sabato 16 maggio 2009

Rake's Progress alla Scala

Applausi fiacchi al Teatro Alla Scala per il Rake’s Progress di Stravinskij nel bellissimo allestimento di Robert Lepage. Un'occasione persa, soprattutto a causa della bacchetta di David Robertson, per nulla all’altezza del compito assunto. E persa, in secondo luogo, per una parte del cast vocale. Un vero peccato.

Al signor Lepage avrebbero dovuto affidare le redini del comando dell’intera produzione, poiché, contrariamente a Robertson, ha dimostrato di essere il solo ad aver capito, a mio modo di vedere, l’essenza del testo di Auden e Stravinskij. La continua contaminazione, citazione, disincantata riproposizione dei miti letterari ed operistici di fine ‘700, rivisitati con ironico e freddo distacco novecentesco costituisce la vera essenza compositiva ed il messaggio stesso dell’opera. Per questo Lepage ha sostituito il Settecento dei bozzetti di Hogarth con una serie di scene ambientate nell’America anni ‘50, liberamente ispirate e contaminate vuoi da Hopper vuoi dai fumetti, dalla Pop Art, come pure dal cinema dell’epoca. Spettacolo coloratissimo, piacevole e, soprattutto, giusto: i miti riletti in chiave moderna si muovono sullo sfondo di un mondo che ha fatto proprio della modernità un mito. Le citazioni sono chiaramente decifrabili sulla scena come nel testo di Auden, quel tanto che basta a riconoscerle, ma mentre sulla scena tutto scorre via con facilità e senso. Non così la musica.
Il signor Robertson è parso indifferente alla logica compositiva di Stravinskij, che avrebbe meritato almeno il tentativo di sottolineare e differenziare tra loro le varie scene. Non c’è stato segnale di vita dalla buca nei momenti di libera citazione e rivisitazione del passato, ma neppure in quelli in cui avrebbe dovuto sostenere la tensione della scena ( penso alla partita a carte tra Nick e Tom ) o nella creazione delle atmosfere ( l’aria di Anne...). Un segnale costante di inutile apatia dalla buca, che per tutta la sera è stata latitante, con il risultato di addormentare ed annoiare a morte il pubblico. L’opera così diretta è parsa inutile e noiosa, un nonsense teatrale, del tutto in contrasto con la parte visiva sulla scena. E con la tradizione del Rake, capace di suscitare altri e diversi esiti di pubblico. Una prova negativa che ha condizionato pesantemente questa produzione.

Un cast a luci ed ombre, che avrebbe anche potuto starci con altra bacchetta.
Andrew Kennedy ha una voce morchiosa, manovrata con tecnica dilettantesca. In questo repertorio, alle prese poi con una tessitura centrale ed un personaggio babbeo e scialbo, se la cava, perché restituisce un personaggio abbastanza aderente agli intenti degli autori. Ma il cantante è monotono, ben oltre la realtà del personaggio, che qualche tratto espressivo in più lo possiede.
L’Anne di Emma Bell è stata davvero agghiacciante. Voce importante ma sgraziata, una delle emissioni più sgangherate mai sentite dal vivo, ha cantato con facilità il ruolo ma ha finito per togliere al suo personaggio quella che è forse la sola prerogativa, ossia l’idea di purezza. La voce è costantemente indietro, bassa e chioccia... come all’Idomeneo scorso, del resto, e questo ad onta dell’ampiezza che naturalmente possiede. Non mi esprimo sui suonacci emessi nella grande aria, o dell’assoluta incapacità di legare i suoni nella ninnananna finale: ha lasciato di sale non solo gli incontentabili vociomani come noi, ma tutti i presenti che stavano seduti nella mia zona. Un canto troppo aggressivo, con le frasi sempre ghermite.
Su tutti il Nick Shadow di Shimmel, complice il lato un po’ ieratico e mefistofelico del personaggio. Anche lui è un cantore di mediocre tecnica, timbro discreto e nulla più. Ma il personaggio era giustissimo, come pure l’accento e buona la sonorità del mezzo. Non è venuto meno nel finale ai suoni fissi oggi cari ai modi esecutivi del repertorio settecentesco che ha frequentato, con esiti per noi poco interessanti. Il migliore di tutti senza dubbio.
La Baba la Turca di Natascha Petrinsky è stata assai efficace scenicamente, complice il bel fisico della signora. Ha spaventato gli astanti non tanto per la sua barba quanto per il canto, con voce anche lei sgraziata e sgangherata, suonacci aperti e volgari a gogo... che già ci avevano spaventato nella Flora della Traviata ultima scorsa. Nell’insieme funziona perché il lato grottesco e caricaturale del personaggio viene reso da simile modo di cantare. Peccato che non sia stata una scelta voluta ma una norma, date le precedenti esperienze di cui sopra.
Buono il Trulove di Lloyd.
Alla quarta rappresentazione, quella del 12 maggio, cui ho assistito, numerosi vuoti e “forni” in teatro. E siamo solo alla prima delle tre stazioni della maratona scaligera estiva tra i capolavori dell’opera moderna!







1 commenti:

siegfried ha detto...

Per me lo spettacolo di Lepage era semplicemente orrido. Per il resto sono d'accordo (anche se una che canta come la Petrinsky non può salvare un personaggio solo con la recitazione, e infatti non l'ha fatto), a eccezione della Bell, che ascoltavo per la prima volta in teatro e che francamente mi è piaciuta molto: il Do finale della Cabaletta è stato di bella purezza e sostenuto benissimo (preciso che non sono abituato a giudicare cantanti solo su una nota).