sabato 31 ottobre 2009

Renée Fleming: Verismo

Superstella di lungo corso del moderno firmamento lirico, Renée Fleming, dopo l’Homage to the Age of the Diva approccia ora il Verismo italiano, ispirata, a suo dire, dall’incontro con Magda Olivero. Continua, dunque, la sua escursione nel mito della Primadonna, cimentandosi adesso in un terreno a lei sconosciuto.
Un repertorio di brani scelti in modo mirato ed anche ricercato, accompagnati dall’orchestra G. Verdi di Milano, diretta da Marco Armiliato, bravo ed a suo agio in questo repertorio. Il tutto secondo lo stile recentemente adottato dalla Decca per i suoi big, sempre più spesso presentati in compagnia di colleghi, talora anche blasonati: per l’occasione un cameo di J. Kaufmann.

Scelta oculata ed attenta, dicevo, perché il programma ha un moderato tasso drammatico (il più pesante è la “Piovra” dell’Iris) in un mix ricercato di passi noti e rarità, come la Gloria di Cilea, la Conchita di Zandonai o la prima versione del “Sola perduta abbandonata” di Manon Lescaut.
Ricercato ma non sempre spiegabile, come l’esecuzione per intero della scena della morte di Liù, a cominciare dalle battute “ Tanto amore segreto…”, ove la Fleming è tra l’altro, in difficoltà evidente, oppure la scelta poco significativa come l’ensemble di Rondine “ Bevo al tuo fresco sorriso “(con un Kaufmann davvero affaticato) od il quartetto, oppure l’ensemble della Bohème di Leoncavallo o lo stesso finale di Fedora, con la prova da dimenticare di A. Chacón-Cruz.

La prima obiezione che si può muovere a questo disco, infatti, è la volontà di cimentarsi con questo repertorio aggirando parte degli ostacoli che costituiscono i topoi dei titoli scelti. Si privilegiano momenti meno noti, sempre secondo il nuovo dettame del disco à la page, ma la particolarità del programma non convince. La Fleming non ha voluto incidere per la seconda volta passi dall’Adriana Lecouvreur o da Tosca, perché eseguiti in precedenti dischi, ma bypassa il confronto, inevitabile, con le grandi dive del passato astenendosi dal cimentarsi nel sogno di Doretta o in “Oh grandi occhi lucenti”. Questione le cui ragioni ben si comprendono coll’andar dell’ascolto del disco, in cui la Diva canta senza esibire tratti di nuova obsolescenza vocale (canta come ha sempre cantato, a mio avviso), ma senza riuscire a dar vera vita al canto delle eroine veriste.
Mettiamo in breve da parte il fatto meramente vocale, per ritornare subito all’essenza del disco.
Per me la signora Fleming non ha mai avuto né una voce bella né una tecnica di gran levatura. In teatro come in disco la voce ha quasi sempre mancato di “fuoco”, suonando ovattata ed indietro, fatto che spesso l’ha condizionata anche nell’esecuzione delle mezze tinte, sino al limite della stonatura. Di momenti o frasi calanti ve ne sono innumerevoli documentate su You Tube, ad esempio, e dunque non costituiscono una prerogativa di “Verismo”, che ben ne documenta alcune. Il canto sul primo passaggio, poi, è quasi sempre stato governato dall’approssimazione, fatto da cui le derivano certi suonacci in zona grave ( ricordiamo il suo Pirata, per tutti ), talvolta apertamente di petto, ma il più delle volte di un petto ovattato, come dire…..non convinto: in breve, avrebbe l’intenzione ( gusto ) per fare diversamente, ma, non sapendo come uscirne, si arrabatta alla come viene. Sul centro la voce ne risente: frequente il canto “aperto”, ( emblematiche le a ) a scapito dell’omogeneità dell’emissione. Parte migliore della voce, i primi acuti, a voce piena, che son quelli del soprano lirico, a patto di non volerli smorzare, perché altrimenti si sfuocano e si fanno chiocci.

Di qui l’impossibilità di risolvere l’approccio al Verismo sul piano della qualità naturale del mezzo, intendo dire alla Price, alla Tebaldi, alla Caballè….ma nemmeno una Chiara, tanto per intenderci. Vuoi per natura vuoi per mende tecniche, la Fleming non può combattere sul piano del timbro e/o dell’emissione. Bastano le due frasi iniziali della scena di Liù, “Tu che di gel sei cinta, da tanta fiamma vinta”, per capire come la voce non trovi mai una posizione da mantenere nota dopo nota, e la voce arrivi diseguale....nota dopo nota appunto.

Altra via percorribile per la primadonna verista è quello della grande fraseggiatrice d’effetto, dalla dizione scolpita, magari colorita dalla retorica del fraseggio enfatico e/o dal coup de théâtre mozzafiato ( alla Olivero per intenderci..). Un canto analitico, sulla parola, magari anche esagerato in certi momenti, ma puntuale ed immancabile, per amplificare l’emozione che il canto provoca nello spettatore, può compensare una voce di non grande qualità. Lo sapevano bene la Olivero, la Muzio, la Kabaivanska, la Scotto…. Ma nemmeno su questo terreno la Fleming convince e riesce ad essere all’altezza della sua carriera straordinaria, non ha né presa né respiro, perchè manca il senso generale delle cose, la “cifra” di questo genere di canto. Non posso valutare quanta sia la distanza culturale e di temperamento che separa un’intellettuale americana (perché la Fleming ha sempre dato di sé un’immagine fortemente intellettuale, cui certamente diamo credito) dall’esatta concezione del Verismo italiano. Certo è che spesso la Fleming o è inerte nell’accento (eclatante l’esecuzione di Suor Angelica, dove lo strazio della donna è sostituito da accenti affettati e piagnucolosi, complice la scelta di un tempo molto lento) oppure stenta ad accentare a causa dell’articolazione poco chiara (dal recitativo iniziale della scena di Siberia all’intera prima sezione dell’Iris sino a frasi, peraltro celeberrime, come “straziatemi…gli ardenti spasimi“ del finale di Liù o le frasi che precedono l’aria di Suor Angelica). La linea di canto è spesso corrotta nell’intonazione (evidentissime le frasi succitate che introducono la scena di Liù come quelle finali di Suor Angelica, tanto per esemplificare con passi a voi tutti noti) o da suoni privi di appoggio (i piani di Liù valgono per tutti)... insomma, vari accidenti che minano l’ascolto di un disco che poteva e doveva venir meglio.
Non convince più di tanto il prodotto, perché la signora Fleming non regge in nessun modo il confronto con le grandi interpreti che hanno fatto la storia del Verismo, sebbene questo disco sia di qualità superiore rispetto a quella dei recitals recentemente incisi da altri cantanti che vi abbiamo qui recensito, dalla Garanca a Kaufmann etc.


Gli ascolti

Mascagni - Iris


Atto II

Un dì, ero piccina - Maria Farneti (1930)

Mascagni - Lodoletta

Atto III

Ah, il suo nome...Flammen perdonami - Mafalda Favero (1941)

Giordano - Fedora

Atto III

Troppo tardi!...Tutto tramonta - Gilda dalla Rizza (1929)

Puccini - Turandot

Atto I

Signore, ascolta - Maria Zamboni (1926)

Puccini - Manon Lescaut

Atto II

In quelle trine morbide - Maria Chiara (1977)

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venerdì 30 ottobre 2009

Mese verdiano XIII - Vieni, o Levita

Avevamo progettato questa puntata come ultima del nostro ottobre verdiano, ma ci siamo accorti che in effetti siamo appena a metà delle nostre celebrazioni verdiane, che proseguiranno - e come! - nel mese di novembre.
Abbiamo deciso, stavolta, di dedicare un poco di spazio alla voce di basso, una delle più amate dal compositore (seconda solo a quella, dilettissima, di baritono, della quale vi parleremo presto), proponendo tre storiche esecuzioni del secondo assolo del profeta Zaccaria nel Nabucco, “Vieni o Levita”.

Con Zaccaria Verdi inaugura la galleria dei suoi bassi “divini”, rappresentanti e portavoce del Nume in terra, ora ascetici, ora belligeranti, sempre e comunque monumentali, grandiosi, letteralmente sovrumani. Il peso di questi personaggi risulta evidente nell’economia delle rispettive opere: a Zaccaria spettano ad esempio ben tre assoli, contro una sola aria per il protagonista ed eponimo. Scandito dal canto del violoncello solista, “Vieni o Levita” è una preghiera con cui il sommo pontefice invoca il favore di Jahvé, perché assicuri al suo labbro l’eloquenza necessaria a convertire l’erede di Babilonia e di conseguenza l’intero popolo oppressore alla vera fede. È quindi scontato che l’eloquenza evocata dal testo si rifletta in quella dell’esecutore, chiamato a un canto “tutto sotto voce” (attacco dell’Andante) e a fior di labbro, generosamente cosparso di forcelle e altri segni dinamici e con minuziosa cura del legato. Parimenti scontato (almeno per noi... son debolezze!) che la voce debba essere pastosa e morbida, la cavata ampia e il registro grave di congruo spessore.

Dei tre esecutori proposti, tutti grandissimi, ognuno a suo modo (e ci piace pensare che gli italiani e lo spagnolo siano, in quanto rappresentanti di due grandi culture europee formatesi sotto il sigillo del cattolicesimo, un bell’esempio di sincretismo musicale, alle prese con questa preghiera semitica), va segnalata la prova di altissima scuola e grandissimo fascino di José Mardones, oltre che per la voce veramente verdiana e per la bellezza del legato, anche per la facilità con cui sale ad acuti quasi tenorili per colore e squillo e scende alle note più gravi senza che la voce abbia ad accusare scompensi o sbavature. Tutte caratteristiche che lo differenziano da tutti o quasi i bassi in carriera dopo il 1950. Ahiloro.


Gli ascolti

Verdi - Nabucco


Atto II

Vieni, o Levita...Tu sul labbro de' veggenti

1923 - José Mardones

1928 - Nazzareno de Angelis

1942 - Tancredi Pasero

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mercoledì 28 ottobre 2009

Mese verdiano XII - L'accento verdiano, parte terza: "Ma dall'arido stelo divulsa"

La grande scena di Amelia, che apre il secondo atto del Ballo in maschera, è una delle più impegnative del repertorio sopranile. A differenza della romanza del terzo atto, in cui alla sposa penitente si richiede soprattutto purezza di suono e accento castigato, “l’orrido campo” esige, fin dal recitativo, grande varietà drammatica e assoluta precisione nello scandire quella che l’autore avrebbe in seguito definito “la parola scenica”, oltre naturalmente a un’attenta lettura dei segni dinamici e delle indicazioni espressive. Anzi, la cantante dovrebbe, ove possibile, aggiungerne di propria iniziativa.

La scena si apre con il recitativo “Ecco l’orrido campo”, in Allegro agitato, cui succede il cantabile in fa minore “Ma dall’arido stelo divulsa” (Andante). L’aria, introdotta e accompagnata dal corno inglese, si sviluppa in modo strofico: dopo i primi sei versi, che enunciano il tema, il passaggio alla seconda parte (“Oh! Chi piange?”) è sottolineato da una variazione nell’accompagnamento orchestrale, che si fa più ossessivo e nervoso (terzine di semicrome dei violini primi), mentre il corno inglese riprende il tema e la voce procede per brevi incisi, ritrovando l’espansione melodica (sottolineata dall’indicazione di “cantabile”) solo al verso “non tradirmi, dal pianto ristà”. Il rintocco di una campana dà il via all’Allegro “Ah, che veggio?”, in cui la voce deve confrontarsi con il “fortissimo” dell’orchestra in tumulto. Si torna all’Andante per la coda del brano, che ripropone, variandola in fa maggiore, la melodia che concludeva le due strofe precedenti.
La scrittura eminentemente centrale non esclude incursioni nelle zone estreme della voce, dal la sotto il rigo (previsto in “oppure” sull’ultima ripetizione di “e terribile sta") ai numerosi la bemolle acuti (fin dal recitativo: “s’adempia”), ad un la naturale, un si bemolle e un si naturale su “e terribile sta”, alla salita al do di “miserere d’un povero cor”, fino alla cadenza, che inizia con un si bemolle acuto attaccato scoperto e discende al do grave per concludere sul fa centrale. Per inciso, e legittimamente, molte delle interpreti che proponiamo optano per cadenze alternative, capaci di valorizzare al meglio le loro caratteristiche vocali. Con tanti saluti ai fautori della filologia da quattro soldi così di moda nel recente passato, e anche oggi. Ricordiamo che Verdi giudicava esemplare la Traviata di Adelina Patti anche sotto il profilo di cadenze e riscritture.

Precisiamo, a titolo preliminare, che le interpreti da noi scelte non esauriscono di certo il panorama interpretativo del brano. Abbiamo privilegiato, oltre ovviamente alla qualità vocale, il differente calibro delle voci, l’appartenenza a diverse scuole di canto e i repertori frequentati, in modo da avere un quadro pressoché completo dei possibili approcci al personaggio. In fondo l’accento verdiano, chimera cui abbiamo dedicato questo mese di ottobre, non conosce frontiere, se non quelle dettate dalla tecnica, dal gusto e dalla musicalità, e nulla impedisce a insigni wagneriane e sperimentate primedonne veriste di essere, per quanto è possibile udire dai dischi, grandi interpreti di questa e altre pagine del Cigno di Busseto.

Inauguriamo la nostra galleria proprio con “le tedesche”, vale a dire con il canto di tre grandi primedonne d'area germanica, frequenti esecutrici tanto di Verdi quanto di Mozart e Wagner: Melanie Kurt, Elisabeth Rethberg e Gertrude Grob-Prandl. Tutte e tre interpreti di lungo corso del Ballo, si segnalano in prima istanza per l’accento nobilissimo e l’assoluta compostezza con cui attaccano e gestiscono la cantilena “Ma dall’arido stelo divulsa”, e in secondo luogo per l’attenzione alla dinamica, sempre varia e sfumata, senza per questo ridurre il canto a una serie di manierismi. Nessuna delle tre è immune da difetti, quasi tutti legati al versante dell’espressività: così, ad esempio, le indicazioni “con passione” e “con spavento” trovano un poco carenti la Grob-Prandl e, più ancora, la Rethberg, che dal luogo spettrale e dall’ora notturna non sembra trarre non dico autentici brividi, ma neppure un occasionale diversivo alla propria imperturbabilità. Mentre la Rethberg risulta assolutamente inappuntabile sotto il profilo dell’intonazione, della musicalità e del legato (e non ce ne stupiamo, perché il broadcast parziale del secondo atto del Ballo, San Francisco 1940, quindi solo un anno e mezzo prima dell’addio alle scene della signora, resta ancora impietosa pietra di paragone per le suddette caratteristiche), la Grob-Prandl attacca il recitativo con un'intonazione non perfetta e presenta, in basso, suoni un poco fiochi e occasionalmente gonfi (il la grave di “e terribile sta”), mentre la Kurt accusa occasionali fissità sul sol acuto e ripiega sul la centrale prima dell’invocazione conclusiva al Signore. Detto questo, va sottolineata la salute vocale quasi insultante della Grob-Prandl (propiziata, occorre ribadirlo, da una tecnica di altissima scuola) e la clamorosa espansione in acuto, che le permette di infondere accenti nibelungici all’Allegro “Ah che veggio?” e di esibire, in chiusa, la bellezza e pienezza della fascia medio-acuta, chiudendo la cadenza un’ottava sopra rispetto a quanto previsto dall’autore. Melanie Kurt, oltre a un legato di prim’ordine, caratteristica propria delle più autentiche dive wagneriane, sfoggia, al pari della collega, grande facilità in alto, arrivando a una vera e propria prodezza, vale a dire la smorzatura sul la bemolle acuto di “che ti resta, mio povero cor?”. Fra l’altro, pur cantando l’aria in traduzione tedesca, la Kurt risulta, all’ascolto, assai meno “teutonica” e più “italiana” rispetto alla Grob-Prandl, anche per l’accento, quasi sbigottito ma carico di passione, davvero ideale per il personaggio e la situazione drammatica.

Tutt’altro clima si respira nelle incisioni di due grandi cantanti veriste, fra le più celebrate della loro epoca, e a ragione: parliamo di Eugenia Burzio ed Ernestina (ossia Tina) Poli Randaccio. Purtroppo della seconda esiste solo il frammento “Mezzanotte!”, ma è sufficiente ad avere un’idea di quello che doveva essere il resto dell’aria. La Burzio si segnala, in primo luogo, per l’eccezionale varietà agogica e dinamica (certo propiziata dall’accompagnamento di pianoforte solo), che le consente di sottolineare ogni parola del testo, senza che questo vada a intaccare il senso del discorso musicale o la precisione dell’esecuzione. È vero che alcuni suoni risultano un poco aperti, ma non sono affatto sgangherati, e a ogni modo le corone, i rubati e gli “stringendo” disseminati generosamente (vedi a titolo di esempio l’indugiare su “quell’eterea”, “non tradirmi”, “battere”, “t’annienta”, e ancora, il tempo improvvisamente più rapido alle parole “che ti resta, perduto l’amor”) dipingono con grande efficacia l’ansia e l’angoscia che attanagliano l’infelice mancata adultera. L’unico rimprovero che si può muovere alla Burzio è quello di restituire quell’ansia e quell’angoscia ricorrendo ai mezzi e alle risorse espressive della Giovane Scuola, piuttosto che a quelli di Verdi, ma è peccato veniale, alla luce della monotonia, sovente condita da imbarazzanti problemi vocali, che oggi molti propagandano quale assoluta aderenza al dettato musicale. E se gli acuti della parte finale non sono proprio esaltanti (quasi un urlo il si naturale, assai fisso il do), il la grave di “e terribile sta” ha una pienezza da vero soprano drammatico, mentre la cadenza, conclusa sul fa acuto, prova che il registro medio-acuto non è meno imponente di quello basso.
Di Tina Poli Randaccio, come detto, possediamo solo la sezione finale dell’aria. La signora è, fra le esaminate, quella che meglio risolve l’indicazione “con voce soffocata” alla ripetizione di “e m’affisa, e terribile sta”. Scontata l’imperiosità del la grave di “sta”, in un autentico soprano drammatico, avvezzo a ruoli ben più pesanti e orchestrali anche più densi, tanto che appare legittimo credere che il Ballo fosse, per la cantante, prendendo a prestito le parole di un’altra solidissima collega, “riposo per la voce”. Qualche problema si riscontra nel legato in fascia acuta, ad esempio nel passaggio fra si bemolle e do acuto, mentre per cogliere la forza espressiva dell’interprete, oltre alla forza tellurica del suo strumento, bastano la corona aggiunta su “m’aita o Signor” e la cadenza, rimpolpata di un mi grave in cui la potenza del registro di petto rifulge come meglio non potrebbe.

Ascoltata dopo quelle di due grandi soprani drammatici, la delicata, squisita voce di Claudia Muzio potrebbe risultare insufficiente, per ampiezza e colore, di fronte alle più dotate colleghe. In realtà l’ascolto si rivela deludente soprattutto per una caratteristica contingente, vale a dire il taglio, verosimilmente propiziato da limiti di tempo legati alla tecnologia di registrazione, della seconda parte dell’Andante (dalle parole “Oh! chi piange?” a “t’annienta, mio povero cor”). La cantante, pur evitando il si naturale acuto alla fine del primo “e terribile sta” ed esibendo in seguito un do acuto marcatamente fisso, è impareggiabile per condotta vocale e continenza espressiva. Il timbro è di grande dolcezza, il fraseggio sapientissimo nella sua apparente semplicità, la carica di malinconia pari a quella infusa dalla Kurt, ma la Muzio, o meglio “la divina Claudia”, come giustamente la chiamavano i suoi ammiratori, vi aggiunge una nota di morbida sensualità che, lungi dal tradire il personaggio, ne esalta la frustrazione erotica e rende vivo e palpitante il personaggio, come nessun’altra interprete (se non la Cerquetti, assistita da un mezzo vocale ben più imponente) sa fare. Va anche sottolineata l’abilità della cantante nell’adattare alle proprie esigenze la scrittura verdiana, senza travisarne il dettato, vedi la trasposizione all’ottava alta della ripetizione “o Signor, m’aita o Signor”, che consente all’interprete di fraseggiare e sfumare nella zona più brillante della voce.

Con Anita Cerquetti abbiamo invece la declinazione perfetta della vera voce verdiana. Una voce giustamente definita d’oro, ampia, timbricamente opulenta, sempre sul fiato e perciò capace di piani e pianissimi morbidi e al tempo stesso sonori, disseminati con grande accortezza (ad esempio nel recitativo, alle parole “s’inoltri”); un legato di prima qualità; un’espressione sobria, maestosa (qualcuno la definirebbe forse un poco matronale), velatamente malinconica e un niente sussiegosa, adattissima a una dama di rango, seppure sconvolta dall’amore e poi dal terrore. Invano si cercherà nella Cerquetti la sicurezza sugli acuti (il la suona alquanto tirato, il si gridacchiato, meglio invece il do, che la cantante sottolinea con una corona), ma la saldezza della voce negli altri registri (si ascolti, per quanto concerne quello grave, l’autorevolezza del la sotto il rigo), la dinamica non varia ma accortamente amministrata, l’accento dolente e la dizione perfetta contribuiscono a creare un’Amelia che giustifica i rumorosi entusiasmi del pubblico fiorentino. Oggi avvezzo ad Amelie di tutt’altra pasta.

Altra voce d’oro, o meglio di bronzo, quella di Leontyne Price, il cui fascino strumentale, secondo forse solo a quello della Cerquetti, contribuì non poco a fare della cantante americana una delle interpreti di riferimento del Ballo. Il timbro davvero malioso è intaccato solo in minima parte da alcuni effetti prossimi al parlato disseminati nel recitativo (“Ah mi si gela il cor”) e da suoni alquanto duri sul fa e sol acuti (“quell’eterea sembianza”). La Price lega bene nella salita “che ti resta perduto l’amor”, ma non riesce a saldare a dovere il do centrale e il la bemolle acuto di “che ti resta”, mentre la dinamica è varia, ma non sufficientemente sfumata, con una netta prevalenza del “forte”. L’apparizione della larva notturna ispira nuove scivolate nel parlato (“Una testa”), ma nella salita conclusiva agli acuti la cantante è di nuovo gloriosa, a dispetto di un do alquanto tirato, preso forse più con il favore delle stelle che con quello dell’ugola.

Concludiamo la nostra breve rassegna con Maria Callas, più volte interprete del ruolo in teatro. Si tratta di un nastro, alquanto fortunoso, del 1951, in cui la cantante greca suona sensibilmente più in forma rispetto alle registrazioni integrali del titolo, di pochi anni successive. L’ascolto è interessante, se non altro perché dimostra che non sempre una grande cantante, e in taluni casi una grande interprete, riesce a rendere giustizia a un grande autore. La Callas, le cui interpretazioni di Abigaille e Lady Macbeth sono di assoluto riferimento, si accosta al Ballo guardando più a quelle volitive signore, che non alla trepida e sventurata moglie di Renato. Il recitativo è accentato a dovere, ma la celebre “voce grigia” di Medea non rende giustizia al personaggio. Dov’è la paura, dove il raccapriccio? Viene quasi da pensare che la stessa Ulrica abbia preso il posto della sua assistita. Il registro acuto non è sfolgorante, fin dal la bemolle, assai duro, di “s’adempia”, mentre in prima ottava (segnatamente in zona do-sol) compaiono suoni fin troppo marcatamente di petto. Le note acute (dal sol in su) “ballano”, specie se attaccate scoperte, e si riscontrano problemi di legato, ad esempio alle parole “t’annienta”. Nella sezione finale la cantante tenta giustamente di alleggerire e sfumare, finendo però con l’esibire la voce, drammaticamente assai poco consona, di Gilda. Poco felice anche la cadenza, risolta, come nel caso di altre colleghe, sul fa acuto. Il fraseggio e la dizione sono al solito curati a dovere, la registrazione assai precaria sicuramente non rende appieno giustizia alla cantante, ciò detto la prova non appare delle più felici. Tutt'altro.



Gli ascolti

Verdi - Un ballo in maschera


Atto II

Ecco l'orrido campo...Ma dall'arido stelo divulsa...Mezzanotte!

1906 - Eugenia Burzio (link alternativo)

1916 - Melanie Kurt (link alternativo)

1918 - Claudia Muzio (link alternativo)

1919 - Tina Poli Randaccio (link alternativo)

1929 - Elisabeth Rethberg (link alternativo)

1951 - Maria Callas (link alternativo)

1953 - Gertrude Grob-Prandl (link alternativo)

1957 - Anita Cerquetti (link alternativo)

1966 - Leontyne Price (link alternativo)


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lunedì 26 ottobre 2009

Mese verdiano XI - Grandi duetti d'amore

Anche Verdi o meglio i personaggi di Verdi si innamorano. E' vero che lo fanno meno di quelli di Puccini o di Donizetti ed anche lo stesso Bellini, tutti facili agli affari di cuore e non solo, e quindi maestri autentici del duetto d'amore. Spesso gli amori verdiani o almeno la loro esternazione avviene sotto la spinta di situazioni cogenti ( Aida e Radames agonizzanti) o per altri e diversi intenti (Odabella e Foresto, la duchessa Elena d'Austria ed Arrigo) e per questo, forse, con riferimento a Verdi non si pensa subito all'amore. A smentire l'opinio comunis, però, ecco sei splendidi duetti d'amore.


Gilbert-Louis Duprez
Jérusalem - Atto II: Une pensée amère me rappelle mon père - Giacomo Aragall & Leyla Gencer (1963)
Il duetto che chiude il secondo atto di Jérusalem, rifacimento francese de I Lombardi alla Prima Crociata - e che, salvo pochi dettagli, ricalca sostanzialmente l'originale - rappresenta una specie di unicum nel linguaggio del primo Verdi: struttura e organizzazione melodica abbandonano (rectius cercano di abbandonare) per la prima volta gli schemi del melodramma di stampo donizettiano. Entrambi si aprono con un'ampia scena di recitativo strutturalmente assai libera (e difficilmente riscontrabile, sia in altre opere del periodo, sia in quelle immediatamente successive del medesimo autore), che alterna tensione drammatica e sfoghi lirici, dove riecheggia la lezione belliniana del Pirata - quasi una citazione di Nel furor delle tempeste (ossia Dans la honte et l'épouvante) - sino a sfociare nell'andante Une pensée amère (unico punto in cui sono evidenti le modifiche tra le due versioni dell'opera: infatti qui, rispetto all'originale, la linea vocale è abbassata di un tono e perde il suggestivo accompagnamento dell'arpa, in favore di un pizzicato degli archi, molto più elegante e raffinato, oltre ad essere semplificato nella struttura, privata degli a solo del soprano) e a concludersi, dopo un breve dialogo, spezzato dal coro fuori scena dell'esercito che incombe, con la stretta finale Ah! viens, viens! je t'aime. Se il contenuto musicale è analogo, tuttavia diversissima è la situazione drammatica: mentre in origine vi era una vergine lombarda disposta a tradire, per amore del bell'infedele, la propria patria (ma non la propria fede) per fuggire con lui e, di contro, il nobile figlio del Tiranno di Antiochia che rinnega famiglia, religione ed affetti per rivederla e poi morire, in Jerusalem si rientra nei ranghi del politicamente corretto (lasciando perdere, stavolta, equivoci di natura religiosa): Hélène non ha tradito la patria e la fede, nè si è invaghita di un nemico, semplicemente si ritrova con l'amato Gaston, prigioniera dell'Emiro di Ramla, e dalle sue prigioni cerca di fuggire. Insomma, una vicenda privata in cui la crociata costituisce uno spiacevole impiccio, laddove in origine la Storia irrompeva tragicamente e condizionava un menage non certo riducibile ad un qualsiasi amore contrastato. Il fascino risorgimentale del pezzo viene in parte compromesso dalla nuova situazione e dai nuovi versi, perdendosi quel misto di retorica e sincerità, sentimento e tensione politica, che caratterizzano il primo Verdi. Resta, tuttavia, un bell'esempio di quello che potrebbe definirsi l'amore al tempo degli anni di galera.


Domenico Donzelli
La traviata - Atto I: Un dì, felice, eterea - Alfredo Kraus & Beverly Sills (1970)
Il duetto del primo atto di Traviata è, per alcuni aspetti, il più anomalo duetto d'ampre di Verdi.
E' pur vero che l'iniziativa, come è giusto, parta dal tenore, Alfredo innamorato di una prostituta di alto rango, per giunta minata dalla tisi, ma è un duetto che va poi contro ogni convenzione. Per altro contraria alle convenzioni è tutta quanta la Traviata. Mi spiego: mai si professa amore ad una donna che vende l'amore, mai l'impacciato candore del giovane alle prime schermaglie d'amore (ruolo che normalmente tocca all'eroina) fa così rapida e profonda breccia nel cuore della prostituta.
A memoria e con possibilità di errore per difetto le esecuzioni memorabili di questo duetto provengono da Tito Schipa e Amelita Galli-Curci, Beniamino Gigli e Maria Caniglia, Maria Callas ed Alfredo Kraus. Recentemente confesso di avere riscoperto la grandezza vocale ed interpretativa di Frieda Hempel e Hermann Jadlowker. Dal vivo ricordo una splendida, sfumata ed elegante esecuzione ad opera di Giuseppe Sabbatini ed Darina Takova a Parma nel 2001.
Per l'amore verdiano sono ricorso ad Alfredo Kraus perfetto, in forza dell'algida esecuzione, nell'impaccio del primo approccio in compagnia di Beverly Sills, che spesso dimentichiamo sia stata una grande interprete e non solo un'impeccabile virtuosa.

Marianne Brandt
Don Carlos - Atto I: Di qual amor - Giuseppe Giacomini & Renata Scotto (1979)
Foresta di Fontainebleau, Francia, 1559.
Due adolescenti travolti da giovanile ardore, un bosco ombroso e pieno di malia, una notte in cui da un lato si decidono le sorti politiche di due regni, dall’altro le sorti altrettanto complesse del cuore.
In mezzo un duetto; lui finge di essere un uom della scorta spagnola, lei è la dubbiosa e romantica figlia del Re di Francia, smarritasi, provvidenzialmente, nella foresta e ancora non sa che chi le si para d’innanzi e le accorda la sua protezione, altri non è che l’infante di Spagna, Don Carlo e suo ardente promesso sposo.
Lei, Elisabetta di Valois, si lascia andare ed espone i suoi dubbi: “Conchiuder questa sera la pace si potrà?” e Carlo, fiducioso, “Sì, pria del dì novel stipular l’imeneo col figlio del mio Re, con Don Carlo si dè”.
Al nome del suo promesso, lei si illumina, vuole sapere, vuole conoscere la verità dei suoi sentimenti e dei propri, per lui lascerà la sua amata Francia…si, insomma, ne vale la pena?
Carlo le porge allora il ritratto dell’Infante e:”Possente Iddio! - Carlo son io…e t’amo, si t’amo!”.
La fanciulla prova un nuovo turbamento, è felice, anche in lei sente nascere l’amore per questo giovane spagnolo:” Di qual amor, a di quant’ardor quest’alma è piena! Al suo destin voler divin or m’incatena … Arcan terror m’avea nel cor, e ancor ne tremo. Amata io son, gaudio supremo ne sento in cor!”
Carlo, da parte sua, la travolge con una appassionata dichiarazione a cui è difficile sottrarsi: “Sì, t’amo, te sola io bramo, vivrò per te, per te morrò.”
Da lontano un colpo di cannone frena il crescente desiderio dei due; “Fausto di! Questo è segnal di festa! Sia lode al ciel, la pace è stretta!”.
Nuove luci illuminano la foresta, i due si abbracciano teneramente; ormai nessun timore li coglie in questo attimo di felicità, anche gli alberi gioiscono della pace e del loro crescente amore, tutto intorno è gioia!
Carlo, mentre si perde negli suoi occhi, si accorge che Elisabetta è tremante, ma lei lo rassicura: “Se tremo ancor, terror non è, mi sento già rinata! A voluttà nuova per me è l’alma abbandonata.”.
Ormai sicuri dei loro sentimenti ed ebbri d’amore rinnovano i loro giuramenti di fronte al cor ed al cielo loro testimoni.
Il tutto mentre gli archi ed i fiati stendono loro un tappeto sonoro, trapuntato di infantile e scherzosa dolcezza e successivamente si allarga in un morbido ed etereo mare che avvolge voluttuoso le voci.
Ancora non sanno cosa li aspetta…


Giulia Grisi
Un ballo in maschera - Atto II: Teco io sto - Richard Tucker & Martina Arroyo (1970)
E' il più completo, appassionato, esemplare duetto d'amore di Verdi. Segna il trapasso dal Verdi a cabaletta al Verdi maturo.
Credo che solo Maria di Rohan, e Riccardo di Chalais, Raoul e Valentina o Tristano ed Isotta si confessino un amore altrettanto appassionante. Nessuno,però, contrastato e sofferto come quello degli innamorati di Boston.
E' la reciproca confessione di un amore che la convenzione sociale vuoi sotto il profilo del rispetto per il marito della stima ossia della riconoscenza per l'amico fedelissimo impediscono.
Eppure nel quarto d'ora nel "luogo di delitto e morte" Riccardo ed Amelia prima titubanti e spaventati loro stessi per quello, che non possono non dire e non udire, poi presi dalla passione sono i più appassionati innamorati di Verdi, lontani sia pur per pochi minuti da ogni condizionamento, dovere o timore.
L'esecuzione forse non è accuratissima ma veramente travolgente, come, appunto, l'amore di Amelia e Riccardo. Godetevela, non pensate al presente......

Adolphe Nourrit
I due Foscari - Atto II: No, non morrai - Leyla Gencer & Mirto Picchi (1957)

Fra le opere degli anni di galera uno dei duetti più belli e intensi scritti da Verdi è sicuramente quello riservato alla coppia di coniugi dei Due Foscari. Lucrezia entra in scena sul tema che già l'ha presentata alla sua entrata al primo atto, giunta nelle carceri a dare al marito Jacopo la notizia della condanna all'esilio pronunciata dal Consiglio dei X . L'atmosfera delineata da Verdi è subito molto carica di pathos nel canto di Lucrezia che nel rivedere lo sposo trova gli unici momenti di vera tenerezza in tutta l'opera. I due sposi cantano la loro malinconia, vittime di un destino che li lascia in vita ma costretti a separarsi per sempre, negando loro persino il conforto di poter dividere insieme il dolore. Il loro canto è di speranza, il canto di un dolore che trova conforto solo nell'amore l'uno dell'altra, come esprime la cabaletta del duetto, che dall'Allegro moderato iniziale diventa sempre più estatica nel finale.
L'esecuzione scelta brilla soprattutto per la presenza di Leyla Gencer nelle vesti di Lucrezia Contarini e del direttore d'orchestra, Tullio Serafin. A Leyla Gencer il merito di restituire perfettamente la grandezza del personaggio, non facendone mai venire meno il rango nobiliare anche nei momenti di sdegno ed ira tramite un accento sempre nobile e composto che nel duetto con lo sposo sa trovare però perfetti accenti di tenerezza e malinconia, raggiunti ovviamente non solo tramite l'intelligenza dell'interprete ma soprattutto grazie alla maestria della cantante. Esemplare invece Serafin non solo nei colori dell'orchestra, che accompagna con viva teatralità e differenzia benissimo i diversi stati d'animo dei due protagonisti nello svolgersi del brano, ma anche per l'intelligenza dell'intervento sullo spartito, vuoi facendo invertire le linee dei due sposi nel finale della sezione centrale onde favorire i due interpreti nelle zone più facili della loro vocalità, vuoi nel tagliare tradizionalmente la cabaletta del duetto ma lasciando in primo enunciato la sublime frase Perduto ogn'altro bene dell'amor tuo vivrò all'esecuzione solistica della Gencer prima dell'unisono finale.


Antonio Tamburini
Otello - Atto I: Già nella notte densa - Georges Thill & Jeanne Segala (1938)
L'ultimo grande duetto d'amore verdiano è quello che chiude il primo atto di Otello.
Fenton e Nannetta avranno diritto alle loro parentesi di tenerezza, ma saranno per l'appunto solo parentesi, nel quadro di un discorso musicale che ha quasi del tutto abolito il concetto di numero chiuso, in parte ancora rintracciabile nell'opera precedente. Inoltre gli amorosi di Windsor non potrebbero competere, per forza drammatica e copia di esigenze della scrittura vocale, con quelli di Cipro.
E' un duetto la cui fama è almeno pari alla bellezza. E' la prima notte di nozze dei protagonisti, ovviamente idealizzata e sublimata dalla musica, in cui trovano spazio la rievocazione delle sventure passate, la dolcezza dell'amplesso coniugale, l'ombra di un presagio oscuro che non basta a offuscare lo spettacolo del mare notturno e l'effimera felicità degli sposi. Abbiamo scelto, da veri passatisti, una registrazione in francese, protagonista Georges Thill, uno dei massimi tenori lirico-spinti di cui il disco abbia lasciato traccia. Lo squillo quasi insultante e la grande facilità in alto e in basso non impediscono al cantante di legare i suoni e di essere, all'occorrenza, soave e carezzevole, vedi ad esempio l'attacco, che basta da solo a definire il personaggio, guerriero nobilissimo e amante impaziente, ma al tempo stesso estremamente dolce. Accanto a lui Jeanne Segala, soprano la cui carriera si svolse prevalentemente in teatri di provincia: l'interprete non è memorabile, ma l'esecutrice vocale appare più che solida, e comunque non sfigura al fianco del collega, il che non è poco.
L'ascolto è ovviamente dedicato agli Otelli e gentili signore che il teatro lirico ci ha offerto nelle ultime stagioni e, più ancora, a quelli che fonti ufficiali od ufficiose accreditano quali prossimi venturi.

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sabato 24 ottobre 2009

Mese verdiano X - L'accento verdiano parte seconda: "Calpesta il mio cadavere, ma salva il Trovator"

Verdi ed i suoi librettisti ci misero del loro per dar sapore all’incontro tra donna Leonora ed il conte di Luna nelle sale del palazzo di Aljaferia. Pare, infatti, che nel dramma di Gutiérrez, il Conte non si scaldasse gran chè davanti alla “proposta indecente” della dama disperata, mentre nell’opera di Verdi …beh…si scalda eccome! Mai prima di allora una primadonna aveva offerto il proprio corpo in cambio della vita dell’amato in modo così dichiarato e plateale.

I piccanti accordi non finirono lì, perché, si sa, che una volta aperta la via, l’emulazione dilaga. Con maggiore o minor ipocrisia svariate altre primedonne faranno, poi, mercato di sé per l’amato, ma sarà sempre salva la regola che chi ha virtù trionfa e chi non ne ha perde. Barnaba resterà con un palmo di naso davanti al cadavere di Gioconda, mentre morirà l’opportunista Manon; Tosca verrà rincorsa da Scarpia, che riuscirà solo a rovesciarla su un canapè prima di finire accoltellato mentre Minnie, maestrina scaltra, barerà per vincere alle carte e non cedere allo sceriffo.
Leonora è ancora una donna idealizzata, astratta nel suo aplomb dal sapore stilnovista: si prometterà al cattivo ben sapendo che non cederà e che dovrà morire per sfuggire all’orrendo patto. Incarna purezza e candore, un mix psicologico perfetto perchè semplice, come quello dei protagonisti del favole. Anche il cattivo conte di Luna è uno stereotipo: lo agitano la gelosia per Manrico ed un profondo desiderio di vendetta…..oltre che di possedere la bella dama.
Come sempre in Verdi, soprattutto questo, alla fine della sua “galera”, tutto è estremo, verace, esplicito ed immediato, in breve, decisamente sopra le righe rispetto agli operisti precedenti ma incredibilmente cogente.
Leonora si para davanti al Conte all’improvviso, come un fantasma, proprio mentre il conte la pensa scomparsa chissà dove. All’iniziale sorpresa segue la supplica della donna disperata, che implora pietà con vero slancio. L’andante è con moto, perché Verdi dà rilievo drammaturgico al momento concitato, all’agitazione interore di Leonora, che sa che il tempo stringe per Manrico, ed alla risposta sdegnosa del conte, furente. Il canto del conte è continuamente accentato, perché il canto deve trasudare rabbia, anche se composta; quello di Leonora accentato ma, soprattutto, ricco di forcelle, ampie messe di voce, perché accorata ed estrema deve suonare la sua profferta al conte: “ Calpesta il mio cadavere ma salva il Trovator”. Poi la musica si arresta ed il patto si fa velocemente, in due battute. Per il conte la grazia non ha prezzo, e Leonora rilancia con la più alta delle poste; sbalordito il conte accetta, dunque Manrico vivrà. Una felicità un po’isterica percorre i due: “Vivrà!Contende il giubilo..”, allegro brillante, addirittura. Lei, morendo, potrà dire a Manrico che è salvo grazie al suo amore; il conte, incredulo e felice, potrà finalmente possedere Leonora, che in effetti alla fine avrà, ma….“ fredda, esanime spoglia!”.
Una sintesi incredibile di azione e successione rapida di stati d’animo, peculiari di tutto il Trovatore del resto. E sarà un grande successo anche a Parigi, ove Verdi aveva incontrato tanta resistenza nella critica e nel pubblico, tanto che vi sarà anche una versione in francese dell’opera. Il nuovo modo di fare teatro lirico iniziava a passare anche nella roccaforte del belcantismo d’élite.

Qui, come altrove, l’accento verdiano sta nel dar senso ad ogni sfumatura del testo, nel rispetto dei segni di espressione che costellano lo spartito ed indicano inequivocabilmente la via da seguire ma…nella misura. L’enfasi che Verdi richiede al canto non scade nell’eccesso o nell’esagerazione, anche quando a queste offre il fianco, come può accadere in questa celebre scena.

Vi sono alcune leggendarie incisioni di questo duetto nel nostro ripostiglio di anticaglie.
Di una addirittura è conservato il video, del 1928. Il soprano Rosa Raisa, prima interprete di Turandot, donna elegante e bellissima, che, se non avesse calcato le tavole del palcoscenico, avrebbe fatto la diva del cinema muto, alle cui primedonne si ispira con tutta evidenza come attrice. Canta con una perfezione ed una purezza di emissione derivata dalla scuola assolutamente belcantista di Barbara Marchisio. E’ anche una interprete straordinaria, viva, misurata ed intensa, soprattutto…moderna. Con lei è il signor Giacomo Rimini, visivamente anche lui da cinema muto…ma da comica. Vocalmente, invece, bravissimo. La voce è piuttosto scura, soprattutto per me, che amo baritoni di colore chiaro, ma questo è affare di gusti. Canta sobriamente, con mordente ed un gusto che nei baritoni sparirà di lì ad un paio di decenni.

Pari suggestione per me hanno Frida Leider e Heinrich Schlunsnus ( 1925 ), che documentano un Verdi rappresentato in contesti diversi da quello italiano. Lei, la wagneriana della leggenda, ci ha lasciato delle incisioni di brani del Trovatore con cui possono competere forse un paio di signore dell’intero universo discografico ( il suo “D’amor sull’ali rosee” è eccezionale ). Esegue tutto, accenti, forcelle, coloratura della cabaletta inclusa, con una facilità disarmante, dando rilievo a tutto, ad ogni segno, ogni nota. Il suo conte di Luna le assomiglia alquanto, per qualità del mezzo vocale, bellezza di emissione, compostezza ed eleganza di accento. A voci ampie che cantano perfettamente, dominando ogni passo dello spartito con facilità, basta poco per accentare. Quella leggera enfasi di cui si parlava anche altrove basta ed avanza.

Terza proposta, il duo italianissimo Arangi Lombardi – Galeffi ( 1928 ) in un incisione che è documento perfetto della più italiana delle tradizioni verdiane. Forse meno perfetta vocalmente l’Arangi Lombardi rispetto alle altre due ( in basso la voce non suona perfettamente come già altre volte abbiamo rilevato, ma parliamo di una cantante assolutamente straordinaria ), strepitoso e perfetto Galeffi. Entrambi sono grandi fraseggiatori,composti ma intensi e vivi. E moderni. I tempi adottati per l’esecuzione, poi, sono a noi più familiari rispetto alla coppia precedente: è possibile che l’audio documenti i modi di Toscanini, perché i due furono gli esecutori da lui prescelti in più occasioni, anche per altre opere di Verdi. E’ inutile descrivere il loro modo di fraseggiare e dire come e perché costituiscano un modello di accento verdiano. Basta ascoltarli perché tutte le definizioni si chiariscano subito: loro passano da soli!


Gli ascolti

Verdi - Il trovatore

Atto IV

Udiste...Mira, d'acerbe lagrime...Vivrà, contende il giubilo

1920 - Rosa Ponselle & Riccardo Stracciari

1925 - Frida Leider & Heinrich Schlusnus

1928 - Giannina Arangi-Lombardi & Carlo Galeffi

1929 - Tina Poli-Randaccio & Giovanni Inghilleri



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giovedì 22 ottobre 2009

Mese verdiano IX - Son giunta! Terza puntata: gli anni Cinquanta. Leyla Gencer e Renata Tebaldi

Una piccola spianata sul declivio di scoscesa montagna. A destra, precipizi e rupi: di fronte, la facciata della chiesa della Madonna degli Angeli; a sinistra la porta del Convento, in mezzo alla quale una finestrella; da un lato, la corda del campanello. Sopra vi è una piccola tettoia sporgente. Al di là della chiesa, alti monti col villaggio d’Hornachuelos. La porta della chiesa è chiusa, ma larga, sopra d’essa una finestra semicircolare lascerà vedere la luce interna. A mezza scena, un po’ a sinistra, sopra quattro gradini, s’erge una rozza croce di pietra corrosa dal tempo. La scena sarà illuminata da luna chiarissima. Donna Leonora giunge ascendendo da destra, stanca vestita da uomo, con pastrano larghe maniche, largo cappello e stivali.
Le dettagliate disposizioni sceniche dipingono un’atmosfera carica e livida, come in un quadro di El Greco: una notte di calma apparente, sotto il cui placido aspetto, il destino – forza che trascina tutto e tutti – disegna il suo percorso, traccia la sua strada e costruisce inesorabilmente l’unico esito possibile della vicenda.

Tuttavia non vi è compiacimento romantico (un titanismo che sarebbe stato logico e scontato, se l'improbabile soggetto fosse finito tra le mani di qualche musicista di area germanica e di ispirazione weberiana), vi è un tacito abbandono – pur se percorso da timidi moti di ribellione – una sorta di accettazione di un destino che sarebbe riduttivo identificare come meramente spietato o nemico: a nessun uomo è dato comprendere i disegni dell’Altissimo o penetrare i misteri della Divina Provvidenza. A Leonora non resta, dunque, che affidarsi alla Madonna, confidando in un senso ultimo della sua vicenda. Una provvida sventura di manzoniana memoria? Non stupirebbe: è nota l’affinità tra Verdi e Manzoni. E proprio La Forza del Destino rappresenta la più manzoniana delle sue opere (il compositore non volle mai accostarsi ai Promessi Sposi, pur se richiesto in tal senso, sicuramente per timore reverenziale e, forse, proprio perché già nel suo catalogo vi era un titolo assimilabile, per contenuti e tensione spirituale, al capolavoro dello scrittore milanese). Dopo aver cagionato, seppur indirettamente, la morte del padre, dopo essere stata, da questi, maledetta in punto di morte, fuggita dalla casa paterna, braccata dal fratello in cerca di vendetta (o di giustizia?), scampata fortunosamente ai sospetti di quest’ultimo (e dalla morbosa curiosità di un'umanità variopinta e meschina incrociata in una sordida locanda), desiderosa solo di espiare le proprie colpe (vere e presunte), Donna Leonora di Calatrava, rampolla di nobilissime origini e ora caduta nella disgrazia più misera, in preda a rimorsi e rimpianti (tornano in mente alcuni versi dell'Adelchi di Manzoni: te collocò la provida/sventura in fra gli oppressi/muori compianta e placida/scendi a dormir con essi/alle incolpate ceneri/nessuno insulterà), cerca riparo e rifugio, nella fede cristiana e nelle silenziose celle di un convento. Il tema del destino apre la scena: terribile, cupo e incalzante. Poi una calma improvvisa e inquieta, spezzata dal canto di Leonora, “Son giunta”: di nuovo il tema del destino è ripetuto, ma in modo del tutto differente, quasi un sospiro di sollievo, dopo l’affanno della fuga. Un sollievo momentaneo: perché al proprio destino nessuno sfugge e l’apparente sicurezza del rifugio – dove la sventurata pretendeva di fuggire al mondo e trovare, finalmente, pace – diverrà presto, teatro del compimento del disegno divino, del destino, della Provvidenza. Il recitativo alterna p e f, a rappresentare ansie, paure e sollievo: Leonora ricapitola la sua vicenda, il fratello che la cerca, il destino incerto dell’amato Alvaro. Contrasti di sentimenti e contrasti nella dinamica: la scrittura verdiana è ricchissima di segni d’espressione, atti a dipingere i sentimenti interni della protagonista (che qui, più che altrove, è chiamata a “recitare con la voce” senza lasciarsi andare a facili esteriorizzazioni o a eccessi di effettacci). “Grazie a Dio, estremo asil questo è per me”, un senso di sollievo nel p imposto al canto e al morbido tessuto orchestrale. “Son giunta!... Io tremo! La mia orrenda storia è nota in quell’albergo e mio fratello narrolla! Se scoperta m’avesse”, la voce di Leonora si intreccia alla ripresa (di nuovo) del tema del destino, in un incedere incalzante sino all’esplosione in ff “Cielo! Ei disse, naviga vers’occaso Don Alvaro! Né morto cadde quella notte in cui io, io del sangue di mio padre intrisa, l’ho seguito e il perdei”, e continua sempre più agitata, in un continuo alternarsi di contrasti “ed or mi lascia, mi lascia, mi fugge!”, un sussulto, un grido disperato: un SI acuto in f che si spegne poi nel p di un lento morendo, che suona come una sconfitta, “Ohimè, non reggo a tant’ambascia!”.
Verdi dipinge, dunque, un recitativo di grande efficacia teatrale, in pochi gesti, in pochi versi, riassume la vicenda e precipita l’ascoltatore nella più profonda intimità degli ambigui sentimenti di Leonora (amore e odio, speranza e colpa). Una delicata introduzione sulle note malinconiche di flauto e clarinetto, conde all’aria: allegro moderato, come un lamento. La partitura segna pp. Si apre un canto che è come una preghiera: le frasi sono legate e le forcelle movimentano il brano, mantenuto per lo più in piani e pianissimi, anche se è ben precepibile un movimento ondeggiante e continuo che conduce ad un lento crescendo.
“Madre, Madre pietosa Vergine, perdona al mio peccato, m’aita quell’ingrato dal core a cancellar” (ma davvero Leonora vorrà dimenticarsi dell’amore di Alvaro?), “in queste solitudini espierò l’errore…”. Infine “pietà di me, pietà Signor” conduce al f e poi al tipico sfogo in maggiore: con passione indica la partitura, “Deh non m’abbandonar Signore, deh non m’abbandonar. Pietà, pietà di me Signor” su di un tremolo di archi che accompagna la voce in un ultimo crescendo e in un diminuendo finale a simboleggiare il sospiro della disperazione, sino a spegnersi nel suono d’organo che accompagna il canto mattutino dei frati: come a rappresentare i definitivo abbandono di Leonora alla Provvidenza Divina. Ora il canto sommesso e implorante si intreccia alle litanie che provengono dalla chiesa “ah, que’ sublimi cantici dell’organo i concenti, che come incenso ascendono a Dio sui firmamenti, ispirano a quest’alma fede, speranza e calma” accompagnato dall'organo e dal coro fuori scena. Una breve transizione di recitativo porta alla ripresa del tema principale in maggiore: sfogato con ancor maggiore passione e slancio lirico, quasi trasfiguaro in una sorta di estasi mistica, “non mi lasciar, soccorrimi, pietà Signor, pietà. Deh non mi abbandonar, pietà di me Signor”, stavolta, oltre al tremolo degli archi si inserisce il canto dei frati, quasi di contrappunto a Leonora.

Grandi protagoniste delle scene liriche negli anni '50, e interpreti celebrate del ruolo, due cantanti tra loro diversissime per timbro, temperamento e approccio al personaggio: Renata Tebaldi e Leyla Gencer. Entrambe si propongono di affrancare Leonora (e Verdi in genere) da quell'interpretazione che ancora risentiva di certa estetica verista, tutta volta a cercare un'artificiosa drammaticità nel canto del personaggio verdiano, risolvendone, spesso, la purezza e nobiltà vocale, in un declamato dalle tinte forti, corrispondente, certo, al gusto dell'epoca, ma forzate o inadeguato al tipo di scrittura. La Tebaldi impone, innanzitutto, una lettura estremamente lirica, morbida, delicata. Il recitativo iniziale è risolto nel pieno rispetto dei segni verdiani (come al solico ricchissimi e dettagliati) senza l'ombra di forzature o eccessi, sino a sfociare naturalmente nell'aria: ugualmente risolta nell'assoluto rispetto della scrittura. Si ascolti il fraseggio morbido che denota una piena padronanza del legato, o le forcelle eseguite con perfezione letterale che movimentano il canto senza mai forzarlo. Qualche lieve durezza nel SI acuto è ben poca cosa rispetto allo sfogo vibrante eppur misuratissimo del “deh non mi abbandonar”, tenuto in un unica frase perfettamente legata e sostenuta da un controllo di fiato eccezionale, in cui si stagliano i LA acuti, come scolpiti nel marmo. Il timbro puro e cristallino della Tebaldi, disegna una Leonora fragile e angelica, vittima degli eventi più che di sè stessa, penitente più che peccatrice. Diversissimo il personaggio delineato dalla Gencer: molto più drammatico e caricato. Per usare una metafora manzoniana si potrebbe dire che ricorda più la Monaca di Monza, mentre la Tebaldi assomiglia a Lucia. Fin dal recitativo emerge la diversità dell'approccio: innanzitutto i segni verdiani vengono rispettati meno fedelmente, forcelle, legati piani o forti, vengono rivisiti in funzione dell'interpretazione (risentendo, certamente, delle scelte in tal senso, del concertatore: ben identificabili in tutto il resto dell'esecuzione). La Gencer indulge in qualche eccesso veristeggiante di troppo (un declamato ai confini del parlato, in diversi momenti) e mostra alcuni limiti vocali: nell'acuto e nelle note di passaggio (il SI e i LA sono viziati) e nei bassi fa la sua comparsa qualche suono gutturale. In compenso il centro è ricco e corposo e regge assai bene l'arcata melodica verdiana. Purtroppo l'eccesso drammatico compromette in parte la tenuta dei fiati: il “deh non m'abbandonar” non rispetta la legatura prescritta e viene interrotto nel suo continuum da un brutto respiro che spezza la frase proprio nel mezzo. Splendido però il controllo nell'emissione, la corposità della stessa e il calore del timbro (non angelicato, ma fieramente drammatico e ricchissimo di pathos tragico). Due interpretazioni differenti dunque, entrambe valide, anche se la prima appare più corretta e consona alla scrittura verdiana. Spiace, tuttavia, che accanto ad esse - almeno nelle performance da me ascoltate - vi sia la presenza di due tenori che per gusto, il primo, e carenze tecniche, il secondo, restano estranei alla poetica dell'opera: Del Monaco e Di Stefano. In particolare il secondo è, come Don Alvaro, sconfortante esempio di plateale malcanto: superficiale, approssimativo, tecnicamente sprovveduto, in evidenti difficoltà negli acuti (apertissimi) e del tutto alieno all'autentica nobiltà dell'accento verdiano.


Gli ascolti

Verdi - La forza del destino


Atto II

Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli

1953 - Renata Tebaldi (con Cesare Siepi & Renato Capecchi - dir. Dimitri Mitropoulos - Maggio Musicale, Firenze)

1957 - Leyla Gencer (con Cesare Siepi & Enrico Campi - dir. Antonino Votto - Tournée scaligera a Colonia)

1960 - Renata Tebaldi (con Jerome Hines & Salvatore Baccaloni - dir. Thomas Schippers - Metropolitan, New York)


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martedì 20 ottobre 2009

Cartoline orobiche

Il nostro Duprez è andato a Bergamo per assistere all'Elisir d'amore ivi rappresentato. Non ha ritenuto di produrre una recensione, avendo ascoltato solo la prima metà dello spettacolo. Riteniamo comunque le sue impressioni d'ascolto altamente interessanti e pienamente degne di essere divulgate.

L'Elisir bergamasco è stato qualcosa di raccapricciante: dopo il primo atto mi son chiesto "perchè sopportare oltre?" così sono uscito e sono andato a mangiare un cartoccio di castagne in piazza (domenica, infatti, c'era una specie di fiera con braci scoppiettanti)... Che dire dello spettacolo? Cantanti indefinibili: Nemorino ha annunciato la sua indisposizione, ma ha cantato lo stesso...in stile Casciarri (Talbo Cavaliero nella passata stagione in Bergamo, NdD)! Adina era spesso stonata come una campana e in palese difficoltà nelle, pur modeste, esigenze della partitura. Belcore strillava e Dulcamara parlava (con tutto l'armamentario di caccole, aggiunte, volgarità e vezzi che parevano esagerate già negli anni '50: tanto che al confronto Corena pare un fine dicitore, un sobrio Bruscantini). Direttore d'orchestra pesante come un capobanda (che oltretutto strepitava e canticchiava, coprendo spesso i cantanti e anticipandone ad alta voce le entrate) e tagli a profusione (tutti i da capo). Regia tutta sbagliata: vicenda riambientata in un giardino delizioso nella campagna inglese dei primi '700, con damine, cicisbei, nobiluomini etc...nessun contadino, nessun rustico, nessun sempliciotto (immagina l'imbarazzo di "Udite o rustici" mentre di fronte vi è un pubblico di cavalieri e nobili con parrucche incipriate, spadine e abiti riccamente decorati - peraltro Dulcamara arriva con seguito di due donzelle semivestite e due moretti, coi quali si esibisce in coreografie degne da musical: mossette, balletti, trenini...) Insomma: un orrore! E pensa che 'sta roba va in tour in Giappone! Volevo recensire, ma non valeva la pena.....

L’elisir d’amore
di GAETANO DONIZETTI
Melodramma in due atti


Domenica 18 ottobre ore 15.30

Interpreti principali: Linda Campanella, Matteo Peirone, Ivan Magrì, Mario Cassi, Filippo Morace, Leonardo Galeazzi, Diana Mian

Direttore: Stefano Montanari
Regia: Francesco Bellotto
Scene: Angelo Sala
Costumi: Cristina Aceti
Orchestra e coro del Bergamo Musica Festival Gaetano Donizetti
Maestro del Coro Fabio Tartari

Nuovo allestimento in coproduzione con Konzerthaus-Tokio
Produzione Teatro “G. Donizetti” di Bergamo, Azienda Teatro del Giglio di Lucca




Gli ascolti

Donizetti - L'elisir d'amore


Atto II

Una furtiva lagrima - Hipólito Lázaro (1926)

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domenica 18 ottobre 2009

Mese Verdiano VIII. Firenze: "Recondita Armonia" - Una trilogia... (im)popolare

Lo scorso anno il Teatro Comunale di Firenze, sfruttando le celebrazioni pucciniane, ebbe la sagace idea di mettere in scena tre opere ed un balletto nel mese di ottobre allo scopo di fronteggiare la crisi aprendo orgogliosamente tutte le sere anche per attirare nuovi melomani, turisti e semplici curiosi al mondo del melodramma, fornendo loro un programma appetibile e dalla connotazione nazional popolare a prezzi ovviamente contenuti per essere accessibili.
E fece centro!
Il pubblico arrivò a frotte, gli spettacoli che poggiavano sulle spalle di cast giovani nel caso di “Bohème” e di conclamati interpreti, Dessì e Berti in “Tosca” e Armiliato e Cornetti in “Cavalleria Rusticana”, omaggio al Verismo, in allestimenti tradizionalissimi, ma azzeccati (soprattutto “Bohème” e “Cavalleria”) affidati ad un solo regista.
Quest’anno si è deciso di festeggiare il Verdi della collaudata “Trilogia popolare” (“Traviata”, “Trovatore” e “Rigoletto”) in edizioni assolutamente fedeli allo spartito per quanto riguarda l’apertura pressocchè totale di tutti i tagli, il rispetto delle puntature di tradizione ed affidando la regia al veterano Franco Ripa di Meana.

I tre titoli certo non mancavano dal palcoscenico fiorentino da molto, ma per un teatro, che si sta sforzando di diventare di repertorio, mantenendo però l’aura di riscoperta e novità non è affatto male.
Certo si apprezza lo sforzo artistico, si ammira la disponibilità delle bacchette e del regista, magari si fa apprezzare la professionalità dei cantanti e quindi in generale, e se osserviamo la risposta del pubblico, la scommessa è stata vinta anche quest’anno…eppure qualcosa non è andato a buon fine rispetto alla scorsa edizione.
Certo, se si cercano finezze filologiche con la giusta agogica, rispetto dei segni d’espressione ed interpreti ideali, siamo nel Festival sbagliato!

“Il Trovatore” viene tradotto scenicamente in una dimensione onirica in cui le pareti blu notte decorate con della candida boiserie e luce radente fanno da sfondo alle temperie emotive dei cinque protagonisti.
Solo tre aperture, una finestra, una porta ed un camino in posizione centrale mentre in alto pende capovolto e minaccioso il modellino di due castelli che si fronteggiano, chiaro simbolo di un potere e di una guerra che dominano sulle vite di tutti.
Molte le soluzioni sceniche e registiche interessanti: sul proscenio prima che si sollevi la tela due bambini litigano furiosamente, per poi riappacificarsi e allontanarsi guardandosi, il piccolo bosco dove si rifugia Leonora in “Tacea la notte placida”, la luna enorme, che incombe placida e mostruosa sul III e IV atto e di cui Leonora sembra esserne una personificazione terrena, accompagnati, purtroppo, da momenti imbarazzanti come Manrico che sbuca dal caminetto dopo “Deserto sulla terra”, Azucena travestita da contadina ucraina e dotata di poteri pirocinetici, le feritoie a forma di croce del convento che ricordano le costruzioni Lego, citazionismo a go-go del plurisaccheggiato duo Ronconi-Pizzi, staticità sia del coro sia dei cantanti che sfiora la noia.
Vocalmente, si sa, “Il Trovatore” è opera micidiale per le esigenze che chiede in fatto di estensione, legato, accento, colorature, espressioni e timbri; peccato purtroppo per l’indifferenza dimostrata nell’assemblare il cast fiorentino, che già sulla carta dimostrava poco o nulla avesse da spartire con le esigenze della scrittura vocale verdiana.
Il Manrico di Valter Borin cerca di disimpegnarsi lottando con una voce purtroppo piccola, quasi inudibile e con parecchi problemi di intonazione, di emissione e di legato.
La sua sortita fuori scena è funestata dall’eccessivo vibrato, e nel terzetto successivo sparisce letteralmente inghiottito dalle voci dei suoi colleghi.
Si udiva, finalmente e soltanto, nel II atto durante il colloquio con Azucena, mentre nel III l’ “Ah si ben mio” risultava frammentato in suoni incapaci di saldarsi tra loro, per non parlare di una “Pira” confusa tra le voci del coro, Do di tradizione inclusi.
Il fraseggiatore è, purtroppo, manierato e sovente inespressivo.
Il Conte di Luna è personaggio sfaccettato e sfuggente, in cui alla devastante ferocia deve corrispondere altrettanta araldica nobiltà, allo spirito guerriero si deve accompagnare un animo romatico e indomito; qualità che evidentemente il baritono Juan Jesús Rodríguez, già deludente Enrico della “Lucia di Lammermoor” della trascorsa stagione, non condivide affatto.
Non una sottigliezza, non una sfumatura, non un accento, il canto di Rodríguez si distingueva solo per cospicuo volume e per ruvidezza del timbro, ma nulla, non una frase, non un aria sublime come “Il balen del suo sorriso” lo smuovevano dalla sua emissione tutta in fortissimo e dalla disarmante monotonia interpretativa.
Ma “ricchi premi e cotillons” se confrontato con la Azucena di Anna Smirnova!
Già interprete funesta di Eboli e Amneris alla Scala, ora ci riprova con un personaggio “monstre” e anche stavolta mal ce ne incolse!
Parte bene con uno “Stride la vampa” fraseggiato con ansia e in cui può far valere un registro centrale rigoglioso ed un accenno di trillo, ma appena la tessitura si alza e soprattutto in “Condotta ell’era in ceppi” iniziano le malcelate magagne:
La voce risulta completamente intubata, gli acuti diventano strazianti o fissi, il registro grave (quanto pesano quelle sciabolate in basso!) sconfina con un parlato molesto, per non parlare del Do previsto da Verdi nella cadenza della ripresa della frase “Tu la spremi dal mio cor” che non è una nota, ma somiglia allo stridore delle unghie sulla lavagna, accompagnato dal vociferare del pubblico.
Per non parlare di cosa si inventa in frasi come “E tu non m’odi, o Manrico, o figlio mio?” in cui sfiora il grottesco, oppure nel fraseggio narcolettico del IV atto che termina con un “Sei vendicata, o ma…”, frase-climax di incisività scultorea, in cui la voce sull’acuto si spezza prima di terminare la parola. Ormai anche un innocente si bem è diventato un problema per la Smirnova, che in natura sarebbe stata un soprano.
Se la Cossotto veniva accusata di essere eccessivamente verista, la Smirnova, chiedo, cos’è?
Kristin Lewis in tutto questo rappresenta un'oasi di pace.
Il timbro ambrato e naturalmente seducente si accompagna ad un fraseggio sovente fragile e dolcissimo che esalta la lucida e romanticissima forza del personaggio di Leonora.
L’aria di sortita e la seguente cabaletta riempiono la sala di languore e sono accentate con grande eleganza, tutta la scena del convento ed il successivo intervento al III atto si colorano di grande intensità.
Mi piacerebbe però che la Lewis, sicuramente dotata, curasse meglio l’emissione che risulta tendenzialmente ingolata, e la coloratura che purtroppo non suona granita, e c’è il sospetto che si inventi buona parte delle agilità e dei segni espressivi senza badare troppo alla partitura, così da compromettere in parte l’andamento di “D’amor sull’ali rosee” e della complessa “Tu vedrai che amore in terra” in cui all’attacco la voce si spezza e le agilità si perdono in suoni discutibili.
Ottimo, invece, Rafal Siwek il cui Ferrando tonante e tenebroso possiede voce di grande volume, accento attento e misurato, qualche occasionale calo nella tenuta degli acuti, ed ha il privilegio di infilzare Manrico nel finale.
Il direttore Zanetti legge il “Trovatore” come partitura di forti contrasti, giocando sui volumi orchestrali e sull’agogica dei tempi.
Se il suono soprattutto nei primi due atti può risultare secco, quando in scena c’è Leonora l’orchestra si ammorbidisce e si colora di tinte notturne e calorose, come è efficace l’inizio corale del secondo atto di rapinosa brillantezza, ma il finale del III e tutto il quarto atto falliscono purtroppo perdendosi in suoni grevi ed in tempi letargici.

Verdi si sa ha le spalle larghe e può reggere tutto, tanto c’è la musica che redime ogni cosa sia nel caso di una scena abbastanza punitiva e di una regia sovente discutibile.
Palcoscenico praticamente vuoto nel “Rigoletto”, immerso perennemente nelle tenebre più cupe in cui solo tre elementi formano il gioco scenico: una automobile d’epoca, probabilmente anni ’30, un muro nero semovente e la casetta di Gilda simile ad una uccelliera su una palafitta.
Fin qui nulla di traumatizzante o estremo, anzi di fronte alla povertà scenica ci sia aspetterebbe una regia attenta alla recitazione, una lettura dalle idee audaci, o qualcosa che faccia deflagrare il non detto e le tensioni accumulate.
Macchè!
Quando si alza il sipario la figlia di Monterone si aggira nuda e disperata sulla scena fino a quando alla fine del preludio orchestrale verrà coperta da un drappo rosso e data alle voglie dell’impellicciato e volgare Duca da dei cortigiani armati di frustino e somiglianti a coloro che scesero nelle Americhe dalla “Mayflower”.
Rigoletto ha un abito che ne rappresenta la doppiezza, metà colorato, metà nero e dotato di vere protesi che verranno tolte dai cortigiani per sbeffeggiarlo durante l’amplesso del Duca (in abiti stavolta cinquecenteschi) con Gilda.
Ultimo atto ambientato sulla poppa di una piccola barca arrugginita in cui Maddalena, in abiti elisabettiani ha un rapporto incestuoso col fratello.
Va bene prosciugare il palcoscenico dai riferimenti tradizionali, va benissimo rendere tutto atemporale, va benissimo conciliare tradizione e innovaziona, ma se nel I atto siamo in un quartiere malfamato vagamente moderno, nel secondo siamo nel 1600 e nel III a metà strada, ma in Inghilterra, qual è la coerenza logica che si sta perseguendo?
In fondo si tratta di un allestimento tutto sommato tradizionale e innocuo senza tensione narrativa e con soltanto un accenno di scavo psicologico.
In scena non fanno fatica ad emergere le prove di Alberto Gazale e Desirée Rancatore.
Alberto Gazale si presenta nel ruolo del titolo e lo fa benissimo;
presenza scenica notevolissima, nonostante qualche gesto manierato che non infastidisce la resa del personaggio, il baritono possiede una voce potente e ben proiettata, dalle screziature bronzee, ma omogenea e timbrata soprattutto al centro e nei gravi, riesce a travolgere la platea attraverso un fraseggio impetuoso ed elettrizzante.
Resta il problema degli acuti e delle puntature; i Sol e le puntature al La bem risultano purtroppo fissi o addirittura sforzati, il gusto è imbevuto fin troppo da una caratterizzazione verista estranea al melodramma verdiano, che si ripercuote sull’uso della respirazione, e nell’interpretazione, gli echi di Bruson e Nucci risultano fin troppo evidenti.
Non che sia un male, ma personalmente preferirei ascoltare il Rigoletto come lo intenderebbe la sensibilità artistica di Gazale, non filtrata attraverso i suoi modelli.
La Rancatore sarebbe Gilda credibilissima e soave nel cantabile, interprete delicata e volitiva, ma il timbro risulta asprigno, le note di passaggio sono miagolii fissi alla maniera della Fleming o della Bartoli, la coloratura (pochina per Gilda) è sufficiente, ma non granitica, acuti e sovracuti presi con fin troppa cautela.
Riesce anche a ingraziarsi il pubblico con simpatia dopo che, terminato “Caro nome”, per ricevere gli applausi calorosi è costretta a superare il muro che il regista le ha piazzato davanti nascondendola alla vista, emergendo ironicamente prima con la mano e successivamente arrivando sorridente al proscenio per ringraziare.
Bis a furor di popolo per la “Vendetta”!
James Valenti, il Duca, è tanto bello da guardare, peccato voglia anche cantare.
A parte la facile ironia, si tratta di un giovane tenore spigliato e simpatico, ma dalla voce talmente fragile ed evanescente, sostenuta per giunta da tecnica di carta velina, che non saprei sinceramente in che tipo di repertorio collocare se non in ruoli tenorili di contorno.
Ranzani dirige un “Rigoletto” in cui si bilanciano perfettamente sia il lato grottesco e caustico, sia il lato più tragico e toccante, lasciando che l’orchestra indugi in suoni volutamente aspri e incupiti, forse a discapito di una certa soavità, ma di sicura tensione narrativa soprattutto nei colloqui Rigoletto-Gilda, in cui il senso di minaccia è ben palpabile, sia in un terzo atto asciutto e al calor bianco.

“La Traviata” risulta tra le tre produzioni l’allestimento più riuscito.
Violetta durante il preludio si aggira inerme e malata osservando con angoscia scene di vita quotidiana e borghese che si susseguono nella loro “normalità” intorno a lei, anelando a quella condizione così calda e familiare, ma sapendo in cuor suo che quel mondo non può appartenerle.
Tre giganteschi drappi rossi ed un enorme divano ricolmo di cortigiane la divideranno dal mondo borghese e la catapulteranno nello squallore della sua condizione.
Ovviamente citazioni da Visconti; lancio delle scarpette durante il “Sempre libera”, zingarelle e matador interpretati dagli stessi invitati al banchetto di Flora etc., eppure le scene formate da pareti verdi a fiori su cui si aprono fessure e nuovi ambienti, funzionano e ci sono più idee nonostante la staticità del coro e Violetta e Alfredo costretti a fare gli equilibristi durante il “Brindisi”.
Buona interprete la Rost, molto intensa e struggente e addirittura cinica al primo atto, più a suo agio nei momenti più marcatamente drammatici, come il duetto del secondo atto e tutto il terzo, ma la voce è praticamente usurata, parecchio malferma nonostante una tecnica che le permette di gestirla ed una buona tenuta della respirazione.
Purtroppo dal La in su la voce è affetta da vibrato, risultando secca e acida, le note certo le prende e ci sono tutte, ma non sono per nulla facili ed i sovracuti, i do diesis ed il MIb sono ghermiti, ma che fatica sostenerli!
Saimir Pirgu nel ruolo di Alfredo, ha dalla sua parte un timbro dolce e squisito, ma è una voce leggerissima, carina, educata, che quando deve smorzare o sfumare un suono tramuta la propria linea di canto in un falsetto.
Personalità scenica discreta, ma sicuramente non debordante e fraseggio abbastanza calligrafico.
Si impone felicemente il papà Germont di Luca Salsi che, rispetto all’ascolto radiofonico ha felicemente sorpreso.
Voce calda e pastosa, timbrata su tutta la gamma, buona proiezione nonostante qualche acuto non a fuoco, brilla sia per il vigore monolitico con cui affronta il dialogo con Violetta, sia la disperazione paterna degli interventi con Alfredo in cui grazie al fraseggio vario e addolcito, che investe sia “Di Provenza il mar, il suol” che la successiva cabaletta “No, non udrai rimproveri” ha modo di far emergere l’intensità composta della propria interpretazione.
Direzione di Callegari che sembra più una colonna sonora parecchio impersonale e sbiadita, con il volume dei finali di atto a sommergere tutto e tutti in maniera insensata.
Parti di fianco in tutte le opere tra il mediocre ed il discreto, coro perfettamente a fuoco e eccellente come sempre diretto da Piero Monti, grande successo di pubblico e qualche contestazione nei confronti del regista.

(Recite del 9-10-11/10/2009)

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venerdì 16 ottobre 2009

Idomeneo alla Scala

Ripresa scaligera di Idomeneo, nell’allestimento di L.Bondy, sotto la direzione del maestro M.W.Chung. Applausi abbozzati a “Fuor del mar” e a “D’Oreste e d’Ajace” durante una recita fiacca e noiosa, sonori solo al finale, dove i signori artisti sono stati tutti ringraziati cordialmente ed i fan di alcuni interpreti hanno espresso il loro affetto personale per alcuni protagonisti. Ma che questo sia stato un successo non mi sento di dirvelo, perché questa produzione di Idomeneo non ha convinto quasi nessuno. Il punto è che sul palco non si canta e per giunta si dirige senza polso. E gli udenti ( presenti anche tra coloro che non contestano mai), che amano l’opera ed il canto e che di rappresentazioni di questo titolo ne hanno sentite più di una, tornano a casa delusi ed annoiati.

Potrei sintetizzarvi come sono andate le cose in due righe, dicendovi che dei protagonisti ha cantato un po’ la sola Carmela Remigio, con modi ed esiti non certo indiscutibili. E che il maestro Chung è stato corretto, garbato, preciso ma comunque ha mancato la cifra tragica dell’opera, dirigendo come si trattasse di un racconto salottiero, di affetti, sentimenti ed introspezione psicologica larmoyant. Tanto che l’opera, complice un cast inadeguato, non è decollata mai, salvo qualche bagliore nei momenti di grande effetto, i tuoni , la Voce divina, la presenza del coro.
Il signor Bondy, su ispirazione del teatro, pare, dopo il “trionfo” newyorkese (fischiatissima la recente Tosca, che ha preso il posto di quella zeffirelliana), ha ben pensato di ripulire la produzione da tutti gli obbrobri che originariamente la caratterizzavano, il mostro viscido, il cubo, i cadaveri nei sacchi trascinati via etc. In parecchi hanno gradito la cosa, posto che tolti gli obbrobri, in scena non è rimasto quasi niente! Una marina alla Fattori come fondale, una lingua di sabbia, la sporcizia sparsa qua e là nella seconda parte, i coristi alla cretese anni ‘40 ( e tra il coro della tragedia e popolo della rivoluzione c’è semplicemente l’abisso, anche in un linguaggio metaforico), i personaggi minimizzati negli abiti da ogni loro dimensione statuaria e classicheggiante. Tra l’altro è comparsa, ben visibile, la banda fuori scena, con tanto di monitor, sul lato destro del fondale, non so se per volontà o accidente…. Di bello il solo costume di Elettra, quello si! A mio avviso, tanti soldi gettati per nulla.

Ritornando al maestro, che tante buone cose ci ha fatto sentire nella sua carriera, ha diretto senza dir molto, preoccupato solo di essere rispettoso e…. tradizionale. Ma della meraviglia di questa partitura mozartiana ci ha reso poco. In primis, non abbiamo sentito la grandiosità dell’orchestrala di Idomeneo, ritenuto da tutti un unicum per Mozart. La sua rivisitazione della tragedia e del mito, inoltre, è parsa del tutto letteraria ed oleografica, completamente distaccata, quasi che Mozart e Varesco facessero finta alle prese con la potenza del dramma classico. I moti dell’animo dei protagonisti, i loro tormenti interiori, il confronto tra l’uomo fallace e fragile e la forza degli Dei sono resi in partitura a forti tinte, che qui non abbiamo colto se non occasionalmente. La varietà delle situazioni, delle atmosfere e degli stati d’animo, poi, hanno perfetta e compiuta resa nel canto come in orchestra, e qui sta il genio dell’inventiva mozartiana, ricca e sontuosa come non mai. Ma ieri sera di varietà ve ne è stata poca, invece, sia nell’accompagnamento delle arie che negli assiemi ( penso alla scena che precede il finale ). Di qui la freddezza del pubblico, che ha ben diversamente accolto le prove di Harding, e prima ancora di Muti.

Il palco, del resto, ha collaborato poco. Ciò che accade in scena è poco coinvolgente ed emozionante, perché la scelta del cast non è stata felice.
La signora Remigio abborda parti di soprano tragico mozartiano, di nuovo con esito ambiguo. Lascia Donna Anna, perché immagino troppo acuta, e veste ora i panni di Elettra. E’vero che gli acuti le mancano, di fatto, solo nell’ultima scena, ma il tonnellaggio vocale resta insufficiente. O meglio, si sforza di averlo nella scena iniziale come in quella finale a patto di cantare con una voce che non è la sua, di allargare i suoni e di esagerare nella concitazione, anche scenica. A tratti, complice Bondy, pareva più la Vitti di “La ragazza con la pistola”, che la rivisitazione neoclassica della figlia del re Agamennone, cui spetta maggiore compostezza anche d’accento. Ma si sa che quando si manca di peso vocale vero ( perché essere sonori non significa necessariamente avere una voce importante ) , e non si può dar senso in souplesse a ciò che si canta, si scade inevitabilmente nel gusto. Superata l’entrata “Estinto è Idomeneo?...Tutte nel cor vi sento”, dove è stata obbligata a rotolarsi e a contorcersi oltre ogni misura e senso dalla regia, la signora Remigio ha finalmente potuto cantare con la sua vera voce, che è quella dolce, piena e piuttosto lirica di Ilia. Non molto adatta al personaggio, dunque. In questo modo è arrivata sino al finale, “D’Oreste e d’Ajace”, dove ha di nuovo ripreso la cifra dell’entrata, questa volta con maggiore adeguatezza al testo e qualche eccesso. Ha scontato una zona acuta che non gira nelle salite picchettate, ma comunque ha funzionato ed ha ricevuto il solo applauso meritato della serata. Ma siamo stati di fronte ad una parte di Elettra, non ad un personaggio veramente completo. Comunque è stata la migliore in campo.

Per il resto mi pare degno di menzione solo l’aplomb scenico della signora Polverelli ( Idamante ), che ha cantato a tratti, con una voce che ci sarebbe anche ma che troppo spesso è fuor di posto. Il suono non è bello, anche a detta di tutti quelli con cui ho avuto modo di parlare, troppo spesso scomposto e acidulo. Quindi le questioni vocali sopravanzano ogni intento interpretativo, che di certo non le manca. Il signor Croft è stato inesistente. Tenore dalla voce né bella né brutta, canta falsettando quasi sempre, con dizione poco chiara, di forte accento anglosassone. Alla seconda frase dell’ingresso ha iniziato a “grattare” prima in basso e poi anche al centro. A metà di “Fuor del mar” la voce non c’era quasi più, tuttavia ha ricevuto qualche applauso, immagino perché il pubblico ha riconosciuto il pezzo notissimo. Gli è mancato il fraseggio, nei recitativi come nelle aria. Il sovrano tormento del personaggio, le nuances che caratterizzano la scrittura vocale sono volate via tra falsetti, suoni senza appoggio ed altre cattive maniere d’oltre Manica. Ma lo sapevamo già dalla trasmissione televisiva di questa estate da Aix en Provence, il fischiatissimo allestimento d Idomeneo firmato da O. Py.
Commentare la prova di Patrizia Ciofi mi pare tempo perso. Ha un gruppetto di fans che la accompagna e la sorregge, e così tira avanti. La musicalità non compensa la messe di suoni fissi, afonoidi e stonacchiati che compongono il suo canto. In un modo dove si canta davvero, la prima Cretese sarebbe il suo ruolo, così come la signora Remigio sarebbe Ilia.
Da spavento l’Arbace di T.Muzek: tanto valeva tagliare anche seconda aria.
Noi siamo certamente incontentabili e criticoni, ma quando il pubblico è così poco caloroso forse una ragione ci sarà. Tra un po' mi sa che ci dovremo mettere a ritirar fuori pure la serie B di Mozart per ricordarci come va cantato...


Gli ascolti

Mozart - Idomeneo


Atto I

Estinto è Idomeneo?...Tutte nel cor vi sento - Joan Sutherland (1979)

Atto III

Solitudini amiche...Zeffiretti lusinghieri - Margherita Rinaldi (1968), Mariella Devia (1997)

O smania! O furie! O disperata Elettra...D'Oreste, d'Ajace - Joan Sutherland (1979)

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