposizione di quello che Rossini pensò a Parigi per la divina Giuditta Pasta nel 1826. Abbiamo quindi un’immagine precisa e plausibile di quella che era la vocalità e la capacità interpretativa della cantante prima che diventasse l’interprete di Donizetti e Bellini. Rossini non solo regalò a Giuditta Pasta una splendida preghiera, ma inserì una sezione della cabaletta di Ermione e passi della scena del carcere della Gazza. Tutto questo deve indurre a riflettere sulla genialità e sulla poetica di Rossini. Quanto alla prima è evidente perché la scena ha una forza tragica ben superiore a quanto il maestro avesse pensato per la non più fresca Colbran e perché i pezzi “recuperati” sono quanto di più adatto possa esserci alla situazione drammaturgica. Ermione, trasferita in Zelmira, forse ne guadagna dall’innesto.
Non solo questa scelta smentisce la storiella che certe parti della Colbran nacquero e morirono con la loro prima interprete, per essere più plausibile che quei titoli richiedevano capacità vocali ed interpretative riservate a pochi, donde la sparizione. Quella d’inserire Gazza Ladra esemplifica il concetto di arte ideale per Rossini, che ripropone la stessa musica per la stessa situazione: una donna carcerata per una ingiusta accusa .
Tutto questo richiederebbe una grande cantante e la “scelta” del Festival signora Aldrich, mezzosoprano alquanto scalcagnato, che la “nouvelle vague” di imporre un mezzo nei ruoli Colbran esige dopo decenni di soprani lirico leggeri (Gasdia, Devia, Peretiatko) per giunta inflitta in un tempo in cui si disponeva di mezzi acuti saldi e sicuri.
Nel dettaglio: a prescindere dallo scadente e per nulla ispirato accompagnamento abbiamo sentito una preghiera piatta e senza pathos con svarioni nei rari passi di coloratura come la quattro quartine di “barbaro” o il grido sul la acuto coronato di “ah” o sul trillo e sulle terzine di “ a mali miei”; arrivato l’impresto da Ermione o si dispone della raffinata capacità simulatoria di una Cuberli o dell’ipotetico vigore di una Verrett, una Horne, una Bumbry e una Dupuy o si grida miseramente. Abbiamo volutamente omesso Maria Callas e la Sutherland post 1975, perché ci vogliono convincere che non siamo mai esistite.

Nessuno dei due bassi mi ha impressionato. Il loro canto ha mostrato, alla radio, evidente durezze in acuto, debolezza nel canto di agilità ( penso alla coloratura del terzetto di Polidoro con le due donne o ai trilli prescritti nel terzetto finale e non eseguiti da Esposito ). Niente di particolarmente scandaloso o fuor di media, ma non un buon canto perché entrambi hanno la voce troppo bassa di posizione, con tutto ciò che ne deriva.

Il maestro Abbado ci è parso avere acquistato un po’ più di vigore rispetto all’Ermione dell’anno passato, migliorando certe meccanicità di cui gli scrivemmo allora. Ma da qui ad una grande direzione di un Rossini tragico, però, molto ne cala.
Durante il primo atto ha staccato qualche tempo comodo, come la cabaletta della sortita di Ilo, opportunamente accellerata nel conducimento tra prima e seconda strofa, ma gli è mancata ora la capacità di dar respiro al canto, come alla cabaletta della sortita di Antenore, ricadendo un po’ anche lui nella marcetta ( vedi ingresso di Ilo che è, invece, “marziale”); ora la capacità di stimolare gli interpreti, come nel caso della piatta Aldrich della preghiera finale o del duetto con Emma; ora la poesia degli accompagnamenti, come al duetto Zelmira Emma; ora la vis tragica, come al terzetto Ilo Polidoro Zelmira. Il terrore delle moderne bacchette di essere troppo romantiche in Rossini ormai li porta a negare ciò che, invece, romantico è. Abbado non decampa da questa regola, e così ha finito per stravolgere l’impressionante terzetto, ove non solo l’orchestra ma anche la vocalità sono già completa realizzazione del poi, ossia di ciò che per anni abbiamo creduto essere solo di Donizetti, Bellini e Verdi e che, invece, il grande Gioachino aveva già inventato e messo in scena prima di loro. Lo aveva ben capito Thomas Schippers, nel 1969, con la sua filologia pratica e l’intuito dell’artista geniale. Oggi, dopo tanti studi, invece, pare lo dobbiamo dimenticare per forza. Idem dicasi per il finale primo, che è già l’ ”Atro evento, prodigio funesto” della Semiramide, che Zedda con tanta tensione drammatica ha sempre diretto. Ad onta di un solo anno e mezzo di differenza cronologica, Abbado ha diretto questo momento straordinario in modo terribilmente meccanico e per nulla tragico, quasi fosse altro e diverso compositore, e non se ne comprende la ragione ( tralasciamo poi che nessun interpoli più nei concertati uno straccio di volata o spari una acuto come il cielo comanda, aggiunte che non erano le spacconate della Horne e dei suoi seguaci, ma un modo elettrizzante di descrivere la tensione del momento ). Una direzione a mezza via, direi, che non ha dato giusta resa a tutte le diverse componenti dell’opera, ma solo a alcune.
Un’edizione a luci ed ombre, dunque, nel complesso più efficace dell’Ermine dell’anno passato.

Quanto ai singolari criteri filologici che hanno ispirato questa Zelmira versione Parigi ’26 avremo modo prestissimo di riparlarne diffusamente in sede ad hoc.

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sabato 8 agosto 2009

Zelmira: in attesa della prima.

E’ la Grecia arcaica dell’isola di Lesbo lo sfondo su cui si muovono i personaggi di “Zelmira”, ultima opera napoletana di Rossini, mentre furono le contese personali e professionali tra Rossini e l’impresario Barbaja a far da sfondo, nella realtà della vita, alla composizione dell’opera.
Un libretto assai imperfetto, firmato da Tottola; le condizioni vocali dissestate della Colbran; il matrimonio ormai prossimo tra Gioachino ed Isabella, a riparare l’onore dei due pubblici concubini; le discussioni con lo stesso Barbaja per la proprietà dello spartito, alimentate anche dalla gelosia per la perdita dell’amante, agitarono la gestazione di Zelmira.


Sin dalle prime rappresentazioni fuori dal San Carlo l’opera subì modifiche documentate sia per mano di Rossini, dapprima per Vienna ( aprile 1822 ), quindi, per Parigi nel 1826, sia per mano di alcuni esecutori, dato che le caratteristiche vocali di alcuni esecutori riportati dalle cronologie ottocentesche non coincidevano con quelle dei primi interpreti, basti pensare al caso londinese del 1824 quando Manuel Garcia, tenore baritonale, cantò Ilo, parte da tenore contraltino. Il destino di Zelmira, come già quello di altri titoli, in particolare Ermione, sarebbe stato quello di una veloce dismissione dai palcoscenici, causa l’impressionante difficoltà dei ruoli tenorili e l’insoddisfacente estensione delle due parti femminili, cui nulla valsero gli inserti viennese e parigino predisposti da Rossini stesso. Nell’800 l’opera sopravvisse, di fatto, meno di un ventennio prima di essere abbandonata, a differenza di altre celebri “desaparecides”, come Otello, Ricciardo e Zoraide, Donna del Lago dismesse dopo gli anni ’60.Il libretto, inoltre, è disomogeneo, drammaturgicamente sbilanciato sul I atto, ove si continua a parlare di un delitto passato e di una colpevole…incolpevole! Un soggetto statico, ove di fatto non accade nulla, nella cui seconda parte, non a caso, venne collocata la composizione secondaria per Fanny Eckerling dell’aria di Emma, unico contraltare al grande finale della Colbran. Finale che, poi, Giuditta Pasta si fece riscrivere, per le recite parigine, in modo più consono alle sue caratteristiche vocali.

Ai limiti delle umane possibilità vocali i due ruoli pensati per David e Nozzari, ancor più di quanto sperimentato con le altre opere napoletane.
Al formidabile baritenore spetta, come tradizione, la parte del cattivo, Antenore, mendace usurpatore ed assassino, che alla fine verrà smascherato ed arrestato. Per Nozzari, che nel 1822 aveva ben 47 anni, un’enormità per l’epoca, la scrittura è come al solito fiorita, di forza: richiede ampiezza di accento, con recitativi accompagnati di grande spessore tragico ed una scrittura vocale di estensione mostruosa, pari a circa due ottave e mezza, dal re bem sopracuto al la grave sotto il rigo. La parte è di fatto concentrata sul primo atto, con grande scena di ingresso, l’andante maestoso in “2/4 “Che vidi amici o eccesso”, che introduce il personaggio, ambiguo e bugiardo; grande scena a metà atto, l’allegro vigoroso “Mentre qual fiera ingorda”, ove Antenore accusa apertamente e con violenza l’innocente Zelmira e nella quale Rossini costringe Nozzari, interpretativamente inerte, secondo i contemporanei, a paurosi sbalzi dalla zona acuta a quella grave sotto il rigo; grande scena che introduce il quintetto e, quindi, il finale I, ove Antenore viene incoronato re di Lesbo e Zelmira accusata anche di aver tentato di assassinare Ilo, composta dalla grande scena “ Si figli miei di Lesbo” e successivo terzettino, terzetto, il quintetto “La sorpresa lo stupore”, ed il concertato finale.
Nel secondo atto, dopo il recitativo con Leucippo, di nuovo la vocalizzazione di forza e le puntate in alto della scena “Né lacci miei cadesti “ che introduce il successivo bellissimo quintetto “Ne lacci miei cadesti”. Il tenore che vesta i panni di Antenore deve saper cantare praticamente tutto ed in ogni modo: per lui Rossini ha scritto il canto di grande ampiezza, come nella scena “Mentre qual fiera ingorda..”; ha previsto che accenti “terribilmente” i recitativi come la coloratura, più volte, e non a caso, accentata, come nelle fioriture discendenti di “ dovrà seguirti si or or “ della cavatina di sortita; gli ha imposto l’esecuzione di ogni sorta di coloratura, dai trilli alle terzine, alle quartine, scale e volate di ogni genere e qualità, il tutto sempre di forza, come espressamente indicato in vari punti dello spartito. Il cattivo dell’opera è cattivo sino alla fine e resta aggressivo sino al finale, persino al grande quintetto del II atto, “ Né lacci miei cadesti”, ove in virtù dell’esecuzione di forza della coloratura prescritta, aggredisce e minaccia Polidoro.
La parte venne rimaneggiata, non a caso, in occasione delle recite parigine al Des Italiéns per Bordogni, primo Liebenskof del Viaggio Reim e, quindi, tenore contraltino, come afferma Gossett nella prefazione alla ristampa del 1979. I vertiginosi saliscendi di aria e cabaletta oltre alla profondità della scrittura, che si colloca anche in zona la-do sotto il rigo, evidentemente erano di troppo peso per Bordogni, tanto da indurre Rossini a modificare la scena, riducendone il recitativo e tagliando la cabaletta.

Ilo, principe trojano e consorte dell’infamata Zelmira, riveste il tradizionale ruolo del puro, amante e guerriero. Prodigioso per estensione e virtuosismo, Ilo è il più arduo e massacrante dei ruoli scritti per Giovanni David, che lo tenne in repertorio di fatto sino al 1832, sebbene non sappiamo bene in quali condizioni vocali o con qual raggiusti. Fu l’Ilo della Colbran, della Meric Lalande, della Fodor Mainvieille e persino della Ronzi, a riprova delle difficoltà oggettive incontrate nel trovargli un degno sostituto sul ruolo. Del tutto occasionale fu, infatti, il passaggio a Rubini nelle recite parigine e, successivamente, a quelle napoletane del 1827: si trattava infatti del Rubini prima maniera, ossia versione tenore contraltino, di cui vi parlammo nel post “Florez vs Rubini” parecchio tempo fa e a cui vi rimandiamo. Presso Nozzari, suo vero maestro, Rubini avrebbe dato di lì a pochissimo altro assetto alla propria voce per divenire, appunto, il “Rubini” passato alla storia del canto. Il suo approccio ad Ilo avvenne dunque nella prima fase della carriera, quando il tenore bergamasco ancora seguiva il modello di David: celebre ma non ancora il fenomenale e romantico tenore di Bellini.
La psicologia di Ilo è quella dell’amante che si crede tradito e sconfitto, privato del figlio che pensa ucciso dalla moglie, arrabbiato e dolente, che rinasce nell’anima quando apprende finalmente dell’innocenza di Zelmira ed ottiene giustizia nel finale dell’opera. Rossini ha scritto praticamente tutto anche per questo ruolo. L’eroe entra con una cavatina di impressionante difficoltà acrobatica e tessitura astrale: l’andantino in 4/4 “Terra amica”, che impone sin dalle prime battute un canto di coloratura di forza minuta con numerose scale, di cui una lunghissima che arriva sino al re nat sopracuto; quindi la cabaletta, l‘allegretto “Cara! Deh attendimi..” con i famosi trilli su sol-la centrali e salti al re nat sopracuto scoperto, di grande effetto e presa sul pubblico. La tessitura di Ilo è altissima, ma non ammette il canto eunucoide o infantile che viene dalla voci sbiancate nello sforzo di allungarsi verso l’alto. I recitativi, come anche per gli altri personaggi ( e mi rifaccio apertamente alle osservazioni di P.Gossett in questo ), sono fondamentali nel dare senso drammaturgico e forza ai personaggi, in questo caso ad Ilo, che non è affatto sbiadito o esangue. Il canto fiorito è pressoché continuo, ma deve assumere la cifra esatta del personaggio. Vi è coloratura minuta nel duetto con Zelmira “ A se caro a te son io..”, con una sequenza impressionante di quartine ascendenti e discendenti e ribattute dell’allegro che chiude la scena. Anche nel II atto, al duetto con Polidoro, al tenore, come al basso, non mancano acrobazie di forza variamente assortite nell’allegro “In estasi di gioja”, volate, quartine, trilli, duine…… Il rimaneggiamento parigino del finale implicò, poi, un ulteriore ampliamento della parte, senza alcuna diminuzione del livello di difficoltà, insomma……un vero monstrum vocale cui è ardua impresa rendere l’esatta forza drammatica.

Di limitata lunghezza ed estensione il ruolo della protagonista, che attende a due duetti, un duettino, un terzetto ed un quintetto prima di ritagliarsi una grande scena solistica, quella finale, come gradito alla Colbran, a modello di quelle di Anna Erisso ( Maometto II ) ed Elena ( Donna del Lago ).La scrittura è centralissima e prevalentemente orizzontale, dato che raramente supera la zona del passaggio di registro del soprano. Nel grande finale la linea di canto si spinge fino al si bem acuto in volata , mentre in tutto quanto precede arriva solo occasionalmente al la acuto.
La grande diva, infatti, era ormai al capolinea: Semiramide, già alle porte nel tempo e nella musica di Zelmira, avrebbe avuto, dopo le prime rappresentazioni veneziane del ’23, altre e diverse protagoniste a renderla famosa, perché il ritiro della diva era vicinissimo. Aveva solo 38 anni, ma cantava dall’età di 16.
Zelmira entra senza cavatina di sortita, come già nel Ricciardo e Zoraide, quasi in modo dimesso, mediante un piccolo duetto con Emma e che descrive il loro incontro furtivo. Poi l’”allegro animato” del terzetto con Emma e Polidoro, di scrittura centrale, ove presto arrivano terzine e duine veloci. Al duetto con Ilo la scrittura resta simile, con coloratura minuta anche in un momento largo ed estatico come “Quanto costa al labbro mio”, quindi l’immancabile agilità di forza della stretta “ Che mai pensar che dir “, di nuovo a suon di quartine, come già detto in precedenza.
Celeberrimo il duetto con Emma, l’andante in 4/4 “ Perché mi guardi e piangi”, con la suggestiva introduzione di arpa ed oboe solisti che sarà grande spunto, come altre volte, qualche anno più tardi, per altri compositori. Lo stile patetico si applica ad un momento di grande intensità.
In chiusa di primo atto ancora un terzetto ed il finale primo, quindi di nuovo, nel secondo atto, un quintetto prima di attaccare la grande scena finale del’opera. In questa scena Rossini ricalca un modello già consolidato: una prima sezione, maestoso in 4/4, che riecheggia la prima di “Tanti affetti ..” con agilità ascendenti e discendenti, chiusa da una cadenza lunghissima scritta, e quindi una veloce, un allegro sempre in 4/4 introdotto dal coro, “Deh circondatemi, miei cari oggetti”, con inserimenti di Ilo e Polidoro, come già in “ A chi sperar potea….” di Donna, ove si inserisce il coro. Zelmira non possiede la cifra tragica di Anna Erisso, contenuta a pochi momenti “forti”, come le poche battute che precedono il finale “Non ti appressar! di un ferro…” oppure momenti come “ Me sola uccidi o barbaro..” del quintetto. L’essenza del personaggio è comunque quella lirica e dolente, idonea ad un soprano centrale come ad un mezzo di belle qualità tecniche, in particolare il legato.
Per l’esecuzione parigina dell’opera Rossini lavorò al remake del finale per Giuditta Pasta. La scrittura minutamente fiorita del brano era abbastanza estranea alle caratteristiche vocali della Pasta, famosa per la ricchezza di accenti ma che, evidentemente, non gradiva la coloratura minuta e velocissima ( quella alla Horne per intenderci ) che caratterizza alcune sezioni dei finali composti da Rossini per la moglie. Straordinariamente abile nel rimetter mano a se stesso riconfigurando con nuova grande efficacia composizioni già perfettamente compiute, Rossini collocò all’inizio del finale di Zelmira una nuova aria, “Da te spero o ciel clemente” ( modernamente incisa da Marilyn Horne nel suo disco “Arie alternative di Rossini” ) andantino in ¾, una sorta di preghiera della protagonista, di tessitura centrale e dall’atmosfera sospesa e lirica. Per la sezione successiva, grazie anche qualche modifica al libretto, inserì un allegro in 4/4, protagonisti ancora Zelmira, cui si aggiungono Polidoro, Antenore, Leucippo, “ Dell’innnocenza o Dei, vindici ognor voi siete”, riutilizzando musica già scritta per la cabaletta della grande scena di Ermione. Dopo questa, Rossini ripristinò il vecchio finale nella scena introdotta dal coro, “All’armi all’armi”, ove Zelmira che difende il padre da Polidoro, “Non ti appressar d’un ferro”, quindi, sul tema del vecchio rondò della protagonista “Riedi al soglio”, modificò ulteriormente il finale secondo. Rimasero le prime nove battute delle frasi “Riedi al soglio”, cui attaccò direttamente la sezione finale, “ Deh circondatemi miei cari oggetti”, tagliando le 21 battute intermedie, fioritissime, da “…pura fede amor sincero..” ad “..amor sincero”. Da qui la novità dell’inserimento di Polidoro ed Ilo che succedono a Zelmira col loro canto sul tema, con i famosi passi vocalizzati in zona sopracuta per Ilo, mi bem-re, scritti per Rubini. Un ampio finale a tre, dunque, che non dispensava nulla nemmeno a Polidoro, chiamato anche lui ad eseguire una bella dose di coloratura, trilli inclusi.

La seconda donna, Emma, non ebbe, come detto, una sua grande scena, e quindi la dignità di primadonna, sino alle rappresentazioni di Vienna, al teatro di Porta Carinzia, quando venne cantata da Fanny Eckerling: il cast napoletano, infatti, includeva una cantante non ancora di primo piano, la Cecconi. L’inserimento viennese dell’andantino “Ciel pietoso, ciel clemente” dovette rimanere in uso anche in produzioni successive: alla prima di Parigi, ad esempio venne chiamata la Schiassetti, prima marchesa Melibea della Viaggio a Reims, per cui è logico pensare che anche lei abbia voluto avere la sua scena solista. Il brano è molto bello, di scrittura centrale, tocca nella cadenza in chiusa allo stesso il si bem, e nuovamente in cabaletta, prevedendo moderate difficoltà tecniche per l’interprete.

A differenza di altre volte, il leggendario Galli non fece parte dell’originaria produzione di Zelmira, ed il ruolo del padre della protagonista, Polidoro, venne affidato ad un secondo cantante. Quello del basso cantabile non è certo tra i ruoli più difficili scritti da Rossini per una voce grave, ma consta di una scrittura mediamente alta, alcuni momenti di vero virtuosismo, come il duetto con Ilo, irto di difficoltà ( quartine, duine, scale discendenti..etc..), ed una facile e breve cavatina di sortita al primo atto “Ah!Già trascorse il dì”, di tono dolente. Polidoro partecipa di tutti gli ensemble al primo e secondo atto, ma il personaggio, per quanto sia sempre in scena, resta, anche per psicologia, un secondo cantante. Il finale per Parigi, ove al primo interprete Ambrosi si sostituì Zucchelli, allungò ulteriormente la parte aggiungedovi alcune difficoltà sul piano virtuosistico.
Non sfugge ai melomani bazzicatori di cronologie che i nomi più interessanti tra i bassi che cantarono Zelmira si ritrovano sul ruolo secondario di Leucippo, da Michele Benedetti alla prima di Napoli, già primo Mosè del Mosè in Egitto, oppure il giovane Nicolas Levasseur, futuro Marcel degli Ugonotti e Bertram del Robert le Diable, alla prima di Parigi del ‘26, forse perché alla protervia del cattivo erano necessari una maggiore ampiezza e sonorità di voce.

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In età recente pochissime sono state le produzioni di Zelmira, che non ha trovato, soprattutto nel settore femminile adeguate interpreti. L’opera venne rimessa in circolazione ( breve ), dopo la sporadica ripresa del’65 a Napoli con V.Zeani, grazie a C. Gasdia e, quindi, M. Devia, cantanti diversissime per capacità tecniche, ma assai simili nella resa del personaggio, perché entrambe troppo leggere per il ruolo. Laddove la Gasdia sfarfalleggiava e cempennava la coloratura, la Devia è stata più precisa ed accurata, ma entrambe sono rimaste ben lontane da quella pienezza lirica che la scrittura richiede. A suo agio in zona acuta, laddove ha collocato molti dei rimaneggiamenti operati sul testo, la Devia ha faticato in certi passi di scrittura grave, dove ha finito anche lei per svolazzare senza peso. Il finale venne cantato benissimo, ma la voce era per sua stessa natura estranea al senso della parte, che non ha nulla a che vedere con il canto di un soprano leggero. Idem dicasi per le interpreti di Emma, un soprano leggero prestato ai contralti, con un registro basso del tutto artefatto, Gloria Scalchi; un soprano lirico con la voce ingolata, la musicalissima Ganassi.
Solo i ruoli tenorili hanno avuto l’onore di due grandi cantanti perfettamente idonei ai ruoli, ossia R. Blake e C. Merritt. Spartito alla mano ci hanno dato la più straordinaria e precisa esecuzione di queste terribili scritture, conferendo ai loro personaggi il giusto spessore tragico e l’immagine di veri guerrieri. Si trattava di capacità vocali abnormi, come il confronto con i successivi migliori Antenore ed Ilo che abbiamo udito, ossia B. Ford e W .Matteuzzi dimostra. Al primo sono mancate l’ampiezza e la sonorità di Merritt, la sua precisione nella coloratura e lo squillo in alto. Al secondo, sebbene preciso e squillante, mancò inesorabilmente il peso drammatico di Blake, che tutt’oggi al confronto mostra una voce più scura, oltre che più ampia ed un canto aggressivo, proprio perché Ilo tenorino non è.
Tutti gli altri interpreti, per un motivo o per un altro, non reggono il confronto con i due americani, perché travolti dalla difficoltà dei ruoli. Né si è mai compresa la fretta del ROF di liquidare il vecchio Blake per sostituirlo inopinatamente con l’asfittico P. A. Kelly in occasione della prima performance festivaliera in Pesaro, inferiore, nella coloratura come nell’accento, anche all’americano delle perfomance concertistiche degli ultimi anni, come gli audio dimostrano, quasi che i fenomeni possano trovare normale e fisiologico ricambio!
Quanto a Polidoro, il professionismo di Alaimo e Surjan, che non erano certo dei Ramey, resta lì, a memoria imperitura della sparizione di quello che si chiama “ solido professionista” dell’arte del canto: corretti nell’esecuzione musicale, pertinenti nell’accento, entrambi ancora con una emissione gradevole e composta.
Rossini - Zelmira

Atto I

Che vidi...o amici...oh eccesso! - Chris Merritt (1989)

Terra amica - William Matteuzzi (1988), Rockwell Blake (1989)

Mentre qual fiera ingorda - Chris Merritt (1989)

Perché mi guardi e piangi - Lella Cuberli & Martine Dupuy (1988)

Atto II

Ciel pietoso, ciel clemente - Anna Maria Rota (1965), Sonia Ganassi (1999)

In estasi di gioia - Rockwell Blake & Simone Alaimo (1989)

Ne' lacci miei cadesti - Chris Merritt, Simone Alaimo, Cecilia Gasdia, Gloria Scalchi & Roberto Servile (1989)

Riedi al soglio - Cecilia Gasdia (1989), Mariella Devia (1999)

Finale alternativo : Da te spero, ciel clemente - Marilyn Horne (1986)

Scarica tutti gli ascolti - via Rapidshare.com


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sabato 8 novembre 2008

Il mito della primadonna: Semiramide

Credo sia vero che la vocalità di Semiramide, ultima parte scritta per la Colbran sia, in realtà, un po’ meno Colbran degli altri ruoli che Rossini scrisse per la moglie. Due possono essere i motivi: la certezza di Rossini che Isabella avrebbe cantato poche volte la parte e che la Colbran fosse più nelle condizioni vocali di un tempo.
Prova significante la ricaverei dal fatto che le grandi scene spettano agli altri due personaggi, per quanto il finale primo sia di fatto capitanato dal canto della regina.
Certo è che Semiramide divenne il veicolo del canto e della poetica rossiniana più di ogni altra opera. Tutte le dive del dopo Colbran vestirono i panni della regina di Babilonia: per prime Sontag, Pasta e Malibran a Parigi, poi dal 1834 Semiramide divenne il monopolio di Giulia Grisi...già cari amici, fu il mio regno per circa cinque lustri !!! Gradivo presentarmi in un teatro importante con Semiramide. Anzi….. lo pretendevo! Ed ancora negli anni '50 dell’800 ero la Semiramide per antonomasia. Anche se le altre, Ronzi, Barbieri Nini e, poi, Carlotta Marchisio affrontarono, e con successo, il mio diletto personaggio.
Anche nel ‘900 tutte grandi le dive come Nellie Melba o Adelina Patti continuarono a proporre Semiramide sino agli albori del Verismo. Poi il silenzio fino al 1940, quando l’opera tornò al Maggio Musicale Fiorentino con Gabriella Gatti, anche se quasi tutti i soprani (compresi quelli di coloratura) continuarono ad eseguire la cavatina di Semiramide in concerto.
Dal 1962 in poi la ripresa, preceduta dai trenoi per la Semiramide mancata di Maria Callas. E con ragione, aggiungerei, se consideriamo la grandezza della Callas – Armida.
Il ritorno della regina di Babilonia ha il nome di Joan Sutherland, che la propose (anzi lo debuttò, se non mi sbaglio) in Scala con Santini in quell'anno. E credo che la sua regina sia stata, dal punto di vista interpretativo la Semiramide della Melba e della Patti, forse anche la mia, ossia una Semiramide soprano assoluto (e per giunta estesissima in alto), astratta, un po' carente sotto il profilo dell’accento, supplito però con lo splendore vocale ed acrobatico. In teatro ancor più che in disco.



Sino al 1971 Semiramide fu un personaggio molto praticato e frequentato dalla Sutherland.
In piena Rossini renaissance, quando i luoghi della grande produzione e riproposizione snobbavano la cantante australiana (anziana, cachet spaventosi, e per forza il marito come unico direttore erano le scuse per evitare di pensarla in parti Colbran o anche solo in Semiramide) lei stessa la ripropose a Sidney, nel 1983, e ne fece il suo nuovo capolavoro. Si, perché laggiù ha saputo essere protagonista assolutamente diversa da quella che era stata sino ad allora: una vera interprete. Il virtuosismo di assoluta forza, il grande finale primo, da sempre il punto debole della Sutherland, amministrato con vigore e mordente, come pure la prima parte del duetto con Assur. Insomma la completa raffigurazione del soprano drammatico di agilità prima di Verdi. Certo gli audio ci restituiscono una voce un po’ dura sul passaggio e proprio nella cabaletta “Dolce pensiero” la Sutherland comincia a praticare il trasporto (mezzo tono, se non erro, verso il basso) per poter sfoggiare ancora le sue mirabolanti variazioni secondo una prassi radicata nell’800 e da lei sempre praticata nella fase finale della carriera. Straordinaria la sua esperienza con questo ruolo, saggiato in tutte, assolutamente tutte, le sue possibili sfaccettature.



Gli anni ’80 sono anni di grandi riprese del lavoro, che diviene uno dei vessilli della ripresa Rossiniana.
Ci sono le Semiramidi improbabili, come quella della Caballè esausta, accorciata, con una plateale esibizione di suoni petto, e l'assoluta pervicacia nel non sapere la parte (nonostante una cospicua serie di rappresentazioni) in buona compagnia con la Semiramide “sussurri e gridi” di Katia Ricciarelli. La Ricciarelli applicata a Rossini accennava, eseguiva imprecisa le agilità, dando inizio ad una scuola del petit style rossiniano (salvo poi emettere si bem e si nat gridati ed oscillanti) che ha avuto insigni continuatrici in Pesaro con la Gasdia e, fuori di Pesaro, ma a livello planetario grazie a scandalose campagne pubblicitarie, con Cecilia Bartoli.
Se la sono cavata assai meglio le due primedonne rossiniane americane, Lella Cuberli e June Anderson, che fra l’altro si alternarono con la Horne nella Semiramide al Met.
Anzi si batterono con onore e ad armi pari, ma diverse. La Cuberli era esattissima, precisa nell’esecuzione della agilità, accento scandito, quando serviva, in coppia, soprattutto con la Dupuy, spericolata nelle agilità dei duetti. Non era un soprano drammatico ( ma forse un lirico, secondo le classificazioni 900tesche, basta per il title role ) di certo non illimitata in alto (al massimo un do diesis,emesso, però, piano e rinforzato) e dotata di limiata ampiezza, che, soprattutto negli anni ’90, lasciò a desiderare.
Per contro la Anderson, emula della Sutherland, ma inerte sotto il profilo dell’accento, spesso discutibile nel gusto negli abbellimenti e latitante nell’accento. Impressionanti, invece, erano l'ampiezza della voce e l'estensione. Una voce straordinaria.
Mi domando però, se oggi, pur un poco accorciata in alto, ma con voce ancora ampia e sonora ed un accento assai più scandito e curato rispetto agli anni d’oro della carriera la Anderson non sia in grado – di fatto unica - di riproporre la Semiramide da vero soprano drammatico ante Verdi. Un po’ come feci io negli anni ‘45-‘55 dell’Ottocento!
A dire il vero ci furono anche i ragguardevoli tentativi abbozzati dei soprani di coloratura, ossia Mariella Devia ed Editha Gruberova. Strano che nella loro “sublime impostura” di cantare Bolena, Borgia, Pirata, Stuarda ed anche Norma e Devereux Semiramide sia stata una prestazione occasionale!




Credo che però il motivo ci sia. In Bellini e Donizetti si può simulare meglio con toni dimessi, ridurre il personaggio ad una donna che geme e sospira, ridurre o eliminare sovranità, regalità e con esse le agilità di forza. Semiramide, privata di un centro sonoro (che Panofka, Scudo e Monaldi avrebbero detto potente) dell’accento imperioso e del virtuosismo di forza non può stare in piedi, o ci sta a fatica.
E poi ci furono anche le esperienze disastrose di voci come Jano Tamar, la Semiramide dell’edizione del bicentenario pesarese. In buona sostanza un soprano verista scelto per il desiderio (in sé legittimo) di proporre il vero soprano Colbran. Taccio delle Antonacci, delle Aliberti.....preferisco non dire nulla.
Un tentativo poco sfruttato e poco noto fu, per completezza di memoria, quello di Maria Dragoni, che nel 1991 ha eseguito con accento vigoroso e voce potente la scene più drammatiche della parte e che avrebbe meritato cure ed attenzioni maggiori da parte degli addetti ai lavori.
Qualcosa di nuovo e positivo, invece, è comparso all’inizio del nuovo millennio con Darina Takova, che ha dato prova di possedere una vera voce, adatta a Semiramide per colore, bellezza timbrica, agilità di forza ed estensione. Il soprano bulgaro aveva tutto per poter competere con le grandi che l'avevano preceduta, stupendo in principio sia per la facilità nell'accentare i momenti più drammatici come il giuramento, che per le naturali capacità acrobatiche. Premesse alle quali, purtroppo, non ha fatto seguito il perfezionamento del ruolo, sebbene ripetuto innumerevoli volte, bensì il progressivo calo ed impoverimento della qualità del canto oltre che dell'accento ( esemplare il Bel raggio lusinghier mai risolto nell'apparato di variazioni...etc.). Una straordinaria occasione non completamente colta......in sintonia con il nostro presente!

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domenica 2 novembre 2008

I miracoli del Festival o il Festival dei miracoli?



Enigma insolubile sembra. Enigma certamente insolubile in quanto riguarda le voci, argomento, che oggi va di pari passo con le parole, carenza, mancanza, crisi.
Ciò nonostante scorrendo i rosters di una quotata house di management di cantanti d’opera ho scoperto che l’anno prossimo il ruolo di Anna Erisso, nella riproposta di Maometto secondo in Pesaro verrà affidato (non si sa se al posto dell'annunciata Antonacci o piuttosto in qualità di cover della stessa) ad una cantante lituana, il cui curriculum è costituito dalla partecipazione nel 2006 alla pre-accademia rossiniana ed all’accademia per il 2007. Con esecuzione dei ruoli di Madama Cortese e della Contessa di Folleville nel finale saggio dell’accademia.
Quasi che un titolo , il viaggio a Reims, pensato per otto prime parti (e che prime parte, leggendo lo spartito) possa essere utilizzato come opera-saggio per i cantanti di un corso di perfezionamento durato qualche settimana.
Insomma, nella mente degli organizzatori e promotori dell’accademia il Viaggio tiene il luogo delle varie Serve padrone, Osteria di Marechiaro, Dirindina e,forse, Matrimonio Segreto, che, negli anni ’50, rappresentavano i titoli prescelti per i saggi dei cosiddetti “cadetti della Scala” alla fine del loro biennale corso di studi.
Già un simile passaggio di titoli ha il vago sapore del miracolo. Sapore che diviene sapido allorchè il cadetto o la cadetta viene per l’anno successivo la frequenza dell’ Accademia insignito di una parte pensata per Isabella Colbran, signora Rossini che per coniugale espresso pensiero, oltre che per scrittura vocale era la più completa vocalista ed interprete d'opera. Quanto meno applicata al repertorio del marito.
E’ accaduto per Olga Peretyatko, Desdemona nell’edizione di Otello 2007 e l’evento, stanno appunto, ai rosters della nota “agenzia”, dovrebbe ripetersi per Marina Rebeka, Anna Erisso, nell’edizione 2008 di Maometto II.
Nessuno vuole e può anticipare giudizi.
La recente cronaca, però, informa che le dubbiose aspettative riguardo le prestazioni di Olga Peretyatko, sono divenute scarsi risultati.
Ed un ascolto, sia pure non perfetto da You tube, riferito alla futura Anna Erisso, sembra rendere molto probabile il bis della scelta della scorsa edizione.
Infatti il confronto dell’aria della contessa di Folleville eseguita dalla signora o signorina Rebeka con quella di Lella Cuberli, prima interprete della ripresa pesarese del 1984 (e potenziale Anna Erisso per l’edizione del Maometto II, se non le fosse stata preferita la Gasdia) è significativo di una discreta dote naturale applicata, purtroppo, ad un’aria che richiede, più che la generosa natura, un assoluto controllo tecnico della voce per poter interpretare, oltre che eseguire correttamente quanto previsto dall’autore.
Le cronache dell’opera ricordano debuttanti nell’opera e, contemporaneamente esordienti su palcoscenici grandi o grandissimi. Il primo nome che viene alla mente è Rosa Ponselle donna Leonora di Forza del destino al Met il 15 novembre 1918.

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Visitando la Certosa di Bologna

Alcuni lettori, nel tentativo di presentarsi come nostri detrattori, ci accusano di non amare che i cantanti defunti. E' a questi lettori che dedichiamo l'intervento che segue, un intervento con il quale, portando alle estreme conseguenze l'"accusa" che ci viene mossa e che per noi è anzi motivo di orgoglio e vanto germontiano, intendiamo rendere omaggio alla memoria di grandi Artisti che hanno lasciato un segno nella storia della musica e, segnatamente, in quella del canto.
A differenza di tanti smemorati o coscientemente immemori, riteniamo che sia di fondamentale importanza conservare memoria del passato, nel bene e nel male. Per questo, il nostro Corriere ha voluto visitare alcune delle più illustri tombe del Cimitero Monumentale della Certosa in Bologna e deporre un fiore non soltanto virtuale su quei sepolcrali marmi.

Entrando dal cancello del Claustro Maggiore e prendendo a sinistra, sotto il portico, troviamo la stele sotto la quale riposa Carlo Broschi, detto il Farinelli, certamente il più mitico fra gli evirati cantori, colui che stregò con il suo canto le corti di mezza Europa. Farinelli, membro dell'Accademia Filarmonica, si spense a Bologna nel 1782. Nel 2006 alcuni ricercatori hanno ottenuto di riportarne alla luce le ossa, nel tentativo - a dir poco azzardato ma innegabilmente affascinante - di decifrare i segreti di una voce di rara dolcezza, forza e abilità virtuosistica, teste il Burney e, più ancora, le parti scritte per lui dai compositori dell'epoca, in primis dal fratello Riccardo. Come si vede nella foto, ancora oggi la tomba di Farinelli è immersa in un clima da "lavori in corso".


Attraversato il Claustro Maggiore, subito prima di entrare nel Claustro della Cappella, sulla sinistra, una tomba sotto il porticato riporta, sopra un altorilievo raffigurante una donna (la Musica) assorta in dolente meditazione davanti a un busto maschile, l'iscrizione A Giovanni Colbran. Lì riposa Juan Colbran, morto a Bologna nel 1820: il violinista spagnolo fu padre della cantante rossiniana per eccellenza, Isabella, e in quanto tale anche "suocero naturale" di Rossini (Colbran morì due anni prima delle nozze tra la figlia e il Pesarese). Isabella, anch'ella morta nella villa di Castenaso, alle porte di Bologna, nel 1845, trovò asilo nel monumento funebre di Colbran, che Rossini aveva commissionato allo scultore Adamo Tadolini. Manca tuttavia un'iscrizione che indichi la presenza dell'insigne cantante nella tomba del padre. Corre voce che nel medesimo sepolcro siano conservati i resti di Giuseppe e Anna Rossini (nata Guidarini), genitori del compositore, ma anche in questo caso, abbiamo invano cercato un segno visibile della loro presenza.


Proseguendo oltre il Claustro della Cappella, prima di giungere nel Claustro VII, sostiamo un momento nella splendida Galleria degli Angeli, in cui aleggiano altre suggestioni rossiniane. Sulla sinistra una grandiosa tomba che pare presa di peso da un allestimento vecchio stile de La Favorita ospita due insigni cantanti, Adelaide ed Erminia Borghi Mamo, madre e figlia. Adelaide, bolognese di nascita, morta nel 1901, fu grande interprete rossiniana e donizettiana: con lei studiò la figlia, morta nel 1941, il cui repertorio spaziava da Donizetti e Meyerbeer a Verdi e al Verismo. La sontuosità del monumento testimonia la fortuna anche materiale delle signore e il più che legittimo orgoglio per i risultati conseguiti.


Al lato opposto della Galleria, una semplice lastra di marmo indica, con lapidaria (è il caso di dire) sobrietà, la sepoltura di Nicola Ivanoff, tenore russo di nascita e italiano di formazione, amico personale di Rossini. Ivanoff trascorse a Bologna gli ultimi dodici anni della sua vita, morendovi nel 1880. Lo ricordiamo pubblicando uno stralcio della recensione comparsa su un giornale parigino in occasione del debutto al Teatro Italiano nel 1833, quale Percy in Anna Bolena:

Ivanoff ha una voce di tenore purissimo. Le sue note di petto hanno una forza straordinaria; e benché l'arte e l'esecizio non l'abbiano ancora dotato della capacità di fondere quei suoni con autentici suoni di testa senza soluzione di continuità, la natura è stata così prodiga con questo cantante, che per distinguere i cambi di voce era necessaria una grandissima attenzione. Va ribadito che Ivanoff è ancora giovane; ma se, com'è giusto che sia, ha qualche difetto connaturato all'età e all'inesperienza, bisogna dagli atto che il pubblico l'ha ascoltato con grande piacere nel ruolo in cui l'incomparabile Rubini si è meritatamente coperto di gloria. Quanta intelligenza ed energia ha dimostrato Ivanoff! [...] Alla fine, dopo l'ultima aria "Vivi tu, te ne scongiuro", tutto il pubblico ha applaudito chiedendone il bis, che Ivanoff ha eseguito da capo con grande successo, accolto da un nuovo uragano di applausi.


Lasciata la Galleria e costeggiando il Claustro VII lungo il lato sinistro, giungiamo nel Colombario. Due sono le sepolture notevoli in questa sorta di chiesetta poco illuminata ma tutt'altro che lugubre. La prima si trova nell'ultima sala, addossata a una delle colonne dell'abside. Si tratta dell'arca che accoglie il Conte Rizzardo Pepoli, la sua sposa, Contessa Cecilia Cavalca, e il loro figlio Carlo, poeta e patriota, amico di Giacomo Leopardi, Senatore del Regno d'Italia e, quel che più conta per noi, autore del libretto dei Puritani e dei testi di alcune delle Soirées musicales di Rossini. Il Conte Pepoli si spense nel 1881.


Uscendo dal Colombario in direzione del Campo Carducci, in una nicchia così defilata da parere collocata lì per sfuggire all'indiscrezione dei passanti, troviamo la tomba di Stefano Gobatti, autore de I Goti, opera di grandissimo successo al suo debutto nel Teatro Comunale della città nel 1873 (il trionfo fruttò al compositore la cittadinanza onoraria) e nelle successive riprese in mezza Italia, ma già praticamente scomparsa dalla circolazione solo pochi anni più tardi. Il rodigino Gobatti morì a Bologna, in solitudine e oblio, nel 1913.


Siamo così arrivati nel Campo Carducci, in cui troviamo, oltre all'illustre eponimo (che, se si fosse interessato al teatro d'opera, sarebbe verosimilmente stato per Verdi un collaboratore non meno prezioso di Boito), altri due insigni musicisti, collocati quasi l'uno di fronte all'altro. Guardando in direzione della tomba di Carducci, sulla sinistra vediamo il busto dedicato al direttore d'orchestra Rodolfo Ferrari, morto nel 1919, e sulla destra l'arca che accoglie il compositore Ottorino Respighi, morto nel 1936, e la moglie, Elsa Olivieri Sangiacomo.











Dal Campo Carducci raggiungiamo l'adiacente Claustro VI. Sulla sinistra, fra il portico e il sacrario dei caduti nella Prima Guerra Mondiale, sorge un'imponente urna, ultima dimora di Riccardo Stracciari, nato a Casalecchio di Reno, alle porte di Bologna, nel 1875 e morto a Roma nel 1955. Stabilitosi nell'ultima parte della sua vita nella Capitale, il baritono acquistò una tomba alla Certosa per restare vicino al figlio, morto durante la Grande Guerra e ivi sepolto. Il cantante riposa accanto alla moglie, signora Maria.
Ed è alla voce del grande Stracciari, nei panni di un giovane sovrano in meditazione presso un sepolcro, che affidiamo il commento musicale per questa nostra piccola ma sentita commemorazione dei defunti. L'omaggio a Respighi, e con lui a questa maliconica stagione dell'anno, coinvolge una delle più sobrie ed eleganti esecutrici di musica da camera documentate dal disco, mentre la sconsolata meditazione di Cesare sull'urna del rivale Pompeo non poteva che essere affidata a una delle glorie della Rossini-Renaissance, anche perché Rossini, come si è visto, è di casa in Certosa. Completa l'antologia un passo del Requiem mozartiano, affidato a un cast che associa alla compostezza dell'elegia il fascino della magniloquenza.




Gli ascolti - Commemoratio Omnium Fidelium Defunctorum

Verdi: Ernani - O de' verd'anni miei - Riccardo Stracciari (1914)

Respighi: Nebbie - Teresa Berganza (1984)

Haendel: Giulio Cesare in Egitto - Alma del gran Pompeo - Martine Dupuy (1988)

Mozart: Requiem - Tuba mirum - Pia Tassinari, Ebe Stignani, Ferruccio Tagliavini & Italo Tajo - Victor de Sabata (1941)

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