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martedì 11 agosto 2009

Le Comte Ory

Terza puntata del Festival del trentennale, la ripresa del Comte Ory. Allestimento di qualche anno fa, e non il primo, in quanto Ory era stato proposto nel 1984 con regia scena e costumi di Pizzi, in un allestimento che fece, poi, il tour dei teatri italiani, Scala compresa.

Per singoli numeri:
Preludietto: orchestra pesantuccia e bandistica, quando annuncia il tema cavalleresco dei crociati. Meglio le singole sezioni che l’insieme.
Introduzione: tempo veloce e spigliato. Entra però, un de Candia piuttosto pesante e sgraziato. Ingolata e non voce di contralto la Natalia Gavrilian, Ragonda, che non è una caratterista, ma solo un contralto ed è già nel timbro scuro della voce femminile l’essere caratterista.
Cavatina del Conte: l’orchestra è pesante; il tenore non si sa dove metta la voce (fra naso e gola) il tenore. Bianco e stimbrato, interpola dei trilli che non sono neppure acciaccature. L’accompagnamento continua ad essere pesante e nella cabaletta, che è un ensamble, il tenore non si sente. Il fatto che il sig. Shi abbia poco più di venti anni non ha rilevanza alcuna e non può far scattare buonismi e perdonismi. Il cantante deve essere giudicato, salvo pochissime eccezioni, per la prestazione che offre.
Aria dell’Ajo, per dirla in italiano: la voce di Regazzo suona cavernosa ed “indietro”, malferma nelle note tenute e con l’accompagnamento l’orchestra è grave, soprattutto nella seconda sezione dove nella tessitura alta e nei passi vocalizzati la voce stenta. I tentativi di addolcire alla ripresa dell’aria danno luogo a suoni opachi e stimbrati. In basso la voce non è a fuoco, ma è di vero basso.
Quando si ripropone il tema dell’aria di Lord Sidney l’orchestra è pesante e le agilità tutt’altro che precise, inoltre manca lo slancio ed il mordente che l’agilità di forza, soprattutto per un personaggio che è da opera seria, richiede.
Duetto Ory-Isolier: la Polverelli ha timbro da soprano e in basso apre i suoni.
Aria di Adele: la Moreno ha timbro di soubrette, anzi da cantante da zarzuela. Laura Cinti, prima Adele, cantava Elisabetta, regina d’Inghilterra. Il sopranino ha sempre problemi di espressione, derivati dalla scarsa ampiezza e dalla scarsa cavata. In alto, poi, compaiono, suoni stimbrati perché spinti e nell’unico sopracuto interpolato è crescente di intonazione. Inutile pretendere da una cantante da zarzuela agilità di forza, anzi sentiamo anche qualche passo aspirato . Nel da capo parche variazioni, che, oltre tutto, richiamano modi anni cinquanta e precedenti. Mi riferisco a staccati e picchettati.
Finale primo: Gli ensamble non migliorano certo le qualità dei solisti per cui sentiamo i suonini del soprano, i suoni ingolati delle voci gravi e l’espressione melensa (quanto di meno seducente ci sia) del tenore. Finalmente un po’ di brio in orchestra che non è pesante.
Atto secondo
Introduzione e temporale l’orchestra non brilla per leggerezza e grazia e mancano in orchestra e ne canto le dolcezza e la morbidezza delle voci femminili. Adele è proprio un sopranino e Ragonda è forzata in basso. Il temporale è abbastanza esplosivo, mentre gli interventi de conte sono melensi e mal cantati.
Duetto Adele – Ory: il tenore inizia con voce malferma ed aperta al centro, acuti insicuri e vocalizzazione da principiante, altro che l’ambiguità del seduttore incallito. Degna compagna la contessa con acuti fissi e fischianti e vocalizzazione degna delle denigrate soubrette anni ’50. Di accento, di gioco di seduzione neppure l’idea. Confesso che ho seriamente pensato di chiudere l’apparecchio radio e dedicarmi al commissario Montalbno.
Aria di Rimbaud
Brillante l’introduzione, funestata dai gridolini del tenore, autentica parodia di quello che doveva essere il misto di Nourrit. Per essere nostalgici non posso fare a meno di consigliare l’ascolto dell’aria di Fra Diavolo, altro opera comique e de 1830, eseguita da Jadlowker o da Lemeshev per chiarire come dovesse essere il cosiddetto misto.
De Candia emette solo suon sgraziati, stimbrati e senza alcun appoggio sul fiato, con questo metodo di canto non può esprimere nulla. Non è certo un fine dicitore. Sempre per gli ascolti storici avete mai ascoltato Hippolyte Belhomme, che tutto aveva fuorchè la voce e che per trent’anni fu l’incontrastato basso dell’opera-comique?
Con De Candia appena arriva un acuto succede di tutto, salvo udire canto professionale. Si ha la sensazione che il cantante cerchi di cantare deliberatamente male.
E c’è persino un tiepido applauso.
Finale: non lo scoprono quelli del Corriere della Grisi che sia la pagina più originale, elegante e raffinata di questo capolavoro. E allora, in omaggio alla grandezza di Rossini, sentiamo un tenore dall’espressione melensa e dai suoni senza appoggio, la voce bassa ed ingolata di Laura Polverelli, chiamata a far da “pedale” e il timbro infantile e da zarzuela della Moreno, qualche inciampo nell’esecuzione degli staccati . Inutile pretendere il clima notturno, l’ambiguità erotica. Quando attacca l’allegro conclusivo i nostri eroi protagonisti (ma credo che i veri eroi siamo noi che resistiamo all’ascolto!!!) si lanciano in varianti e diminuzioni con risultati, che rendono auspicabile la prassi del taglio dei “da capo”.
Anni fa, quasi venti, in Scala ricordo Ory come un gioiello, il trionfo di un musicista che riutilizza l’ottanta per cento di un’altra opera e crea un capolavoro. Questa sera dell’ascolto radiofonico non aspettavo che la fine!

Fin qui la recensione di Domenico Donzelli. Presente in sala non posso aggiungere molto né molto correggere, a dimostrazione del fatto che, a saper ascoltare, la radio non deforma né tradisce quanto prodotto in teatro. In realtà vorrei spendere due parole solo su Laura Polverelli, una cantante che ha in passato dispensato serate di canto solido, se non ispirato, e che invece ieri sera era la negazione stessa della vocalizzazione e dell'espressività rossiniana. Non c'era un suono che non fosse urlato, sovente stonato (gli acuti nell'introduzione del duetto con Ory), l'espressione costantemente plebea, da Carmen di periferia, per giunta senza la voce torrenziale di certe Carmen di periferia del tanto vituperato passato. Poche prove? Scarsa preparazione (o meglio ripasso, perché se non erro la Polverelli aveva già cantato Isolier diversi anni fa a Firenze)? Di certo è una prova che non fa onore alla cantante, a Rossini, al festival. Sugli altri poco da dire: De Candia si è difeso nel primo atto ma è crollato miseramente al secondo nella grande aria già di Don Profondo, gli altri non si sono fatti notare in alcun modo, salvo il tenore Shi, di voce microbica, bianca e sibilante in acuto. Non male per un cantante che proviene dell'Accademia Rossiniana del ROF!
Carignani ha diretto con brio ma senza raffinatezza. Delle tre direzioni di questo ROF è quella che ho preferito, o per meglio dire, quella che mi ha deluso di meno.
La regia, già vista a Pesaro e Bologna, è elegante con i suoi costumi anni Quaranta (meno belle le scenografie, che più che un albergo di lusso evocano una casa di tolleranza liberty) ma aggiunge ben poco a un'opera che, come già sottolineato da Donzelli, basta da sola a "fare serata". Quasi sempre. - AT

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sabato 8 agosto 2009

Zelmira: in attesa della prima.

E’ la Grecia arcaica dell’isola di Lesbo lo sfondo su cui si muovono i personaggi di “Zelmira”, ultima opera napoletana di Rossini, mentre furono le contese personali e professionali tra Rossini e l’impresario Barbaja a far da sfondo, nella realtà della vita, alla composizione dell’opera.
Un libretto assai imperfetto, firmato da Tottola; le condizioni vocali dissestate della Colbran; il matrimonio ormai prossimo tra Gioachino ed Isabella, a riparare l’onore dei due pubblici concubini; le discussioni con lo stesso Barbaja per la proprietà dello spartito, alimentate anche dalla gelosia per la perdita dell’amante, agitarono la gestazione di Zelmira.


Sin dalle prime rappresentazioni fuori dal San Carlo l’opera subì modifiche documentate sia per mano di Rossini, dapprima per Vienna ( aprile 1822 ), quindi, per Parigi nel 1826, sia per mano di alcuni esecutori, dato che le caratteristiche vocali di alcuni esecutori riportati dalle cronologie ottocentesche non coincidevano con quelle dei primi interpreti, basti pensare al caso londinese del 1824 quando Manuel Garcia, tenore baritonale, cantò Ilo, parte da tenore contraltino. Il destino di Zelmira, come già quello di altri titoli, in particolare Ermione, sarebbe stato quello di una veloce dismissione dai palcoscenici, causa l’impressionante difficoltà dei ruoli tenorili e l’insoddisfacente estensione delle due parti femminili, cui nulla valsero gli inserti viennese e parigino predisposti da Rossini stesso. Nell’800 l’opera sopravvisse, di fatto, meno di un ventennio prima di essere abbandonata, a differenza di altre celebri “desaparecides”, come Otello, Ricciardo e Zoraide, Donna del Lago dismesse dopo gli anni ’60.Il libretto, inoltre, è disomogeneo, drammaturgicamente sbilanciato sul I atto, ove si continua a parlare di un delitto passato e di una colpevole…incolpevole! Un soggetto statico, ove di fatto non accade nulla, nella cui seconda parte, non a caso, venne collocata la composizione secondaria per Fanny Eckerling dell’aria di Emma, unico contraltare al grande finale della Colbran. Finale che, poi, Giuditta Pasta si fece riscrivere, per le recite parigine, in modo più consono alle sue caratteristiche vocali.

Ai limiti delle umane possibilità vocali i due ruoli pensati per David e Nozzari, ancor più di quanto sperimentato con le altre opere napoletane.
Al formidabile baritenore spetta, come tradizione, la parte del cattivo, Antenore, mendace usurpatore ed assassino, che alla fine verrà smascherato ed arrestato. Per Nozzari, che nel 1822 aveva ben 47 anni, un’enormità per l’epoca, la scrittura è come al solito fiorita, di forza: richiede ampiezza di accento, con recitativi accompagnati di grande spessore tragico ed una scrittura vocale di estensione mostruosa, pari a circa due ottave e mezza, dal re bem sopracuto al la grave sotto il rigo. La parte è di fatto concentrata sul primo atto, con grande scena di ingresso, l’andante maestoso in “2/4 “Che vidi amici o eccesso”, che introduce il personaggio, ambiguo e bugiardo; grande scena a metà atto, l’allegro vigoroso “Mentre qual fiera ingorda”, ove Antenore accusa apertamente e con violenza l’innocente Zelmira e nella quale Rossini costringe Nozzari, interpretativamente inerte, secondo i contemporanei, a paurosi sbalzi dalla zona acuta a quella grave sotto il rigo; grande scena che introduce il quintetto e, quindi, il finale I, ove Antenore viene incoronato re di Lesbo e Zelmira accusata anche di aver tentato di assassinare Ilo, composta dalla grande scena “ Si figli miei di Lesbo” e successivo terzettino, terzetto, il quintetto “La sorpresa lo stupore”, ed il concertato finale.
Nel secondo atto, dopo il recitativo con Leucippo, di nuovo la vocalizzazione di forza e le puntate in alto della scena “Né lacci miei cadesti “ che introduce il successivo bellissimo quintetto “Ne lacci miei cadesti”. Il tenore che vesta i panni di Antenore deve saper cantare praticamente tutto ed in ogni modo: per lui Rossini ha scritto il canto di grande ampiezza, come nella scena “Mentre qual fiera ingorda..”; ha previsto che accenti “terribilmente” i recitativi come la coloratura, più volte, e non a caso, accentata, come nelle fioriture discendenti di “ dovrà seguirti si or or “ della cavatina di sortita; gli ha imposto l’esecuzione di ogni sorta di coloratura, dai trilli alle terzine, alle quartine, scale e volate di ogni genere e qualità, il tutto sempre di forza, come espressamente indicato in vari punti dello spartito. Il cattivo dell’opera è cattivo sino alla fine e resta aggressivo sino al finale, persino al grande quintetto del II atto, “ Né lacci miei cadesti”, ove in virtù dell’esecuzione di forza della coloratura prescritta, aggredisce e minaccia Polidoro.
La parte venne rimaneggiata, non a caso, in occasione delle recite parigine al Des Italiéns per Bordogni, primo Liebenskof del Viaggio Reim e, quindi, tenore contraltino, come afferma Gossett nella prefazione alla ristampa del 1979. I vertiginosi saliscendi di aria e cabaletta oltre alla profondità della scrittura, che si colloca anche in zona la-do sotto il rigo, evidentemente erano di troppo peso per Bordogni, tanto da indurre Rossini a modificare la scena, riducendone il recitativo e tagliando la cabaletta.

Ilo, principe trojano e consorte dell’infamata Zelmira, riveste il tradizionale ruolo del puro, amante e guerriero. Prodigioso per estensione e virtuosismo, Ilo è il più arduo e massacrante dei ruoli scritti per Giovanni David, che lo tenne in repertorio di fatto sino al 1832, sebbene non sappiamo bene in quali condizioni vocali o con qual raggiusti. Fu l’Ilo della Colbran, della Meric Lalande, della Fodor Mainvieille e persino della Ronzi, a riprova delle difficoltà oggettive incontrate nel trovargli un degno sostituto sul ruolo. Del tutto occasionale fu, infatti, il passaggio a Rubini nelle recite parigine e, successivamente, a quelle napoletane del 1827: si trattava infatti del Rubini prima maniera, ossia versione tenore contraltino, di cui vi parlammo nel post “Florez vs Rubini” parecchio tempo fa e a cui vi rimandiamo. Presso Nozzari, suo vero maestro, Rubini avrebbe dato di lì a pochissimo altro assetto alla propria voce per divenire, appunto, il “Rubini” passato alla storia del canto. Il suo approccio ad Ilo avvenne dunque nella prima fase della carriera, quando il tenore bergamasco ancora seguiva il modello di David: celebre ma non ancora il fenomenale e romantico tenore di Bellini.
La psicologia di Ilo è quella dell’amante che si crede tradito e sconfitto, privato del figlio che pensa ucciso dalla moglie, arrabbiato e dolente, che rinasce nell’anima quando apprende finalmente dell’innocenza di Zelmira ed ottiene giustizia nel finale dell’opera. Rossini ha scritto praticamente tutto anche per questo ruolo. L’eroe entra con una cavatina di impressionante difficoltà acrobatica e tessitura astrale: l’andantino in 4/4 “Terra amica”, che impone sin dalle prime battute un canto di coloratura di forza minuta con numerose scale, di cui una lunghissima che arriva sino al re nat sopracuto; quindi la cabaletta, l‘allegretto “Cara! Deh attendimi..” con i famosi trilli su sol-la centrali e salti al re nat sopracuto scoperto, di grande effetto e presa sul pubblico. La tessitura di Ilo è altissima, ma non ammette il canto eunucoide o infantile che viene dalla voci sbiancate nello sforzo di allungarsi verso l’alto. I recitativi, come anche per gli altri personaggi ( e mi rifaccio apertamente alle osservazioni di P.Gossett in questo ), sono fondamentali nel dare senso drammaturgico e forza ai personaggi, in questo caso ad Ilo, che non è affatto sbiadito o esangue. Il canto fiorito è pressoché continuo, ma deve assumere la cifra esatta del personaggio. Vi è coloratura minuta nel duetto con Zelmira “ A se caro a te son io..”, con una sequenza impressionante di quartine ascendenti e discendenti e ribattute dell’allegro che chiude la scena. Anche nel II atto, al duetto con Polidoro, al tenore, come al basso, non mancano acrobazie di forza variamente assortite nell’allegro “In estasi di gioja”, volate, quartine, trilli, duine…… Il rimaneggiamento parigino del finale implicò, poi, un ulteriore ampliamento della parte, senza alcuna diminuzione del livello di difficoltà, insomma……un vero monstrum vocale cui è ardua impresa rendere l’esatta forza drammatica.

Di limitata lunghezza ed estensione il ruolo della protagonista, che attende a due duetti, un duettino, un terzetto ed un quintetto prima di ritagliarsi una grande scena solistica, quella finale, come gradito alla Colbran, a modello di quelle di Anna Erisso ( Maometto II ) ed Elena ( Donna del Lago ).La scrittura è centralissima e prevalentemente orizzontale, dato che raramente supera la zona del passaggio di registro del soprano. Nel grande finale la linea di canto si spinge fino al si bem acuto in volata , mentre in tutto quanto precede arriva solo occasionalmente al la acuto.
La grande diva, infatti, era ormai al capolinea: Semiramide, già alle porte nel tempo e nella musica di Zelmira, avrebbe avuto, dopo le prime rappresentazioni veneziane del ’23, altre e diverse protagoniste a renderla famosa, perché il ritiro della diva era vicinissimo. Aveva solo 38 anni, ma cantava dall’età di 16.
Zelmira entra senza cavatina di sortita, come già nel Ricciardo e Zoraide, quasi in modo dimesso, mediante un piccolo duetto con Emma e che descrive il loro incontro furtivo. Poi l’”allegro animato” del terzetto con Emma e Polidoro, di scrittura centrale, ove presto arrivano terzine e duine veloci. Al duetto con Ilo la scrittura resta simile, con coloratura minuta anche in un momento largo ed estatico come “Quanto costa al labbro mio”, quindi l’immancabile agilità di forza della stretta “ Che mai pensar che dir “, di nuovo a suon di quartine, come già detto in precedenza.
Celeberrimo il duetto con Emma, l’andante in 4/4 “ Perché mi guardi e piangi”, con la suggestiva introduzione di arpa ed oboe solisti che sarà grande spunto, come altre volte, qualche anno più tardi, per altri compositori. Lo stile patetico si applica ad un momento di grande intensità.
In chiusa di primo atto ancora un terzetto ed il finale primo, quindi di nuovo, nel secondo atto, un quintetto prima di attaccare la grande scena finale del’opera. In questa scena Rossini ricalca un modello già consolidato: una prima sezione, maestoso in 4/4, che riecheggia la prima di “Tanti affetti ..” con agilità ascendenti e discendenti, chiusa da una cadenza lunghissima scritta, e quindi una veloce, un allegro sempre in 4/4 introdotto dal coro, “Deh circondatemi, miei cari oggetti”, con inserimenti di Ilo e Polidoro, come già in “ A chi sperar potea….” di Donna, ove si inserisce il coro. Zelmira non possiede la cifra tragica di Anna Erisso, contenuta a pochi momenti “forti”, come le poche battute che precedono il finale “Non ti appressar! di un ferro…” oppure momenti come “ Me sola uccidi o barbaro..” del quintetto. L’essenza del personaggio è comunque quella lirica e dolente, idonea ad un soprano centrale come ad un mezzo di belle qualità tecniche, in particolare il legato.
Per l’esecuzione parigina dell’opera Rossini lavorò al remake del finale per Giuditta Pasta. La scrittura minutamente fiorita del brano era abbastanza estranea alle caratteristiche vocali della Pasta, famosa per la ricchezza di accenti ma che, evidentemente, non gradiva la coloratura minuta e velocissima ( quella alla Horne per intenderci ) che caratterizza alcune sezioni dei finali composti da Rossini per la moglie. Straordinariamente abile nel rimetter mano a se stesso riconfigurando con nuova grande efficacia composizioni già perfettamente compiute, Rossini collocò all’inizio del finale di Zelmira una nuova aria, “Da te spero o ciel clemente” ( modernamente incisa da Marilyn Horne nel suo disco “Arie alternative di Rossini” ) andantino in ¾, una sorta di preghiera della protagonista, di tessitura centrale e dall’atmosfera sospesa e lirica. Per la sezione successiva, grazie anche qualche modifica al libretto, inserì un allegro in 4/4, protagonisti ancora Zelmira, cui si aggiungono Polidoro, Antenore, Leucippo, “ Dell’innnocenza o Dei, vindici ognor voi siete”, riutilizzando musica già scritta per la cabaletta della grande scena di Ermione. Dopo questa, Rossini ripristinò il vecchio finale nella scena introdotta dal coro, “All’armi all’armi”, ove Zelmira che difende il padre da Polidoro, “Non ti appressar d’un ferro”, quindi, sul tema del vecchio rondò della protagonista “Riedi al soglio”, modificò ulteriormente il finale secondo. Rimasero le prime nove battute delle frasi “Riedi al soglio”, cui attaccò direttamente la sezione finale, “ Deh circondatemi miei cari oggetti”, tagliando le 21 battute intermedie, fioritissime, da “…pura fede amor sincero..” ad “..amor sincero”. Da qui la novità dell’inserimento di Polidoro ed Ilo che succedono a Zelmira col loro canto sul tema, con i famosi passi vocalizzati in zona sopracuta per Ilo, mi bem-re, scritti per Rubini. Un ampio finale a tre, dunque, che non dispensava nulla nemmeno a Polidoro, chiamato anche lui ad eseguire una bella dose di coloratura, trilli inclusi.

La seconda donna, Emma, non ebbe, come detto, una sua grande scena, e quindi la dignità di primadonna, sino alle rappresentazioni di Vienna, al teatro di Porta Carinzia, quando venne cantata da Fanny Eckerling: il cast napoletano, infatti, includeva una cantante non ancora di primo piano, la Cecconi. L’inserimento viennese dell’andantino “Ciel pietoso, ciel clemente” dovette rimanere in uso anche in produzioni successive: alla prima di Parigi, ad esempio venne chiamata la Schiassetti, prima marchesa Melibea della Viaggio a Reims, per cui è logico pensare che anche lei abbia voluto avere la sua scena solista. Il brano è molto bello, di scrittura centrale, tocca nella cadenza in chiusa allo stesso il si bem, e nuovamente in cabaletta, prevedendo moderate difficoltà tecniche per l’interprete.

A differenza di altre volte, il leggendario Galli non fece parte dell’originaria produzione di Zelmira, ed il ruolo del padre della protagonista, Polidoro, venne affidato ad un secondo cantante. Quello del basso cantabile non è certo tra i ruoli più difficili scritti da Rossini per una voce grave, ma consta di una scrittura mediamente alta, alcuni momenti di vero virtuosismo, come il duetto con Ilo, irto di difficoltà ( quartine, duine, scale discendenti..etc..), ed una facile e breve cavatina di sortita al primo atto “Ah!Già trascorse il dì”, di tono dolente. Polidoro partecipa di tutti gli ensemble al primo e secondo atto, ma il personaggio, per quanto sia sempre in scena, resta, anche per psicologia, un secondo cantante. Il finale per Parigi, ove al primo interprete Ambrosi si sostituì Zucchelli, allungò ulteriormente la parte aggiungedovi alcune difficoltà sul piano virtuosistico.
Non sfugge ai melomani bazzicatori di cronologie che i nomi più interessanti tra i bassi che cantarono Zelmira si ritrovano sul ruolo secondario di Leucippo, da Michele Benedetti alla prima di Napoli, già primo Mosè del Mosè in Egitto, oppure il giovane Nicolas Levasseur, futuro Marcel degli Ugonotti e Bertram del Robert le Diable, alla prima di Parigi del ‘26, forse perché alla protervia del cattivo erano necessari una maggiore ampiezza e sonorità di voce.

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In età recente pochissime sono state le produzioni di Zelmira, che non ha trovato, soprattutto nel settore femminile adeguate interpreti. L’opera venne rimessa in circolazione ( breve ), dopo la sporadica ripresa del’65 a Napoli con V.Zeani, grazie a C. Gasdia e, quindi, M. Devia, cantanti diversissime per capacità tecniche, ma assai simili nella resa del personaggio, perché entrambe troppo leggere per il ruolo. Laddove la Gasdia sfarfalleggiava e cempennava la coloratura, la Devia è stata più precisa ed accurata, ma entrambe sono rimaste ben lontane da quella pienezza lirica che la scrittura richiede. A suo agio in zona acuta, laddove ha collocato molti dei rimaneggiamenti operati sul testo, la Devia ha faticato in certi passi di scrittura grave, dove ha finito anche lei per svolazzare senza peso. Il finale venne cantato benissimo, ma la voce era per sua stessa natura estranea al senso della parte, che non ha nulla a che vedere con il canto di un soprano leggero. Idem dicasi per le interpreti di Emma, un soprano leggero prestato ai contralti, con un registro basso del tutto artefatto, Gloria Scalchi; un soprano lirico con la voce ingolata, la musicalissima Ganassi.
Solo i ruoli tenorili hanno avuto l’onore di due grandi cantanti perfettamente idonei ai ruoli, ossia R. Blake e C. Merritt. Spartito alla mano ci hanno dato la più straordinaria e precisa esecuzione di queste terribili scritture, conferendo ai loro personaggi il giusto spessore tragico e l’immagine di veri guerrieri. Si trattava di capacità vocali abnormi, come il confronto con i successivi migliori Antenore ed Ilo che abbiamo udito, ossia B. Ford e W .Matteuzzi dimostra. Al primo sono mancate l’ampiezza e la sonorità di Merritt, la sua precisione nella coloratura e lo squillo in alto. Al secondo, sebbene preciso e squillante, mancò inesorabilmente il peso drammatico di Blake, che tutt’oggi al confronto mostra una voce più scura, oltre che più ampia ed un canto aggressivo, proprio perché Ilo tenorino non è.
Tutti gli altri interpreti, per un motivo o per un altro, non reggono il confronto con i due americani, perché travolti dalla difficoltà dei ruoli. Né si è mai compresa la fretta del ROF di liquidare il vecchio Blake per sostituirlo inopinatamente con l’asfittico P. A. Kelly in occasione della prima performance festivaliera in Pesaro, inferiore, nella coloratura come nell’accento, anche all’americano delle perfomance concertistiche degli ultimi anni, come gli audio dimostrano, quasi che i fenomeni possano trovare normale e fisiologico ricambio!
Quanto a Polidoro, il professionismo di Alaimo e Surjan, che non erano certo dei Ramey, resta lì, a memoria imperitura della sparizione di quello che si chiama “ solido professionista” dell’arte del canto: corretti nell’esecuzione musicale, pertinenti nell’accento, entrambi ancora con una emissione gradevole e composta.
Rossini - Zelmira

Atto I

Che vidi...o amici...oh eccesso! - Chris Merritt (1989)

Terra amica - William Matteuzzi (1988), Rockwell Blake (1989)

Mentre qual fiera ingorda - Chris Merritt (1989)

Perché mi guardi e piangi - Lella Cuberli & Martine Dupuy (1988)

Atto II

Ciel pietoso, ciel clemente - Anna Maria Rota (1965), Sonia Ganassi (1999)

In estasi di gioia - Rockwell Blake & Simone Alaimo (1989)

Ne' lacci miei cadesti - Chris Merritt, Simone Alaimo, Cecilia Gasdia, Gloria Scalchi & Roberto Servile (1989)

Riedi al soglio - Cecilia Gasdia (1989), Mariella Devia (1999)

Finale alternativo : Da te spero, ciel clemente - Marilyn Horne (1986)

Scarica tutti gli ascolti - via Rapidshare.com


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domenica 2 agosto 2009

Agosto e i suoi festival

Estate, tempo di festival.
Tornano puntuali ogni anno, assieme ai tornei di beach volley, i quiz e gli speciali delle riviste, i profumi delle creme da sole, le grigliate con gli amici nelle aree attrezzate di montagna, le sfilate in costume nelle antiche rocche, le notti bianche di chi resta in città.
Tornano puntuali con il loro carico di aspettative, di gossip, di ricordi da rievocare ad allietare le vacanze dei melomani di ogni ordine e grado.

In tempo di magra si assottiglia l’offerta festivaliera dell’opera e pulsano ormai solo pochi ed antichi luoghi d’elezione dell’arte canora, peraltro anch’essi corrosi dal venir meno del principio originario che li generò, ossia la conservazione dell’ortodossia esecutiva dell’autore. La deriva mercantile che li ha minati, seppur negata a parole dai sacerdoti che li concertano, è lì alla luce del sole, alimentata da una carenza di voci apparentemente irreversibile, che schiaccia ogni ambizione e velleità di tornare a fare grande musica e canto, ossia... cultura.
Non sono diverse, a nostro avviso, le parabole di Bayreuth e Pesaro: è solo una questione cronologica, perché diverse sono le date di nascita. Lo stato dell’arte è però lo stesso: un’arte che, in primo luogo, non riesce in alcun modo a distinguersi, nei contenuti come negli obbiettivi, da quella che si dà normalmente sui palcoscenici dei teatri di tutto il mondo, e che quindi non sostanzia la distinzione di un “festival” da una “stagione monotematica”; un’arte assolutamente dipendente dalla messa in scena, ossia dall’allestimento, componente costosa e, oggi come oggi, insostenibile per i budget che la situazione presente impone; un’arte condizionata dall’estinzione di intere categorie vocali, il cantante wagneriano in primo luogo. Una tradizione vocale si interrompe, un’altra, quella del “mostro” rossiniano, dura l’espace d’un matin per forza di cose, né basta chiedere al cantante di farsi attore, mimo o clown per sopperire alle deficienze esecutive della componente vocale. Sulla sacra collina i sacerdoti si aggrappano alla loro orchestra, pure quella però in crisi di leader sul podio, e si spingono lontanissimo ( son andati fin nella fantascienza! ) nella rilettura dei testi del musicista da celebrare. Lungo il mare, invece, la tragedia si fa spoglia e composta, tanto minima da non sembrare più nemmeno tale, si rivisitano gli originari assunti in fatto di vocalità tragica dell’autore sino a rinnegarlo del tutto per poter ancora andare in scena, oppure ci si diverte allegramente con le farse, frizzi, lazzi e cotillons per tutti.
Gli autori sono traditi nel circolo vizioso che costringe i filologi o gli esegeti a forzare le letture dei testi o a reimpostarle per questa o quella necessità contingente, fenomeno che, negli anni, è passato da occasionale a sistematico. Il gusto e la sensibilità, peraltro, tendono ad adeguarsi allo standard corrente e a cristallizzare, come adeguati e validi, cliché e stilemi un tempo inammissibili. Ed i festival, dunque, finiscono per negare se stessi, i loro obiettivi originari, trasformandosi in sagre commerciali estive, nelle quali si compiono rappresentazioni non più “ sacre”, questo è certo!, dei capolavori degli autori amati, ma che, sotto la rassicurante etichetta “FESTIVAL”, il pubblico ancora accetta per quel fenomeno tipico e ben conosciuto nel commercio, motore della domanda d’acquisto, che si chiama... ETICHETTA.
Nemmeno questo piccolo Corriere potrà, dunque, sottrarsi alla logica estiva festivaliera, anzi la asseconderà in toto. Il “Mese rossiniano” progettato per voi durante l’inverno sarà arricchito anche dalla pubblicazione di una mia lunghissima chiacchierata con una collega che calcò le scene parecchio tempo dopo di me, Marianne Brandt, che (come avete già letto nella prima puntata di venerdì scorso) vi racconterà un po’ di gossip ( tanto per uniformarci ai prodotti delle edicole! ) sulle follie che ebbero luogo sulla collina di Bayreuth alla morte di Wagner, in modo che possiate ringraziare il cielo che Rossini abbia scelto le signore Isabella ed Olympe come compagne di vita.
Buona estate a voi tutti!

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