Anche quando in alto arrivavano le urla e gli strilli dovuti non già al possesso della singola nota (la storia del canto è piena di mezzosoprani che disponevano di si nat e do ben più facili di quelli dei soprani) ma alla difficoltà di reggere la schietta tessitura sopranile la Bumbry sapeva perfettamente trovare l’accento ed il colore giusto della voce. Voce che non era tanta (ricordo un’Amneris scaligera più risolta con l’accento che con il volume) e neppure bellissima, ma particolare per timbro e femminilissima. Di una femminilità opposta alla Tebaldi ovvero aggressiva e di dichiarato sapore erotico.
Quindi abbiamo una donna Leonora che arriva al convento sostenuta da un animoso accompagnamento orchestrale, animosa a sua volta nonostante in basso la voce sia poco ampia ed in alto diciamo sopra il sol acuto (ma talvolta anche sul fa) compaiano suoni duri e spinti. Siccome la scrittura occhieggia al soprano Falcon i problemi sono minori rispetto agli approcci con Aida. E’ una Leonora di Calatrava animosa e aggressiva. Basta sentire le frasi del recitativo. Lo stesso accade nell’aria dove la Bumbry segue gli schemi interpretativi dei cosiddetti soprani di forza per cui se da un lato tralascia certe forcelle riesce, pur con i limiti del timbro, ad essere varia nell’accento. Le frasi “dell’organo i concenti etc” suonano ben differenti della travolgente chiusa “non mi lasciar soccorrimi” sino al “deh non m’abbandonar” dove il la diesis è un po’ tirato ma ripaga la tensione drammatica. E poi senza indulgere ad effetti da Mimì al convento nelle implorazioni finali riesce ad essere dolce e castigata.
Stranamente nelle battute di conversazione con fra’ Melitone la Bumbry emette suoni un po’ aperti al centro per simulare spavento e ansia. Poi sulle frasette “ma s'ei mi respingesse”, “fama pietoso il dice” è dolcissima e dolente. Ovvero fraseggia e rispetta perfino il “ppp” sul fa diesis acuto di “vergin m’assisti”.
All’incipit del duetto con il Guardiano prevale lo slancio e la tensione nella linea tradizionale ed inoppugnabile della donna disperata; ogni tanto (“all’inferno vi chiede”) compaiono anche suoni un po’ aperti e nasali. Quando arriva il racconto allucinato di donna Leonora, che rammenta la apparizione del padre la Bumbry monta in cattedra. In ogni frase impercettibilmente aumenta il volume, ma arrivata al “ di mio padre l’ombra innante” amplifica il pp previsto da Verdi solo su “padre” con un piano sull’intera frase. Tenuto conto dell’età e della carriera il si nat della “sua figlia a maledir” è, dopo un attacco non perfetto, sfolgorante. Pure sfolgorante la frase “Darmi a Dio”, che introduce la ripetizione della sezione. Inoltre la Bumbry è rispettosissima dei segni di accento rendendo il senso dell’ansia (di redenzione, di pentimento) che anima il personaggio.
Nell’invettiva "Se voi scacciate” qualche suono in basso suona aperto e l’accento può essere enfatico, ma nella zona centrale della voce la Bumbry ha uno slancio ed un mordente veramente trascinanti e al tempo stesso smorza a meraviglia il “mi toglierà”. Come pure sul “bontà divina” la Bumbry esegue una smorzatura. Effetto che se non mi sbaglio sfoggiava anche Anita Cerquetti.
In compenso nella sezione conclusiva la Bumbry esibisce uno dei suoi incidenti di percorso ossia si blocca prima di emettere il la acuto di “grazie” e neppure la coda del duetto è sotto il profilo vocale indenne da acuti un po’ sbiancati e spinti. Ovvio che le cose vadano meglio nella scrittura centrale della preghiera, salvo, per essere precisi un sol acuto non emesso bene, ma l’accento è quello della dolente e la voce riesce anche a sembrare bella e dolce. Caratteristiche che proprio non erano le salienti della grande Bumbry.
Alla metà degli anni ‘80 comparve a Bologna una ragazzona americana, Susan Dunn, classificata voce di soprano lirico spinto o addirittura drammatico. Dopo la parte di soprano della Messa da requiem affrontò quella ardua della duchessa Elena dei Vespri siciliani, in entrambi i casi sotto la guida di Riccardo Chailly e con grande successo. Successo che non si ripetè identico nell’aprile 1986 allorché la giovane ragazzona vestì i panni di Aida nell’omonima opera di Verdi. Dopo una Giovanna d’Arco sempre a Bologna non si ebbe in Italia e nel mondo più notizia. Rimangono poche documentazioni di quella che era una voce bellissima, di discreto volume e discreta capacità nell’esecuzione del canto di agilità senza essere un vero soprano spinto o quanto meno un soprano da Verdi.
Alla fine dell’ascolto qui proposto l’ascoltatore si renderà ben conto che il colore e l’accento sono quelli di Mimì o Butterfly, ruoli che la complessione del soprano e l’imperante impero della regia vietavano. Sarebbe stata più soprano drammatico in Donizetti e Bellini. Non per nulla Rodolfo Celletti l’aveva pensata protagonista di Maria di Rohan, che, sia detto, è scritta per la Tadolini e rimaneggiata per la Grisi, una delle meno drammatiche del compositore bergamasco.
Sempre alla fine dell’ascolto sarà evidente come, nonostante bel timbro e musicalità, la Stella, la Ligabue, senza disporre dei mezzi sontuosi e straordinari della Tebaldi e della Cerquetti, rispondano meglio al concetto di canto ed accento verdiano.
Sin dalle prime battute “Son giunta” è chiaro che la cantante deve spingere per trovare il volume e l’ampiezza del soprano da Verdi. Canta bene e senza scomporsi tutte le frasi contro basse che precedono l’Allegro assai moderato, ma arrivata al “ff” sul fa diesis di “ciel" non realizza quanto richiesto da Verdi. Per forza, stava già cantando forte! Come il fatto di cantare forte o quasi rende un poco fibroso e spinto il si nat della chiusa del recitativo. L’aria è staccata a tempo sostenuto, non sentiamo un suono brutto in tutta l’esecuzione, ma tutte le forcelle previste sono dimenticate per una dinamica che sta sul mezzo forte. Quel che è strano per un soprano lirico è che la stessa non rispetti, ad esempio, il piano sul sol di “in queste solitudini”. Insomma una esecuzione molto piatta. La piattezza in Verdi è un lusso che possono permettersi voci assolutamente privilegiate per volume e colore tipo Ponselle o Tebaldi. Quando, poi, la Dunn tenta l’esecuzione di due forcelle, esattamente quella sul “pietà, pietà di me” e quella successiva “come incenso ascendono a Dio sui firmamenti”, inserisce un’antiestetica ripresa di fiato, che rovina l’effetto previsto dall’autore. A bilanciare la piattezza di fondo compaiono qualche colore su “pietà di me Signor”, che precede il coro dei conventuali, e il dolcissimo “pietà Signor” che chiude la sezione.
Nell’incontro con il padre Guardiano la Dunn canta. Nel senso che si limita a cantare con voce bella, eccellente dizione, i si naturali sistematicamente fissi e calanti. Si potrebbe facilmente dire che quelli della Cerquetti o della Tebaldi fossero peggio. Può anche darsi, ma anche il timbro, l’accento erano ben altro. Inoltre la Dunn non si inventa nulla come accento ossia non è né spaventata né attonita come voci reputate non verdiane quali la Ligabue o la Kabaiwanska sapevano essere. Ripeto canta ed evidenzia come la parte sia ben al di sopra delle sue possibilità. Per altro fu questa la stessa opinione dell’Aida scaligera dove la Dunn prese con un fiato ed acciaccatura il do dei cieli azzurri. Nemmeno fosse stato un mi bemolle!
Il primo momento di accento è la frasetta ”salvati all’ombra”, accento compromesso dalla fatica di cantare l’omofonia piano e con un bel fiato abusivo. Inoltre pur non emettendo suoni brutti gli attacchi in zona grave sui re o sui do bassi non sono certo facili e raggianti. Ovvio che un soprano da Boheme esegua bene il morendo della chiusa sul passaggio sol-fa acuto.
E siamo alla chiusa del duetto. La Dunn attacca come un buon soprano che maneggiasse le “Arpe angeliche”. Poi arriva il forte di “plaudite o cori angelici" che prevede un “f” ovvero che il soprano in attesa di monacarsi abbia uno slancio, un impeto che renda al pubblico pentimento e conversione. Invece non accade nulla. La Dunn continua a cantare bene, salvo gli acuti che sono fissi e con problemi di intonazione.
Ovvio che l’esecuzione della Vergine degli Angeli sia facile, dolce e lirica. Ma volete mettere il timbro sontuoso e di autentica peccatrice redenta che sfoggia, tenuta a freno dalla scrittura vocale e dalla situazione drammatica la signora Maria Caniglia.
Siamo nella più completa declinazione del Verdi liricizzato.
Non preannuncio niente, ma come chiusura di “ciclo” ci saranno stralci di Donne Leonore, di cui non disponiamo e che non hanno affrontato l’opera. Almeno un paio, le solite, poi qualcuno commenterà, declinano un Verdi cantato a regola d’arte, ma con l’accento che compete al soprano da Verdi. Non ad una bella Mimì desiderosa di un “miniritiro” nell’approssimarsi della prima Comunione.
Nel 1989 fu Maria Chiara a rivestire i menzogneri panni virili della reietta dama di Vargas. All’epoca Maria Chiara era sulla cinquantina e calcava le scene da poco meno di venticinque anni. Non era il soprano drammatico richiesto dal ruolo e una parte cospicua della critica le rimproverava (non infondatamente) di non essere un’interprete ispirata e neppure una grande fraseggiatrice. A ciò si aggiunga lo scenario dell’Arena di Verona, luogo notoriamente favorevole propizio alle voci, specie in un’era che ignorava la microfonazione silente, della quale abbiamo oggi tanti “begli” esempi.
Nel recitativo d’entrata si percepisce soprattutto la fatica nel sostenere una tessitura bassa con improvvise impennate in fascia acuta. La cantante sceglie di enfatizzare il registro di petto, con il risultato di rendere un poco grottesche le frasi più tese (“del sangue di mio padre intrisa”) e di produrre, nel registro medio-alto, suoni malfermi (il si naturale che precede “non reggo a tant’ambascia”). All’attacco dell’arioso “Madre pietosa vergine”, complice la scrittura centrale e il tono maggiormente raccolto, la cantante riesce a reggere (quasi) senza fatica le lunghe frasi della scrittura verdiana, rispettando le indicazioni dinamiche e aggiungendone di proprie (il morendo su “perdona al mio PECCATO”, una frasetta che è tutta una poetica di contrizione e ipocrisia cattolica). All’attacco del grandioso passaggio “Deh non m’abbandonare” latita la “passione” prescritta dall’autore e i fiati non sono di congrua lunghezza, ma il tono dimesso e la bellezza della voce rendono comunque giustizia al personaggio, più che mai debole e in balia degli eventi. Discreto il la diesis acuto, specie per una voce che non ha mai brillato in questa fascia; qualche difficoltà emerge semmai sul fa diesis 4 di “non ricuserà, no”. Quando Leonora ode il canto interno dei frati si ripresentano difficoltà sui fa diesis 3 ribattuti (la Chiara scenderà meglio nelle ultime battute del brano), mentre la frase successiva è esemplare per morbidezza di emissione e per la smorzatura su “come incenso ascendono a DIO sui firmamenti”, spettacolare almeno quanto la filatura sul si centrale che chiude la pagina e che la cantante sostiene lungo il postludio orchestrale, guadagnandosi il meritato applauso del pubblico. Altra frase esemplare per puntualità d’accento “e l’oserò a quest’ora?”, in cui a esprimersi, più che la disperata pellegrina, è la nobildonna iberica preoccupata del proprio, ahilei fatalmente compromesso, buon nome.
Nobildonna ancora ben presente nel dialogo con frate Melitone, un caricato Domenico Trimarchi, efficace soprattutto in contrapposizione con una così sorvegliata e un poco arcigna protagonista.
Al duetto con il Padre Guardiano di Roberto Scandiuzzi (vera e robusta voce di basso, forse una delle ultime udite in questo ruolo, ma dall’emissione piuttosto sgraziata e interprete tutt’altro che vario e fantasioso) Leonora attacca con fatica le prime battute, di scrittura assai grave, “Infelice, delusa, reietta”, per ritrovare contegno e rotondità di suono a “che nel pianto prostratavi al piede”. La voce suona vuota all’attacco “Più tranquilla l’alma sento”, ma si rianima presto e si fa quasi vibrante alle parole “dei fantasmi lo spavento”. Nelle frasi seguenti il registro basso è più controllato rispetto all’incipit e nella salita all’acuto, sempre impietosa nello svelare eventuali “scalini” nella voce, la cantante riesce a mantenere l’emissione omogenea, almeno fino al la nat, perché il si acuto è maldestramente gridacchiato. Le frasi “a due” sono rette dalla Chiara con grande facilità, la voce è luminosa e dolcissima, il legato di alta qualità, anche se l’eloquenza è in debito di solennità e più pucciniana che autenticamente verdiana. Sempre problematici i si nat, decisamente fissi.
L’Andante mosso “Se voi scacciate questa pentita” ripropone le difficoltà nella gestione del registro grave, anche se stavolta la cantante riesce a controllarsi un poco di più e a chiudere con bello sfumato la non certo agevole frase “e fin le belve ne avran pietà”. La frase “Salvati all’ombra di questa croce” è resa, come indicato dal compositore, “sottovoce” ma risulta carente di quel mistero davvero soprannaturale che sapeva infonderle una cantante, di solito ritenuta poco espressiva, quale Maria Caniglia. Il cantabile “E’ questo il porto” vede la Chiara sfoggiare ancora una volta le proprie risorse migliori, a onta di la acuti un poco tirati (il migliore è quello che chiude la pagina), e ancora più favorevole al soprano è la chiusa del duetto “Tua grazia, o Dio, sorride alla rejetta”, in cui, se latita l’accento scolpito, la voce sfoggia una tale rotondità e lucentezza da risultare perfetta per la trasognata e “pentita” Leonora. Parte del merito spetta al direttore, Anton Guadagno, che agevola la cantante controllando scrupolosamente il volume orchestrale e omettendo una parte delle battute conclusive. Per inciso in tutto il quadro il maestro Guadagno, senza essere un virtuoso della bacchetta, sa bilanciare limiti e potenzialità degli interpreti (segnatamente della primadonna) rispettando il dettato dell’autore e soprattutto la cosiddetta tinta verdiana, indulgendo ad effetti un poco pacchiani solo nella Maledizione corale, comunque di grande effetto.
Per la Vergine degli Angeli non sono necessari commenti. Basta sentire come il pubblico areniano ne chieda a gran voce la ripetizione, ottenendola.
A cura di Domenico Donzelli, Gilbert-Louis Duprez, Antonio Tamburini
Gli ascolti
Verdi - La forza del destino
Atto II
Son giunta!...Madre, pietosa Vergine...Chi siete?...Più tranquilla l'alma sento...Se voi scacciate questa pentita...Sull'alba il piede all'eremo...Il santo nome di Dio Signore...La Vergine degli Angeli
1983 - Grace Bumbry (con Nicolai Ghiaurov & Enrico Fissore - dir. James Levine - Met, New York)
1988 - Susan Dunn (con Dimitri Kavrakos & Enrico Fissore - dir. James Conlon - Lyric Opera, Chicago)
1989 - Maria Chiara (con Roberto Scandiuzzi & Domenico Trimarchi - dir. Anton Guadagno - Arena di Verona)