Si dovrebbe stare molto attenti in queste occasioni quando si rilasciano, per voce o per iscritto, dichiarazioni dall’entusiasmo un tantinello eccessivo nel loro marcato ottimismo, perché potrebbero sembrare, oltre che iettatorie nei confronti degli addetti ai lavori, anche espresse in palese ingenua malafede, se non addirittura insultanti nei confronti dell’intelligenza e delle orecchie del pubblico, che come nel recente caso fiorentino, esauriva il teatro. Quando difatti si leggono frasi effettistiche, con più d’un sospetto di giustificazione e falsissimo buonismo, del tipo “Il miglior cast possibile oggi”, oppure “Nonostante le stonature, i cantanti ci hanno regalato forti emozioni, perché è questo in fondo che l’opera deve regalare”, le uniche “forti emozioni” che sento sono rabbia e ilarità, perché alla prova dei fatti l’esito globale smentisce spudoratamente tale presunta “eccellenza”, compromettendo la credibilità stessa degli artisti interessati. Ripenso allora a queste “anime candide”, ormaipaonazze in viso a causa della traboccante vergogna, che si sdilinquiscono in acrobatiche e presuntuose contorsioni metafisiche condite da qualunquismi di maniera; patetico!
Preclaro esempio, questa “Forza” fiorentina, probabilmente il passo più falso, ed il punto più basso che il Comunale ha raggiunto in questi anni (ovviamente con il beneficio del dubbio: “Tosca” e la nuova stagione 2011 potrebbero regalarci nuove “emozioni”). Lo dico a malincuore, perché dopo gli ultimi spettacoli, che hanno stupito positivamente e regalato serate di buona qualità, questa “cosa” il Teatro fiorentino poteva ampiamente risparmiarcelo e l’amarezza si acuisce soprattutto perché ad avvallarla è stato un direttore di grande esperienza come Zubin Mehta!
Prendiamo la protagonista, Violeta Urmana: non mi stancherò mai di ripetere che la Urmana fino a 5-6 anni fa era un valente mezzosoprano, sia per qualità della voce, del volume torrenziale e del controllo.Si potrà obiettare sulla qualità del fraseggio, mai rifinito, ma nemmeno così superficiale, o sulla tecnica, che si ripercuoteva nell’emissione degli acuti e alcune volte sull’intonazione, eppure la signora Urmana DOVEVA rimanere nel suo registro d’elezione, approfondendo Wagner e Verdi o magari affrontando le sfide del repertorio francese, penso a Meyerbeer, Halévy, Berlioz, al Donizetti de “La Favorite” e “Dom Sébastien”, oppure l’eleganza di Gluck (le due Iphigénie e Armide); invece eccola qui soprano, una delle tante ormai, giacchè la cifra che l’aveva contraddistinta nella prima fase della carriera è oggi praticamente inesistente se non del tutto esaurita, sostituita invece dall’acuirsi dei problemi vocali che un tale salto ha comportato. A partire dal Fa ed in tutti gli acuti, la voce ormai si chiude e si fa stridente o fissa, se non proprio urlata, e se nel registro grave la voce era un tempo sonora, oggi si è ridotta ad un parlato che si riscontra in tutte quelle cantanti odierne che non riescono a risolvere il passaggio di registro se non gonfiando le note o finendo per “recitare”; nel centro si salvano una manciata di note, vestigia della voce che fu, ridotta per giunta nel volume e nella sostanza. Si aggiunga un’ interpretazione lamentosa ed estremamente generica e il danno, purtroppo, si fa irreversibile, segno questo di un’usura vocale che dal 2007 (data della sua precedente“Forza” fiorentina) è in stato avanzato. Peccato, quella che poteva essere una buona Preziosilla si è sacrificata sull’altare, sempre troppo largo, dell’ambizione.
Prendiamo Salvatore Licitra, che aveva stupito per la bellezza di un timbro chiaro e prezioso sostenuto però da tecnica insufficiente, e mai purtroppo perfezionata e da scelte di repertorio dissennate. “Forti emozioni” anche nel suo caso? Nemmeno per idea: il timbro, ancora apprezzabile, è continuamente mortificato da una emissione totalmente aperta, fissa su ogni livello, forzata e legnosa negli acuti, poggiata sulla gola e in perenne calo di intonazione. Le stecche allora non si contano, una addirittura clamorosa alla “prima” sul Si naturale della struggente frase del III atto “Al chiostro, all'eremo, ai santi altari/ L'oblio, la pace chiegga il guerrier” che alla recita del Venerdì non viene ripetuto in quanto tocca appena la nota per poi scendere al Mi successivo, trucco che si ripete puntualmente con tutte le note sopra al Sol, nell’emissione delle quali il cantante si fa coprire dall’orchestra. Toni eroici? Malinconici? Se li possedesse o si sforzasse di piegare la voce non verrebbero gettate allo sbaraglio in un lagnoso e monotono calderone frasi come “Pura siccome gli angeli / È vostra figlia, il giuro”, tutto il recitativo che precede “O tu che seno agli angeli” e ciò che segue, oppure tutto il nervoso duetto con Don Carlo al IV atto. Davvero imbarazzante.
A confronto dei primi due il baritono Roberto Frontali fa “quasi” la figura del fuoriclasse: e dico “quasi”, perché, nonostante l’emissione ballerina, il registro centrale si mantiene sonoro possedendo una certa robustezza; ma la voce è tutta aperta, lo stile da tardo verismo mascagnano sempre bieco e ostile con più d’un sospetto di bava alla bocca e con gli acuti rigorosamente indietro o dall’intonazione pericolante. Solo nell’ “Urna fatale del mio destino” si discosta da tale monotonia d’accenti, riuscendo quanto meno a fraseggiare con un certo gusto per le sfumature dinamiche e per la mezza voce con cui conclude l’aria.
Sconcertante la presenza di Elena Maximova nel ruolo di Preziosilla: ennesima cantante venuta dall’est che non si discosta punto dalle sue tragiche “consorelle” per la bislacca pronuncia italiana, per la voce impastata, gutturale e spaccata dal filiforme e fisso registro acuto, che la renderebbero inadatta persino a Curra o alla mendicante del IV atto e nulla può fare la bella, ma pallidissima figura, nemmeno distrarre da mende vocali tanto evidenti.
Se Roberto de Candia diverte “recitando” con voce tenorile il ruolo di Fra Melitone, se Enrico Iori pensa al Marchese di Calatrava come ad un erede monolitico e gutturale di Ramfis, Roberto Scandiuzzi ripete il suo Padre Guardiano con voce ancora più usurata rispetto a questa estate, più tremula e legnosa e dalle inflessioni orchesche, ben poco confacenti ad un uom di Dio. Almeno a Macerata aveva abbozzato questa volitiva figura con maggior sensibilità.
Come sempre molto professionali, sonori ed attenti ai caratteri la Curra di Antonella Trevisan, il Mastro Trabuco di Carlo Bosi, l’Alcade di Filippo Polinelli ed il Chirurgo di Nicolò Ayroldi e in forma solo discreta il coro del Maggio Musicale Fiorentino.
Sempre più grigiastro, noioso e polveroso l’allestimento di Nicolas Joël ripreso da Franco Barlozzetti e mai stato più di tanto esaltante sul palcoscenico.
La più grande, cocente delusione viene proprio dal Maestro Zubin Mehta. Si è molto discusso sulla routine in cui il grande Direttore è piombato negli ultimi vent’anni, un po’ come è capitato a Lorin Maazel, sempre più lutulento e discontinuo, ma nel primo caso sono solo in parte d’accordo. Restando in anni recenti, Mehta ha realizzato prove a parer mio maiuscole in “Fidelio”, nel “Ring”, nella “Frau ohne Schatten”, dunque nel repertorio tedesco, mentre abbastanza calamitose e al limite del ridicolo in “Carmen”, “Rigoletto a Mantova” e appunto in questa “Forza”: la quale nel 2007 aveva una tinta funerea e opprimente, ma almeno portava avanti una idea che era una! Ciò che fa ascoltare oggi invece è l’adempimento meccanico e molto superficiale di un impegno in mezzo ad altri due impegni, al solo scopo di “portarsi a casa la pagnotta” con la minima fatica e la più avvilente delle routine.
Mai l’orchestra del Comunale ha suonato così male; mai gli ottoni hanno emesso suoni così grevi e più vicini a certe volgari onomatopee che alla musica; mai i fiati hanno stonato così dannatamente tanto da lasciare interdetti; mai il clarinetto nell’assolo del III atto ha calato così spudoratamente l’intonazione affliggendo le orecchie in una emissione tutta moto ondulatorio da mal di mare; mai Zubin Mehta ha diretto con tale sciatteria timbrica, tale trascuratezza dei segni espressivi e del dettaglio, con tale superficialità dell’uso dei tempi allargati all’inverosimile, tanto da mancare la coesione tra gli stessi strumenti nei concertati, letteralmente annegati in assurde mazzate di suono, o conquanto avviene in palcoscenico; mai i momenti sacri del II atto sono stati così assurdamente dilavati in macignose marmellate sonore più vicine a svogliate ninne-nanne; mai con Verdi ho dovuto lottare così duramente con il sonno. Unico pregio: gli archi, gli unici dal suono pulito, dagli attacchi perfetti, dal timbro cristallino e rotondo. Troppo, troppo poco da un direttore del calibro di Mehta, che ha un gigante come Mitropoulos nel sangue e da un teatro che ha sempre portato avanti un coerente discorso sulla qualità dei suoi titoli. Spero sia stato solo un brutto scivolone, un unicum.
Di fronte all’amarezza suscitata da questa produzione, mi aspettavo un pubblico più nervoso, più vivace, che sapesse discernere la vera qualità dall’infima routine di bassa provincia: invece no, tutti plaudenti e contenti. Beati loro… eppure ricordo le contestazioni rivolte ad alcuni cantanti nel 2007, mentre oggi la Urmana, Licitra e la Maximova passano allegramente indenni al proscenio; ricordo anche qualche cenno di disapprovazione, nei confronti del povero Ralf Weikert al termine di “Salome”, direttore noioso quanto si vuole, ma che non aveva mortificato in questo modo l’orchestra, mentre al contrario si applaude con calore Mehta il quale ringrazia il pubblico per avergli permesso di massacrare la partitura.
Venerdì, al termine della recita, più di quattro minuti di applausi fiacchi, stentati, gentili verso tutti: tecnicamente è un flop colossale, ma c’è chi parlerà di trionfo unanime e ovazioni.
Bugiardo!
Verdi - La forza del destino
Sinfonia - Dimitri Mitropoulos (1953)