Alla sua voce di soprano lirico, versata anche nel canto fiorito, facilissima nel registro acuto e di straordinaria duttilità, facevano difetto un registro basso per nulla perfetto ed esteso, fatto normale per un soprano che nasceva lirico leggero, nonchè un corpo di voce “importante” per armonici e volume nella zona centrale, componenti prime di una voce drammatica o spinta quale quella che quasi tutto il repertorio verdiano richiede.
Leyla Gencer era adatta a Verdi solo in parte, dunque, eppure fu verdianissima, perché capace di supplire ai propri limiti naturali con l’accento, la pertinenza interpretativa, il proprio naturale carisma di artista.
Un caso straordinario, a mio modo di vedere, di intelligenza e di lucida consapevolezza di se stessa, dei propri limiti come delle proprie forze ( non poche! ), di rigore verso l’autore, mai tradito o snaturato, nemmeno nelle prove meno riuscite perché realmente troppo al di sopra delle proprie possibilità vocali. I suoi personaggi ancor oggi risultano esatti nella loro definizione psicologica, cantati in aderenza alle indicazioni di spartito e senza risparmio, spingendo la voce anche al limite della forzatura, sempre con l’obbiettivo di rispettare l’autore nella misura degli accenti previsti.
Per questo motivo le sue eroine del primo Verdi, soprattutto la Contarini Foscari, l’Heléne di Jerusalem, la Lady Macbeth, l’Odabella come pure la Duchessa Elena dei Vespri, al pari della sua Aida, il migliore tra i suoi ruoli tardoverdiani, sono tra i capolavori della moderna storia della lirica tra la fine degli anni ’50 e tutti gli anni ’60, quella che fu la sua “Golden Age”.
Il fatto, poi, che Leyla Gencer non fosse una voce verdiana non significa affatto che barasse, o meglio, non significa che barasse come altre, dopo di lei, fecero nello stesso repertorio, manipolando i personaggi nel loro tasso tragico, nello slancio o nel mordente. Il modo in cui la Gencer affrontò i ruoli fu quello della sua epoca, del cantare Verdi come avevano fatto prima di lei le Callas, le Cerquetti, la Tebaldi e come stavano facendo nei suoi anni la Price o la Ligabue e la Stella. E per stare in linea con loro era disposta a spingere la voce oltre il dovuto, anche a gonfiarla sino a sfibrarla come nel Ballo o nella Valois, o in certi tratti dell’Ernani, pur di sembrare voce di maggior peso e volume. Il barare modernamente inteso, quello praticato in taluni casi da illusioniste sublimi come la Caballè o da altre di minor fascino e malizia come la Ricciarelli, era ancora di là da venire. La Gencer era figlia del rigore toscaniniano e ad essa rimase apertamente aderente per tutta la vita: un piano non lo si cantava là dove era più comodo, ma laddove era prescritto e sensato farlo; l’accento non cadeva sulle note più comode da emettere, ma sempre laddove doveva per forza e senso drammaturgico essere emesso; l’accento cadeva sempre sull’esatta parola, comunque fosse scritta, comportamento consentitole dalla sua grande tecnica di canto, perlomeno sino a tutti gli anni ’60.
Alla donna colta, letterata e poliglotta, notoriamente intelligentissima ed acuta, non sfuggiva alcuna corda dei suoi personaggi, e ad essi sapeva dare una restituzione vocale e scenica a tutto tondo, completa, ricca di sfaccettature, direi quasi…letteraria. E talvolta l’ascoltatore non sa se è più affascinato dal canto o dal pensiero che lo governa, perché il pensiero della Gencer si percepisce nitido, forte e lucidissimo, e non solo nei personaggi più affascinati o di maggior valenza letteraria ( penso alla Lady ), ma anche e soprattutto in quelli meno forti come…Gilda. Tre sole produzioni per un capolavoro cui non saprei trovare un difetto, dove persino il “Caro nome” è completamente ripulito da ogni infantilismo e maniera, a favore di un lirismo palpitante e verisimile che non ha pari in altro soprano del suo tempo. Strumentale ed intensa al tempo stesso, come pure la sua Violetta, altro ruolo a lei congeniale, ma praticato solo occasionalmente.
La nobildonna di rango era certo il suo personaggio più completo tra quelli tragici di vocalità spinta, laddove l’accento fiero e lirico, fondato sulla qualità dell’emissione come del legato, si unisce allo slancio, perfettamente restituito da un canto di grande qualità strumentale nell’agilità come nell’impennata all’acuto. Lucrezia Contarini, Hélène di Jerusalem e soprattutto la duchessa Elena dei Vespri hanno la forza della perorazione pubblica per l’onore come quella per l’amore nel privato, secondo toni e modi espressivi diversi e sempre efficaci. Il ripiegamento nel ricordo e nella malinconia, come nella preghiera e nell’invocazione sfaccettano ulteriormente la psicologia delle sue nobildonne.
Ripristinò il Trovatore nella sua dimensione parabelcantista, sognante ed astratta, fatta di canto levigatissimo, sfumato ed esatto nella coloratura, di qualità timbrica più aderente al personaggio di quanto avesse disposto la Callas. Il personaggio ora da fiaba ora stilnovista, dal timbro angelicato, rimandava al passato di una cantante anomala nel suo tempo, Giannina Arangi Lombardi, sua maestra in Turchia, affrancato da certe grossolanità esecutive delle Leonore anni’40. Il canto sulla parola cominciava dal recitativo, sfumando “..nol vidi più..” e passando di suggestione in suggestione, con le smorzature su “ Tacea…”, “l’aurora”…”, “si muto” , quindi l’abbandono al valzer, con la voce che saliva pulita e senza peso, sino al do attaccato piano della cadenza. Quindi il mordente della cabaletta, la perfetta esecuzione dei trilli. Sempre facile in alto, negli staccati delle scena del convento come nell’intensissimo “Prima che d’altri vivere”. Ma il capolavoro era la scena del quarto atto, commovente sin dal recitativo, dove l’accento dolente di frasi come “clemente aura” era seguito da acuti flautati dolcissimi ed intensi. Quindi la magia dell’aria, dove la voce saliva con gli acuti in piano, vibranti ed intesi, e la nenia dolorosa di Leonora prendeva vita in forza della perfezione del legato. Quindi il “Miserere”, tragico pur nei limiti del mezzo vocale, senza esagerazioni o effettacci, con il tradizionale taglio della cabaletta.
Tanto sognante ed estatica fu la sua Leonora, quanto diabolica e luciferina la sua Lady Macbeth. L’insinuazione sottile o l’ironia malvagia tipica di altre celebratissime Lady, penso alla Verrett, non ebbero il minimo spazio nel personaggio della Gencer, creatura del tutto aggressiva, furente e negativa, in scia alla Callas. Non aveva una battuta di tregua la sua Lady, un demone furibondo nella cavatina come nella chiusa di “La luce langue” e nei duetti con Macbeth. Figlia del suo tempo, di un canto, che aveva ancora ascendenze naturaliste, nella ripresa del brindisi cantava volutamente in modo grottesco, caricando la linea di canto ed il suono, a descrivere la perdita di controllo della Lady davanti ai commensali, esattamente come la Callas aveva digrignato i denti nell’attacco de “i Romani a cento a cento” di Norma. Il sonnambulismo, solo momento della serata in cui, negli anni d’oro, era solito impiegare il suo celebre coup de glote ( vezzo e poi maniera deteriore della primadonna in declino ) era una miscela di canto straziato, volutamente compiaciuto nei suoni di petto, e filature impressionanti, come nell’”Andiam, andiam macbetto” .
Del tardo Verdi il ruolo praticato con maggior frequenza e su un lasso di tempo più ampio fu Elisabetta di Valois, mentre più circoscritte o nel tempo o nel numero di produzioni furono la Forza, il Boccanegra, l’Aida ed il Ballo, quest’ultimo ancora negli anni’70.
Di tutte queste la parte meglio riuscita fu certamente Aida, cantata spesso ma dismessa già nel ’73, gestita a modello ed esempio di quella dell’Arangi Lombardi…..senza il mezzo sontuoso dell’Arangi Lombardi. Il personaggio venne assai liricizzato, forse per la prima volta nella storia del canto moderno, e tutto incardinato sulla dolcezza dei piani e dei pianissimi, peraltro scritti nella parte, nonchè sul canto amoroso e dolente. Canto castigato e sfumato, ma che dispensato da voci di maggior ampiezza e volume, quali erano state in precedenza la sua maestra di canto o la Gadski o la Gruscheninsky, conferiva al personaggio una diversa e più esatta cifra verdiana, in sintonia con l’orchestrale monumentale dell’opera.
Gli ascolti di Valois come dell’Amelia del Ballo rivelano, al pari della perizia dell’accento, lo sforzo di una voce spesso artefatta, il canto di fibra cui la Gencer era costretta vuoi per dare la giusta imponenza al personaggio ( basti pensare al “Tu che le vanità” ) vuoi per restituire lo slancio del canto su una grande orchestra ( aria e duetto del secondo atto del Ballo ..). Voleva cantare con un tonnellaggio vocale non suo, senza scendere a compromessi con il personaggio e la tradizione esecutiva, come, invece, accadrà spesso dopo di lei: una regina doveva cantare con regalità ed autorità ove la parte lo richiedesse, e non con toni comodamente dimessi, come pure Amelia non poteva sottrarsi, nel bilancio di un personaggio tutto sommato a tinte deboli, al confronto con la scrittura ampia, a volte anche concitata, ed i toni peculiari dell’opera. Già in Ernani non voleva rinunciava al canto impetuoso di Elvira, lasciando anche andare la voce di petto in zona grave, perché il modello di personaggio era per lei quello della tradizione, in quegli anni incarnata al massimo da Leontyne Price. Nel Ballo, dove mancava anche di sonorità in alcuni momenti causa la tessitura grave, come al terzetto del secondo atto, si percepisce anche il venir meno della capacità di smorzare e flautare i suoni acuti, prerogativa principale del suo fraseggio, tanto sproporzionato era il ruolo alla sua natura vocale. Ma la cantante, qui come in Valois, ancora non accettava di barare, di manipolare il personaggio per trovare vie più comode o meno rischiose, e al rigore esecutivo ed interpretativo preferiva sacrificare la qualità timbrica.
Non era voce da Leonora di Forza del Destino, lo sappiamo. Il suono non era abbastanza corposo, pieno e voluminoso, ma la cantante aveva un'intensità soggiogante capace di toccare dentro il suo pubblico. La sua "Vergine degli angeli" aveva un tale lirismo struggente che una volta, all'aperto, nell'enorme cavea di Verona, fu obbligata a trissare la scena. Scena che non si può smettere di ascoltare e riascoltare, perchè ogni riascolto emoziona come il primo...non smette mai...perchè così è l'arte, quella vera.
Il risultato di questo suo modo diretto e profondamente onesto di affrontare anche i ruoli più scomodi di Verdi, e non solo quelli, fu che la cantante andò incontro ad usura evidente dopo il 1970, la data che rappresenta un po’ il giro di boa della carriera.
Non perse mai la capacità di fraseggiare Verdi sino al giorno del ritiro, di essere personaggio e, fatemelo dire, di emozionare il pubblico, piuttosto perse progressivamente quella perfezione strumentale del canto legato come di quello fiorito, nonché lo smalto del registro acuto che erano state le sue prerogative di vocalista. Arrivarono le note ballanti, i gravi aperti e sempre più spesso di petto, la voce oscillante, i coup de glote ripetuti ed abusati, ma i suoi personaggi non cambiarono, come pure l’atteggiamento di fronte allo spartito.
Questa è la lezione del Verdi cantato senza vera voce verdiana da Leyla Gencer, ossia che l’autore ed il pubblico vanno rispettati ed onorati con ogni mezzo, anche quando i mezzi sono sulla carta inferiori perchè la poetica dell’autore deve sempre essere restituita al pubblico nella sua integrità.
Ma è anche la lezione della sua generazione, quella di un pubblico che cercava dagli artisti le emozioni, quelle vere e profonde, quelle di cui sono capaci coloro i quali hanno "qualcosa dentro da da dare e da dire"....gli artisti veri,insomma.
Abbiamo aperto il nostro mese verdiano, no ancora termina peraltro, con la straordinaria voce di Ebe Stignani , e lo chiudiamo qui con Leyla Gencer. Mi domando……. che avrebbero mai pensato e detto queste due grandi artiste di un Festival Verdi come quello cui abbiamo assistito, comportamento dei cantanti e della stampa incluso????
Gli ascolti
Leyla Gencer
Giuseppe Verdi
Ernani
Atto IV
Ferma, crudele, estinguere (con Gianfranco Cecchele & Ruggero Raimondi - 1968)
I due Foscari
Atto I
No, mi lasciate...Tu al cui sguardo...O patrizi (1957)
L'illustre dama Foscari...Tu pur lo sai (con Giangiacomo Guelfi - 1957)
Attila
Atto II
Liberamente or piangi...Oh, nel fuggente nuvolo (1972)
Qual suon di passi...Sì quello io son (con Veriano Luchetti - 1972)
Jerusalem
Atto III
Mes plaintes sont vaines (1963)
La battaglia di Legnano
Atto III
Digli ch'è sangue italico (con Giuseppe Taddei - 1959)
Rigoletto
Atto I
Gualtier Maldè...Caro nome (1961)
Atto II
Mio padre!...Tutte le feste al tempio...Sì, vendetta (con Cornell MacNeil - 1961)
La traviata
Atto I
E' strano, è strano...Ah, fors'è lui...Sempre libera (1964)
Atto II
Madamigella Valery?...Dite alla giovine (con Piero Cappuccilli - 1964)
I Vespri siciliani
Atto II
Quale, o prode, al tuo coraggio (con Gastone Limarilli - 1964)
Un ballo in maschera
Atto II
Ecco l'orrido campo...Ma dall'arido stelo divulsa...Teco io sto (con Carlo Bergonzi - 1961)
Macbeth
Atto II
La luce langue (1968)
Salve, o re!...Si colmi il calice...Sangue a me quell'ombra chiede (con Giangiacomo Guelfi - 1968)
Don Carlo
Atto IV
E' dessa!...Ma lassù ci vedremo (con Richard Tucker - 1964)
La forza del destino
Atto II
La Vergine degli angeli (1964)
Simon Boccanegra
Atto I
Come in quest'ora bruna (1958)