Lo scorso anno il Teatro Comunale di Firenze, sfruttando le celebrazioni pucciniane, ebbe la sagace idea di mettere in scena tre opere ed un balletto nel mese di ottobre allo scopo di fronteggiare la crisi aprendo orgogliosamente tutte le sere anche per attirare nuovi melomani, turisti e semplici curiosi al mondo del melodramma, fornendo loro un programma appetibile e dalla connotazione nazional popolare a prezzi ovviamente contenuti per essere accessibili.
E fece centro!
Il pubblico arrivò a frotte, gli spettacoli che poggiavano sulle spalle di cast giovani nel caso di “Bohème” e di conclamati interpreti, Dessì e Berti in “Tosca” e Armiliato e Cornetti in “Cavalleria Rusticana”, omaggio al Verismo, in allestimenti tradizionalissimi, ma azzeccati (soprattutto “Bohème” e “Cavalleria”) affidati ad un solo regista.
Quest’anno si è deciso di festeggiare il Verdi della collaudata “Trilogia popolare” (“Traviata”, “Trovatore” e “Rigoletto”) in edizioni assolutamente fedeli allo spartito per quanto riguarda l’apertura pressocchè totale di tutti i tagli, il rispetto delle puntature di tradizione ed affidando la regia al veterano Franco Ripa di Meana.
I tre titoli certo non mancavano dal palcoscenico fiorentino da molto, ma per un teatro, che si sta sforzando di diventare di repertorio, mantenendo però l’aura di riscoperta e novità non è affatto male.
Certo si apprezza lo sforzo artistico, si ammira la disponibilità delle bacchette e del regista, magari si fa apprezzare la professionalità dei cantanti e quindi in generale, e se osserviamo la risposta del pubblico, la scommessa è stata vinta anche quest’anno…eppure qualcosa non è andato a buon fine rispetto alla scorsa edizione.
Certo, se si cercano finezze filologiche con la giusta agogica, rispetto dei segni d’espressione ed interpreti ideali, siamo nel Festival sbagliato!
“Il Trovatore” viene tradotto scenicamente in una dimensione onirica in cui le pareti blu notte decorate con della candida boiserie e luce radente fanno da sfondo alle temperie emotive dei cinque protagonisti.
Solo tre aperture, una finestra, una porta ed un camino in posizione centrale mentre in alto pende capovolto e minaccioso il modellino di due castelli che si fronteggiano, chiaro simbolo di un potere e di una guerra che dominano sulle vite di tutti.
Molte le soluzioni sceniche e registiche interessanti: sul proscenio prima che si sollevi la tela due bambini litigano furiosamente, per poi riappacificarsi e allontanarsi guardandosi, il piccolo bosco dove si rifugia Leonora in “Tacea la notte placida”, la luna enorme, che incombe placida e mostruosa sul III e IV atto e di cui Leonora sembra esserne una personificazione terrena, accompagnati, purtroppo, da momenti imbarazzanti come Manrico che sbuca dal caminetto dopo “Deserto sulla terra”, Azucena travestita da contadina ucraina e dotata di poteri pirocinetici, le feritoie a forma di croce del convento che ricordano le costruzioni Lego, citazionismo a go-go del plurisaccheggiato duo Ronconi-Pizzi, staticità sia del coro sia dei cantanti che sfiora la noia.
Vocalmente, si sa, “Il Trovatore” è opera micidiale per le esigenze che chiede in fatto di estensione, legato, accento, colorature, espressioni e timbri; peccato purtroppo per l’indifferenza dimostrata nell’assemblare il cast fiorentino, che già sulla carta dimostrava poco o nulla avesse da spartire con le esigenze della scrittura vocale verdiana.
Il Manrico di Valter Borin cerca di disimpegnarsi lottando con una voce purtroppo piccola, quasi inudibile e con parecchi problemi di intonazione, di emissione e di legato.
La sua sortita fuori scena è funestata dall’eccessivo vibrato, e nel terzetto successivo sparisce letteralmente inghiottito dalle voci dei suoi colleghi.
Si udiva, finalmente e soltanto, nel II atto durante il colloquio con Azucena, mentre nel III l’ “Ah si ben mio” risultava frammentato in suoni incapaci di saldarsi tra loro, per non parlare di una “Pira” confusa tra le voci del coro, Do di tradizione inclusi.
Il fraseggiatore è, purtroppo, manierato e sovente inespressivo.
Il Conte di Luna è personaggio sfaccettato e sfuggente, in cui alla devastante ferocia deve corrispondere altrettanta araldica nobiltà, allo spirito guerriero si deve accompagnare un animo romatico e indomito; qualità che evidentemente il baritono Juan Jesús Rodríguez, già deludente Enrico della “Lucia di Lammermoor” della trascorsa stagione, non condivide affatto.
Non una sottigliezza, non una sfumatura, non un accento, il canto di Rodríguez si distingueva solo per cospicuo volume e per ruvidezza del timbro, ma nulla, non una frase, non un aria sublime come “Il balen del suo sorriso” lo smuovevano dalla sua emissione tutta in fortissimo e dalla disarmante monotonia interpretativa.
Ma “ricchi premi e cotillons” se confrontato con la Azucena di Anna Smirnova!
Già interprete funesta di Eboli e Amneris alla Scala, ora ci riprova con un personaggio “monstre” e anche stavolta mal ce ne incolse!
Parte bene con uno “Stride la vampa” fraseggiato con ansia e in cui può far valere un registro centrale rigoglioso ed un accenno di trillo, ma appena la tessitura si alza e soprattutto in “Condotta ell’era in ceppi” iniziano le malcelate magagne:
La voce risulta completamente intubata, gli acuti diventano strazianti o fissi, il registro grave (quanto pesano quelle sciabolate in basso!) sconfina con un parlato molesto, per non parlare del Do previsto da Verdi nella cadenza della ripresa della frase “Tu la spremi dal mio cor” che non è una nota, ma somiglia allo stridore delle unghie sulla lavagna, accompagnato dal vociferare del pubblico.
Per non parlare di cosa si inventa in frasi come “E tu non m’odi, o Manrico, o figlio mio?” in cui sfiora il grottesco, oppure nel fraseggio narcolettico del IV atto che termina con un “Sei vendicata, o ma…”, frase-climax di incisività scultorea, in cui la voce sull’acuto si spezza prima di terminare la parola. Ormai anche un innocente si bem è diventato un problema per la Smirnova, che in natura sarebbe stata un soprano.
Se la Cossotto veniva accusata di essere eccessivamente verista, la Smirnova, chiedo, cos’è?
Kristin Lewis in tutto questo rappresenta un'oasi di pace.
Il timbro ambrato e naturalmente seducente si accompagna ad un fraseggio sovente fragile e dolcissimo che esalta la lucida e romanticissima forza del personaggio di Leonora.
L’aria di sortita e la seguente cabaletta riempiono la sala di languore e sono accentate con grande eleganza, tutta la scena del convento ed il successivo intervento al III atto si colorano di grande intensità.
Mi piacerebbe però che la Lewis, sicuramente dotata, curasse meglio l’emissione che risulta tendenzialmente ingolata, e la coloratura che purtroppo non suona granita, e c’è il sospetto che si inventi buona parte delle agilità e dei segni espressivi senza badare troppo alla partitura, così da compromettere in parte l’andamento di “D’amor sull’ali rosee” e della complessa “Tu vedrai che amore in terra” in cui all’attacco la voce si spezza e le agilità si perdono in suoni discutibili.
Ottimo, invece, Rafal Siwek il cui Ferrando tonante e tenebroso possiede voce di grande volume, accento attento e misurato, qualche occasionale calo nella tenuta degli acuti, ed ha il privilegio di infilzare Manrico nel finale.
Il direttore Zanetti legge il “Trovatore” come partitura di forti contrasti, giocando sui volumi orchestrali e sull’agogica dei tempi.
Se il suono soprattutto nei primi due atti può risultare secco, quando in scena c’è Leonora l’orchestra si ammorbidisce e si colora di tinte notturne e calorose, come è efficace l’inizio corale del secondo atto di rapinosa brillantezza, ma il finale del III e tutto il quarto atto falliscono purtroppo perdendosi in suoni grevi ed in tempi letargici.
Verdi si sa ha le spalle larghe e può reggere tutto, tanto c’è la musica che redime ogni cosa sia nel caso di una scena abbastanza punitiva e di una regia sovente discutibile.
Palcoscenico praticamente vuoto nel “Rigoletto”, immerso perennemente nelle tenebre più cupe in cui solo tre elementi formano il gioco scenico: una automobile d’epoca, probabilmente anni ’30, un muro nero semovente e la casetta di Gilda simile ad una uccelliera su una palafitta.
Fin qui nulla di traumatizzante o estremo, anzi di fronte alla povertà scenica ci sia aspetterebbe una regia attenta alla recitazione, una lettura dalle idee audaci, o qualcosa che faccia deflagrare il non detto e le tensioni accumulate.
Macchè!
Quando si alza il sipario la figlia di Monterone si aggira nuda e disperata sulla scena fino a quando alla fine del preludio orchestrale verrà coperta da un drappo rosso e data alle voglie dell’impellicciato e volgare Duca da dei cortigiani armati di frustino e somiglianti a coloro che scesero nelle Americhe dalla “Mayflower”.
Rigoletto ha un abito che ne rappresenta la doppiezza, metà colorato, metà nero e dotato di vere protesi che verranno tolte dai cortigiani per sbeffeggiarlo durante l’amplesso del Duca (in abiti stavolta cinquecenteschi) con Gilda.
Ultimo atto ambientato sulla poppa di una piccola barca arrugginita in cui Maddalena, in abiti elisabettiani ha un rapporto incestuoso col fratello.
Va bene prosciugare il palcoscenico dai riferimenti tradizionali, va benissimo rendere tutto atemporale, va benissimo conciliare tradizione e innovaziona, ma se nel I atto siamo in un quartiere malfamato vagamente moderno, nel secondo siamo nel 1600 e nel III a metà strada, ma in Inghilterra, qual è la coerenza logica che si sta perseguendo?
In fondo si tratta di un allestimento tutto sommato tradizionale e innocuo senza tensione narrativa e con soltanto un accenno di scavo psicologico.
In scena non fanno fatica ad emergere le prove di Alberto Gazale e Desirée Rancatore.
Alberto Gazale si presenta nel ruolo del titolo e lo fa benissimo;
presenza scenica notevolissima, nonostante qualche gesto manierato che non infastidisce la resa del personaggio, il baritono possiede una voce potente e ben proiettata, dalle screziature bronzee, ma omogenea e timbrata soprattutto al centro e nei gravi, riesce a travolgere la platea attraverso un fraseggio impetuoso ed elettrizzante.
Resta il problema degli acuti e delle puntature; i Sol e le puntature al La bem risultano purtroppo fissi o addirittura sforzati, il gusto è imbevuto fin troppo da una caratterizzazione verista estranea al melodramma verdiano, che si ripercuote sull’uso della respirazione, e nell’interpretazione, gli echi di Bruson e Nucci risultano fin troppo evidenti.
Non che sia un male, ma personalmente preferirei ascoltare il Rigoletto come lo intenderebbe la sensibilità artistica di Gazale, non filtrata attraverso i suoi modelli.
La Rancatore sarebbe Gilda credibilissima e soave nel cantabile, interprete delicata e volitiva, ma il timbro risulta asprigno, le note di passaggio sono miagolii fissi alla maniera della Fleming o della Bartoli, la coloratura (pochina per Gilda) è sufficiente, ma non granitica, acuti e sovracuti presi con fin troppa cautela.
Riesce anche a ingraziarsi il pubblico con simpatia dopo che, terminato “Caro nome”, per ricevere gli applausi calorosi è costretta a superare il muro che il regista le ha piazzato davanti nascondendola alla vista, emergendo ironicamente prima con la mano e successivamente arrivando sorridente al proscenio per ringraziare.
Bis a furor di popolo per la “Vendetta”!
James Valenti, il Duca, è tanto bello da guardare, peccato voglia anche cantare.
A parte la facile ironia, si tratta di un giovane tenore spigliato e simpatico, ma dalla voce talmente fragile ed evanescente, sostenuta per giunta da tecnica di carta velina, che non saprei sinceramente in che tipo di repertorio collocare se non in ruoli tenorili di contorno.
Ranzani dirige un “Rigoletto” in cui si bilanciano perfettamente sia il lato grottesco e caustico, sia il lato più tragico e toccante, lasciando che l’orchestra indugi in suoni volutamente aspri e incupiti, forse a discapito di una certa soavità, ma di sicura tensione narrativa soprattutto nei colloqui Rigoletto-Gilda, in cui il senso di minaccia è ben palpabile, sia in un terzo atto asciutto e al calor bianco.
“La Traviata” risulta tra le tre produzioni l’allestimento più riuscito.
Violetta durante il preludio si aggira inerme e malata osservando con angoscia scene di vita quotidiana e borghese che si susseguono nella loro “normalità” intorno a lei, anelando a quella condizione così calda e familiare, ma sapendo in cuor suo che quel mondo non può appartenerle.
Tre giganteschi drappi rossi ed un enorme divano ricolmo di cortigiane la divideranno dal mondo borghese e la catapulteranno nello squallore della sua condizione.
Ovviamente citazioni da Visconti; lancio delle scarpette durante il “Sempre libera”, zingarelle e matador interpretati dagli stessi invitati al banchetto di Flora etc., eppure le scene formate da pareti verdi a fiori su cui si aprono fessure e nuovi ambienti, funzionano e ci sono più idee nonostante la staticità del coro e Violetta e Alfredo costretti a fare gli equilibristi durante il “Brindisi”.
Buona interprete la Rost, molto intensa e struggente e addirittura cinica al primo atto, più a suo agio nei momenti più marcatamente drammatici, come il duetto del secondo atto e tutto il terzo, ma la voce è praticamente usurata, parecchio malferma nonostante una tecnica che le permette di gestirla ed una buona tenuta della respirazione.
Purtroppo dal La in su la voce è affetta da vibrato, risultando secca e acida, le note certo le prende e ci sono tutte, ma non sono per nulla facili ed i sovracuti, i do diesis ed il MIb sono ghermiti, ma che fatica sostenerli!
Saimir Pirgu nel ruolo di Alfredo, ha dalla sua parte un timbro dolce e squisito, ma è una voce leggerissima, carina, educata, che quando deve smorzare o sfumare un suono tramuta la propria linea di canto in un falsetto.
Personalità scenica discreta, ma sicuramente non debordante e fraseggio abbastanza calligrafico.
Si impone felicemente il papà Germont di Luca Salsi che, rispetto all’ascolto radiofonico ha felicemente sorpreso.
Voce calda e pastosa, timbrata su tutta la gamma, buona proiezione nonostante qualche acuto non a fuoco, brilla sia per il vigore monolitico con cui affronta il dialogo con Violetta, sia la disperazione paterna degli interventi con Alfredo in cui grazie al fraseggio vario e addolcito, che investe sia “Di Provenza il mar, il suol” che la successiva cabaletta “No, non udrai rimproveri” ha modo di far emergere l’intensità composta della propria interpretazione.
Direzione di Callegari che sembra più una colonna sonora parecchio impersonale e sbiadita, con il volume dei finali di atto a sommergere tutto e tutti in maniera insensata.
Parti di fianco in tutte le opere tra il mediocre ed il discreto, coro perfettamente a fuoco e eccellente come sempre diretto da Piero Monti, grande successo di pubblico e qualche contestazione nei confronti del regista.
(Recite del 9-10-11/10/2009)
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