La seconda parte del nostro doveroso omaggio a
Luigi Cherubini – nel 250° anniversario della nascita – non poteva che essere dedicato alla sua più celebre e celebrata composizione teatrale:
Médée. L’opera, progettata fin dal 1792 (ma poi temporaneamente abbandonata, a favore di
Eliza ou Le Mont Saint-Bernard), ebbe la sua prima rappresentazione il 13 marzo del 1797, al Théatre Feydeau di Parigi, con
Julie-Angélique Scio nel ruolo della protagonista e
Pierre Gaveaux in quello di Jason. L’accoglienza fu tiepida: del resto Cherubini si stava spingendo, forse, troppo “in là” rispetto alla sua epoca, richiedendo al pubblico un impegno, uno sfrzo e un'attenzione che non era ancora disposto a concedere. La
Médée in effetti risultava essere, alle orecchie di un pubblico abituato a tutt'altro, una creazione del tutto nuova, sfuggente e sconosciuta, un ibrido inclassificabile nella rigida regolamentazione delle leggi francesi che presiedevano il teatro, codificandolo in generi chiusi e all'apperenza incomunicabili tra loro.
Il soggetto classico, com'era la storia di Medea, di solito veniva destinato alle sontuose sale dell’Académie de Musique (non più Royale), il luogo, cioè, della tragedia coturnata di stampo racininano: trapiantarlo nel più agile e sciolto ambiente dell’opéra-comique, oltre a costituire una specie di azzardo, comportava necessari cambiamenti. Se da un lato si perdevano tutti quegli orpelli che soffocavano la tragedie-lyrique, le lungaggini, i ballets, le parti di mero décor, dall’altro si consentiva all’autore, liberato dalle ferree prescrizioni iposte dal genere, di sperimentare e concentrarsi sulla tensione drammatica e sul tessuto sinfonico dell’opera, quale elemento unificante ed espressivo, attraverso soluzioni complesse ed elaborate, anche a scapito della fluidità e dell’invenzione melodica. Fu questa la vera causa della relativa sfortuna di Cherubini: l’estrema raffinatezza orchestrale e la profondità della concezione sinfonica, venne scambiata – e succede anche oggi – per mancanza di ispirazione e incapacità di scrivere una melodia cantabile, e gli fu sempre rinfacciata (all’indomani di Lodoiska, il Journal de Paris sicrisse che “se da questa musica v’è qualcosa da desiderare, è un po’ più di canto che possa alleviare un po’ il pubblico dagli effetti orchestrali tanto moltiplicati”), tanto che il pubblico gli preferì autori più facili e immediati (seppure assai meno ispirati e impacciati nell’uso dell’orchestra). Médée non concede nulla al canto inteso come mero esibizionismo: gli episodi solistici sono ridotti e rinunciano scientemente ad ogni edonismo vocale, a favore di una tensione drammatica costante in cui è il denso tessuto strumentale ad appropriarsi di un vero e proprio virtuosismo. Cherubini predilige i grandi ensembles “rubati” all’opera buffa e innestati nell’immobilismo aulico della musica francese di allora: i grandi finali d’atto, i cori, i concertati, i duetti. E pure, quale contrappasso alla maggiore libertà espressiva dell'opéra-comique, le regole ferree dettate per quel genere, che imponevano il dialogo parlato, frenarono, almeno in parte, l’ispirazione dell’autore, impedendogli di esprimersi in quel continuum sinfonico cui tendeva il suo linguaggio compositivo, mutuato dalla riforma gluckiana, ma arricchito di capacità e conoscenze (oltre che di ispirazione) incommensurabilmente maggiori rispetto al modello (basti confrontare la scarna ed elementare orchestra di Gluck: semidilettantesca a confronto dell'elaborazione cherubiniana). All’incompresione del pubblico, meglio disposto ad applaudire Grétry, Méhul, Spontini (che lo impegnavano molto meno), farà da contraltare l’unanime consenso dei più grandi compositori della sua epoca e di quella successiva (soprattutto di area tedesca: quella musicalmente più progredita): da Beethoven a Weber, Schumann, Wagner, Brahms (che la definì “vetta suprema della musica drammatica”). Anche se l’opera, così lontana dai gusti distratti di chi a teatro si accontentava dell’esibizione di effetti, rimase un mito di difficile comprensione, oggetto di ammirazione lontana e di fraintendimenti, forzature, tradimenti. Médée non ebbe vita facile e per tutto il XIX secolo, salvo sporadiche apparizioni, si può dire che sparì, per risorgere “italianizzata” e pesantemente rimaneggiata nei primi anni del ‘900, imponendosi in una versione spuria e del tutto arbitraria, con cui conobbe il successo (in virtù del culto riservato alla sua più importante interprete) e che ancora si pone come un ingombrante ostacolo ad una sua reale riscoperta. L’opera, dicevo, ebbe un percorso travagliato. Nel 1802 fu tradotta in italiano e, con ampi rimaneggiamenti, venne rappresentata a Vienna. Nel 1809, sempre nella capitale absburgica, Cherubini rimise mano alla partitura, e ne produsse una versione, sempre in italiano, accorciata di più di 500 battute. Nel 1855 Franz Lachner (compositore tedesco di importanza più che marginale, ma assai prolifico e piuttosto conosciuto ai suoi tempi) preparò per il teatro di Francoforte una versione in tedesco dell’opera, basata sulla Médée viennese del 1809, musicandone i recitativi in luogo dei dialoghi parlati. Nel 1865 a Londra venne predisposta una nuova edizione dell’opera: in italiano e con i recitativi scritti da Luigi Arditi. Nel 1909 l’opera ebbe la sua prima italiana, con la Mazzoleni nel ruolo di Medea: ma alla Scala fu scelta la versione ibrida di Lachner tradotta, in modo particolarmente infelice, da Zangarini. Questa fu la Medea cantata dalla Callas e per molti anni fu l’unica versione conosciuta. Dal 1976, tuttavia, è disponibile una nuova edizione dell’opera (a cura di Flavio Testi e pubblicata da Ricordi) che presenta la redazione originale del testo, alcune varianti d’autore e pure i recitativi musicati da Lachner. Sulla scorta di questa edizione, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, qualche teatro propose con coraggio la vera Médée. Ancora però manca una vera edizione critica dell'opera (dato che anche la partitura curata da Testi non rispecchia fedelmente quella della prima del 1797): in Italia, nel 1995, venne allestita nell’ambito del Festival della Valle D’Itria, una Médée del tutto corrispondente alla prima parigina - salvo alcune sforbiciate nei versi recitati - affidando al revisore, Angelo Inglese, l'incarico di correggere i diversi errori della nuova edizione Ricordi, e le sue divergenze dal manoscritto. Questo breve excursus mostra come la Medea oggi più conosciuta, sia un'opera assai diversa rispetto all’originale di Cherubini, e come essa sia in realtà il frutto di successive rielaborazioni e stratificazioni solo minimamente dovute alle revisioni dell’autore: tali modifiche, in particolare le più radicali, sono intervenute addirittura successivamente alla morte del compositore, in epoca che nulla ha a che fare, per linguaggio musicale e visione estetica, a quella in cui Médée fu scritta. Questi interventi hanno riguardato l’intera partitura e ne hanno in parte deturpato l’aspetto. Innanzitutto la forma: Cherubini scrisse un’opéra-comique prevedendo l’alternarsi di brani musicali a parti recitate, ciò ha comportato una determinata organizzazione del materiale musicale in un equilibrio non solo formale della struttura dell’opera. La tensione drammatica, il pesante trattamento vocale riservato alla protagonista, la densità orchestrale, trovavano – nella sua forma originale – momenti di pausa nei dialoghi recitati: questo consentiva al compositore di attribuire a ciascun episodio una sua identià, come i movimenti di una sinfonia o di un concerto, senza dover ricorrere agli orpelli della tradizionale tragedie-lyrique a fungere da collegamento tra l’uno e l’altro (anche per consentire agli interpreti di non affaticare troppo il mezzo vocale: la stessa Callas evidenziò il problema definendo “assassina” la musica di Médée). I recitativi, in sostanza, non si limitano a prendere il posto dei dialoghi, ma intervengono sulla struttura dell’opera: se Cherubini avesse dovuto scrivere una partitura per l’Opéra, probabilmente avrebbe organizzato diversamente il materiale musicale. Oggi, alle difficoltà già contenute nel lavoro, si aggiunge – nell’utilizzo della versione Lachner – il peso di un continuum posticcio, non voluto dall’autore (perchè non poteva) e dallo stesso non calibrato. Oltre a quelli formali, però, sono evidenti i tanti problemi linguistici: il passaggio dal francese all’italiano (che hanno due prosodie incompatibili tra loro: per accento, tono e metrica) è sempre difficile da rendere senza sacrifici – più o meno sofferti – soprattutto in un’opera come Médée, dove il rapporto tra il significato del testo e la sua trasfigurazione musicale è molto più stretto rispetto alla successiva stagione del melodramma rossiniano, donizettiano e verdiano (e che comunque non uscirono certo indenni dal disastro di certe traduzioni ritmiche: si pensi al Guillaume Tell, Favorite, Les Vépres Siciliennes, le cui strutture musicali sono state spesso stravolte e rovinate per consentire il forzoso passaggio all’idioma italico). Nel passaggio da Médée a Medea, a parte la bruttezza letteraria della traduzione (e l'irrimediabile sciatteria dei versi di Zangarini rispetto al modello raciniano dell'originale), si perdono certi effetti appositamente studiati dall’autore, e meditati in ogni dettaglio. Si pensi alla grande aria della protgonista nell’atto I (rubo l’esempio ad un bel saggio di Andrew Porter): “Vous voyez de vos fils la mére infortunée” diventa “Dei tuoi figli la madre tu vedi vinta e afflitta”, a parte le 11 sillabe che diventano 14 (da far stare nella medesima frase musicale), cambia l’accento che nella versione originale cade su voyez, mentre nella traduzione cade sulla parola figli, e cambia così anche il significato poiché nel primo caso pone in risalto il soggetto (Jason), nel secondo l’oggetto (i figli). Ovviamente la prospettiva cambia, anche se il senso della frase è rispettato. E di esempi del genere la partitura deborda. Ma accanto a tali aspetti, ancora più gravi si rivelano gli interventi apportati al tessuto dell’opera: tagli, modifiche, aggiunte. I primi solo in parte risalgono a Cherubini – che fu costretto ad operarli in occasione della riprese viennese del 1809 (e che furono dovuti a motivi extramusicali) – dato che molti di essi appartengono alla prassi novecentesca (che non è una tradizione sacra e intangibile, giacchè figlia di una visione opposta a quella originale e non preteso filo conduttore con il modus originario di intendere l'opera), quella dei Serafin e dei Gavazzeni, per intenderci, e che rispondono ad un incomprensione dovuta ad un differente orizzonte estetico e stilistico (oltre che per una oggettiva mancanza di fonti attendibili). Un esempio particolarmente sgradevole va ravvisato ancora nell'aria della protagonista nel primo atto, di fatto quasi dimezzata (in quanto privata della ripresa, probabilmente ritenuta un'inutile ripetizione: questo rende bene l'idea dello scarsissimo livello di conoscenza di tutto ciò che restava al di fuori del tardo Verdi e del verismo; i medesimi scempi furono riservati a Donizetti, Bellini, Rossini). Le modifiche sono conseguenza dei tagli: sono rattoppi fatti per non mostrare la grossolanità delle cuciture, anche se talvolta dipendono dal gusto dell’epoca (in particolare le riscritture strumentali o certi indebiti e arbitrari “arricchimenti” nell’orchestrazione). Le aggiunte riguardano, invece, i recitativi musicati da Lachner. Il compositore tedesco, la cui vasta produzione musicale è oggi provvidenzialmente dimenticata, certo non mostra – almeno a giudicare da questi recitativi – una grande ispirazione, né una debordante inventiva musicale: ma aldilà del giudizio estetico sul suo lavoro (taluni li ritengono splendidi…Callas compresa, che arrivò ad affermare in maniera più che avventata come “la forza dell’opera di Cherubini non stia nelle arie, ma nei recitativi”…che di Cherubini non sono: ma vaglielo a spiegare!), il problema più grosso riguarda lo stile. Essi vennero composti nel 1855, quasi 60 anni dopo la prima rappresentazione, e l’intervallo di tempo si sente eccome. I recitativi di Lachner, semplicemente non c’entrano nulla con la musica di Cherubini: sono pesanti e ingombranti e rivelano un’ispirazione che si rifà più a Wagner (allora in piena attività: in quegli anni stava iniziando la composizione del Ring e del Tristan) o all’opera romantica tedesca, che al classicismo post gluckiano. Médée, trasformata in Medea, diventa qualcosa di diverso, di spurio, di inesatto, che tradisce l’originale e che di esso è solo la pallida ombra: Medea, soprattutto nel trattamento callasiano, è opera che pare scritta per soddisfare un pubblico aduso al dramma verista, ignaro della bellezza dell’equilibrio originario (assai banalizzato nelle continue riscritture apocrife) e dalla fruizione molto più superficiale: Medea diviene veicolo e strumento per il trionfo della protagonista perdendo, di fatto, la dignità di opera d’arte. La Callas indubbiamente ha complicato ulteriormente le cose: se da un lato la sua grande interpretazione (pur basata su fonti scorrette e deteriorate, oltre che su di un fraintendimento stilistico) ha scongiurato il completo assorbimento ad una estetica del tutto verista e ad una effettistica strillata in favore di una complessa costruzione drammatica giocata sulla scolpitura della frase e sull’accento tragico, dall’altro ha legato così intimamente a sé il ruolo della maga della Colchide, che ne ha, di fatto, inibito l’esecuzione alle tante che vi si sono cimentate dopo di lei e che hanno cercato, più o meno di imitarla. Il fantasma della Callas, il mito della sua Medea, è da sempre un ingombro per chiunque voglia interpretare il ruolo: non tanto nel confronto, quanto nel tabù, che un culto vedovile, ma ancora oggi insuperato, rinnova di continuo, di fare diversamente “dalla Maria”. La Sig.ra Meneghini ha reso un buon servizio all’opera di Cherubini, è innegabile, e la sua interpretazione (mi riferisco alla prima) resta nell'Olimpo della storia dell'opera, così come è innegabile che si trattasse di un servizio falsato dalle circostanze. Oggi non ci si può fermare all’idolatria del santino, o alla cura della vestale da loggione, si dovrebbe superare la paura degli spettri e avere il coraggio di ripensare a Cherubini e alla sua Médée, liberata da “fantasmi greci” e restituita alla sua vera dimensione, alla sua tensione drammatica, al suo equilibrio classico, alla sua densità sinfonica…e non fare come recentemente a Torino (e prossimamente a Cremona e circuito lombardo) riproporre ancora (nel 2010!) la “Medea della Callas”…senza disporre, peraltro, della Callas: con il doppio effetto di tradire nuovamente Cherubini (con l’aggravante oggi, diversamente da allora, di poter disporre di fonti sicure e accurate) e offendere la memoria del grande soprano, che neppure quando affrontò l’opera nel ’62, ormai sfasciata vocalmente, si ridusse ai livelli delle sue più recenti emulatrici, non tanto in termine di corettezza o freschezza vocale, ma di tecnica e comprensione di quel che si canta!
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