venerdì 29 gennaio 2010

Manon Lescaut a Venezia, ascolto radiofonico


Questa recensione è una delle più severe, controcorrente e da “vivisezione”, mai prodotte, con buona pace dei nostri detrattori di “Face” e, magari, della momentanea soddisfazione della sua amministratrice, perché con questa rappresentazione lagunare del titolo pucciniano siamo davanti ad uno dei casi vocali più straordinari del nostro tempo attuale. Il “caso Serafin”, perché di caso si tratta, stigmatizza in modo lampante come al giorno d’oggi sia possibile, di fronte alla sola dote di un certo volume vocale in una limitata zona della voce, confezionare e incensare un prodotto carente, invece, nei requisiti minimali.


Cominciamo dalle condizioni vocali della Diva.
Attualmente Martina Serafin è in grado di emettere suoni omogenei solo in zona centro grave, al di sotto del fa 4. E per omogenei intendo dire uguali per spessore ed intensità, ma non certo ben emessi, morbidi e tondi come dovrebbero essere quelli del professionista di buona tecnica e/o di buona disposizione naturale. Si tratta, infatti, di note dure, fibrose, di timbro senescente ed opaco, che ricordano certi soprani wagneriani a fine carriera. In questa zona canta sempre e solo tra mezzoforte e forte, senza dinamica e morbidezza alcune, con difficoltà a smorzare o a rinforzare anche le note più comode, perché la voce non si flette. Manca, insomma, il nucleo fondamentale del canto, ossia la capacità di legare: perciò mai un attimo di abbandono, di lirismo vero, che sono le caratteristiche del personaggio pucciniano.
Dalla zona di passaggio in su, poi, arrivano le difficoltà vere per la cantante, i suoni si stringono, diventano diseguali l’uno con l’altro, sfuggono indietro e dal la bem in su non si canta, si emettono suoni con crescente ed evidente sforzo.
Il tutto in ricaduta libera sul personaggio. Non ci sono abbandoni, nessuna sensualità, nessun fraseggio, nemmeno il canto di conversazione in apertura di secondo atto, nessuna sfumatura e tante, tante grida, rigidità interpretativa, una durezza continua della voce davvero fastidiosa.

Per provare quanto affermo mi basta ricordare:
- il duetto che precede la fuga con De Grieux al primo atto, eseguito senza sfumature e dinamica perchè già una frase come “una fanciulla povera son io”, scritta in zona fa-sol, la mette in imbarazzo, come pure i primi acuti, dal la coronato di “ah sogno genti”, o il la bem in chiusa di “Ah fuggiam”all’unisono con il tenore;
- la già citata apertura dell’atto secondo, dove battute come “Dispettosetto questo riccio” non possono funzionare se eseguite con vocione nibelungico e duro. Manon è sensuale, ed il timbro dell’interprete non può essere così usurato;
- per commentare il disastro dell’esecuzione di “In quelle trine morbide” basterebbe il solo confronto del video di Torre del Lago presente su You Tube con quello di una buona cantante in età avanzata, K. Mattila, a NY ( che peraltro canta con un registro grave malmesso ) . Il canto procede monotono, sul mezzoforte e finchè sta al centro grosso modo cammina. Poi basta il fa (!!) della frase in piano “v’ un silenzio “ che già arrivano i problemi, e la smorzatura di prammatica è impossibile. Di nuovo il passaggio alto si rivela zona ad allarme rosso della voce quando attacca con grande fatica e durezza il sol bem di “ed io che m’ero avvezza…”. Non parliamo del si bem successivo di “Or ho tutt’altra cosa…” e di quello successivo di “ gaia isolata e bianca…”, aperto duro e spinto all’eccesso.
- Il duettino successivo con Lescaut, travolgente e passionale, ha frasi che emozionano lo spettatore, che qui resta invece sbigottito, perché il soprano si trova in uno dei momenti più difficili della sua serata. Non riesce a cantare senza spingere terribilmente frasi come “l’ore fugaci“( la nat )…oppure la ripetizione di “cedi ….cedi ….cedi….”,che, mi duole dirlo, sono state tutte urla….
- Finalmente arriva ”L’Ora o Tirsi”, che è inaspettatamente il passo più bello della serata, eseguito con una certa facilità, a meno dell’incipit. Dopodichè si giunge al grande duetto d’amore con De Grieux. La voce da virago condiziona l’esecuzione, che più che passionale e concitata risulta…aggressiva. Attacca con facilità: “Tu, tu amore tu…”, ma già al “Non m’ami più” troppo autoritario il primo, piuttosto indietro e malfermo il secondo, precipitiamo nello sprachgsang. Esegue con piattezza la parte successiva del duetto, urla sul si nat che precede “Ah, un avvenir di luce”, sforza la frase “Ah, non lo negar” e giunge goffamente su ”.. meno piacente e bella…” dove non può smorzare o modulare. Frasi come “Cedi son tua……Vieni amor” sono tutte eseguite duramente, senza abbandono. Ritorna al grido su “ cedi….cedi” e via così sino al “divin” finale all’unisono….Un disastro!
Meglio la chiusa d’atto, solo perché manca il canto legato e l’azione è assai concitata, ma chiaramente si prosegue sulla stessa linea…
- All’atto terzo le cose non vanno meglio. E’ sogno ricordare le sublimi fraseggiatrici che strappavano l’applauso con “Tu amore? Tu? Nell’onta non m’abbandoni?”, che richiede morbidezza ed intensità emotiva: Puccini è una grande uomo di teatro, sa come toccarci ed emozionarci. Non avrebbe mai concepito una voce tanto senescente e sfatta. Non parliamo poi delle frasi che portano al do della sfilata delle prostitute del porto, dove la nota arriva alla fine tremenda e stonata.
- il IV atto è certo quello ove il personaggio riesce meglio alla Serafin: la protagonista muore tragicamente con una bella dose di enfasi, recitando parecchio certe frasi e con una tradizione che ammette anche effetti sopra le righe, a seconda del gusto dell’interprete. Il personaggio funziona di più, ma il canto resta zoppo, causa anche la stanchezza: sono già fissi, infatti, i do centrali di “Era la brezza della gran pianura…” in bella compagnia di suonacci sparsi tra cui il sol di “aita…”.
L’aria finale è certamente migliore delle “Trine morbide”, ma è sempre un canto senza vero accento e fraseggio. Palumbo, saggissimo, stacca un tempo abbastanza veloce, come in tutto il finale successivo del resto, ma ciò non evita acuti duri, come il la bem di “s’oscura il ciel”, la presa di fiato nel bel mezzo del primo “no, non voglio morir”, l’urlo sul la bem di “Oh mia beltà funesta” , la fatica delle ultime frasi “No, no, non voglio morir”, prima di planare stravolta nel “Tra le tue braccia amore” . Così si arriva al duo finale dove anche frasi che richiedono accento e fantasia interpretativa, come “Muoio, scendon le tenebre” scorrono come acqua fresca o stonacchiate (“Vicino a me ancor ti sento….”) prima che la tela cali sulla cantante, esausta.

Nessuna voce importante o importantissima può essere portata su repertori spinti o drammatici, come quelli che la signora Serafin pratica, senza uscirne intaccata e provata in tempo breve se non dispone di tecnica di canto saldissima. La tecnica italiana del canto sul fiato, intendo quella delle Arangi Lombardi, delle Stignani o anche di cantanti meno perfette come la Caniglia o la Stella e che è la sola che consenta di sopravvivere lungamente e con i ritmi di una grande carriera in questo repertorio. Ci si può nascondere in Wagner, quello cha attualmente si esegue cantando senza legato, parlando e berciando alla come viene, non certo in quello di scuola, alla Flagstad o alla Nilsson per intenderci. Ma nell’opera italiana non c’è scampo: gli acuti servono ed occorre saperli fare, il fraseggio è imprescindibile e la voce deve potersi flettere e modulare, l’emissione deve essere corretta e di maschera, diversamente niente Puccini e niente Verdi.
Ecco le ragioni di quella che i soliti laudatores definiranno “dura critica”, “vivisezione” alla signora e a chi inopinatamente la sorregge, credendo che possa coprire gli spazi di repertorio del lirico spinto e del drammatico all’italiana. Nessuno in questi ultimi due anni ha osato eccepire qualcosa sulla carta stampata, a meno di una certa inerzia dell’interprete, tutti imbambolati da un po’ di volume, da opera sottotitolata alla 777 del televideo, e dalla forza della corrente di consensi innestata per questa cantante. Eppure bastano due ascolti paralleli con qualunque Manon minimamente di accreditata per sentire.
E corre il gossip sugli impegni futuri, che paiono roba dell’altro mondo a chi, come noi, ha avuto occasione più volte di indicare i difetti della Cedolins, della Carosi, della Dessì, della Guleghina ( già Manon decotta e criticata ma ben più cantante in quel di Milano), della Urmana. Sarebbe disonesto da parte nostra usare un metro diverso dia quello a loro applicato per la signora Serafin, che tra tutte è la cantante peggiore, comunque facciate il resto della graduatoria!



Credo che i signori soprintendenti/direttori artistici invece di dichiarare ambiguamente alla radio che i nostri teatri sono malati di “Aids” (!!!!), come ieri sera alla Radio 3, dovrebbero iniziare a riconoscere che la bancarotta attuale è anche artistica, e che a quest’ultima partecipa attivamente la povertà delle loro competenze in fatto di voci e canto, perché non è possibile inventare etichette e nomi e quelle chiamare a prescindere dalla realtà oggettiva del canto, sperequando cachet e carriere in modo evidente.

Il signor Fraccaro, De Grieux ieri sera, è tenore non certo di primo piano, che canta con voce morchiosa e talora nasale ( si veda il duetto all’atto II) , mai sfogata e fraseggio assente o al più provinciale, ma che garantisce ai teatri il completamento della serata in virtù della sua sicurezza negli acuti in un repertorio, quello del tenore spinto, ormai privo di tenori. Non mi piace il suo modo di cantare, ma è un professionista onesto, collocato laddove giustamente deve stare nel mercato, attivo da tanti anni. Non fa parlare di sé, non è pubblicizzato, non è star. A lui le critiche sono andate per sms alla radio, alla signora Serafin, ampiamente sopravvalutata rispetto a quanto sa fare, no. Perciò questo blog, controcorrente oggi più che mi, dice :” Bravo Fraccaro!”, anche se canta male, perché l’onestà va premiata comunque. Nessuna impressione dal Lescaut di Dimitris Tiliakos, prodotto assolutamente nella media di un mondo senza baritoni. Indecoroso il Geronte di Guerzoni, alias signor Serafin. Sgraziato il Musico della Malavasi. La direzione di Palumbo mi è parsa convincente, di mestiere, ma senza impressionarmi particolarmente. Ho apprezzato soprattutto certi stacchi soccorrevoli di tempo, come nel IV atto. Applausi fiacchi alla radio, nessun trionfo, una sbuacchiata sacrosanta al maitre de scene, che non è nemmeno necessario nominare. Se Manon non è più in grado di commuovere, emozionare, suscitare i trionfi siamo male, molto male in arnese.

Gli ascolti

Puccini - Manon Lescaut

Atto I


Donna non vidi mai - Beniamino Gigli (1951), Jussi Bjorling (1956)

Atto II

In quelle trine morbide - Licia Albanese (1956), Clara Petrella (1957), Virginia Zeani (1969), Ghena Dimitrova (1978)

L'ora, o Tirsi - Licia Albanese (1956)

Tu, tu, amore, tu - Margareth Sheridan & Aureliano Pertile (1928), Dorothy Kirsten & Richard Tucker (1950), Licia Albanese & Jussi Bjorling (dir. Dimitri Mitropoulos - 1956)

Atto III

Ah! Non v'avvicinate...No, pazzo son - Beniamino Gigli (1951), Richard Tucker (1969)

Atto IV

Sola, perduta, abbandonata...Fra le tue braccia amore - Elisabetta Barbato (1951), Virginia Zeani (con Richard Tucker - 1969), Ghena Dimitrova (con Renato Francesconi - 1978)







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giovedì 28 gennaio 2010

Werther con Jonas Kaufmann

Benché arcaici e sorpassati siamo muniti di mezzi di comunicazione e ricezioni radiotelevisive moderne e, quindi, abbiamo avuto l'onore di assistere per televisione al Werther di Jonas Kaufmann.
Rappresentazione, che è stata salutata come la rivelazione del personaggio, una epifania assoluta. A partire, forse dall'aspetto fisico del protagonista.
Allora per cominciar da quello non si può negare che Alfredo Kraus fosse davvero un bell'uomo per tacere di un Werther, diciamo occasionale come Jaime Aragall.
Peccato che il protagonista di Werther, come quello di ogni opera, debba anche cantare.

Poi si può anche sciogliere peana alla modernità, al gusto che deve evolvere, all'inutilità del passatismo, ai valori modificati per approdare -guarda caso- alla santificazione degli attuali calcatori di palcoscenico ed alla reizione o damnatio memoriae degli artisti del passato, recente o remoto.
A scanso di equivoci rilevo che il fenomeno non è nuovo né lo sarà. Per il Verdi di una Caballé, ad esempio e per richiamare una recentissima polemica di questo thread, è stato ridimensionato quello di una Tebaldi o di una Rethberg, poi il tempo (la famosa scopa della storia manzoniana) ha ridistribuito secondo una equità che la cogenza negava.
Per cui siamo certi e non perché dotati della preveggenza, ma di orecchie oneste, che analogamente si farà con l'infelice personaggio massenetiano e alcuni suoi interpreti irraggiungibili come Kraus o Vanzo.
Jonas Kaufmann dovrebbe appartenere alla schiera dei Werther drammatici, considerato il repertorio che d'abitudine pratica. Lo furono, per ripetere una usata filastrocca Aureliano Pertile, Fernand Ansseau, Georges Thill e abbiamo scovato una assoluta, ma significativa rarità in Carl (Karel) Burrian, tenore ceco di inizio '900, d'abitudine wagneriano, ma splendido Werther nei brani proposti. Fra i Werther di forza dimenticavo Carlo Bergonzi e magari Antonio Cortis.
Però di tutti questi signori nessuno faceva risuonare la voce in zona sub linguale, emetteva rochi falsetti per mezze voci, ululava sugli acuti e stentava a legare le frasi dell'invocazione alla natura piuttosto che dell'arioso del secondo atto. Se come enuncia il cronista il signor Kaufmann è il più grande tenore del mondo pretendo di sentire canto professionale, acuti squillanti, dinamica sfumata, rispetto dello spartito e più in generale del personaggio, non posso farmi piacere la prestazione per il gusto acritico di essere "à la page". Il che con buona pace dei nostri detrattori, sempre molto operosi, non significa affatto voler sentire a tutti i costi Kraus o Schipa, ma sentire canto professionale.
Poi tanto per essere chiari questa pretesa modernità si porta anche appresso una realizzazione scenica del personaggio che, tenore lirico o tenore di forza che canti Werther, non coglie la lacerazione e la sofferenza di un uomo che non riesce a far comprendere i propri sentimenti, ad esternere la disperazione che lo porta al rifiuto di tutto e di tutti, in primis della vita, perchè Werther è suicida dalla prima scena. Kaufmann è solo aggressivo, rabbioso.
A maggior ragione i suoi sentimenti cozzano contro il gelo, l'indifferenza ed il canto da pseudo tragédienne (suoni fissi e tubati e per giunta di limitato volume) e privo di nuances della signora Koch che sarebbe Carlotta.
Meglio, si fa per dire, Tézier nei panni di Alberto, almeno una parvenza di canto professionale e la facilità della scrittura, che gli evitano le figure dell'Enrico Asthon scaligero o del Renato parigino.
Sempre per quanto riguarda il reparto musicale i grami tempi hanno condotto alla riesumazione di Plasson, che fu la bacchetta del Werther discografico di Kraus. Noioso allora e noioso adesso, pesante e senza nerbo, basta sentire l'intermezzo fra la scena in casa di Carlotta e quella in casa di Werther. Rammentiamo che dovrebbe essere l'accompagnamento, il commento ad un suicidio. Sembrava un idillio campestre.
L'allestimento era semplicisitico e spartano: al primo atto sembrava di essere dietro le cabine (o capanni) dei bagni della Versilia, al secondo sulla terrazza di qualche cadente villa ligure (saremmo a Weimar?). Tralascio, poi, la residenza dei neo sposi Carlotta ed Alberto e la stanza di Werther, contenuta come la Porziuncola, nella casa della "felice" coppia. Niente di grave, se avessimo avuto altro Werther, altra Carlotta e altra bacchetta.


Gli ascolti

Massenet - Werther


Atto I

Alors, c'est bien ici...O Nature, pleine de grâce - Jaime Aragall (1975)

Atto II

Un autre est son époux!...J'aurais sur ma poitrine - Carl Burrian (1906)

Atto III

Pourquoi me réveiller - Carl Burrian (1906), Franco Corelli (1972)

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martedì 26 gennaio 2010

Vendetta ti chieggio: le grandi Donn'Anna

In fondo, dato il temperamento del personaggio, alla vendetta potrebbe benissimo provvedere da sola senza nessun ausilio vuoi di don Ottavio o di chicchessia. Oltre che virago la nostra è anche ipocrita. Deve, quindi, salvare le convenienze sociali, ossia la faccia, ed allora chiede all'uomo di turno di essere ultore del proprio onore di figlia. Perchè siamo onesti basta leggere il libretto di da Ponte per comprendere che altro onore, l'onore per antonomasia, donna Anna l'ha perso da tempo, visto che alle visite maschili notturne è avvezza. Lo ammette lei stessa nel lungo recitativo, che precede la procellosa aria "Or sai chi l'onore".

Insomma è una sorta di Erinni in versione andalusa e già borghese.
E all'essere Erinni le grandi donne di ogni tempo sono avvezze, anzi lo invocano, lo richiedono e lo pretendono.
Basta scorrere l'elenco delle grandi donna Anna. Agli Italiani di Parigi un autentico gotha del bel canto Giulia Grisi, Rosina Penco, Teresa Tietjens. Quando, poi, si affermò il teatro romantico e il don Giovanni subì quel che taluni ritengono "orrendo scempio" e che per noi sono le indimenticabili esecuzioni di Walter, Furtwängler, Busch, donna Anna divenne il corollario, il "riposo per la voce" delle grandi Rezia, Elisabeth, Isotta e Brunilde.
Poi venne la salvezza, secondo alcuni, la rovina, secondo altri e donna Anna finì cantata da soprani che in altri tempi avrebbero cantato Zerlina, che -sia detto- delle donne del capolavoro mozartiano fu l'altra parte, che attirò le grandi prime donne. Riflettiamo sulla circostanza che a Londra nel 1861 Adelina Patti vestì i panni di Zerlina, mentre Giulia Grisi e Rosina Penco quelli della figlia del commendatore, ed ancora al Met Marcella Sembrich fu sempre e solo Zerlina in compagnia di Donne Anna quali Lilli Lehmann o Lilian Nordica. Con queste scelte è pacifico che la differenza timbrica delle tre prime donne oltre che il carattere del personaggio era salvaguardato.
Addirittura in talune rappresentazioni i panni di Donna Anna erano affidati a mezzo soprani, come accadde con Virginia Guerrini al Colon di Buenos Aires nel 1897. Sarebbe interessante sapere gli accomodi che in questo, come in altri casi, vennero realizzati, soprattutto all'ingresso delle maschere, dove la scrittura vocalizzata è acuta e al rondò del secondo atto.
Rondò del secondo atto la cui sezione conclusiva, unica pagina acrobatica del ruolo ed ipostasi della di lei ipocrisia, si aveva l'abitudine di tagliare. Beneficio di cui si giovò anche Rosa Ponselle al Met negli anni '30.
Era e qui dobbiamo anche condividere la tesi di chi parla di travisamento dell'opera uno dei tagli, che si praticavano unitamente a quello del finale, atteso che l'opera finiva con la apocalittica scena del dissoluto punito inghiottito dalle fiamme dell'Inferno.
Opera da sempre in repertorio e mai uscita dallo stesso comporta che le testimonianze fonografiche delle grandi protagoniste partano dagli albori delle registrazioni per fermarsi a ieri sera.
Almeno sino al 1950 Donna Anna fu appannaggio di soprani drammatici, possibibilmente nella declinazione del drammatico d'agilità. Era la diretta derivazione delle Donna Anna di Giulia Grisi o Teresa Tietjens quella, che dal 1870 al 1909, venne considerata la più completa ossia Lilli Lehmann. Il suo repertorio ridicolizza quello della Callas o della Caballé, la durata della carriera ridimensiona quella di una Sutherland o di un'Olivero. Passava da Filina a Carmen, con tutto quel che c'era in mezzo ossia Violetta, Norma e le parti drammatiche di Wagner. Approdò al disco prossima ai sessant'anni di età ed ai quaranta di palcoscenico e ciò nonostante sentiamo un soprano in assoluto inarrivabile nel rondò e difficilmente eguagliabile nella cosiddetta Rache-Arie, dove il tempo trascorso costringe la divina Lehmann ad alcuni patteggiamenti con i fiati e soprattutto con il primo passaggio (vedasi i passi del recitativo). Patteggiamenti e limiti spariscono nel rondò perchè le esigenze vocali ed espressive dello stile grazioso e non grande agitato inducono a moderazione di accento e di suono. Il legato della prima sezione, lo slancio di quella conclusiva e la sicurezza dell'ornamentazione (vedasi per tutti i picchettati sul si bem. del lungo vocalizzo su pietà) rendono chiara l'idea di quello che per i nostri avi intendessero per soprano drammatico di agilità.
A questo modello si attennero, per certo, le donne Anna di scuola italiana come Giannina Russ e la Arangi-Lombardi. Ed ancora a quel modello si attennero sia Frida Leider, di cui dobbiamo solo rimpiangere che non abbia mai inciso la seconda aria, che Elisabeth Rethberg, di cui esiste una fortunosa integrale di Salisburgo (1937) sotto la guida di Walter.
Nessuno dei soprani, che oggi proponiamo dispone nell'esecuzione della prima aria dello slancio e della facilità di canto congiunta ad un timbro al tempo stesso nobile ed astratto come Frida Leider. Ai suoi tempi passava, soprattutto in Wagner, per una fraseggiatrice compassata. Oggi, per contro, noi parliamo di cantante misurata, ritenendo l'espressione algida e distaccata carattere essenziale del personaggio della perbenista dama sivigliana. Mai nessun soprano, neppure Birgit Nilsson o Joan Sutherland, hanno coniugato al grado della Leider queste caratteristiche. Ed è logico. Vero soprano drammatico, nonostante l'ampiezza della voce la Sutherland non lo è mai stata e la Nilsson ha sempre presentato nella prima ottava durezze nibelungiche ed un canto assai meno all'italiana della Leider.
Quanto ad Elisabeth Rethberg approdò a Donna Anna nella fase finale della carriera (un decennio prima al Met era stata una applaudita donna Elvira) dopo almeno quindici anni di Aida, Ballo, Forza, Butterfly, Elsa, Sieglinde. E se l'accento nel recitativo è quello della tragedienne, coniugato ad una saldezza del primo passaggio esemplare (vedasi frasi come "Era già alquanto avanzata la notte") qualche frase patisce un'enfasi di troppo rispetto al mezzo vocale ed acuti un poco aperti e spinti e le agilità che concludono il rondò non hanno le caratteristiche di quelle della Lehmann.
Va, però, detto che frasi come quelle del recitativo che apre la grande aria o la sezione conclusiva risultano prive del loro significato tragico quando non siano affidate ad un soprano drammatico o almeno lirico spinto.
Basta sentire quel che accade con Beverly Sills o Leyla Gencer. Se donna Anna può considerarsi un incontro occasionale per il soprano americano, Leyla Gencer, per contro, la cantò e con una certa frequenza ed in grandi teatri.
La Gencer è sempre e prima di tutto una grande fraseggiatrice ed una fine dicitrice quindi nel recitativo debutta con grande foga, sfoggia una voce misteriosa per frasi come "un uom che al primo istante", attenzione a come sfrutta le prossibilità espressiva delle consonanti arrotate di "torcermi" ed arrivata il "da lui mi sciolsi", che con la sola voce rende il senso dello sfinimento, subito dopo ritorna ad assere arroventata nell'"arditamente" per ritornare ad un suono dolce in coincidenza della memoria del padre. Grandissima, signora Gencer! Ma quando arriva all'aria eseguita con autentico furore si sente che il peso vocale non è quello della Leider e l'accento può molto, ma non tutto.
In fondo era la voce al più di Donna Elvira o forse di una corposa Zerlina. Naturalmente nell'esecuzione del rondò le agilità sono fluide e scorrevoli anche se, Leyla Gencer non è Joan Sutherland cui appartiene- scontato dirlo- la più fluida, mordente esecuzione del medesimo brano. Ma la stessa Sutherland, i cui modelli intepretativi e vocali sono a 78 giri, non può, a sua volta, competere a parità di solennità e distacco con le donne Anna dell'ante guerra.
E siccome la parte è proprio ardua l'altra grande donna Anna del dopo guerra Leontine Price, timbro eccezionale per bellezza accento drammatico genuino e forse un po' verdiano arrivata al rondò, anche nel proprio momento migliore per impegno di studio e salute vocale, mette in pista compromessi e cempennamenti (la salita al la di "tu conosci la mia fè") ed il rigore classico non è certo quello della Leider, pur trattandosi di una storica esecuzione.
Eppure parliamo, criticando, di quattro primedonne, che hanno fatto la cronaca e forse la storia di almeno due decenni di melodramma e di cui oggi sentiamo la dolorosa mancanza.
Ciascuna è grandissima, ciascuna, però, è destinata a cedere dinnanzi al modello di Lilli Lehmann e, credo, di Eleanor Steber. La Steber non era un soprano drammatico nel vero senso del termine, vantava (basta guardarne un video) un controllo del fiato e della respirazione paradigmatico, che dava alla voce una ampiezza ed una risonanza capace, in grado in altro e ben più oneroso repertorio, di far soffire un Mario Del Monaco, e che le consentiva di cantare a tutte le altezze ed a tutte le sonorità, il che la trasformava, con l'ausilio di una buona dizione italiana, in una fraseggiatrice sobria e varia al tempo stesso.
Sentire Eleanor Steber nella prima aria: attacco da tragedia, rispettoso dell'indicazione in spartito "in estrema agitazione" e l'agitazione cresce sino a "il padre mio", cambia colore ed espressione a "al primo istante", la frase è una parentetica e la Steber ci canta una parentetica. Arrivata al "da lui mi sciolsi" a differenza della Gencer è la virago che si libera, nessuna fatica per la lotta, ma trionfo -ipocrita- della virtù. Il recitativo sta nella zona compresa fra i due passaggi, ossia scomoda per definizione, eppure si deve far attenzione alla assoluta proiezione del suono. La progressione tragica del racconto impone per fini espressivi un attacco sommesso, ripiegamenti come "il padre mi tolse" così il primo dei numerosi "vendetta" è efficace. La parola vendetta, ossia l'ossessione di donna Anna, anzi il comando della stessa a Don Ottavio sono sempre più scanditi e senza che il suono, pur nella zona del secondo passaggio possa essere qualitativamente parlando intaccato. Fraseggiatrice accorta, maestra dell'effetto drammatico la Steber attacca poco più che piano il primo "lo chiede il tuo cor" della perorazione finale. Una chiosa sul podio un direttore universalmente ed a ragione considerato noioso e meccanico come Karl Böhm non sembra quello di venti anni dopo con donne Anna di agenzia teutonica.
Il peana è lo stesso per la Steber nel rondò. Non sai se ammirare la facilità con cui supera certe inside come il si bem del recitativo "abbastanza per te" con tanto di messa di voce o il lungo passo vocalizzato conclusivo dell'allegretto moderato o la ripresa del "non mi dir" senza presa di fiato,ovvero con un ineccepibile rubato o l'interprete che riesce nell'assoluto rispetto del testo ad essere la ipocrita dama, forse solo seccata di non aver "messo in lista" anche don Giovanni.
Poi, poi abbiamo pensato che l'importante per il personaggio fosse l'esecuzione del rondò, la cui tessitura è piuttosto acuta e, quindi, abbiamo vestito della obbligatorie gramaglie della dama spagnola Mariella Devia ed Edita Gruberova. Abbiamo ottenuto fluide e flautate esecuzioni della sezione conclusiva della pagina e, magari, dell'intervento di Donna Anna nel finale, sentendo poco o nulla dell'incontro-scontro con il protagonista e della Rache-Arie, e, in buona sostanza confondendo donna Anna con Zerlina. Perché le grandi Zerline cantavano Elvira di Ernani (Marcella Sembrich) o addirittura Aida (Adelina Patti). Ve le vedete le nostre due inossidabili in quei ruoli?
Se, poi l'ultima possibile donna Anna rimane Diane Damrau, la cui voce è "coperta" dal suono di un'arpa mi domando se le campane a morto vadano suonate per il ruolo o per le cantanti inadeguate e votate a morte vocale, complici siffatte inadeguate scelte.
E d'altra parte se cerchiamo ancora qualche donna Anna drammatica sentiamo esecutrici che, prive del minimo supporto tecnico, vociano senza pietà e senza alcun rispetto per le prescrizioni vocali ed interpretative mozartiane. Starnazzone, ha detto qualcuno. Perdonate, non c'è altro motivo per proporre la signora Poplavskaya.


Gli ascolti

Mozart - Don Giovanni

Atto I


Ah, del padre in periglio...Fuggi, crudele fuggi - Rosa Ponselle & Tito Schipa (1935), Maria Reining & Julius Patzak (1936), Birgit Nilsson & Anton Dermota (1955), Joan Sutherland & Richard Lewis (1960), Leyla Gencer & Richard Lewis (1962)

Don Ottavio, son morta!...Or sai chi l'onore - Lilli Lehmann (1906), Frida Leider (1928), Rosa Ponselle (1935), Maria Reining (1936), Elisabeth Rethberg (1937), Zinka Milanov (1943), Birgit Nilsson (1955), Eleanor Steber (1957), Joan Sutherland (1960), Leontyne Price (1960), Leyla Gencer (1962), Beverly Sills (1966), Margaret Price (1970), Carol Vaness (1988)

Bisogna aver coraggio...Protegga il giusto Cielo - Joan Sutherland, Ilva Ligabue & Richard Lewis (1960), Leyla Gencer, Sena Jurinac & Richard Lewis (1962)


Atto II

Crudele? Ah no, mio bene...Non mi dir bell'idol mio - Lilli Lehmann (1906), Elisabeth Rethberg (1937), Zinka Milanov (1943), Birgit Nilsson (1955), Eleanor Steber (1957), Joan Sutherland (1960), Leontyne Price (1960), Leyla Gencer (1962), Beverly Sills (1966), Margaret Price (1970), Cheryl Studer (1987), Renée Fleming (2000), Mariella Devia (2006), Marina Poplavskaya (2008)



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sabato 23 gennaio 2010

Idomeneo radiofonico dal Regio di Torino

L’Idomeneo torinese, che ieri sera mamma Rai ci ha consegnato a domicilio tramite il terzo canale radiofonico, conferma una diffusa tendenza in atto nel teatro d’opera: la liricizzazione di Mozart.
Già applicata, con esiti risibili quando non disastrosi, a Verdi e Wagner, la liricizzazione consiste, sulla carta, nella riscoperta dei segni dinamici e d’espressione presenti in partitura, che voci troppo corpose e poco attente alle finezze musicali avevano, in passato, più o meno consapevolmente ignorato. Di fatto liricizzare un’opera significa scritturare cantanti sottodimensionati rispetto ai rispettivi ruoli e quasi mai in grado, tecnicamente, di realizzare quanto previsto dall’autore.
Il fenomeno, applicato a Mozart, è relativamente recente. Ne abbiamo avuto un esempio qualche mese fa, con le Nozze di Figaro madrilene, in cui le voci della contessa, della cameriera e del paggio erano di fatto intercambiabili. Ora il Regio propone un Idomeneo, opera seria fra le più onerose per i cantanti, affidandolo a un cast cui starebbe largo il Matrimonio segreto. Che, per inciso, è opera non meno meritevole dell’Idomeneo di spazio e attenzione da parte dei nostri sempre un poco monotoni programmatori teatrali.
La liricizzazione del titolo era nell’aria fin dalla presentazione del cartellone. Elettra era stata affidata in prima battuta a Darina Takova, presto rimpiazzata da Annick Massis. La quale Massis ha preferito, verosimilmente dopo avere letto lo spartito, ripiegare sulla parte di Ilia, mentre Eva Mei, inizialmente chiamata a interpretare la principessa troiana, è stata riconvertita quale prole di Agamennone. In fondo i ruoli sono entrambi sopranili. Peccato che Elettra sia una parte in stile grande agitato, con più di un ricordo della declamazione in stile tragédie lyrique, e richieda, di conseguenza, un lirico spinto se non un drammatico tout court. Ma è chiaro che siffatto soprano, ammesso che si riuscisse a trovarlo, mal si adatterebbe alla liricizzazione del Salisburghese.
Il risultato di questa sapiente strategia organizzativa è che abbiamo udito una Ilia di voce magra e senescente, in affanno nel legato e con frequenti stonature in zona mi4-sol#4 (meglio, invece, i radi acuti, purché toccati in volata), e un’Elettra di identico peso e colore vocale, ben poco sonora nei gravi e provata, nel corso della serata, dalla pesantezza della parte, tanto da giungere stremata all'assolo conclusivo e ai suoi famigerati staccati. Un poco meno imbarazzante l’arietta del secondo atto, in cui però si è percepita la difficoltà nel cantare piano e legato in zona centrale.
Idomeneo richiederebbe un baritenore versato nel canto fiorito. Matthew Polenzani, che potrebbe essere un dignitoso Paolino, ha cercato maggiore sonorità aprendo i centri e “spingendo” senza posa. Il risultato è stato un Fuor del mar con agilità spappolate, esecuzione assai approssimativa, per non dire di peggio, dei trilli e frequenti cali d’intonazione, e un finale secondo in cui il personaggio si è trasformato in una sorta di Canio all’isola di Creta. Male anche il terzo atto, con nuovi effettacci paraveristi al quartetto e alla scena del mancato sacrificio.
Degno figlio di tanto genitore l’Idamante di Ruxandra Donose, anche lei con il centro bello aperto e gridacchiato, verosimilmente per conferire al personaggio una sfumatura viriloide di dubbio gusto. E anche lei in conflitto permanente con le agilità, tutto sommato elementari se le si raffronta a quelle rossiniane, cui la signora dovrebbe per consuetudine di repertorio essere avvezza.
L’Arbace di Alessandro Liberatore, cui è stata prudentemente tagliata la prima aria, ha dispensato in occasione della seconda un saggio di vocalità e stile non inferiore a quello del suo padrone.
Tomáš Netopil ha cercato di infondere un poco di vivacità allo spettacolo, privilegiando tempi anche troppo spediti – funzionali comunque alle voci a disposizione – e attuando generosi tagli: sono stati mutilati non solo i tanti recitativi secchi, ma anche gli intermezzi corali. Semplicemente soppresse l’ultima aria di Idamante e quella di Idomeneo, come del resto avveniva nelle esecuzioni di tradizione, e lo stesso vale per il balletto finale. Assai imprecisi e poco piacevoli a udirsi l’orchestra e il coro, spesso in décalage fra loro e rispetto ai solisti.
I commenti musicali che seguono, estesi anche ad altre opere mozartiane, costituiscono un piccolo spunto di riflessione sui progressi compiuti dall’arte lirica rispetto ai grami tempi, in cui non si avevano che poche e confuse idee su come affrontare l’opera seria settecentesca. A voi, come sempre, le conclusioni.


Gli ascolti

Mozart

Idomeneo


Atto I

Quando avran fine omai...Padre, germani, addio! - Margherita Rinaldi (1968)

Atto III

Oh smania! oh furie! oh disperata Elettra!...D'Oreste, d'Ajace - Gertrude Grob-Prandl (1950)

Lucio Silla

Atto I

Dalla sponda tenebrosa - Dora Gatta (1961)

La Clemenza di Tito

Atto II

Se all'impero, amici Dèi - Franco Bonisolli (1970)

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venerdì 22 gennaio 2010

Il Messiah, tra storia e interpretazione.

L’occasione della recente uscita di una nuova registrazione dei Concerti Brandeburghesi di Bach, è stata lo spunto per alcune riflessioni circa i diversi approcci interpretativi alla musica del periodo barocco. La Decca, infatti, ha appena pubblicato i sei concerti di Bach nell’interpretazione di Riccardo Chailly, alla guida della blasonata Gewandhaus Orchestra di Lipsia (come prima tappa di un progetto che comprenderà, con i medesimi complessi, la Passione secondo Matteo e l’Oratorio di Natale). Orchestra dunque “moderna” – anche se bisognerebbe intendersi sul concetto di modernità: rispetto a cosa e rispetto a chi? L’orchestra di Lipsia è stata fondata nel 1741, vi suonò Mozart, ospitò le prime esecuzioni di molte sinfonie di Beethoven, della Creazione di Haydn, fu diretta per ben 10 anni da Mendelssohn e poi dai più celebri direttori, tra cui Carl Reinecke, Arthur Nikisch, Furtwangler, Bruno Walter, Abendroth…una tradizione secolare, appunto, che ha contribuito a creare un certo tipo di suono, di approccio e di sensibilità.

Eppure oggi è considerata “insopportabilmente moderna” rispetto ai complessini barocchi di due pifferi e quattro violini stonacchianti (ma, ci assicurano gli interessati, fedeli repliche di Stradivari o Guarneri del Gesù), che nel migliore dei casi vantano 30 anni di vita. Anzi, la prima, che è erede in linea diretta del modus esecutivo di un certo repertorio, per il semplice fatto che c’era quando quei capolavori furono composti, è considerata comunque filologicamente scorretta, i secondi, invece (fondati, forse negli anni '80), vengono spacciati per autentici. Così dunque la scelta di Chailly appare contro corrente (reazionaria per alcuni: anche per molti critici di casa nostra, convertitisi in tarda età, alla fede barocchista) e come tale viene presentata dalla sua stessa casa discografica nonché dalle riviste specializzate: quasi a giustificare una tale scelta suggerendo come, anche attraverso l’utilizzo di strumenti tradizionali, l’esecuzione possa essere “vivace e stilisticamente appropriata”! Perché il presupposto e il pregiudizio è proprio nel fatto che al di fuori dell’estetica baroccare si dia per scontata l’inadeguatezza filologica. E di volta in volta – e a patto, naturalmente, di adottare quantomeno alcuni aspetti del modo antiquo di eseguire quel determinato repertorio – le compagini non specialistiche sono chiamate sul banco degli imputati a dimostrare come pure loro possano affrontare la musica barocca. Con tanti ringraziamenti per la generosa concessione! E’ chiaro come questo assoluto ribaltamento di prospettiva denoti lo stato preoccupante in cui versa la prassi interpretativa di certi repertori. Un’ipotesi esecutiva (fondata su meri ragionamenti e presunzioni, la cui validità è tutta da dimostrare o, quantomeno, va presa col beneficio del dubbio) viene inculcata a forza da un’ideologia dominante che vieta qualsiasi interpretazione difforme, mal tollerandone la sopravvivenza (bollata di volta in volta come, ottusità reazionaria, scelta di retrovia culturale, marginalismo provinciale etc..) e attribuendo le colpe di tale sopravvivenza a menti malate, a nostalgici, a trillomani (quando riferite all’opera), a vedovi inconsolabili di dive e divi… Basta aprire una qualsiasi rivista che si occupi di musica per leggere un florilegio di queste ingiurie e semplificazioni (peraltro frutto, in alcuni casi, di personali revisionismi, improvvise conversioni o tardive - ma convenienti - illuminazioni…). La circostanza dell’uscita discografica suddetta, dicevo, e dei conseguenti ragionamenti, mi ha spinto a riflettere su uno degli autori più importanti del barocco musicale: Handel. La musica del Caro Sassone, infatti, a differenza di Bach, Mozart, Haydn, è quasi appannaggio esclusivo dei cosiddetti specialisti. Mentre infatti l’Arte della Fuga o i libri del Clavicembalo ben temperato (così come i concerti e le opere mozartiane o le sinfonie di Haydn), godono anche oggi di interpretazioni di tipo tradizionale, è quasi impossibile – salvo per pochissime eccezioni – trovare esecuzioni recenti di opere e oratori handeliani con compagini orchestrali moderne. Quasi a suggerire che chi voglia avvicinarsi a quei capolavori non possa astenersi da un approccio interpretativo barocchista. Eppure molto ricca è la tradizione esecutiva di quei titoli. Si prenda, ad esempio, il Messiah. Oratorio tra i più celebri di Handel, mai uscito dal repertorio ed eseguito con costante frequenza fin dalla sua creazione, ebbe la sua prima esecuzione il 13 aprile del 1742. Successivamente l’autore continuò a modificarlo, con aggiunte e tagli (non sempre documentati, a causa di una certa confusione nelle fonti), così da rendere, in effetti difficile ricostruire un testo definitivo. Da qui, dunque, la legittimità di ricostruzioni più o meno arbitrarie della sequenza di numeri e brani. Ma aldilà dei problemi editoriali, l’oratorio costituisce un concreto esempio della degenerazione di cui parlavo prima. La permanenza di esso nel grande repertorio (e la sua relativa popolarità) hanno permesso la formazione di una vera tradizione interpretativa, utile al confronto e buona testimonianza del mutare del gusto esecutivo, nonché strumento indispensabile per constatare la pretesa assolutezza dell’ideologia baroccara. Scorrendone la più recente discografia, infatti, non vi è spazio (quasi del tutto) per interpretazioni difformi dal verbo barocchista. Spesso, anzi, si getta una patina di ridicolo nei confronti di una certa tradizione (si leggano recensioni o note introduttive), facendola passare come colpevole di un totale travisamento della musica di Handel, massacrata da arbitri, tagli, riadattamenti etc… Ora se vi fosse un briciolo di onestà intellettuale, si dovrebbe riconoscere che la verità è differente. Non si può infatti spacciare – soprattutto alle nuove generazioni (su cui il credo baroccaro ha maggiore presa), ignare, sovente, della tradizione più o meno passata – come unica e vera prassi esecutiva quella barocchista (e di conseguenza, come tutto il resto, altro non sia che un aborto musicale). Per questo ho analizzato una ventina di testimonianze discografiche vecchie e nuove del Messiah. Innanzitutto colpisce la varietà – anche all’interno dei diversi approci esecutivi – di sensibilità e interpretazioni. Non si può, infatti (come usa la generalizzazione baroccara) mettere sullo stesso piano l’incisione di Beecham del 1947 e, soprattutto, quella del 1959 (che presenta una riorchestrazione mahleriana, ad opera di Sir Eugene Gossens, ritoccata da Beecham stesso però, che arricchisce lo strumentale con timpani, grancassa e piatti, oltre ad una sovrabbondanza di ottoni), con le due incisioni di Hermann Scherchen (1953 e 1957), che adotta l’orchestrazione originale e segue fedelmente le indicazioni handeliane (discorso analogo per gli interpreti, laddove Beecham, ad esempio, sceglie un torniturante e sgraziatissimo – come sempre del resto – Vickers, che combina inenarrabili pasticci con le agilità, mentre Scherchen si rivolge a un ben più idiomatico Simoneau). Interpretazioni entrambe sussumibili nella categoria di quelle tradizionali (con strumenti moderni, dunque e tempi non spediti), eppure diversissime tra loro per sensibilità d’approccio, fedeltà al testo e resa musicale. Da solo, questo esempio varrebbe a sconfessare ogni generalizzazione baroccara, che si vorrebbe unica depositaria dell’autenticità filologica, contro un passato di nefandezze e brutture! Ma gli esempi proseguono: mi piacerebbe sapere dove risiederebbe la scorrettezza nelle incisioni del Messiah di Marriner (’92, ’87 – in tedesco – e soprattutto ’76). In particolare l’edizione del 1976 è esemplare per la pulizia dell’approccio, la resa teatrale del testo e appropriatezza musicale: uno stile per nulla enfatico (nessun rischio di romanticizzazione), tempi vivaci e – peccato mortale per i baroccari – ricerca di rotondità nell’esecuzione vocale (l’oratorio handeliano deriva dall’opera seria e, dunque, è debitore di una vocalità all’italiana – addirittura alcuni brani sono derivati dalle stesse cantate italiane dell’autore – che, pertanto, andrebbe sottolineata senza vergogna o pudori). Vocalità italiana che si respira a pieni polmoni nella splendida versione della Sutherland e di Bonynge, dove davvero si ascolta il trionfo del canto barocco e si comprende come quella musica, quell’autore e certi interpreti storici, scatenassero i deliri di folla che testimoniano le cronache inglesi dell’epoca (ogni oratorio di Handel, ogni suo lavoro teatrale, era davvero un evento musicale e vocale!). Certo, accanto vi si possono trovare letture ancora diverse: Bernstein, alla fine degli anni ’50 incide un Messiah atipico, utilizza un controtenore (Oberlin), massacra di tagli la partitura e impone un lettura eccessivamente drammatica, pesante, ingombrante; più o meno negli stessi anni Klemperer monumentalizza l’oratorio handeliano, in una versione di esasperante lentezza, ma di grande respiro e austerità. Interpretazioni, dunque, che si contrappongono, si scontrano, anche a pochi anni l’una dall’altra, a dimostrazione di quanto sia più complessa e variegata la tradizione esecrata dai baroccari (e dai fedeli adepti, spesso più fanatici degli stessi specialisti). E non si può dimenticare il Messiah ultra romantico, inciso da Solti nell'84 (forse uno degli ultimi riconducibili alla tradizione), con i complessi di Chicago (e che sono un trionfo di pienezza musicale). Eppure tutta questa ricchezza e varietà vuol essere spazzata via dall’avvento della cosiddetta prassi autentica: strumentale ridotto (anche se, in realtà, né Marriner, né Bonynge utilizzavano orchestre wagneriane), tempi più rapidi (a onor del vero si dovrebbe sottolineare come non tutto il passato utilizzi i tempi di Klemperer), assenza di vibrato e di colore, suono più arido e secco, nervoso, dalle dinamiche esasperate, canto fisso e privo di morbidezza (come se l’opera italiana e l’oratorio fossero due mondi diversi e inconciliabili), utilizo di falsettisti e coro di voci bianche nelle parti femminili. Onestamente si deve riconoscere come anche nell’approccio barocchista vi siano molte differenze da una lettura all’altra, così da non poter generalizzare – commettendo all’inverso, il medesimo errore dei baroccari – e considerare in blocco tutte le esecuzioni ispirate al modo antiquo. Diversissime sono le versioni di Pinnock e Gardiner, da quella di Hogwood o Harnoncourt (la prima, in particolare, rende maggior soddisfazione alla musica come dato estetico, nella ricchezza di contrasti, sfumature e colore). Così come lo sono quelle di McCreesh e McGegan (nella loro aridità formale), rispetto a Christie e Minkowski. Ancora diversa la versione di Jacobs (su cui non voglio soffermarmi, poichè la ritengo una delle peggiori della discografia). Insomma anche l'universo baroccaro o barocchista è vario e variegato...e così come al suo interno vengono riconosciute le differenze, anche al di fuori di esso - nella passata tradizione - dovrebbero esserlo. Senza pregiudizi, anatemi e roghi purificatori.

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mercoledì 20 gennaio 2010

Il soprano prima della Callas, undicesima puntata: Maria Reining

La carriera di Maria Reining fu lunga e gloriosa. Impiegata di banca, come lo era stato Franz Völker e debuttante , per i suoi tempi, in “tarda” età nel 1931, ma alla Staatsoper di Vienna, in ruoli di soubrette, passò dapprima a Darmstadt e poi all’opera di Monaco dove, sotto la direzione di Hans Knappertsbusch affrontò uno dei suoi ruoli topici: Elsa. Tornò a Vienna nel 1937 e vi rimase stabile sino al ritiro avvenuto nel 1957. Dal 1937 al 1941 cantò al Festival di Salisburgo con le maggiori bacchette: Toscanini per i Maestri cantori e Knappertsbusch per le Nozze di Figaro.

Oltre ai maggior teatri tedeschi ed austriaci cantò alla Scala ed al Covent Garden.
In particolare colpisce la teoria di grandi bacchette (Szell, Krauss, Erich Kleiber, Knappertsbusch) con le quali il soprano austriaco cantò il ruolo della Marescialla di cui dopo il ritiro di Lotte Lehmann e l’imposizione di Elisabeth Legge fu, in Europa, autentica monopolista ed a ragione se ascoltiamo il passo proprosto. Perché l’equilibrio di questa Marescialla sta nella finezza del fraseggio congiunta ad un mezzo vocale di rara bellezza, opulenza e ancora integro, considerata l’età non verdissina di questa, come di molte altre registrazioni del capolavoro straussiano.
In questo senso Maria Reining è l’ultima Marescialla aderente al modello vocale voluto dall’autore ovvero di un soprano lirico robusto in grado di reggere le difficoltà ed asperità, soprattutto del finale primo e al tempo stesso di cantare con l’eleganza, la malinconia ed il legato che il disinganno del personaggio richiedono. Non per nulla le Marescialle di Strauss praticavano altri ruoli straussiani quali Arabella, Elena Egiziaca, Crisotemide e l’Imperatrice. Vedere a conferma il repertorio di Lotte Lehmann, di Elisabeth Rethberg ed anche di Maria Jeritza e Viorica Ursuleac, quest’ultima soprattutto Arabella nonché Frau Clemens Krauss. Non solo ma con riferimento al personaggio della Marescialla ed alle esigenze vocali sue proprie vorrei rilevare come la Sofia per eccellenza di Strauss, Elisabeth Schumann, mai si sognò di abbandonare, anche alla soglia dei cinquant’anni, il ruolo dell’innamorata ragazza per passare alla matura e disillusa matrona viennese.
Oggi, i panni di Marescialla sono vestiti da soprani leggeri senza acuti, da mezzo soprani che, pur di fama, stentano nel finale primo e magari anche nel terzetto e quasi sempre non hanno la necessaria differenza timbrica fra i tre personaggi femminili. Situazione che soprattutto nel finale crea non pochi problemi.
Il repertorio della Reining era quello tipico del soprano lirico e lirico-spinto, quindi dal Puccini di Bohème, Manon, Tosca, alla Maddalena dello Chénier, Verdi (Aida, Ballo ed Otello), il cosiddetto Wagner lirico (Eva, Elsa, Elisabetta, Sieglinde), Strauss (Arabella, Marescialla, Dafne, Ariadne), inoltre Contessa e Donna Elvira. Viennese di origine e di formazione fu una grande interprete dell’operetta.
Repertorio veramente vasto caratterizzato e illuminato da una voce bella, femminile, morbida e dolce, da una linea interpretativa che evitava qualsivoglia forzatura di gusto e di accento veristicheggiante, senza, però escludere tensione drammatica e slancio. Insomma la Reining era una bellissima voce, che non aveva il vizio di cantarsi addosso.
Sentire in questo senso gli attacchi delle “Trine morbide” o del “Vissi d’arte”. In tutta l’esecuzione la Reining lega e sfuma con voce tonda e morbida, sostiene tempi lenti, non indulge a suoni di petto, l’accento è nobilissimo, particolarmente in Tosca. Si può eccepire che il si bem di “bianca” in Manon sia un poco tirato, ma altre frasi come “non feci mai male ad anima viva”, che spesso generano tensioni sono risolte con grandissima facilità di canto e dolcezza e la chiusa del “Vissi d’arte” senza indulgere a spettacolarità è veramente efficace. Come sono veramente efficaci tutte le battute di conversazione del duetto con Cavaradossi (anche perché un partner come Rosvaenge lo impone). Quanto all’esecuzione, in seno al duetto del “Non la sospiri” la Reining è veramente sensuale, supportata nella prima sezione e dal tempo lento ed indugiante e da piani e pianissimi che fanno da contrappeso allo slancio della sezione conclusiva e l’esclamazione “è l’Attavanti” è cantata e non strillata come spesso si sente. Sentite come Maria Reining dice” ma falle gli occhi neri”.
Medesime osservazioni per l’esecuzione della “mamma morta”, dove alla conclusione il soprano viennese, come altre cantanti di scuola tedesca, evita il mi3, nota notoriamente scomoda e pericolosa. Qualcuno potrebbe anche ritenere l’esecuzione della romanza di Maddalena, analogamente a quella di Elisabeth Rethberg, liederistica. Credo che la Reining sia soltanto una Maddalena che privilegia nell’esecuzione dell’aria la ricordanza e la commozione. Tutte le Maddalene del dopo guerra, in primis una Tebaldi o una Stella, hanno privilegiato questa strada, ma spesso quelle coeve alla Reining in talune frasi come “Quando ad un tratto un livido bagliore” o “io son l’Empireo” sono cadute in effetti non certo di buon canto.
Come tutti grandi soprani di forza del proprio tempo Maria Reining eseguiva il tardo Verdi ed anche il Trovatore. La più completa esecuzione dell’aria di Leonora del quarto atto per equilibrio fra perfezione interpretativa e rispetto delle esigenze vocali e di spartito appartiene a Frida Leider. Ma di questa ed altre esecuzioni verdiane parleremo in una delle più puntate riservate al soprano di Berlino.
Maria Reining non è Frida Leider ma l’esecuzione del recitativo è ispirata e sognante (voce bellissima), il “fuggente aura” è eseguito con il rispetto dell’indicazione di dolce; l’attacco dell’aria, che insiste sulla scomoda zona del primo passaggio non presenta opacità o suoni mal messi e la voce corre facile sul piano e sul mezzo forte con un esemplare rispetto del legato. Non si sentono nelle frasi conclusive, quando lo slancio porta Leonora agli acuti (si bem compreso) tensioni. Viene eseguita la variante acuta nell’ultima invocazione, che porta la voce fino al re bemolle sovracuto, non proprio una bella nota. Il suono non ha la pienezza e morbidezza di tutta la gamma vocale e rovina l’alto effetto dell’esecuzione. Ciononostante, che Leonora!
Conclusione il Verdi lirico e notturno del Trovatore, spesso coincide con il rispetto delle “buone maniere” vocali e non è affatto un’invenzione del dopo Callas. Se mai di nuovo il dopo Callas con dame Joan ha riportato (a torto od a ragione) donna Leonora nelle braccia del soprano donizettiano. Grisi o Penco che si chiamasse.


Gli ascolti

Maria Reining


Mozart - Le Nozze di Figaro

Atto II - Porgi Amor (1950)

Verdi - Il Trovatore

Atto IV - Siam giunti...D'amor sull'ali rosee...Miserere (con Helge Rosvaenge & Bruno Müller - 1936)

Verdi - Otello

Atto I - Già nella notte densa (con Helge Rosvaenge - 1942)

Wagner - Tannhäuser

Atto II - Dich teure Halle (1949)

Strauss II - Die Fledermaus

Atto II - Klänge der Heimat (1939)

Suppé - Boccaccio

Atto I - Hab' ich nur deine Liebe (1939)

Puccini - Manon Lescaut

Atto II - In quelle trine morbide (1943)

Puccini - Tosca

Atto I - Perché chiuso? Lo vuole il sagrestano (con Helge Rosvaenge - 1941)

Atto II - Vissi d'arte (1941)

Giordano - Andrea Chénier

Atto III - La mamma morta (1943)

R. Strauss - Der Rosenkavalier

Atto I - Da geht er hin...Ah, du bist wieder da! (con Lisa della Casa - 1953)



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domenica 17 gennaio 2010

Salome a Bologna: Moonlight & Valentino

La ridotta stagione operistica del Comunale si è aperta ieri sera con Salome.
Il medesimo titolo era stato proposto dieci anni fa, e da allora nessun'altra opera di Strauss era stata presentata nel teatro felsineo. Ricordiamo che in tempi relativamente recenti, vale a dire nei tanto deprecati, oggi, anni Ottanta e Novanta, il teatro allestì fra gli altri Capriccio (in italiano) e Rosenkavalier, dimostrando, i dirigenti di allora, un poco più di fantasia e creatività rispetto agli attuali. Dopo dieci anni è immutato il titolo, ma naturalmente è cambiato l'allestimento, subentrando allo spettacolo di Pier Luigi Pizzi, originariamente concepito per Reggio Emilia, una nuova produzione realizzata in collaborazione con il Verdi di Trieste.

Ulteriore riduzione, rispetto a quanto annunciato al momento della prevendita, l'assenza della designata protagonista Nadja Michael, la cui non meglio specificata malattia è stata comunicata dal teatro con una settimana di anticipo rispetto alla première. Anziché ricorrere, sull'esempio ambrosiano, a una studentessa della ormai celebre Scuola dell'Opera, il Comunale ha convocato Erika Sunnegårdh, che pur relativamente giovane ha già sostenuto più volte il ruolo della principessa di Giudea. Il che non è, purtroppo, sinonimo della capacità di cantarlo così come l'autore l'ha concepito.
Voce di soprano lirico leggero, da Manon di Auber più che di Massenet, la signora sembra ignorare che cosa siano il sostegno e la respirazione, ovvero quelli che per noi, obsoleti passatisti, sono le precondizioni del canto professionale. In prima ottava, regione eminentemente sollecitata dal ruolo, la voce è magra, spesso difficile a udirsi, quando non sostituita da un semplice parlato che fa della protagonista straussiana una parente delle più dimesse eroine di Bertolt Brecht. E gonfiare i centri serve a poco, quando si dispone di una voce così limitata. Dal do4 in su lo strumento aumenta di volume, ma a condizione che la cantante strilli, perché a ogni tentativo di cantare piano e sfumato la voce si perde di nuovo e resta, in ogni caso, assai povera di armonici. Lo sforzo di essere una Salomè piccante e insinuante sino al rifiuto di Jochanaan, torbida e manipolatrice nella scena con Erode e folle di passione al finale si scontra con un'organizzazione vocale così precaria e con le scarse attrattive di uno strumento acido e stridulo, non per limitata natura, ma per limitata tecnica. Improprio parlare di legato, viste le numerose riprese di fiato cui la cantante è costretta per sostenere tanto le brucianti frasi rivolte al Battista quanto le arroganti rivendicazioni indirizzate al Tetrarca al termine della danza. Danza che la Sunnegårdh onora di un fugace nudo integrale. Con tutto il rispetto per l'avvenenza della donna, avremmo preferito udirla in una parte per lei meno gravosa: Susanna, Despina, Musetta, al limite una Rosina taglia soubrette. O per restare in ambito straussiano, una bella Sofia.
Il Profeta di Mark S. Doss, di sicura presenza scenica (sebbene le scelte registiche facciano pensare più a un Cristo deposto dalla croce, che a colui che prepara le vie del Signore), ha voce di limitato volume e ancor più limitata ampiezza, periclitante in acuto (un semplice mi bemolle dà luogo a suoni tremuli e scarsamente attinenti al canto lirico), ovattata al centro e sorda nei gravi, sostituiti da parlati, come nella frase "Niemals, Tochter Babylons". L'emissione, ben poco nobile anche e soprattutto nei passi più ispirati e profetici, nei quali la voce sbianca e va indietro, fa dell'araldo divino una sorta di ubriaco farneticante, che non si capisce come possa risultare attraente per l'ingenua e allucinata figliuola di Erodiade.
Quanto alla coppia regale, che una deteriore tradizione impone di affidare a cantanti anziani di aspetto o almeno di voce, con il risultato di avere in scena non già i perversi sovrani di Giudea, bensì il dottor Cajus e la Quickly di un teatro della provincia tedesca, è stata all'altezza della suddetta tradizione. In particolare Erodiade ha esibito una vocalità dissestata al centro, qualche strilletto in acuto e una forte propensione al declamato in prosa in tutta la gamma. Un poco meglio Erode, che è risultato, fra i protagonisti, quello con la voce di maggiore volume, benché dura, legnosa e occasionalmente stonata.
Il Narraboth di Mark Milhofer, l'unico membro della compagnia colpito dalle sporadiche contestazioni del loggione, è un lirico leggero di voce piccola e non sgradevole, purtroppo strozzata sul passaggio e piuttosto malferma subito dopo. Lo strumento, di contenuto volume, lo renderebbe più idoneo a Cimarosa e al Rossini comico, previa risoluzione dei problemi tecnici che bloccano la voce allo stadio larvale. Che il pubblico abbia censurato la sua prova, approvando invece vigorosamente quella di tutti gli altri solisti, è cosa che non desta meraviglia, essendo acclarato, e non da oggi, che una parte del pubblico utilizza le orecchie solo in alcune circostanze, e non in altre.
Ingolato e fin dalle prime battute in debito d'ossigeno il Paggio, che dispone comunque della più consistente fra le voci femminili della serata. Fra l'altro dobbiamo rilevare come alcuni dei comprimari (ad esempio lo Schiavo e il secondo Nazareno) fossero udibili senza problemi fino agli estremi settori del teatro, laddove i protagonisti faticavano e arrancavano, quasi sempre con scarsi esiti. E anche questo, si sa, è un segno dei tempi!
Sul podio Nicola Luisotti, evidentemente conscio del materiale vocale non certo di prima scelta di cui disponeva, ha optato, nella prima parte, per sonorità contenute, da Delibes più che da Strauss, salvo poi infuriare negli intermezzi orchestrali(peraltro il secondo è stato funestato da alcune imprecisioni degli ottoni). Peggio la seconda metà dello spettacolo, con un quintetto degli Ebrei greve e privo di humour, una Danza dei sette veli scarsamente sensuale e un confronto fra Erode e Salomè fin troppo roboante, ma non eloquente. Leggermente meglio la scena finale, in cui è toccato all'orchestra esprimere il delirio della protagonista, visto che la medesima era appena in grado di accennare le proprie frasi.
Lo spettacolo di Gabriele Lavia, il cui cachet sarà verosimilmente risultato più oneroso degli arredi scenici impiegati, colloca la vicenda all'epoca della composizione, riservando al solo Profeta gli abiti, o meglio, la nudità di stampo classico, con il risultato di fare del Battista una sorta di esibizionista alla corte di un regno della Mitteleuropa. Il palcoscenico è costituito da un pavimento rossastro solcato da crepe, dalle quali si affacciano dapprima il Battista, poi la sua testa mozzata, un blocco di marmo bianco su cui Salomè si arrampica nel corso del monologo conclusivo. La scelta, felicemente antinaturalistica, è contraddetta da effettacci di dubbio gusto, quali Jochanaan appeso alle catene e ingabbiato come uno scimpanzè, la reggia di Erode rimpiazzata da un divanetto di velluto verde e il cadavere decollato esibito al proscenio nella scena finale. Altro elemento ricorrente di uno spettacolo a dir poco minimalista è la luna, vista dapprima sullo sfondo, poi convertita in una gigantesca lente che deforma i momenti più lascivi della danza, quindi in un'ascia che cala sulla scena proiettando un'ombra rosso sangue, infine oscurata da un'eclisse al termine della quale Salomè e i soldati restano immobili, mentre cala la tenda cremisi che aveva aperto l'opera, isolando alla ribalta la sconcertata Erodiade. Nel complesso uno spettacolo piacevole e scarsamente originale, per infiammare il quale sarebbero occorsi ben altro podio e, soprattutto, ben altro cast.

La locandina

Salome - Erika Sunnegårdh
Jochanaan - Mark S. Doss
Herodes - Robert Brubaker
Herodias - Dalia Schaechter
Narraboth - Mark Milhofer
Der Page der Herodias - Nora Sourouzian
Fünf Juden - Gabriele Mangione, Paolo Cauteruccio, Dario Di Vietri, Ramtin Ghazavi, Masashi Mori
Ein Kappadozier - Masashi Mori
Zwei Nazarener - Rainer Zaun, Paulo Paolillo
Erster Soldat - Cesare Lana
Zweiter Soldat - Rainer Zaun
Ein Sklave - Edoardo Milletti

Direttore - Nicola Luisotti
Regia - Gabriele Lavia
Scene - Alessandro Camera
Costumi - Andrea Viotti
Luci - Daniele Naldi
Movimenti coreografici - Sara Di Salvo

Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Giuseppe Verdi di Trieste

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sabato 16 gennaio 2010

Rigoletto alla Scala. La provincia emiliana in trasferta

Ieri sera in Scala Rigoletto, secondo titolo della stagione ove sono bandite scelte che esulino dai quindici titoli più rappresentati al mondo. E ciò nonostante Internet e la Garzantina.
In realtà è la riproposizione in Scala di un cast, che la passata stagione nella provincia emiliana costituì forte richiamo per il pubblico, che venne, anche omaggiato del bis (ed addirittura del tris) della “vendetta”. Questa scelta è il segno, irreversibile, dei tempi. Un tempo i grandi cantanti ritenevano normale alternare ai maggiori teatri quelli cosiddetti di provincia. Bastino le cronologie di un Gigli o di una Pampanini ed in tempi a noi prossimi la Kabaivanska o la Serra. Oggi, al contrario sono cantanti da provincia nel senso deteriore del termine a calcare anche il palcoscenico scaligero.

Come accade per Elena Mosuc, Gilda, che, onorata persino da un recente fan club milanese, è cantante usurata e di provincia. Usurata perché accorciata in alto (l’unico sovracuto interpolato il mi bem della vendetta era stonato e calante), incapace di emettere un suono a piena voce oltre il si bem acuto, dal fiato corto come la accade nel “Caro nome” inficiato da prese di fiato abusive e musicalmente brutte nei picchettati e suoni non certo saldi. Di provincia perchè in tutta la serata mai una frase ispirata, mai un colore, una piatta e meccanica esecuzione delle frasi topiche di Gilda (vuoi la sognante innamorata del “Caro nome” o la ragazza divenuta donna nel “Tutte le feste al tempio”) e persino incapace di dare espressione ad una frasetta come “ ah s’egli al mio amore” di Gilda, ormai votata al sacrificio d’amore, detta con accento verista e soni prossimi al parlato. Dobbiamo, però, interrogarci sulla presenza di una Mosuc, che, comunque, è l’unico soprano leggero (perché a tale categoria appartiene la cantante) che abbia voce di una certa ampiezza nella zona centrale e che non le crei i problemi scenici ed interpretativi di Violetta, come accaduto anche in Scala oltre che a Parma di recente. Poi i tempi, i colleghi e le bacchette sono tali da auspicare la presenza di una Elena Mosuc (ieri sera nettamente superiore a tutti) che non può certo competere con un soprano di coloratura come la Gruberova e, forse neppure, con le rodate Gilde scaligere di quarant’anni or sono tipo Cioni e Rinaldi.

Quanto al protagonista della serata, che alla fine della rappresentazione ha ricevuto congrui, ma non trionfali applausi, meglio farebbe per età e conseguenti condizioni vocali a dedicarsi agli affetti familiari. Non censuro il gusto di questo Rigoletto, al pari di quelli venuti dopo Carlo Tagliabue, essere accorati, commossi, spaventati, vendicativi, sconfitti e straziati significa solo cantare mezzo forte e spingere gli acuti. In appendice come ascolto proponiamo le sporadiche eccezioni a tale principio, capitanati da Protti e McNeil. Oggi la voce di Nucci è priva di armonici e vibrazioni, incapace di cantare piano e colorire il fraseggio (salvo effettacci “Questo padrone mio..” al monologo). All’attacco di “Quel vecchio maledivami”, al primo incontro con Sparafucile, “Compiuto pur quanto a fare mi resta” e tutto il monologo di Rigoletto prima e dopo la consegna del sacco, che il povero gobbo crede contenere il corpo del Duca, allorchè tenta di cantare piano compaiono pesanti problemi di intonazione, suoni ossidati e raggiunti con portamenti e cospicuo aiuto del naso costellano frasi di scrittura scomoda come “Culto, famiglia” o il “Piangi fanciulla”. Al “Cortigiani vil razza dannata” non si scorge la differenza fra insurrezione iniziale e perorazione finale. Anche il volume è alquanto ridotto e poi che il la bem alla chiusa della vendetta sia un suono buono è del tutto indifferente per la resa del personaggio. A parità di età e senza puntatura acuta Giuseppe de Luca è assai più vindice ed insurrezionale nei panni dell’offeso buffone. Ascoltare per credere, come sempre.

Stefano Secco dispone di una voce di limitato volume, fraseggio attento e bella linea musicale, discreta e misurata presenza scenica. Ma quando lo spartito impone di cantare nella zona del passaggio superiore cominciano, pesanti, i guai. Tanto per fare l’elenco “..le sfere agli angeli..” dell’aria del secondo atto, il "D’invidia agli uomini” del duetto con Gilda, per tacere dell’inumana, improba fatica del quartetto dove il duca non svetta, ma patisce ed esibisce suoni duri ed ovattati. Privo di saldezza e sicurezza il Duca poco canta e nulla interpreta. Assolutamente censurabile in queste condizioni l’idea dell’esecuzione integrale del “Possente amor mi chiama”, privo di varianti agogiche e dinamiche e, naturalmente, del re nat alla chiusa.
Prosperosa e procace più nel fisico che nella voce Mariana Pentcheva quale Maddalena. Veramente bello da vedere specialmente nel primo incontro con il protagonista, Marco Spotti, vocalmente più che sufficiente.
Per contro e per chiudere questa litania abbiamo avuto una indegna direzione orchestrale. Fragoroso, rumoroso, pesante e monotono James Conlon, che ha offerto un preludio nibelungico, scene di corte pesanti e sgraziate, come l'accompagnamento del coro “era l’amante di Rigoletto”, o quello, indecente, dell’incontro di Rigoletto con Sparafucile, una tempesta ed un terzetto finale bandistico, con sistematica copertura delle voci, visibilmente tese ed insicure della sincronia con la bacchetta. La contezza della propria prestazione è stata ben evidente quanto il maestro non è uscito, a differenza dei cantanti, per le uscite singole. E’ la nouvelle vague dei direttori: o si evita il giudizio del pubblico o lo si affronta con il solido parafulmine dell’orchestra presentata sul palcoscenico.



Gli ascolti

Verdi - Rigoletto


Atto I

Ch'io gli parli - Aldo Protti (con Giuseppe Zampieri, Frederik Guthrie - 1962), Leo Nucci (con Luciano Pavarotti, Alan Held - 1990)

Pari siamo - Giuseppe Taddei (1954), Aldo Protti (1962), Sesto Bruscantini (1963), Mario Zanasi (1969), Leo Nucci (1990)

Figlia!...Mio padre! - Mario Zanasi & Renata Scotto (1969), Leo Nucci & June Anderson (1990)

Atto II

Cortigiani, vil razza dannata - Cornell MacNeil (1961), Aldo Protti (1962), Leo Nucci (1990)

Sì, vendetta - Giuseppe de Luca & Lily Pons (1940), Cornell MacNeil & Leyla Gencer (1961), Leo Nucci & June Anderson (1990)

Atto III

Un dì se ben rammentomi...Bella figlia dell'amore - Gianni Raimondi, Leyla Gencer, Cornell MacNeil & Carmen Burello (1961), Luciano Pavarotti, June Anderson, Leo Nucci & Birgitta Svenden (1990)

Della vendetta, alfin giunse l'istante - Giuseppe Taddei (con Lina Pagliughi - 1954), Aldo Protti (con Ruth-Margret Putz - 1962), Sesto Bruscantini (con Emilia Ravaglia - 1963), Mario Zanasi (con Renata Scotto - 1969), Leo Nucci (con June Anderson - 1990)

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venerdì 15 gennaio 2010

…e la Befana mise un Nabucco nella calza!

Durante le vacanze natalizie, mentre si fa zapping tra i canali televisivi per cercare qualcosa che possa risparmiarci la visione di quei film a tema, tutta melassa, neve e bontà, capita di trovarsi di fronte alla campagna pubblicitaria di un importante evento culturale operistico: “Nabucco” di Giuseppe Verdi al Teatro Politeama di Catanzaro, con Renato Bruson nel ruolo del titolo, Daniel Oren sul podio e regia del bravissimo Gigi Proietti!

“Bel colpo!” penso tra me e me, mentre già mi trovo in direzione della biglietteria volendo conoscere il resto del cast e la disponibilità dei posti per le due recite previste il 4 ed il 6 Gennaio (esauritissime!).
Cast interessante: Bruson, Theodossiou, Prestia, Antinori, Tufano, Striuli.
Allestimento in coproduzione con il Teatro Municipale “Giuseppe Verdi” di Salerno da cui derivano anche orchestra e coro.
Insomma, la fondazione catanzarese, che in tempi di crisi, sta cercando di sperimentare proponendo prosa, musicals, concerti, operette e opere accontentando così i gusti più svariati del pubblico, ha deciso di compiere una operazione intelligente: collaborare con altre fondazioni e puntare su cast in cui affiancare giovani e consolidati artisti a nomi prestigiosi del teatro.
Non solo! La fondazione sta anche cercando di investire in un’orchestra ed in un coro fisso coinvolgendo studenti e privati, come se si trattasse di un work-in-progress che con energia e serietà sta esaltando la cultura.
E trionfo fu!
Un trionfo d’altri tempi, con il pubblico, giovane se non giovanissimo, in delirio (“Furore” lo chiamerebbe Bellini), standing ovation, lancio di fiori per tutti gli artisti, pioggia di petali dal loggione e dagli ordini inferiori, urla di “Bravo”, calore e generosità della gente commossa, chiamate ripetute agli artisti per svariati minuti, diversamente da quella manciata di “clap clap” alla prima scaligera con tanto di fuggi-fuggi “presto, al guardaroba!”.
Il Politeama era vivo, partecipe, e se la gente venuta dalla Calabria, ma anche da altre regioni con autobus appositi, si è entusiasmata fino a far tremare la bella struttura, tutta onde e richiami marini ideata da Paolo Portoghesi, un motivo ci sarà.

La direzione per prima.
Ammetto tranquillamente che per Daniel Oren non ho proprio una grande simpatia.
I suoi tempi incoerenti e folli sempre sospesi tra letargia e velocità insostenibile, i suoi esercizi di step sul podio, il suo campionario di suoni invadenti e onomatopeici, la sua rozzezza di fondo, ed in tempi recenti la mania di ingiustificati tagli hanno sempre destato perplessità più che ammirazione, ma ammetto anche che da buon artigiano del suono sa perfettamente come reggere un’orchestra, possiede il dono di essere comunicativo verso il pubblico, riesce a travolgere la partitura con tutta l’energia che possiede e, pur senza aprire squarci significativi, conosce i segreti delle partiture che affronta.
Ha preparato sia il coro che l’orchestra con grande attenzione pretendendo dal primo una maggiore presenza di bassi e dalla seconda un suono fragrante e poetico soprattutto dagli archi, dai flauti, dai clarinetti.
Peccato solo non sia riuscito ad ottenere tanta precisione anche per le trombe grevi e invadenti.
Devo riconoscergli momenti musicalmente magnifici come la prima parte del preludio dal sapore pugnace senza essere bandistico, tutti i duetti ed i concertati vibranti e veementi, il “Va' pensiero” (trissato a furor di popolo, fatto “storico” per Catanzaro!) tenuto su tempi dolcissimi in cui l’orchestra attenuata riempie la sala di chiaroscuri giustamente carezzevoli, tutto il IV atto la cui drammaticità si scioglie nel coro finale e nella morte di Abigaille, alternati a momenti discutibili come tutti gli interventi di Zaccaria resi ancora più pontificanti di quanto siano e appoggiati su tempi indugianti, la seconda parte del preludio rovinato da una velocità ed una non curanza da sfiorare il cinismo, il primo atto troppo cupo e poco minaccioso.
In definitiva una direzione a fasi alterne, ma di sicuro mestiere.
Se un Artista come Renato Bruson, in carriera dal 1961, nel 2010 interpreta ancora parti di primo livello senza rifugiarsi nei ruoli di carattere (con rispetto parlando) non è un miracolo: è altro (talento? stoffa?).
Dopo quaranta nove anni di carriera il timbro nella zona centrale è praticamente intatto, privo cioè di oscillazioni o smagliature, come pure il senso del legato, che è sempre stato uno dei punti di forza delle prestazioni di Bruson.
Nessuna nota sfugge al controllo, certo qualche acuto traballa pur rimanendo intonato ed il registro basso, che è sempre stato uno dei talloni d’Achille del baritono padovano presenta qualche sporadica apertura si sente nel registro grave, il registro centrale è solido, il suono è alto e spavaldo, la linea di canto senza incrinature.
Bruson rispetta sia il pubblico, sia Verdi, sia la propria voce evitando contorcimenti veristi e senza sforzare mai, anche se l’unica puntatura che aggiunge al termine di “O prodi miei, seguitemi” è un filo d’aria subito e intelligentemente interrotta. Per altro i rapporti fra Brusno e le puntature sono sempre stati diciamo conflittuali.
Il Nabucco di Bruson è, sotto il profilo interpretativo, una creazione personalissima, algido fino al secondo atto, di chi per comandare ha bisogno di un solo gesto o una sola occhiata, è tale sicurezza che lo porta alla sua mania di onnipotenza.
Che dire poi della trasformazione dopo il fulmine? Nella voce di questo Nabucco “Chi mi toglie il regio scettro?” assieme a tutto il duetto con Abigaille ed al monologo del IV atto c’è la contraddizione del Rigoletto che verrà, il Renato dai sentimenti esacerbati e moderni, il Germont pentito e affettuoso.
In una parola: il Re.
Paoletta Marrocu sostituiva la prevista Dimitra Theodossiou colta da indisposizione.
Abigaille, si sa, è un ruolo massacrante per il soprano il quale deve essere dotato in egual misura di carisma scenico e proprietà tecniche per sostenere una scrittura nervosa e irta di scatti ascensionali e discendenti.
Invece la Marrocu, purtroppo, oggi deve lottare con una voce fratturata in tre tronconi: il registro basso è praticamente “parlato”, i centri, tendenzialmente chiari, sono aspri, e gli acuti che superano il La naturale si trasformano in schegge fisse e aguzze totalmente fuori controllo.
Non solo il legato risulta quindi falloso, anche se il soprano dimostra, pur con i limiti naturali e tecnici detti sopra, una buona padronanza del registro centrale, come nella sezione centrale dell’aria “Anch’io dischiuso un giorno” e nelle frasi – di fatto declamate – finali al IV atto.
Rimane, almeno, la fiamma interpretativa, ammesso che si possa essere interpreti con le mende vocali della Marrocu, che scava nella parola, colora tutto con il suo fraseggio volutamente scabro e furente, ma che sa ripiegarsi verso lacerazioni improvvise come nel duetto del III atto in cui la fragilità della guerriera lascia spazio alla lacerazione della figlia che sa di non essere accettata.
Discreto, ma discontinuo lo Zaccaria del giovane basso Vitalij Kowaliov.
Reduce dal lusinghiero successo ottenuto interpretando nientemeno che il ruolo di Wotan a fianco di Placido Domingo, sotto la direzione di James Conlon a Los Angeles, Kowaliov emerge per la voce potente, ma al contempo scura e nobile, e se il primo atto l’emissione poco curata tende a schiacciare il suono minacciando la robustezza timbrica che difatti risulta ruvida e traballante, già dal secondo una volta riscaldato lo strumento, riesce ad emergere per il fraseggio.
Veterano della breve e ingrata parte di Ismaele, il tenore Nazareno Antinori, affronta il ruolo con il suo registro ancora centrale caldo e avvolgente, ma se l’interprete risulta sensibile ai ripiegamenti romantici del ruolo e cauto nell’intonazione, i pochi acuti purtroppo nonostante il pregevole squillo suonano ingolati e poco stabili, come da sempre accade agli imitatori di Del Monaco.
Purtroppo mediocre la Fenena del mezzosoprano Eufemia Tufano.
Se il volume è notevole, l’interprete è assente e al colore scuro della voce si contrappone un timbro querulo, come “impastato” e una emissione dall’intonazione non proprio immacolata.
Avrei preferito facesse il cambio con la Anna della brava Paola Francesca Natale, la quale non fatica ad emergere nei concertati e nella sublime frasetta del II atto con la sua voce chiara e pregevole.
Ben scelti i comprimari: Carlo Striuli nei panni del Gran Sacerdote e Vincenzo Peroni in quelli di Abdallo hanno modo di imporsi con le loro voci penetranti e ben timbrate e coro agguerrito e senza macchia preparato dal bravo Luigi Petrozziello.
Gigi Proietti, alla sua settima regia operistica, e alla sua seconda verdiana dopo un trionfale “Falstaff” ginevrino, affronta “Nabucco” senza paranoie, senza pretese intellettuali e senza la voglia del facile effetto o dell’originalità a tutti i costi.
Come spiegato nel bel volumetto di sala, “Nabucco” viene letto come un’opera di forti contrasti cromatici, in cui è il coro stesso, visto come nella tragedia greca, ovvero commentatore e vittima degli eventi, a “partorire” i protagonisti della storia.
L’impianto a cura di Quirino Conti, è fisso, elegante, funzionale, dotato di stilizzati elementi semoventi e schermo per suggestive videoproiezioni, illuminato dalle luci “emozionali” di Vinicio Cheli.
Senza rinnegare l’impianto oratoriale dell’opera, Proietti sposta la sua attenzione sul coro diviso dai colori (bianco virginale per gli ebrei visti come sposi del Dio d’Israele, rosso acceso per i Babilonesi, e nero per le figure borghesi ottocentesche che partecipano e assistono alla disfatta ed al trionfo del popolo eletto), ma coeso nei brani di violenta drammaticità o religiosità.
Al centro delle passioni si stagliano i tre veri protagonisti attivi: Nabucco, Abigaille e Zaccaria e soprattutto ai primi due è dato un commovente rilievo nei loro incontri in cui il rapporto padre-figlia si confonde con quello vittima-carnefice.
Unica caduta è rappresentata dalle scene belliche del I e IV atto in cui il saccheggio ed il salvataggio degli ebrei sono fin troppo “educati” per non dire statici e risibili.

Trionfo grandissimo alla fine come già spiegato, dimostrando ancora una volta come con pochi mezzi, ma con tanto entusiasmo e professionalità si può sfamare “la fame dell’anima”, citata da Oren, che ha nomi come Arte e Cultura, quella maiuscola appunto che oggi fa paura, senza facili e false polemiche, senza falsi o facili scandali, senza preparare falsi eventi sotto un blasone stinto e sdrucito.


Gli ascolti

Verdi - Nabucco


Parte seconda

Ben io t'invenni...Anch'io dischiuso un giorno...Salgo già del trono aurato - Mirella Parutto (1961), Angeles Gulín (1969)

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