Lohengrin” a Bayreuth ebbe il suo battesimo nel 1894, cioè a quasi vent’anni dall’inaugurazione del Festival e ad un passo dal nuovo allestimento del nuovo “Ring” dopo l’apertura del 1876.
Fu Cosima Wagner a volere fortemente il nuovo allestimento e pose la “primadonna” scelta per Elsa grazie ai suggerimenti del direttore Hans Richter, ovvero Lillian Nordica, allora versatile soprano di prima grandezza, al centro di un cast internazionale, mossa strategica e pionieristica verso un’apertura del sacro tempio wagneriano a cantanti non solo tedeschi.
Lillian Nordica preparò il ruolo con Cosima e le prove non furono scevre da tensioni, anche emotive, che in parte minarono l’esito canoro della prima recita; eppure quelle recite, nel prosieguo, si risolsero in un grande trionfo, ripetuto successivamente nelle recite newyorkesi, nuovo teatro d’elezione che consacrò la cospicua fama della grande cantante.
La voce della Nordica, in effetti, rappresentava per l’epoca l’incarnazione ideale delle caratteristiche vocali di Elsa: accento aulico che sapeva diventare tenero e febbrile, robusto e chiaro il timbro, a proprio agio nell’emissione flautata, anche se con una punta di gutturalità, nelle note centrali comunque morbide nella loro costante sollecitazione, radiosi gli acuti, successivamente un po’ fissi tuttavia, utili soprattutto al II° e III° atto e segno di un passaggio di registro che risuciva a saldare le due ottave. Il legato da manuale e la respirazione le consentirono di affrontare le poche note gravi con naturalezza e senza ricorso al parlato.
Occorrerà attendere il 1908 per la ripresa dell’opera, per le cure stavolta di Siegfried Wagner, autore anche dei cambiamenti dell’allestimento materno, atti a rendere più essenziali e al passo col nuovo corso teatrale gli elementi ed i movimenti scenici.
Beniamina del Festival per ben tre edizioni, distinguendosi in ruoli come Elisabeth, Brangaene, Sieglinde, Gutrune, III Norna, Katharina Fleischer-Edel poteva vantare una femminilità più marcata e meno astratta, sempre nel merito del gusto dell’epoca, rispetto al modello rappresentato dalla Nordica: timbro anch’esso da lirico spinto, la Fleischer-Edel contava su una ottima musicalità e su un registro centro-acuto omogeneo anche se attraversato da un vibrato naturale molto suggestivo.
L’anno successivo ecco arrivare una delle creature più riuscite della gestione di Siegfried Wagner:
Lilly Hafgren-Waag (o Hafgren-Dinkela).
Giovanissima, ma dalla sensibilità spiccata e dalla personalità incandescente la Hafgren-Waag, possedeva voce argentea e robusta insieme, molto sicura e omogenea, dunque ideale per dipingere una Elsa fanciullesca capace di essere al contempo volitiva, in virtù della quale, oltre a Freia ed Eva, la spingerà con successo ad ampliare il suo repertorio verso ruoli wagneriani più drammatici e altri compositori a cavallo tra i due secoli.
Si alternava in quell’anno a Gertrude Rennyson, cantante dalla carriera breve, interrotta purtroppo a causa della Prima Guerra Mondiale quando stava per esordire al Met, ma che nel primo decennio del ‘900 riuscì a costruirsi una solida fama grazie al repertorio consueto, alla voce dai bagliori argentei e alla totale identificazione con il ruolo.
Maria Muller, titolare del ruolo nel biennio ’36-’37, è un miracolo di emissione sul fiato, di timbro di abbagliante lucentezza, di dolcezza incomparabile, di perfezione musicale e fraseggio irresistibile.
Nessuna frase, nessun accento, nessuna sillaba viene sprecata in un canto la cui perfezione stilistica non è solo fredda esibizione di note, ma è l’esempio preclaro che con la tecnica, la dizione ed il fraseggio si possono davvero raggiungere vette espressive.
Nel I° atto ad esempio il canto della Muller è tutto in crescendo; un crescendo impalpabile ed emozionante che la trasforma da creatura introversa e distante a donna viva e libera alla vittoria di Lohengrin su Telramund. Allora i piani della voce ammaliano e commuovono e ci portano dentro questa umanità femminile non più sola ed il secondo atto si ammanta di malinconia e mistero fino ad esplodere in un climax in cui la sensualità trattenuta della donna e le irate domande fatali diventano le due facce di un dubbio di difficile risoluzione. Tutto questo merito di una voce che non tradisce mai se stessa né l’autore e che vibra di spontaneità.
La Muller rappresenta, a ragione, una delle Else per antonomasia la cui eredità è stata accolta e fatta evolvere da artiste del calibro di Eleanor Steber, Elisabeth Grümmer, Leonie Rysanek, Cheryl Studer.
Più delicata Kathe Heidersbach, colonna del buon comprimariato del Festival negli anni ’20-’40 a cui venivano affidati anche dignitosi secondi cast (Elsa appunto, ma anche Eva e Gutrune).
Nel ’53 apparve il nuovo “Loehngrin” della “Nuova Bayreuth” che mancava dall’ormai lontano 1937 e vi brillava la stella incomparabile di Eleanor Steber: forse tra le pochissime che è riuscita a donare a Elsa quella patina di naturale sensualità ed eleganza rendendola unica nel panorama discografico.
Naturalmente merito di un timbro di argento vivissimo animato da musicalità e tecnica eccellenti: nessuna frase viene tralasciata, ma anzi detta e interpretata senza manierismi, ma solo fidandosi della partitura e delle proprie possibilità, che sono invero cospicue potendo contare su un controllo del fiato eccellente, un sostegno del suono robustissimo e che non compromette l’intrinseca bellezza timbrica, un registro acuto ampio e luminoso insieme che non teme stonature. L’Elsa della Steber è una donna vera, una donna che vive e conosce i turbamenti dei sensi e la fragilità umana.
Splendida creatura l’Elsa della Steber!
L’anno successivo debuttò sulla collina, per stabilirsi successivamente fino al 1970, Birgit Nilsson (impegnata quell’anno curiosamente oltre che in Elsa anche in una Ortlinde di “peso”); ma dopo aver detto che la Nilsson canta in modo sovrano, ha voce sicura in ogni registro, bellissima, torrenziale, sostenuta da canto sul fiato da manuale, perfetta nel legato e nell’intonazione, che rispetta tutte le indicazioni, c’è veramente poco altro da riferire: una Elsa in armatura, volitiva e sicura di se. Nulla la turba e niente la sfiora, così faccio fatica a immaginarmi “indifesa” questa principessa brabantina, ma piuttosto pronta con spada sguainata ad affrontare senza cavalier servente e senza richieste d’aiuto proprio Telramund.
Purtroppo il personaggio per quanto “inedito” è interpretato da una Giovanna d’Arco granitica nella propria fede, così poco credibile è tutto il duetto del III° atto la cui coerenza drammaturgica viene a crollare irreparabilmente.
Forse sarebbe stato più interessante, magari tra gli anni ’60 e ’70, ascoltare la Nilsson nei panni di Ortrud, magari sfruttando a proprio vantaggio una interpretazione fredda, raziocinante e tagliente insieme.
Recite leggendarie quelle allestite da Wieland Wagner tra il ’58 ed il ’62 attraverso un allestimento di rara potenza e suggestione rimasto emblematico per l’uso eccezionale della luce la quale dava al Cavaliere del Graal quelle tinte azzurre e argentate della tradizione, ma rivisitate in chiave simbolica.
Vellutato e spesso il timbro di Leonie Rysanek e nonostante l’intonazione non fosse il suo forte in quelle recite contenne gli sbandamenti della linea di canto ottenendo una morbidezza tutta femminile e molto morbida, sfoggiando piani e pianissimi di grande bellezza e pertinenza ed un buon legato anche se qualche acuto sotto sforzo e preso con cautela non tarda a farsi sentire.
Si ha come l’impressione che la Rysanek abbia preso a modello la Elsa interpretata al Met dalla sua “rivale” di quella sera, cioè quella Astrid Varnay che poi divenne Ortrud per antonomasia per almeno un ventennio: impressione resa tangibile dall’interpretazione che rifugge l’oca giuliva tremebonda, piagnucolosa e gemente, a fronte di una donna autentica, pugnace e sensuale insieme, ma attraversata da una vena di tragicità e nevrosi che incombono a minare tanta sicurezza, la quale esplode letteralmente nel III° atto in cui il duetto d’amore si trasforma in un duello vocale di personalità.
Non si può non restare incantati ascoltando il magnifico canto di Elisabeth Grümmer, che succedette alla Rysanek nel ’59 e nel ’60.
Cristallo puro ricchissimo di bagliori lucenti, ma affatto fragile, il timbro di questa grande artista che illumina il personaggio attraverso tinte cremose e sfuggenti priva di manierismi o inutili piagnistei bamboleggianti. Tecnica d’alta scuola, posizione alta del suono, respirazione perfetta, omogeneità dei registri, emissione naturale, voce strumento levigatissimo, che al contrario di una Janowitz, sapeva riempirsi di calore; che difatti questa Elsa possiede con dovizia dimostrando il trapasso dall’estasi onirica del primo atto, al risveglio tutto umanissimo, a tratti materno, degli atti successivi, come nello scontro con Ortrud in cui è palpabile il risentimento verso una fiducia tradita, oppure nel duetto con Lohengrin, in cui il pudore iniziale diventa nevrosi mai sopra le righe.
Tra le Else esemplari.
Poco da dire sul canto aspro, problematico nella tenuta della linea, poco idiomatico di Aase Nordmo-Loevberg, la quale interpretava nella stessa stagione (1960) non si sa bene per quali meriti, anche Sieglinde e la III Norna, con i medesimi mediocri risultati; mentre Annelies Kupper, presente per una recita e già ingaggiata per il ruolo di Eva a Bayreuth nel ’44, raffigura un’Elsa sognante e favolistica grazie ad un timbro pieno e caldo e ad una emissione elastica e beneducata.
Nella ripresa del ’62 ecco arrivare la giovanissima Anja Silja, già colonna portante del Festival da due anni e forte dei successi riportati in Senta e Elisabeth.
Voce Chiara, acidula, querula ovunque, problematica nel passaggio, la Silja, canta tuttavia un poco meglio che in altre occasioni nonostante la fatica del secondo duetto con Ortrud in cui la voce è schiacciata, come ingolfata, ed ha il pregio di vibrare però di giovinezza; eppure, e la cosa mi ha sempre meravigliata molto, dove risieda il carisma o la fantasia interpretativa, la tensione emotiva e psicologica, la fragilità umana, in questa incarnazione faccio realmente fatica ad identificarla, sostituiti piuttosto da una generica virginale mestizia. Per sentirla, finalmente, fraseggiare dobbiamo dunque ascoltare il duetto con Lohengrin in cui, era ora, si percepisce tale ansia nervosa, nonostante la voce sempre più bianca, aspra e con taluni sbandamenti nella linea di canto, la mancanza di legato e acuti vetrosi non aiutino molto le orecchie, ma perlomeno risulta coinvolgente a livello emotivo.
Hildegard Hillebrecht, cantante molto professionale che la sostituì in una recita, aveva voce un po’ dura nell’emissione, ma che riusciva ad essere alleggerita, come ovattata e sostenuta da accento dolcissimo e soave, molto seduttivo in certe inflessioni in piano e pianissimo.
Nella stagione del 1967 a un anno dalla morte di Wieland Wagner, il fratello Wolfgang mise in scena un nuovo allestimento di “Lohengrin” diretto da Rudolf Kempe.
Strana scelta quella che portò Wolfgang ad affidare il ruolo di Elsa ad un soprano singolare come Heather Harper inglese di nascita e carriera (dal 1954), ma non solo: interprete tra le favorite di Britten ad esempio che la vorrà in alcune importanti incisioni delle proprie opere, esperta nel repertorio mozartiano, passando con disinvoltura da Monteverdi a Purcell, da Strauss al contemporaneo Tippett.
Il timbro della Harper si presenta chiaro, da tipico soprano lirico, dotata un registro centrale di bel colore nonostante l’ombra di vibrato che non infastidisce. A volte l’emissione pecca in qualche ingolatura come nell’invocazione prima dell’arrivo del cigno oppure in suoni tirati soprattutto negli acuti del III° atto e l’interpretazione non è del tutto centrata nonostante un affascinante crescendo che permea il suo fraseggio. Molto timida e guardinga e senza slancio al primo atto, molto preoccupata più di cantar bene e del legato, comunque ragguardevole, l’aria al II° più che fraseggiarla, ma di fronte ai due duetti con Ortrud questa Elsa mostra al contempo calore e candore affatto banali, che diventano eloquenti durante il duetto con Lohengrin in cui il timbro radioso si sposa con l’interprete finalmente temperamentosa (in quell’anno dovrà affrontarne ben cinque di Lohengrin!). Verrà confermata anche l’anno successivo.
Hannelore Bode fu cantante di casa a Bayreuth per molti anni alternando piccoli ruoli (Fanciulla Fiore, Uccellino della foresta, Gerhilde, Freia, III Norna) a ruoli importanti (Elsa, Eva, Sieglinde, Gutrune). Sostituì Heather Harper con cui condivideva la voce da tipico soprano lirico gradevole all’ascolto, anche se emessa tra naso e gola, poco risonante in basso, mentre l’espressività latitava non poco. Non che cantasse male la Bode del ’71-’72: al centro ha una certa rotondità e robustezza, ma anche una fragilità del registro acuto che lo fa vibrare e l’interprete è semplicemente corretta e con una limitata tavolozza di colori.
Mancava dal ’72 “Lohengrin” sulla collina quando venne varato un nuovo allestimento ad opera di Goetz Friedrichs che poteva contare sulle bacchette, invero miserrime, di Edo de Waart prima e Woldemar Nelson poi.
Edizione stroncata all’unanimità da tutta la critica, a ben ragione aggiungerei.
Venne, casualmente (?), scelta come Elsa e confermata per ben quattro stagioni (!), la moglie del regista, Karan Armstrong e sinceramente, a parte la parentela, non se ne comprendono le ragioni!
Voce dal colore candeggiato, con parecchi problemi d’emissione, dall’intonazione ballerina e molte note prese da sotto, completamente vuota in basso, oscillante e corta in alto quando non riesce a inchiodare il suono in note fisse e sgradevoli; e non è granché nemmeno a livello interpretativo limitandosi a lamentarsi per tutta la durata dell’opera.
Voce sicuramente non eccezionale quella di Catarina Ligendza che sostituì in corsa Nadine Secunde, successivamente Sieglinde di eccezionale carnalità nel magistrale “Ring” di Barenboim, sempre a Bayreuth, indisposta nella serata d’ apertura del Festival di Bayreuth ’87.
Dicevo voce corta in alto prima di tutto, in cui il registro acuto risulta al limite dell’intonazione e della fissità, timbro non fascinoso e si sente nel suo canto qualche durezza, ma artista di spiccata sensibilità: fa una certa meraviglia ascoltare una voce spessa nella sostanza, ma che rimane lirica, piegarsi a piani e pianissimi in cui vibra oltre che il controllo della linea di canto anche una sotterranea nevrosi, una visionarietà sognante. Anche il legato, per quanto non irreprensibile ha modo di integrarsi splendidamente nell’interpretazione. L’aria del II° atto vibra di una serena pace interiore raggiunta, la voce addirittura si fa più chiara e leggera anche se minata da durezza e qualche fissità. Se il primo duetto con Ortrud è pienamente riuscito, il secondo denota fatica a sostenere il passaggio con conseguente appesantimento di acuti e fiati. Il terzo atto la vede invece concentratissima, impetuosa quasi come una seduttrice e cauta nella linea di canto che resta difatti robusta.
Cheryl Studer brilla invece per la bellezza del timbro d’argento, per un buon controllo dei propri mezzi sia al centro che in alto, in possesso di un vibrato che non risulta invadente e non lede la linea di canto che si assottiglia in morbidi piani e pianissimi di grande purezza nonostante una intonazione non sempre irreprensibile. Molto buono il legato, come interssente l’interpretazione personalissima che aveva già affrontato e approfondito con Abbado. Una Elsa radiosa e distante da tutto ciò che la circonda, estatica nel primo atto e via via più squilibrata e nervosa nel prosieguo. Nel secondo e terzo atto riesce a creare l’intimismo che traspare dalla preghiera ed è ammantato da una patina molto dolce di malinconia.
Eva Johansson successe alla Studer nelle ultime riprese: il pensiero va alla speranza che abbia contenuto le urla, l’isterismo e le disuguaglianze che ne hanno presto minato la voce.
Nel ’99 sotto la bacchetta di Pappano, fu scritturata Melanie Diener, la quale nonostante una certa gradevolezza timbrica è e rimane una voce senz’anima: monotona fino all’esasperazione, glaciale nel fraseggio, con qualche problema nella tenuta delle note di passaggio e acuti fibrosi più che proiettati con cura, dalla pronuncia non del tutto ben articolata, fissa in quello che potrebbero essere definiti “piani”.
Al contrario Emily Magee (vista e ascoltata più volte dal vivo e sorprendente in una recente Minnie a Zurigo), che la sostituì in una delle prime recite, e di cui resta bella testimonianza nell’incisione dell’opera a cura di Daniel Barenboim, dimostra di possedere grande professionalità e credibilità stilistica: non è interprete ricca di fantasia e dalla personalità bruciante, ma sa essere corretta e creare con una voce che in dieci anni è rimasta pressoché inalterata, una Elsa misteriosa e dalle tinte autunnali, robusta vocalmente parlando e a suo agio su tutta la linea di canto.
Meno sicura della Magee, ma molto più intonata ed espressiva della insipida Diener, Petra Maria Schnitzer, la terza Elsa di questo ciclo, si impone per l’impeto che ricorda per certi versi certi scatti passionali della Rysanek, come dimostrano il II° e III° atto di intensità e tensione spasmodici, incarnando con sensibilità personalissima una eroina efficacemente tutta scatti di nervosismo, riuscendo a piegare uno strumento dalle risonanze liriche, ma acidule, a piani e pianissimi di grande coinvolgimento emotivo.
Per l’ultima arrivata Annette Dasch preferisco autocitarmi direttamente dalla recensione che ne feci lo scorso anno:
“Annette Dasch, starlettina baroccar-mozartiana (micidiale il suo CD dedicato al personaggio di Armida), esordisce a Bayreuth nel ruolo di Elsa, con una vocina che con Wagner non avrebbe nulla da spartire a meno che non voglia cimentarsi in Freia o una Fanciulla Fiore.
La prima aria fa percepire una vocina sicuramente giovane, ma bianchiccia nel colore, appoggiata perfettamente alla gola, dal retrogusto acidulo, fissa in tutti gli attacchi e nemmeno tanto estesa in acuto, dimostrando in ogni momento quanto la tessitura le stia larga, mentre l’accento ritrae la solita bambolina bionda plastificata, che alterna inflessioni bambinesche e vezzosette a diffuso disinteresse espressivo. Non c’è mistero, non c’è ansia, non c’è dolcezza, non c’è la visionarietà onirica, non c’è un uso soave del legato e nemmeno l’isterismo nella voce della Dasch, la cui fragilità vocale la fa vibrare già sul passaggio fino a irrigidirsi e renderla stridula e stonata sui La e Si acuti. Nulla turba il suo canto trasformandola in breve nella versione lagnosa di Papagena, Zerlina, Despina, Barbarina, Serpina come dimostra l’accento dimesso e la prudenza dell’emissione nei due duetti con Ortrud, in cui è evidente la presenza di un eccesso di vibrato, di secchezza timbrica e di un non perfetto uso del fiato. Inadeguata.”
Oggi di buone “Else” se ne contano almeno tre: oltre alla Magee, citerei la Pieczonka e la Isokoski; le quali probabilmente cantano con uno standard troppo alto per la sfasciata vetrina wagneriana che è diventato il Festival di Bayreuth o probabilmente non entrano con disinvoltura negli abiti preparati per Annette Dasch o probabilmente non sono abbastanza carine, fotogeniche e telegeniche come lei o molto probabilmente sono abbastanza intelligenti da tenersi alla larga da tanto orrore.
Gli ascolti
Richard Wagner
Lohengrin
Atto II
Euch Lüften, die mein Klagen...Elsa! - Leonie Rysanek & Astrid Varnay (1958)
Atto III
Das süße Lied verhallt - Fritz Voegelstrom & Lily Hafgren (1910), Sandor Konya & Leonie Rysanek (1958, Jess Thomas & Anja Silja (1963)
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