mercoledì 7 settembre 2011

SORPRESA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!


Sorpresa!
Ci siamo trasferiti nel nostro nuovo sito.
Da oggi ci trovate all'indirizzo http://www.ilcorrieredellagrisi.eu/

...Ci vediamo lì!


GG & friends

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martedì 6 settembre 2011

Julia Lezhneva: Rossini Arias. Recensione in sette punti

Punto primo: la cantante. Tre anni fa il Rossini Opera Festival apriva con un concerto di canto di Juan Diego Flórez, intitolato “Il presagio romantico” e dedicato a pagine tratte da La donna del lago e Guillaume Tell. Partner femminile della stella peruviana fu Julia Lezhneva, sconosciuta giovinetta balzata si può dire dal nulla a uno dei più prestigiosi (almeno sulla carta) palcoscenici internazionali, e anzi il massimo (sempre sulla carta) per quanto concerne il cigno di Pesaro. Le accoglienze furono piuttosto tiepide e tali da indurre alla direzione del Festival, da una parte, a reclutare la signorina per l’edizione di quell’anno dell’Accademia rossiniana diretta da Alberto Zedda (come se un corso di perfezionamento “ex post” potesse riscattare quella diciamo stentata serata inaugurale), dall’altro, ad astenersi dal riproporla nelle edizioni successive, come di consueto avviene per i "pulcini" del corso di perfezionamento. Nel frattempo però la Lezhneva era entrata nel giro, come usa dirsi, dedicandosi al repertorio barocco (sarà prossimamente Sesto in un Giulio Cesare diretto da Alan Curtis) e arrivando a collaborare con Marc Minkowski, che l’ha voluta quale paggio negli “Ugonotti” recentemente allestiti a Bruxelles e l’accompagna in questo suo primo recital discografico. Dedicato, manco a dirlo, a Rossini.

Punto secondo: il programma. Come si sa, al giorno d’oggi, il disco non ha ragione d’essere senza il divo e il divo non può esistere senza il disco. Forte di una frequentazione esclusivamente concertistica (ma aspetto di essere smentito dai biografi della signorina) dei rondò di Cenerentola, Elena d'Angus e Zelmira, Julia Lezhneva affronta un programma che unisce, appunto, “Nacqui all’affanno e al pianto”, “Tanti affetti”, la canzone del salice, la cavatina di Semiramide, la preghiera di Pamira e l’aria di Mathilde dal secondo atto del Guillaume Tell. Una scaletta all’insegna dell’eclettismo, che ai tempi di Rossini avrebbero affrontato, con le dovute cautele, una Cinti Damoreau e ancora di più un’Alboni, cantante cui la Lezhneva può in certo modo apparentarsi, o così almeno dovrebbero coerentemente sostenere coloro che l'hanno voluta e magari applaudita quale Urbano. In tempi a noi più vicini una Onégin o una Matzenauer, ovvero una Callas prima maniera, avrebbero senza fatica retto un programma che impone alla voce di passare dal registro di mezzosoprano a quello di soprano centrale, e soprattutto alla cantante di passare dal genere di mezzo carattere a quello tragico, senza perdere smalto, fluidità di vocalizzazione, credibilità e proprietà di accento e di fraseggio. Purtroppo l’ascolto del disco suggerisce ben altri modelli canori, e soprattutto ben diversi termini di comparazione vocale.

Punto terzo: la voce. La prima ottava suona larvale, al punto che i microfoni stentano a captarla, anche perché, nel tentativo di esibire una voce morbida e levigata, la Lezhneva non ricorre a un appoggio costante e sistematico, e quando tenta di coprire il suono (ad esempio nel recitativo di Pamira e nell’aria di Mathilde), riesce solo a produrre suoni tubati, che non hanno neppure la consistenza necessaria a farli definire gutturali. Solo dal do centrale in su la voce acquista un poco di volume, pur senza possedere particolare bellezza timbrica, mentre a partire dal mi/fa (note immediatamente successive al secondo passaggio di registro) compaiono suoni stridenti e asprigni, spia di un’organizzazione vocale, a essere buoni, da principiante. Sentire ad esempio la scala ascendente su “ogni mio duol sparì” nella cavatina di Semiramide o le scale cromatiche del rondò di Elena, eccellente realizzazione, applicata al registro sopranile, del famoso “scalino” vocale teorizzato (e giammai praticato) da Ebe Stignani. Tacciamo poi degli acuti (e parliamo dei la bemolle del Tell come dei si bemolle della Donna e dei si naturali della Cenerentola), ghermiti, quando non gridacchiati, con udibile sforzo. Una vocalità di soprano leggero, insomma, cui l’imperizia tecnica preclude il repertorio che le sarebbe proprio (Philine, Oscar del Ballo, o se proprio vogliamo rimanere a Rossini, le farse veneziane e Jemmy del Tell) a favore di ruoli di cabotaggio centrale, malgrado la cantante non possieda la pienezza timbrica e tanto meno l’accento, sontuoso ed aulico, richiesto da personaggi come questi, trattati dall’autore nel segno dell’astrazione pura.

Punto quarto: il virtuosismo. Di ortodossa matrice baroccara. Sentire le agilità ora accennate, ora sgallinacciate, specie quando cadano nella zona medio-grave della voce (quartine vocalizzate nella seconda parte del rondò di Elena), ora sgranate al rallentatore, con ulteriore impoverimento della linea musicale (preghiera di Pamira), i trilli meccanici e molli (inseriti spesso a sproposito, come nella canzone del salice, in ossequio al principio per cui le note tenute vanno “abbellite” indipendentemente dal carattere della melodia e dalla circostanza drammatica), i sospiri aggiunti e le note in chiusura di frase pigolate (rondò di Elena - "tanTA felicità"), nel discutibile tentativo di “colorare” le frasi alla maniera dei cosiddetti specialisti di musica antica. E tralasciamo le variazioni, scolastiche per numero, qualità e soprattutto esecuzione.

Punto quinto: l’interprete. Tutte le pagine del disco, che siano improntate a gioia o disperazione, vengono proposte con il medesimo accento querulo e piagnucolante, con le stesse inflessioni di infantile dolore, che non mancheranno di suscitare l’entusiasmo dei cultori di certi fenomeni discografici, persuasi che Rossini e l’opera in generale non siano che il pretesto per l’esibizione della presunta “personalità” dei divi, che si contrapporrebbe alla “mera esecuzione” offerta da quei cantanti che, non essendo divi, non possono e non debbono esprimere altro che mancanza di fantasia e originalità speculativa. Alla poetica degli accenti nascosti si sostituirebbe insomma quella degli accenti inudibili. Inudibili ovviamente per orecchie poco o nulla esercitate. Come le nostre, insomma.

Punto sesto: l’accompagnamento. Marc Minkowski, già specialista di musica barocca e ora più in generale faro della musica francese, rende un ben povero servizio a Rossini, raddoppiando in orchestra la mollezza, l’assenza di inflessioni, la secchezza di suono offerte dalla solista. Forse parte del “merito” spetta alla modestia delle forze coinvolte (Sinfonia Varsovia e Warsaw Chamber Opera Choir, a dir poco dilettantesco specie nella Donna del lago), ma la Sinfonia della Cenerentola, unica pagina puramente sinfonica del disco, suona piatta e meccanica, animata solo nei crescendo, che risultano tuttavia più caotici e rumorosi che travolgenti e brillanti.

Punto settimo: il fantasma. In questo disco, come in recenti cimenti teatrali, aleggia, o per meglio dire incombe, il fantasma di una cantante, mitica e poderosa in ogni senso, che periodicamente agenzie di canto, case discografiche, teatri e primedonne si piccano di richiamare in vita, in tutto o in parte. A questa cantante il Corriere dedicherà prossimamente una serie di riflessioni. Non già, come maligneranno alcuni, per manifesta incapacità di cogliere nell’ubertoso panorama odierno la presenza di numerose eredi potenziali (benedette o meno dal disco), ma per chiarire in primo luogo a noi stessi in che cosa consista la parabola storica e musicale di quell’incognita chiamata Isabella Colbran.



Gli ascolti

Rossini


La Cenerentola


Atto II

Della Fortuna instabile...Nacqui all'affanno e al pianto - Frederica von Stade (1974)


La Donna del lago

Atto I

O mattutini albori - Angeles Gulín (1974), Frederica von Stade (1981), Lucia Aliberti (1990), Julia Lezhneva (2008)

Atto II

Fra il padre e fra l'amante - Frederica von Stade (1981)










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domenica 4 settembre 2011

Cara Aspasia

Cara Aspasia, cari lettori tutti,
non ignoro affatto come sussisterebbero validi motivi per ricusare il provocatorio invito ad immaginare la stagione dell’ipotetico “teatro Grisi”. Il primo: che per noi l’opera è solo un hobby e deve rimanerlo pena l’abbandono del ludus in caso di occupazione professionale nel mondo dell’opera. Il secondo perché il ludus Corriere della Grisi non contempla istituzionalmente l’applicarsi alle opere di misericordia spirituali, dettagliatamente “insegnare agli ignoranti” e “soccorrere i dubbiosi” pure numerosi e professionalmente impiegati nel mondo del melodramma. E non già quali ascoltatori. Terzo perché il Corriere della Grisi, pur nell’incontrollato amore per il melodramma in ogni declinazione non è luogo di realizzazione della massima evangelica “porgere l’altra guancia”, che nel caso di specie si concreterà in pagine internet, threads di ironie, derisioni, auspici di pronta quanto dolorosa morte, lasciati in bella vista in altri luoghi virtuali, che, operisticamente parlando, privi di argomenti hanno eletto questo blog quale prediletto. Pazienza, da tempo, benché agnostici, atei ed anticlericali, applichiamo l’insegnamento” sopportare pazientemente le persone moleste, perdonare le ingiurie e sopportare le offese”.
Or bene, come usano fare i direttori artistici stipendiati (da noi !!), quest’ultimo, in ogni senso, gioco del blog merita la presentazione.


La faccio richiamando un mirabile racconto di Giuseppe Marotta “pane, con sale e olio” contenuto ne “L’oro di Napoli” dove il giornalista e scrittore, parlando del poverissimo desinare dice: “ da noi, laggiù, il pane con sale e olio è il penultimo dei cibi, viene subito dopo il brodo di trippa e precede soltanto i lupini o il puro niente. Questo pane con sale e olio si determina, in una casa meridionale, quando tutto è perduto: finito il denaro, finito il credito, finite le avemarie, c’è sempre qualche goccia di olio nella bottiglia, c’è sempre qualche pezzo di pane raffermi nei cassetti di cucina, ci sono sempre un pizzico di sale nel barattoli e l’affettuosa acqua del Serino nella fontana.”
Ecco pane con olio e sale è quando diffusamente il mercato delle voci e delle bacchette offra oggi con rare eccezioni e cui si deve ricorrere per combinare il desinare con la cena. Crediamo di avere avuto nel proporre questo intrattenimento cultura e fantasia. Non la suprema fantasia partenopea, che ha fatto dell’arragiarsi arte mirabile, ma quel tanto che basta, congiunto al realismo del Nord per prendere atto che Mozart è inflazionato e Verdi, oggi, è meglio lasciarlo perdere o quanto meno riposare per un biennio. Sembrerà un paradosso, ma nelle nostre elucubrazioni (perché Donzelli è qui mediatore e nuncius del pensiero comune) abbiamo identificato i due protagonisti maschili di Huguenots e di Muette de Portici, mentre ammettiamo di essere privi di quelli di Trovatore, Ballo e Forza. Certo il genere grand-opéra è caro a quelli della Grisi per la sua, oggi misconosciuta rilevanza storica e la capacità di evocare epoche, vocalmente parlando, di opulenza pari ai decolleté dei soprani ed alle epe dei tenori, protagonisti di quell’aetas aurea. Come è realismo la scelta della protagonista della Muette, che adempie in primo luogo ai desiderata dalla prescelta, ovvero agitarsi per il palcoscenico.
I nostri incalliti detrattori avranno motivi per imprecare le prescelte protagoniste femminili dell’altro grand-opéra, che mai vedremo insieme. Sbagliano, però, perché si tratta del più genuino omaggio alle primedonne, tenendo conto e delle attuali condizioni vocali delle prescelte e della tradizione storica che spesso (Patti, Albani, Arnoldson) vedeva le Margherite chiudere la carriera vestendo i panni di Valentina.
Come credo qualcuno storcerà il naso su una Elettra contrapposta, si fa per dire ad una Elektra. Anche qui siamo in vena di omaggio, precisamente al centenario della rappresentazione italiana del titolo ed alla protagonista Emma Carelli, affidato ad altra primadonna dedita al Verismo, la sempreverde Giovanna Casolla.
Sia ben chiaro nessuna pretesa di offrire freschezze e giovinezze vocali (e lo stesso valga per la protagonista di Zelmira, che confesso avrei visto bene quale Tancredi nella versione di Giuditta Pasta), ma la certezza che ancor oggi di certe “vecchie signore”, della loro tecnica scaltrita, del loro professionismo solido, che riesce a gestire i pregi e più ancora il tempo che passa, non possiamo ancora farne a meno. E per molti versi lo vorremmo perché significherebbe la presenza di ben altre e vigorose forze sulle nostre scene.
Qualcuna, lo ripetiamo c’è e quindi è giusto nel nostro immaginario cartellone utilizzarle al meglio, magari animati anche qui da qualche insegnamento che viene dal passato.
“Utilizzarle al meglio” può assumere differenti significati. Ad esempio offrire la possibilità di misurarsi in grandi ruoli ad artisti, privi di accreditati manager ed agenzie e che fanno fatica ad avere quello che, crediamo, corrisponda ai loro meriti e possibilità. Ancora può concretarsi il principio nell’affidare i ruoli giusti e congrui alle capacità vocali senza costringere a forzare la voce, come accade a Krassimira Stoyanova e Piotr Beczala in Verdi, cantanti già in grande carriera, ma con doti e qualità idonee, secondo noi ad altri titoli. Lo stesso vale per Anita Rachvelishvili, cui la scrittura centrale, cantabile di Mignon potrebbe essere il mezzo per “alzare” il baricentro della voce, abbandonare ruoli drammatici e gravi e pensare di diventare quella che è ovvero un soprano da tardo Verdi.
Ancora abbiamo fatto qualche concessione allo star system, sul quale la pensiamo come ha riferito June Anderson, diva e diva da star system, quando ha rilasciato un’intervista al nostro blog. Il nostro pensiero in punto non è cambiato anzi il tempo e gli ultimi immessi nell’ingranaggio ci convincono sempre più del fondamento della nostra opinione. Però se devo utilizzare una star devo utilizzarla per quello che può realmente fare secondo le proprie inclinazioni naturali e cognizioni tecniche. Giorni fa è stato pubblicato il cast all stars di un Matrimonio segreto del 1846 e la notizia ha suggerito il titolo adatto per quelle oggi all’apice della fama. Nel capolavoro di Cimarosa hanno giusta collocazione e dantescamente in compagnia di Ewa Podles, la negletta dello star system, cui Bertati e don Dummenico Cimarosa affidano il monito “vergogna vergogna, finitela già”.
Monito che può essere variamente interpretato anche come diretto al sottoscritto e sodali.




Auber - LA MUETTE DE PORTICI

Masaniello - Shalva Mukeria
Elvire - Jessica Pratt
Fenella - Natalie Dessay
Alphonse - Michael Spyres
Primo ballerino - Roberto Bolle

dir. Marc Minkowski


Cimarosa - IL MATRIMONIO SEGRETO

Carolina - Anna Netrebko/Diana Damrau
Paolino - Juan Diego Flórez
Fidalma - Ewa Podles
Elisetta - Nino Machaidze
Conte Robinson - Alex Esposito
Geronimo - Samuel Ramey

dir. Bruno Campanella


Wagner - LOHENGRIN

Heinrich - Kwangchul Youn
Telramund - Plácido Domingo
Lohengrin - Klaus Florian Vogt
Ortrud - Dolora Zajick
Elsa - Krassimira Stoyanova/Hui He/Maria Agresta

dir. Bertrand de Billy


Thomas - MIGNON

Mignon - Anita Rachvelishvili
Wilhelm Meister - Ismael Jordi
Philine - Diana Damrau
Frédéric - Irina Lungu

dir. Antonio Pirolli


Chaikovsky - EVGENIJ ONEGIN

Larina - Dolora Zajick
Tatiana - Krassimira Stoyanova
Onegin - Vladimir Stoyanov
Lenskj - Piotr Beczala
Filipevna - Olga Borodina

dir. Gianandrea Noseda


Massenet - MANON

Manon - Krassimira Stoyanova/Nathalie Manfrino
Cavaliere des Grieux - Piotr Beczala

dir. James Conlon


Puccini - MADAMA BUTTERFLY

Cio-cio-san - Hui He/Maria Agresta
F. B. Pinkerton - Francesco Meli
Sharpless - Luca Salsi/Damiano Salerno
Suzuki - Marianna Pizzolato
Kate Pinkerton - Serena Gamberoni

dir. Riccardo Chailly


Massenet - HERODIADE

Hérodiade - Irina Makarova
Salomé - Nathalie Manfrino
Jean - Roberto Alagna
Hérode - Ludovic Tézier

dir. Antonio Pappano


R. Strauss - ELEKTRA (versione originale/versione tradotta in italiano)

Elettra - Jennifer Wilson/Giovanna Casolla
Crisotemide - Eva-Maria Westbroek/Maria Billeri
Clitennestra - Evelyn Herlitzius/Raina Kabaivanska

dir. Daniel Harding


Meyerbeer - LES HUGUENOTS

Marguerite de Navarre - Mariella Devia
Valentine de St. Bris - Edita Gruberova
Urbain - Elina Garanca
Raoul de Nangis - John Osborn
Marcel - Kwangchul Youn
Nevers - Vladimir Stoyanov
St. Bris - Michele Pertusi

dir. Marc Minkowski


Weill - DIE DREIGROSCHENOPER

Mackie Messer - Jonas Kaufmann
Polly - Natalie Dessay
Jenny - Daniela Dessì
Peachum - Ferruccio Furlanetto
Mrs. Peachum - Waltraud Meier
Brown - Dmitri Hvorostovsky

dir. Zubin Mehta


Rossini - ZELMIRA (versione Giuditta Pasta)

Zelmira - June Anderson
Emma - Marianna Pizzolato
Antenore - Michael Spyres
Ilo - Juan Diego Flórez
Polidoro - Roberto de Simone

dir. Richard Bonynge



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venerdì 2 settembre 2011

Stagioni 2011-12, la Quaresima perpetua. Stazione tredicesima: Chicago e San Francisco

Ah! Se c’è una cosa che gli americani sanno fare è la confezione!
Prendiamo i siti di due teatri ad esempio: la Lyric Opera of Chicago e la San Francisco Opera.
Tutto è attraversato da un gusto moderno e accattivante e un bel lavoro di design: colori appropriati, effetti ottici non invadenti, foto curatissime, patinate, photoshoppate, ammiccanti, drammatiche, eppure essenziali, facilità nell’accedere alle pagine… tutto estremamente seducente, tutto deve trasmettere al lettore l’altissima qualità celata nel contenuto della stagione proposta e tutto deve lasciar pensare che “meglio di così non potreste desiderare!”.
Poi, ahimè, superato lo stupore per lo splendore tecnico “del pacchetto” esso va scartato e occorre guardarci dentro per soddisfare la vista, il palato e soprattutto le orecchie… soprattutto se il contenuto si rivela la solita burletta!

A Chicago, ad esempio, si parte con “Les contes d'Hoffmann”, opera accompagnata dalla bacchetta dell’esperto nel repertorio francese Emmanuel Villaume già ascoltato a Torino nel medesimo titolo e dalla regia rodatissima di Nicolas Joël; dunque non un nuovo allestimento, ma una produzione già vista in giro per il mondo e partita dal Teatro Real di Madrid! Ottimo, a mio giudizio, presentarsi con un allestimento che fa risparmiare un bel po’ le casse del teatro!
Ma cosa ci stia a fare nel ruolo del visionario protagonista la vocalità leggera e fragile di Matthew Polenzani, in cerca evidentemente del salto di qualità verso ruoli più maturi dopo i molti Mozart, Faust di Berlioz, Edgardo, Nemorino, Alfredo, Chevalier des Grieux etc, resta un mistero!
Cosa ci stia (ANCORA!) a fare ciò che resta della vocalità che definire stremata è già un complimento molto perplesso, dell’attempato e indomabile James Morris nel ruolo dei quattro demoni, fa comprendere la poca fantasia, e la poca accortezza di chi assembla i cast!
“Lucia di Lammermoor” secondo titolo in cartellone, presenta un cast in cui brilla Giuseppe Filianoti che recenti ascolti lasciano con l’amaro in bocca e molte, moltissime perplessità, affiancato da Susanna Phillips, non proprio adattissima a questo repertorio, che difatti frequenta poco alternando ruoli pucciniani a quelli mozartiani, ma soprano di casa sui palcoscenici americani ed evidentemente ritenuta, attraverso non si sa quale criterio, affidabile. Nel ruolo di Enrico il cartellone propone Gabriele Viviani: leggero, per non dire trasparente, già nel ruolo di Belcore in Scala figurarsi nel ben più temperamentoso Enrico Ashton. Se la direzione di Massimo Zanetti potrebbe sorprendere (parlo sia in positivo che in negativo, ovvio), fa piacere ritrovare un’artista come Catherine Malfitano nelle vesti di regista: in carriera l’attrice prevaleva nettamente sulla cantante, quindi c’è da sperare in una visione di sicura presa e caratterizzazione.
Ferruccio Furlanetto, dismessi gli abiti del basso verdiano di cui sicuramente non è l’incarnazione, indossa quelli più maestosi di “Boris Godunov” ruolo forse più vicino alla sua voce così personale, accompagnato dal caratterista Stefan Margita (Shuisky) e dai cavernosi e non ortodossi bassi Andrea Silvestrelli e Raymond Aceto (Varlaam e Pimen), diretti dal veterano Andrew Davis, direttore che ritroviamo anche nell’opera successiva: “Ariadne auf Naxos” funestata dalla ostinata presenza di Deborah Voigt già disastrosa Brunnhilde al Met figuriamoci cosa riuscirà a inventarsi per sopravvivere a Ariadne, in questo coadiuvata dalla Zerbinetta di Anna Christy simpatico sopranino lieve e aguzzo già impegnata nell’Olympia nei “Contes” inaugurali, dal mezzosoprano Alice Coote, militante nel barocco, ma che non disdegna ruoli come Charlotte, Maffio Orsini, Octavian, Marguerite, Hänsel e del bel tenore Brandon Jovanovich scuro di colore e gutturale di emissione regia tradizionale di John Cox.
La “Tripletta” di Andrew Davis, direttore già del “Boris” e dell’ “Ariadne” si conclude con Die Zauberflöte, il cui cast è stato scelto sotto l’egida della “leggerezza” (Cabell, Castronovo, Groissbock, Degout), forse per non disturbare troppo.
Immagino già le anime candide fibrillare per l’attesissima (?) apparizione di Sondra Radvanovsky nel ruolo di “Aida”, che certamente cambierà la storia dell’interpretazione della schiava etiope scardinando ogni nostra più piccola certezza; sorte che purtroppo non potrà condividere Hui He solo perché… canta e interpreta meglio della blasonata collega! Compagni di questa “rivoluzione” saranno Marcello Giordani e Salvatore Licitra, a cui auguriamo di riprendersi dal brutto incidente di cui è rimasto vittima, mentre la principessa egizia vedrà l’alternanza del contralto Jill Grove, momentaneamente orfana di Erda, e quel crogiuolo di urla strazianti rappresentato dall’inspiegabile Anna Smirnova, il tutto per le cure del Maestro Renato Palumbo.
Le stesse anime di cui sopra potranno deliziarsi con i pettorali del bel Nathan Gunn nel successivo titolo “Show Boat” di Jerome Kern e se saranno anche fortunate da essere intrinsecamente “baroccare” raggiungeranno vette di puro godimento con il conclusivo “Rinaldo” di Handel diretto da Harry Bicket, che schiera alcune tra le massime superstar di questo martoriato repertorio: David Daniels, Sonia Prina, Luca Pisaroni, Julia Kleiter, Iestyn Davies e l’emergente Elza van der Heever, soprano che vaga di ruolo in ruolo, di epoca in epoca alla ricerca di una sua possibile collocazione.
Che meraviglia!

Il “pacchetto” di San Francisco ci prepara ben altre delizie!
Che dire della “Turandot” inaugurale, diretta da Nicola Luisotti e che vede nei ruoli principali una decomposta Irene Theorin ed il Calaf dei nostri giorni (?), il “sicuro e intonato” Marco Berti? Sicuramente “grandi emozioni”: le stesse se non maggiori di quelle che scatenerà non solo la Premiere mondiale di Christopher Theofanidis “Heart of a Soldier”, recitata più che cantata da due campioni come Thomas Hampson e William Burden, ma soprattutto la “Lucrezia Borgia” successiva, la quale scatenerà i più inauditi deliqui grazie all’inspiegabile ostinazione belcantista di Renée Fleming, ad un Francesco Meli il cui timbro sedurrà più della tecnica, ad un ormai immancabile Vitalij Kowaljow che trapassa da Wagner, Verdi a Donizetti con virtuosismo pari ai disastri ottenuti sia in uno che nell’altro. Complice di tale vortice di commozioni il Maestro Riccardo Frizza, direttore feticcio della diva americana! Contenti loro!
Torna Luisotti con ben tre titoli: “Don Giovanni” con la regia del nostro Gabriele Lavia, sempre in formato “light-recitativo” che schiera la leggerezza di Serena Farnocchia, Marco Vinco e soprattutto l’evanescente Topi Lehtipuu che aprirà nuovi orizzonti “interpretativi-acrobatici” più che canori; una “Carmen” formato “grandi emozioni”… e nulla più, con Kate Aldrich, nella speranza che la salute vocale l’assista, e il corretto Thiago Arancam; finalmente la ripresa del trionfale e caciarone “Attila” scaligero il quale merita un discorso a parte: davanti a certe locandine ci si chiede se certi cantanti prima di firmare un contratto aprano o no lo spartito per sincerarsi se le proprie caratteristiche vocali si adattino o no alla parte in questione, oppure se tali scelte siano dettate solo in base alla presunzione o all’ambizione in forza delle quali si venga spinti ad accettare di tutto; bene, con questa premessa e dopo i recenti flop scaligeri, la nuova stella canora Oksana Dyka, che avrebbe dovuto sfondare in America grazie a questa Odabella, e Dio solo sa come avrebbe potuto cavarsi dall’impaccio di una parte micidiale come la vergine guerriera viste le enormi difficoltà già manifestate come Nedda, Tosca, Aida etc. ha visto preferirsi l’emergente e poco esaltante Lucrezia Garcia, fortemente voluta dal direttore e già diretta nel medesimo ruolo; stesso trattamento nei riguardi di Ramon Vargas in favore del più docile e monolitico Fabio Sartori e di Diego Torre. Nessun problema invece per la presenza di Ferruccio Furlanetto, il quale ha evidentemente preferito il palcoscenico di S.Francisco a quello milanese.
Se il “Xerses” diretto da Patrick Summers, tra le decadenze di Daniels ed una Prina intubata, può almeno risollevarsi con la presenza salvifica di Susan Graham, il successivo “Nixon in China” di John Adams schiera Simon O’Neill, tremendo Siegmund scaligero e altrettanto Parsifal a Bayreuth, nel ruolo di Mao Tse-tung nella speranza che la voce non crolli nella solita consolidata afonia dopo l’emissione di due note.
Conclude la stagione “Die Zauberflöte” che si farà notare per la fisicità di Nathan Gunn, lo stridore di Albina Shagimuratova e i frammenti di Kristinn Sigmundsson.

Molti ci rimproverano di fare con questi pezzi delle recensioni preventive, di distruggere le stagioni senza averle prima ascoltate, che fosse per noi i teatri dovrebbero chiudere, di provare noi a prendere un teatro e mettere insieme titoli, cantanti direttori e registi, e via farneticando, senza rendersi conto che i cantanti di cui scriviamo almeno, noi, ci siamo presi il disturbo di ascoltarli e non solo in mp3 o tramite Youtube; io chiedo, non tanto ai fan facebookari viziati da indigestioni di cuoricini e salamelecchi, cosa ci sia da salvare in queste stagioni e soprattutto se si domandano con quali criteri vengano assemblati i cast … soprattutto se, scartato un pacchetto tanto bello e curato, ci troviamo davanti ad un prodotto riciclato.












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mercoledì 31 agosto 2011

Schwester Radio. Deutsche Sondersendung. Annette Dasch im Konzert. Gretchenfrage oder Gesangsfrage?

Am Abend des 28. August hat Arte ein Konzert aus dem Münchner Herkulessaal übertragen, in dem die deutsche Sopranistin Annette Dasch Lieder und Arien präsentierte, die hauptsächlich um die Person des „Gretchens“ kreisten. Daher auch der Titel des Programms: „Die Gretchenfrage“. Wir fragen allerdings, ob das Programm nicht eher „Die Gesangsfrage“ heißen sollte. Die Starsopranistin hat nämlich das gesamte Programm mit derart großer technischer Unzulänglichkeit und blassem, durch die mangelhafte Gesangstechnik stark eingeschränktem, Ausdruck vorgetragen, dass uns zwischen Schuberts „Gretchen am Spinnrade“ und Marguerites Juwelen-Arie aus Gounods „Faust“, nur eine einzige Frage relevant zu sein schien: „Nun sag, wie hast Du’s mit der Gesangskunst?“


Nach der Fernsehübertragung des Bayreuther „Rattengrin“, in der die Starsopranistin eine gerade nur befriedigende Elsa darstellte, hielt es das mediale Konsenssystem für nötig, dem musikliebenden Publikum ein Konzert mit Annette Dasch zu bieten, in der die deutsche Sängerin wieder einmal beweisen konnte, dass sie von Gesangskunst nicht viel hält. Wir hätten diesem Konzert gar keine eigene Rezension gewidmet, wenn die junge deutsche Sängerin mit all ihren stimmlichen Mängeln und Symptomen nicht geradezu ein Paradebeispiel für einen Gesangs-Stil, geradezu ein „stimmliches Krankheitsbild“ wäre, das europaweit begeisterte Anhänger bei Sängern und Gesangsprofessoren findet und eine ganze Generation junger Sänger auf einen Irrweg führt, der so gut wie keine positive Stimmbildung und -entwicklung zulässt. Die Hauptmerkmale dieser Art zu singen sind
• eine tiefe, kehlige Positionierung der Stimme,
• künstliches Abdunkeln des Timbres,
• künstliches Vergrößern und Aufblasen des mittleren und tiefen Registers
• ständiges Forcieren anstatt einer Stützung des Klanges durch diaphragmatisch-dorsalen Atemdruck.

Das ist der Ersatz für die gesunde italienische Technik, die wesentlich auf einer konstanten Atemstütze basiert und der Stimme zum vollen Blühen des Timbres und zu Festigkeit, Stetigkeit und Wachstum verhilft, die ihrerseits die Anerkennung des tatsächlichen Stimmmaterials und seiner natürlichen Grenzen voraussetzen. Das Fehlen der richtigen Atemstütze führt zu einer permanenten Destabilisierung einer homogenen Stimmdurchbildung, verhindert jegliches Legato-Singen und bewirkt wegen des größeren Drucks auf die Stimmbänder einen vorzeitigen Alterungsprozess, in dem die Stimme frühzeitig an Volumen, Frische und Strahlkraft einbüßt. Die tiefe, gutturale Positionierung der Stimme und das Nicht-Anerkennen der natürlichen Stimm-Ressourcen durch das künstliche „Aufpumpen“ der Stimme um den Klang zu vergrößern und in die Breite zu treiben verursacht zudem, dass die Sänger selbst ihre Stimme zwar tatsächlich als voluminöser empfinden, die Stimme aber im Raum wenig Tragfähigkeit besitzt und nicht in ihrem ganzen Klangreichtum zum Schwingen kommt. Sie klingt verquollen, stumpf und farblos.
Annette Dasch teilt dieses „Krankheitsbild“ mit einer großen Anzahl ihrer jungen Kollegen und Kolleginnen. Sie mag sogar eine der extremsten Exponentinnen dieser „Methode“ sein (wobei ein Jonas Kaufmann mit dem gleichen System mehr Kohärenz aufweist, es aber trotz der Schädlichkeit der Methode schafft, sie in ein gewisses Ausdruckssystem umzumünzen). Das Einzige, was Annette Dasch auszeichnet, ist, dass das Konsens- und Marketingsystem aus den vielen mittelmäßigen Begabungen ausgerechnet sie für eine standardmäßige „Star“-Laufbahn auserwählt hat. Wir hatten in unserer längeren Auseinandersetzung mit dem Problem „Bayreuth“ schon erwähnt, dass die Probleme der Dasch in der Rolle der Elsa nicht mit nur dem Argument entschuldigt werden können, dass die Rolle für sie eine Kategorie zu groß war - wobei von ihren Anhängern sofort auf ihre Affinität mit Mozart hingewiesen wird. Noch einmal wollen wir betonen, dass mit systematisch fehlender Atemstütze (daher mit permanent forcierten und geschrienen hohen Tönen, Timbre-Ungleichmäßigkeiten, Schwierigkeiten im Registerwechsel) und einer inexistenten musikalischen Linie auch Mozart nicht gesungen werden kann. Im Gretchen-Konzert hatte die Starsopranistin relativ gesehen weniger stimmliche Probleme als in den Bayreuther Aufführungen, aber das ungesunde Gesangsprinzip (besser gesagt dessen Prinziplosigkeit) ändert sich dabei nicht. Man höre nur gleich die ersten hohen Töne, die sofort an Farbe verlieren, und bemerke die große Anstrengung, die sich sowohl in der Stimme als auch in den Gesichts- und Körperbewegungen der Sopranistin widerspiegeln.
In diesem Kontext stellen wir eine weitere generelle Gretchenfrage: Wessen Schuld ist all das?
Der Grund des sinkenden Gesangsniveaus wird gerne der „unmenschlichen“ und inkompetenten Geschäftsführung der Opernagenturen und Intendanten oder der Regiediktatur zugeschrieben. Kaum jemand hinterfragt aber die Methoden, die heutzutage die Mehrheit der Gesangslehrer anwenden. Gerade diese von ihnen verbreitete „Ästhetik“ ist es aber, die zu dieser äußerst unfreien und angestrengten Stimmemission führt und verursacht, dass Sänger wegen der vorgetäuschtem dunkleren Stimmfarbe, eines künstlichen Volumens und einer gewissen „Dicke“ des Materials systematisch auf ein falsches und ungeeignetes Repertoire angesetzt werden.
Wenn die Professoren nicht anerkennen, dass diese nachkriegszeitliche (aber im Grunde schon in der Bayreuth-Reform von Cosima Wagner vorgezeichnete), im Wesentlichen deutsche Methode gescheitert ist und junge Talenten systematisch ruiniert, wird der Stagnationsprozess nicht mehr anzuhalten sein. Mit all der musikgeschichtlichen Literatur, dem anatomischen Forschungsstand und den zahlreichen Tonaufnahmen sollte es ja eigentlich theoretisch leichter fallen, eine richtige Entwicklung der Stimmen zu sichern. Stattdessen wird mit beneidenswerter Konsequenz Alles getan, um zu verhindern, dass die Stimmen ihrem natürlichen Potenzial entsprechend behandelt werden und ihnen Zeit und die technische Möglichkeit belassen wird, allmählich zu reifen. Leider gibt es auf dem Horizont noch kein Zeichen des Willens zu einer Wende in Sachen Gesangstechnik. Die letzte Gretchenfrage lautet also: Muss man unbedingt auf einen kompletten Bankrott warten?

Selma Kurz & Giuditta Pasta

Sommario in italiano del concerto di Annette Dasch trasmesso da Arte il 28 agosto

Invece di grisinamente secernere veleno su come Annette Dasch ha urlato ogni nota acuta, come ha gonfiato e forzato il registro centro-grave ed ha dimostrato una totale mancanza di appoggio e respirazione corretta e di una linea musicale degna di questo nome, abbiamo preferito sviluppare una riflessione sul nuovo metodo di canto di stampo essenzialmente tedesco e sul suo profondo fallimento, del quale per l'appunto il canto di Annette Dasch fornisce un ottimo (si fa per dire) esempio.







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lunedì 29 agosto 2011

Opera napoletana II. "Il matrimonio segreto"

La più nota delle opere di Cimarosa è celebre, fra l’altro, per essere uno dei pochi lavori del teatro per musica ad avere conosciuto – non è chiaro se alla prima assoluta ovvero a una delle prime repliche – l’onore di un bis integrale. “Il matrimonio segreto” venne infatti replicato integralmente nel corso della medesima serata.

Si potrebbe scorgere in questa circostanza un segno e anche una compensazione del destino, stante l’oblio assoluto e totale in cui versa, oggi, il catalogo del compositore aversano, “Matrimonio” incluso. E se per i titoli seri – vedi “Gli Orazi e i Curiazi” – l’oblio può essere in parte spiegato in ragione dell’assenza di virtuosi in grado di rendere giustizia a ruoli pensati per i più celebri evirati e le più scafate primedonne, il “Matrimonio” non presenta difficoltà vocali, che possano limitarne o disincentivarne la riproposta. E questo a maggior ragione in un mondo in cui “L’italiana in Algeri” viene ritenuta opera da studenti e “Il viaggio a Reims” uno spartito idoneo per un saggio di fine corso (e precisiamo, di un corso che dura a stento un mese). E certo al titolo di Cimarosa non fa difetto la qualità della scrittura musicale, che prefigura già, con i sommi esiti della scuola partenopea, l’imminente stagione rossiniana.
Cimarosa attese alla composizione dell’opera nel periodo in cui, ultimato il servizio presso la corte di Caterina di Russia, si accingeva a fare ritorno in Italia. La commissione, giunta dalla Corte imperiale di Vienna, e la notoria ammirazione di Cimarosa per il da poco scomparso Mozart funsero certo da stimoli per il compositore, che, nel genere comico, aveva già prodotto titoli quali “L’italiana in Londra”, “Giannina e Bernardone” e “I due baroni di Rocca Azzurra”. Basta ascoltare la superba Ouverture per rendersi conto di quanto i pregiudizi nei confronti della scuola italiana, ritenuta poco o nulla interessata a un trattamento dell’orchestra, che vada oltre il mero accompagnamento del canto, siano privi di fondamento: il carattere brillante della musica, la sapiente alternanza di “piano” e “forte” e l’orchestrazione sempre varia e cangiante rimandano inevitabilmente al modello delle “Nozze” mozartiane, modello osservato con rispetto e amore, ma non pedissequamente imitato.
Tutta italiana, anzi squisitamente partenopea, è la tenerezza dell’introduzione al primo atto, in cui gli sposi clandestini Carolina e Paolino cantano le loro speranze e i loro timori. In particolare emerge in questa scena di presentazione il carattere del giovine di negozio Paolino, parte di tenore che anticipa quelle di mezzo carattere dell’opera rossiniana, dal Giocondo della “Pietra del paragone” al Giannetto della “Gazza ladra”. La scrittura non molto fiorita (tranne che in alcuni punti, ad esempio nella parte conclusiva dell’aria del secondo atto, l’Andante sostenuto “Pria che spunti in ciel l’aurora”, brano spesso eseguito in sede di recital anche da tenori non avvezzi al titolo) non deve trarre in inganno: all’esecutore è richiesto un perfetto controllo del fiato, onde restituire tutta la malia dei cantabili (su tutti quello dell’aria già citata), reggere le esigenze del canto sillabato (stretta del finale primo), cantare sul passaggio superiore (“presto avrà fin la pena” al primo duettino con Carolina e “o povero me” all’entrata nel finale primo) senza stentare o falsettare, ma esibendo comunque il patetismo richiesto al delicato personaggio, ancora di sapore quasi arcadico. Analoghe esigenze presenta la sposina, cui spetta una spiritosa arietta di carattere (“Perdonate signor mio”) e un ruolo decisivo nella caricata galanteria del terzetto “Le faccio un inchino” così come nel vortice comico del finale primo, ma che nel resto dell’opera è connotata da un patetismo che ricorre, in particolare nel recitativo obbligato “Come tacerlo poi se in un ritiro” e nel successivo quintetto “Deh lasciate ch’io respiri”, a una scrittura d’impronta seria, di fatto anticipando la stagione del genere larmoyant. Nelle opere comiche di Cimarosa (così come in quelle di Mozart: si pensi ad esempio a “Smanie implacabili” in “Così fan tutte”) sono frequenti le parodie di scene e situazioni dell’opera tragica, ma in questo caso il sarcasmo cede il passo a una sincera simpatia nei confronti del personaggio, in cui si delinea quella figura femminile forte e determinata, sebbene perseguitata dalla sorte avversa, che sarà tipica dell’opera semiseria del primo Ottocento.
Comico e a tratti grottesco, proprio in forza di una scrittura vocale degna dell’opera seria, l’altro personaggio femminile di rilievo, quello della zia Fidalma, stagionata ma non doma vedovella, zia di Carolina e a sua volta invaghita di Paolino. La centralità del personaggio è rimarcata dalla presenza, alla prima viennese, di Dorotea Bussani, celebre interprete mozartiana, già creatrice di Cherubino e Despina, evidentemente a proprio agio nella tessitura marcatamente centrale di Fidalma. Il pezzo di sortita, in cui la zia illustra all’altra nipote, Elisetta, i vantaggi e sapientemente allude agli inconvenienti della vita matrimoniale, è risolta da Cimarosa con un’aria strofica che rimanda al genere pastorale, ma più solenne e pomposa: la voce del contralto intona un'ampollosa cantilena accompagnata dai garbati motteggi dell’orchestra. È l’apoteosi del non detto, dell’ammiccamento, signorile e di buon gusto, ma inequivocabile, della dissimulata malizia. Per noi del blog soltanto un’interprete ha saputo in massimo grado coniugare in questo ruolo la perfetta esecuzione vocale (che si compiace per giunta di un tempo largo non certo agevole da sostenere, anche per voci di ampia cavata) e la massima espressività, vale a dire un’espressività rispettosa, assieme al dettato dell’autore, del carattere e della forma mentis del personaggio. Alludiamo ovviamente alla signora Ebe Stignani, che certa critica ha tacciato di essere sussiegosa e matronale, non avvedendosi che proprio in queste doti risiede la grandezza di una simile caratterizzazione.
Grande rilievo hanno poi le due parti di basso: l’una, quella del Conte Robinson (interpretata a Vienna dal grande Francesco Benucci, primo Figaro mozartiano), anticipa i grandi ruoli di basso cantante del teatro rossiniano, Dandini in primis (basti confrontare la struttura delle rispettive arie di entrata), l’altra, quella del signor Geronimo, i bassi buffi dal Tobia Mill della “Cambiale di matrimonio” a Don Magnifico (l’aria di sortita, in cui comunica alla famiglia l’imminente fidanzamento di Elisetta con il Conte, è un vero gioiello anche sotto il profilo della strumentazione). Il duetto delle voci gravi, posto in apertura del secondo atto, costituirà il modello per l’opera italiana a venire, almeno sino al “Cheti cheti immantinente” del “Don Pasquale”. Ampie frasi con salti d’ottava (“ora vedete che bricconata/ora vedete che uom bilioso”), fitti sillabati (“qua risparmio del bell’oro/va l’amico ruminando”), incisi ostinatamente ripetuti (“m’ostinerò”), sino alla chiusa in cui le voci si inseguono riproponendo l’una i melismi dell’altra, tutto concorre a fare di questa pagina un’autentica occasione d’oro per due interpreti, che padroneggino gli strumenti del canto di scuola. L’effetto teatrale è a dir poco irresistibile. Così come grande effetto sortiranno, anche presso quella critica convinta che i concertati siano un’invenzione rossiniana (una “boutade” che rivela quanto persino il Mozart della trilogia dapontiana rimango, per molti, un mistero glorioso), i pezzi d’assieme, dal sospeso quartetto “Sento in petto un freddo gelo” al citato quintetto, dal celebre “Le faccio un inchino” sino ai finali d’atto, che sembrano anticipare rispettivamente il “Barbiere” e la “Scala di seta” (opera che può essere vista in fondo come un omaggio al genio di Cimarosa, proponendo una vicenda per molti versi analoga a quella del libretto di Bertati). Una più spiccata fantasia, un maggiore coraggio da parte dei signori sovrintendenti e direttori artistici, e magari l’interessamento di una delle tante “star” della lirica moderna potrebbero forse restituire al “Matrimonio” il posto che gli spetta di diritto nei nostri cartelloni. E tanto per chiudere con una nota di autentico passatismo, riportiamo la locandina del “Matrimonio” allestito al Teatro degli Italiani all’inizio del 1846: Fanny Tacchinardi Persiani (Carolina), Mario (Paolino), Teresa Brambilla (Elisetta), Marietta Brambilla (Fidalma), Luigi Lablache (Geronimo) e Prosper Dérivis (Conte Robinson).



Gli ascolti

Domenico Cimarosa

Il matrimonio segreto


Prima rappresentazione: Vienna, Burgtheater, 7 febbraio 1792


Ouverture - Leo Blech (1932), Arturo Toscanini (1943)

Atto I

Cara non dubitar...Io ti lascio perché uniti - Tito Schipa & Alda Noni (1949)

Udite, tutti udite - Sesto Bruscantini (1950), Enzo Dara (1980)

Le faccio un inchino - Graziella Sciutti, Eugenia Ratti & Ebe Stignani (1956)

E' vero che in casa - Fedora Barbieri (1949), Giulietta Simionato (1950), Ebe Stignani (1956), Lucia Valentini Terrani (1977), Carmen Gonzales (1980)

Senza senza cerimonie - Boris Christoff (con Alda Noni, Hilde Gueden, Fedora Barbieri, Tito Schipa & Sesto Bruscantini - 1949), Antonio Cassinelli (con Alda Noni, Ornella Rovero, Giulietta Simionato, Cesare Valletti & Sesto Bruscantini - 1950)

Sento in petto un freddo gelo - Franco Calabrese, Eugenia Ratti, Graziella Sciutti & Ebe Stignani (1956)

Perdonate signor mio - Margherita Rinaldi (1977)

Tu mi dici che del Conte - Sesto Bruscantini, Ornella Rovere, Giulietta Simionato, Alda Noni, Cesare Valletti, Antonio Cassinelli (1950)


Atto II

Se fiato in corpo avete - Sesto Bruscantini & Antonio Cassinelli (1950)

Sento, ohimè, che mi vien male - Graziella Sciutti, Ebe Stignani & Luigi Alva (1956)

Pria che spunti in ciel l'aurora - Tito Schipa (1949), Cesare Valletti (1950), Luigi Alva (1956), Juan Diego Flórez (2010)

Come tacerlo poi...Deh lasciate ch'io respiri - Graziella Sciutti (con Franco Calabrese, Eugenia Ratti, Ebe Stignani & Carlo Badioli - 1956), Alida Ferrarini (con Claudio Desderi, Margherita Guglielmi, Carmen Gonzales & Enzo Dara - 1980)

Il parlar di Carolina...Deh ti conforta, o cara - Franco Calabrese, Carlo Badioli, Graziella Sciutti, Ebe Stignani, Luigi Alva, Eugenia Ratti (1956)

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sabato 27 agosto 2011

Verdi Edission: Jerusalem

Jerusalem venne rappresentata all’opera di Parigi il 26 novembre 1847. E’ il primo grand-opéra dal catalogo verdiano e non si può che concordare con Julien Budden, il quale afferma che qualsivoglia compositore italiano mirasse a grande carriera e fama internazionale dovesse comporre un’opera per l’Accademia.

Verdi vi approdò, artisticamente parlando, molto prima dagli altri italiani proprio perchè gli altri italiani non c’erano più. Rossini non componeva melodrammi da quasi quattro lustri, Donizetti attendeva la morte e Bellini, invece, la traslazione nel duomo di Catania. Rimaneva è vero Mercadante ritenuto, però, superato e provinciale. La chiamata per comporre un titolo per l’Operà arrivo nei pieni cosiddetti anni di galera e dopo un solo quinquennio di carriera. I raffronti con i tempi delle chiamate di Rossini o Donizetti sono significativi.
Verdi vi rispose come aveva risposto Rossini ovvero adattando un titolo precedente del proprio catalogo. La scelta cadde su Lombardi, che vennero trasportati dalla diocesi ambrosiana a quella di Tolosa, e poi in Terra Santa, e che costituivano il soggetto più adatto (forse in uno con Attila) per una simile operazione, attesa la presenza di due fra gli elementi tipici del grand-opéra, ossia la vicenda amorosa contrastata e posta sullo sfondo di un grande avvenimento storico. Si aggiungeva un altro topos del melodramma francese ossia lo scontro religioso, anche se gli scontri religiosi cari ai compositori francesi erano, attesa la loro confessione religiosa, quelli con il Giudaismo o la Riforma.
Segnalo e rimando, naturalmente a tre titoli, non recenti della critica musicale per una approfondita conoscenza dell’opera ossia Massimo Mila “la giovinezza di Verdi”, Charles Osborn “tutte le opere di Verdi” e da ultimo Julien Budden “Le opere di Verdi”.
Un primo spunto di riflessione, diversi da quelli tradizionali dall’ ascolto dei Lombardi trasformati in Jerusalem potrebbe essere la verifica se nelle operazioni di rifacimento Verdi si sia dimostrato all’altezza del maestro insuperato ossia di Rossini. Si tratta di valutare se Verdi avesse nei confronti della propria produzione quello stesso spirito critico del genio pesarese, che trasformando Maometto in Siege e poi Mosè in Egitto in Moise e Pharaon dimostrò di conoscere benissimo i punti meno felici dei titoli napoletani, ove per meno felici si intenda quelli meno idonei al grand-opéra. Dinanzi all’impianto con qualche spostamento tonale delle arie di Pagano, trasformato da crudo signorotto dell’alto Milanese in Roger, conte di Tolosa o anche all’idea di trasferire a chiusura del secondo atto di Jerusalem il duetto d’amore del terzo dei Lombardi, offrendolo al pubblico, che conosceva e delirava per il duettone degli Ugonotti o per quello del quarto atto di Favorita, Verdi appare quanto meno ingenuo. Il compositore che fa sempre “sentire la vanga”, direbbero i detrattori di Verdi, capitanati da Rossini medesimo.
Un altro spunto di riflessione è, invece, analizzare come Verdi aderisca ai topoi dal grand-opéra. E se i ballabili sono quel che sono in raffronto a quelli inventati da Rossini e soprattutto da Meyerbeer, Verdi se la cavò egregiamente riproponendo una scena di carattere sacrale come la maledizione, che chiude il primo atto e che scende, ad opera del legato pontificio, sul capo dell’amoroso Gaston, falsamente ritenuto reo di omicidio. Precisiamo infondata l’accusa, tentato omicidio il reato compiuto e non già da Gaston, ma da Roger, che, poi, vagherà per le zone circumvicine la santa Ierosolima, penitente ed in attesa di redenzione, che giungerà con la morte per la libertà del Santo Sepolcro.
E’ pacifico come Verdi si ispiri al modello, insuperato, della maledizione del Cardinale Brogni al finale terzo di Juive. E’ una scelta, che nasce dall’ampiamento strumentale e corale del finale primo di Lombardi, dettata dall’esigenza di fare mostra di sapienza del comporre come imponeva il gusto dell’Academie e come, spesso in carenza di inventiva musicale, ben esemplificava il sommo autore di grand-opéra ossia Meyerbeer. Certo che l’assenza di una prima parte di basso cui affidare la maledizione (è Roger primo ed unico basso) privilegia l’aspetto corale. L’anatema affidato alla voce singola del basso ha, però, ben altra potenza tragica.
Ancora meglio le innovazioni in adesione al gusto del grand-opéra funzionano nel finale terzo con la scena della degradazione e condanna a morte di Gaston e con l’incipit del quarto atto con il coro della processione. Nella prima situazione drammatica ,che principia con una lugubre marcia funebre i richiami al finto funerale di Dom Sebastien ed ancora all’introduzione del quinto atto di Juive sono indiscutibili. Poi Verdi si erge e rivela autore italiano, scrivendo un numero per il cantante in guisa di grandioso finale. Questa scelta di fonte italiana e non francese non ha precedente nel grand-opéra, atteso che il finale primo di Favorita con al marziale cabaletta “si, lo sento Iddio mi chiama” non ha né la tensione drammatica né la complessità compositiva del finale terzo di Jerusalem. In fondo Verdi sostituisce alla grande prima donna del melodramma all’italiana il tenore, vero protagonista del grand-opèra e rende l’omaggio estremo al grande Duprez, che poco dopo Jerusalem abbandonò la carriera. Sotto il profilo musica le e drammaturgico rileva come Verdi, utilizzando, appunto una tipica struttura dell’opera italiana - la grande scena tragica- ed aggiungendovi elementi tipici del grand–opéra, ossia masse corali con differenziate funzioni drammaturgiche, altri personaggi, che interloquiscono ora col protagonista ora con il coro, sottolineature orchestrali (come i colpi di gong e grancassa quando le armi di Gaston vengono infrante) crei il momento più suggestivo ed innovativo del rifacimento. Forse il solo che possa, disponendo di un grande tenore, far preferire Jerusalem in luogo di Lombardi.
I coro dei lombardi –miseri ed assettati per richiamare il Giusti- era troppo ben riuscito per giustificarne non solo l’espunzione, ma soprattutto sconsigliava trasferimenti ad altra situazione drammaturgica, suggerendo solo modifiche e perfezionamenti. Venne, infatti, riproposto anche con identica situazione scenica. Ai Lombardi si sostituiscono i francesi, anch’essi alla ricerca di ristoro nell’arsura desertica. Ma il grand-opéra imponeva utilizzi ben più nuovi e spregiudicati ed allora all’apertura del quarto atto Verdi mise mano al coro dei Lombardi ampliandolo e consentendo al coro di Parigi, di fatto un doppio coro, di primeggiare. Aveva fatto lo stesso alla scena sesta dell’atto secondo, utilizzando la banda del teatro.
Rimane, poi, un ulteriore spunto motivo di riflessione ovvero i rimaneggiamenti della vocalità. Taluni fanno parte della tradizione, altri servono a riflettere. Alla tradizione di trasportare secondo le esigenze e peculiarità del cantante va ascritta la stesura, tutta verso il basso ed in autentica chiave di basso, del ruolo di Roger. Già qualche riflessione offre la parte di Helene, la Giselda dei Lombardi, ripensata per Julian van Gelder, che evidentemente non disponeva delle qualità davvero straordinarie di virtuosismo e legato ad altissima quota di Erminia Frezzolini, tanto che la grande scena “se è vano il pregare” risulta abbassata di un tono.
E, poi, rimane il punto più interessante ovvero a vocalità di Duprez. Duprez l’inventore del do di petto il tenore, che, secondo la tradizione, all’opposto di Rubini cantò sul capitale e bruciò la propria dote vocale. Che Duprez abbia avuto carriera relativamente breve è indiscutibile ove paragonata a quella di Rubini o di Domenico Donzelli (cito questi cantanti perché furono i due opposti, cui Duprez, cantante di scuola italiana, cercò di ispirarsi), su come cantasse realmente Duprez non possiamo sapere, perché l’espressione “do di petto” è gergale e perché le parti scritte da Donizetti per Duprez, integro vocalmente ossia Edgardo e Fernando, sono oggi fra le più difficili da eseguire per la congiunta esigenza di canto elegiaco e di canto aulico e di forza. Certo è che il cantante per cui Verdi predispose il rifacimento di Lombardi è tale da reggere affrontare e squillare negli acuti estremi (vedi gli inserimenti del do4 per giunta in pianissimo all’aria del secondo atto e del si nat in fortissimo alla chiusa della scena della degradazione) e di cantare con alternanza di vigore e grazia come accade al grandioso finale terzo. Intaccata sembra, invece ,la capacità di Duprez di reggere tessiture acute come erano state quelle dei ruoli donizettiani. Ma siamo sinceri oggi Jerusalem è più oggetto di studio che non già, come dovrebbe di rappresentazione teatrale per la mancanza di un Gilbert-Louis Duprez.



Giuseppe Verdi

Jerusalem



Atto I

Introduzione - Gianandrea Gavazzeni (1963)

Non, ce bruit ce n'est rien...Adieu, mon bien-aimé -Jaime Aragall & Leyla Gencer (1963)

Ave Maria, ma voix te prie - Leyla Gencer (1963)

Avant que nous partions...Je tremble encore - Emilio Salvoldi, Giangiacomo Guelfi, Jaime Aragall & Leyla Gencer (1963)

Viens, ô pécheurrebelle!...Vous priez vainement...Oh dans l'ombre - Samuel Ramey (1995)

Mais quel tumulte...Monstre! Parjure! Homicide! - Malcolm King, Anthony Roden, Kenneth Collins, June Anderson, Malmfrid Sand, David Hoult (1983)


Atto II

Grace, mon Dieu! - Samuel Ramey, Ruben Broitman (1995)

Loin des croisés...Quelle ivresse! - June Anderson, Malmfrid Sand, Anthony Roden (1983)

Ô mon Dieu! Ô mon Dieu, vois nos misères! - Zubin Mehta (1995)

L'émir auprès de lui m'appelle...Je veux encore entendre - Jaime Aragall (1963)

Prisonnier, dans Ramla...Hélène! O ciel Gaston! - Alessandro Maddalena, Jaime Aragall & Leyla Gencer (1963)


Atto III

O belle captive...Balletti - Edward Downes (1983)

Que m'importe la vie...Mes plaintes sont vaines...Non, votre rage, indigne outrage - Leyla Gencer, Jaime Aragall, Emilio Salvoldi (1963)

Bonus: Que m'importe la vie...Mes plaintes sont vaines...Non, votre rage, indigne outrage - June Anderson (1983)

Barons et chevaliers...Oh douleur! Oh mes amis - Jaime Aragall, Antonio Zerbini, Virgilio Carbonari, Franco Ghitti (1963)


Atto IV

Voici de Josaphat, la lugubre vallée - Samuel Ramey (1995)

Saint ermite, c'est vous?...Dieu nous sépare, Hélène! - Jaime Aragall, Leyla Gencer & Jaime Aragall (1963)

La bataille est gagnée! - Mirella Fiorentini, Leyla Gencer, Emilio Salvoldi, Antonio Zerbini, Jaime Aragall, Giangiacomo Guelfi, Franco Ghitti (1963)

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giovedì 25 agosto 2011

La Bohéme all'Arena di Verona

Mi scrive il nostro amico G.B. Mancini da Verona, ove, fermandosi lungo la via che mena al Brennero, ha assistito per caso ad una moderna rappresentazione di questo famoso titolo del bravissimo maestro Puccini. Sentite un po' che mi ha narrato della sua serata nell'augusto anfiteatro.



Serata noiosa ed incolore questa trascorsa all’Arena di Verona, cui mi ha condotto la curiosità di ascoltare insieme due delle voci liriche più distinte dell’ultimo ventennio. Mi sarei aspettato qualcosa in più da siffatto cartellone blasonato.
Marcelo Alvarez nei panni di Rodolfo ha mostrato una voce di timbro ancora ricco e sano nella gamma centrale, ma molto involgarita ed accorciata nella zona acuta, con sgradevoli suoni nasali in zona di passaggio e sovente legnosi e sguaiati già dai primi acuti , oltre i quali di fatto il tenore argentino non ha potuto spingersi. L’aria, infatti, è stata abbassata di almeno mezzo tono, mentre è stata prudentemente evitata la puntatura al do acuto all’unisono col soprano, al termine del primo atto. L’interprete poi è quello di sempre, trasandato nel canto (rozzo nel legato ed arido di sfumature), grossolano e generico nel fraseggio, volgare nel gusto (davvero brutta la Gelida Manina cantata a squarciagola stando seduto a cavalcioni sullo schienale di una sedia, a gambe aperte). Resta la dote naturale a consentirgli di vociare con generosità, con parole aperte e scandite, secondo il più caricaturale e vulgato stereotipo del canto all’italiana. Il pubblico, però, sembra apprezzare.
A poeta sì aggraziato fa pendant la Mimì di Fiorenza Cedolins, fin troppo discreta come interprete, garbata nello stile, ma devastata nell’impianto vocale. L’eccessivo compiacimento in zona centrale, dove la voce mantiene ancora un certo corpo ed una bella morbidezza di timbro, comporta una completa sordità in zona grave ed eccessive prudenze nella salita all’acuto, con note sul secondo passaggio indietro e sfocate. Imbarazzante l’acuto in chiusa al prim’atto, quasi un falsettino, incerto nell’intonazione. I tempi generalmente lenti probabilmente la aiutano a preparare con prudenza la salita ai si bemolle e si naturali di cui la parte è costellata, ma la preoccupazione evidente di riuscire a fare le note toglie alle arcate melodiche tutta la loro carica di lirismo. Togliere slancio e lirismo a Mimì significa falsare il carattere del personaggio. L’emissione ovattata rende irriconoscibili le parole, il fraseggio è assente o generico, scarsi i colori. Ne esce un personaggio piatto e noioso. Una prova insomma decisamente pallida, di quelle che non lasciano alcun segno.
Senza infamia e senza lode il Marcello di Luca Salsi, la cui prestazione si può definire accettabile solo considerando il misero standard a cui il canto baritonale ci ha abituati a partire dal secondo dopoguerra. Un canto quindi monocorde, piatto, massiccio nella misura in cui lo consente una voce di scarsa risonanza (come tutte le voci di questa Bohème).
Vincenzo Taormina nei panni di Schaunard dà una buona prova di recitazione, ma più che cantare parla, mentre Deyan Vatchkov è un filosofo svociato ed ingolfato, in linea con la prassi canora odierna nella corda di basso.
Musetta è Natalya Kraevsky, che, ad onta di una buona presenza scenica, canta con voce malferma e sgarbata, emettendo grida scomposte in zona acuta (tremendo il valzer). L’interprete poi è del tutto priva di grazia ed eleganza.
Discreti i comprimari, bravi i bambini del coro, uno dei quali nell’intervento solo “Vo’ la tromba, il cavallin!” ha fatto sentire il suono più “avanti” e sonoro di tutta la recita.
John Neschling ha diretto con tempi generalmente lenti e colori che a noi non sono pervenuti, sicuramente a causa dell’acustica problematica dell’anfiteatro. Sono pervenuti invece i frequenti scollamenti tra buca e palco, con i solisti che andavano spesso per conto proprio, e le entrate dei cori nel secondo atto tutte fuori tempo.
Gradevole lo spettacolo di Arnaud Bernard, belli i costumi, essenziali ma efficaci le scene di William Orlandi, incardinate sul colore bianco, a suggerire un’atmosfera surreale e fuori dal mondo, fatta di sogni e ricordi.
Il pubblico non numeroso ha elargito come al solito copiosi applausi a tutta la compagnia.
19.VIII.2011

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martedì 23 agosto 2011

Il soprano prima della Callas, diciannovesima puntata. Giuseppina Cobelli


“Le l’ha mai sentù la Cobelli, allora ch’el tasa”. Era una delle più colorite e reiterate apostrofi della famosa Rina del loggione della Scala. Diceva della grande considerazione ed assoluta stima, che il soprano godeva presso l’allora giustamente non facile pubblico scaligero.


Giuseppina Cobelli (1898-1948) consente di affrontare, all’interno di questa ormai annosa riflessione circa la voce di soprano, il tema della cantante attrice, peculiare categoria cui saranno dedicate una cospicua seria di “puntante”. Con riferimento alla cantante attrice circolano due falsi miti. Il primo che la cantante attrice l’abbia inventata il Verismo e, secondo, che la cantante attrice compenserebbe con la recitazione e la presenza scenica limiti vocali e, prima ancora, carenze tecniche. Assunti di comodo o quanto meno poco informati e meditati. Basta leggere le recensioni loro contemporanee per sincerarsi che Maria Malibran, Giuseppina Ronzi e, persino, Rosmunda Pisaroni fossero ritenute artiste complete non solo per bagaglio tecnico ed eleganza di fraseggio, ma anche per la puntualità e felicità dell’azione scenica e della gestualità. Ancora basta ascoltare una registrazione di Claudia Muzio o di Madga Olivero per rilevare, al di là dei limiti naturali, un ragguardevole o addirittura esemplare controllo tecnico.
La affermazione di Giuseppina Cobelli fu rapida. Dopo un paio d’anni di rodaggio in teatri olandesi, che consentirono di “mettere su” buona parte del repertorio ed acquistare dimestichezza con il palcoscenico approdò alla Scala come Sieglinde nel 1925. Nel massimo teatro italiano rimase per un quindicennio, la carriera fu essenzialmente italiana, salvo qualche parentesi nei teatri sudamericani, dal 1935 fu gravata dall’handicap della sordità, il repertorio fu essenzialmente quello allora contemporaneo e wagneriano, la discografia pressoché nulla.
Alcuni di questi sono elementi meritevoli di riflessione.

Il repertorio. Erano gli anni di notorietà della Cobelli anni di grande concorrenza e doviziosa disponibilità di voci. Facile immaginare che la presenza di due autentiche fuoriclasse come la Raisa e la Arangi Lombardi in Verdi ed il gusto che richiedeva voci statuarie imponesse alla cantante gardesana altre scelte e tacciamo del gran numero di soprani lirici e lirico spinti, categoria dove Rosetta Pampanini deteneva dalla Scala al sociale di Biella il monopolio di Mimì e Butterfly. Non per nulla, i ruoli pucciniani della Cobelli furono Tosca e Minnie. E poi vi furono i ruoli del repertorio contemporaneo o quasi tipici della cantante attrice come Fedora ( debutto a Milano nel 1932) Adriana (debuttata ad Amsterdam nel 1925) e Francesca (prima volta a Palermo nel 1938) cui vanno aggiunte le prime assolute nei ruoli di protagonista delle Notti di Zoraima di Montemezzi (Milano 1931) e della Fiamma (Roma 1934). A questo repertorio deve aggiungersi Wagner di cui Giuseppina Cobelli venne universalmente considerata una delle grandi interpreti. Oltre alla già citata Sieglinde cantò Elsa (Bologna 1926 con Gigli e subito dopo al Colon con Fleta), dopo il 1930 venne considerata una grandissima Isotta e dal 1935 affrontò frequentemente Kundry. In buona sostanza nel volgere di un decennio la Cobelli affrontò le tre tipologie del soprani wagneriano.
Con riferimento al repertorio va rilevato come dal 1934 in poi nel repertorio della Cobelli furono via via più presenti parti marcatamente centrali o addirittura in “condominio” con i mezzo soprani acuti tipo Kundry, Fedora, Santuzza e la Margherita di Berlioz. E questo aspetto invita a riflettere sulla vocalità e sulla tecnica della cantante. Riflessione molto astratta soprattutto per la carenza di documentazione sonora. Giacomo Lauri Volpi nelle “voci parallele” parla, sulla scorta di una Tosca napoletana del 1928, dell’incubo della cantante, dettato dall’insicuro possesso del do5, nota indispensabile per Tosca, Minnie ed Isotta, che lo richiedono per giunta scoperto e sopra orditi orchestrali pesanti. Lauri Volpi come critico va tarato per quello che era ovvero un tenore, che temeva voci femminili poderose al centro come la Ponselle, la Rethberg, la Cigna , la Caniglia ed anche Giuseppina Cobelli. Certo è che per tutta la carriera la Cobelli ebbe la preoccupazione (documentata nella corrispondenza pubblicata da Maurizio Righetti nel volume “la donna del lago”) la preoccupazione di cantare bene e di non imporre alla voce spartiti pesanti, che la costringessero a gridare. In particolare la circostanza risulta dalla lettera del 28 maggio 1930 alla madre in cui la Cobelli riferisce delle lezioni di Giannina Russ. E chi conosca minimamente le registrazioni a 78 giri sa bene che cosa si potesse chiedere all’insegnamento di Giannina Russ.

Le registrazioni di passi da opere italiane ossia il “Suicidio” di Gioconda ed il racconto di Santuzza “voi lo sapete o mamma” come tutti i brani di fine ottocento chiamano in causa gli acuti estremi ghermiti o quanto meno da prendere con vigore, in ossequio alla situazione drammatica, e note gravi o peggio ancora in zona di primo passaggio particolarmente ostentate, sempre in omaggio alla situazione scenica. Vedasi il la naturale di “l’amai” chiesto a Santuzza o il si nat di Gioconda in “domando al cielo” oppure il fa diesis di “ultima croce del mio cammin” o il do diesis 3 “avel” che sono misurati e composti, scevri di ogni caduta di gusto e malcanto. Per essere chiari e sinceri neppure le due Gioconde meglio cantate del disco (ossia Giannina Arangi Lombardi e Maria Callas) fanno di meglio. Anzi . E poi il registro medio acuto della Cobelli risulta assai più fecile e spontaneamente risuonante. In questa zona si ascoltano suoni vellutati e lucenti accompagnati da un gusto sobrio e castigato, esaltati dalle qualità della musicista e dell’interprete. La cantante attrice emerge ad esempio nel racconto di Santuzza quando sfrutta la forza drammatica delle arrotate dell’ “arsi di gelosia” che serve a dar rilievo al dolce “prima dell’onor mio rimango” cantato con gusto e misura accompagnato dalla facilità del registro acuto.
Per altro la critica del tempo costantemente elogiava la qualità della voce sotto il profilo della morbidezza e rotondità e naturalmente esaltando l’interprete, come giustamente e normalmente avviene con riferimento alle cantanti attrici.
Il fatto, però, che emerge è come la Cobelli dal 1935 in poi evitò le scritture acute di Verdi che a differenza del Verismo e del repertorio contemporaneo richiedevano un legato ed una dinamica di cui la cantante non disponeva. E’ difficile, però, andare oltre la semplice supposizione per l’assoluta assenza di documentazione fonografica. Insomma è impossibile stabilire se la scelta derivasse da difficoltà vocali o dalla fortissima concorrenza di quegli anni.
A parte merita un accenno il rapporto privilegiato con Wagner che la portò quasi a Bayreuth (Giuseppina Cobelli conosceva abbastanza bene il tedesco). Anche qui devo rilevare la peculiarità di una fascinosa cantante attrice, avvezza alle tessiture centrali che mai abbia affrontato Venus ed Ortruda, limitandosi, si fa per dire a Sieglinde, Kundry ed Isotta di cui rimane una documentazione delle rappresentazioni scaligere del 1930 sotto la direzione di de Sabata. Anche qui veramente troppo poco per andare al di là di impressioni e supposizioni di quella che venne considerata dopo Salomea Kruscenisky la più completa realizzazione del personaggio wagneriano da parte di una cantante attrice italiana o di scuola e gusto italiani. Rimangono da questa reliquia di ascolto una voce in grado di reggere senza sforzo e manomissione del suono il magma orchestrale del grande direttore e di colorire adeguatamente la chiusa del Libestood . Ma siamo onesti basta così poco per rendere presente oggi una delle cantanti più grandi in Italia per almeno tre lustri?

Gli ascolti

Giuseppina Cobelli



Ponchielli - La Gioconda

Atto IV

Suicidio! (1925)


Mascagni - Cavalleria rusticana

Atto unico

Voi lo sapete, o mamma (1925)


Wagner - Tristan und Isolde

Atto II

O sink' hernieder (con Renato Zanelli - 1930)

Atto III

Mild und leise (1930)


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domenica 21 agosto 2011

Opera napoletana I. "Nina, ossia la pazza per amore" di G. Paisiello

E’ certamente al soggetto che la “Nina, ossia la pazza per amore” di Giovanni Paisiello deve la sua fortuna tra la fine del XVIII secolo e la prima metà di quello successivo. Soggetto non nuovo quello dell’opera di Paisiello, perchè di diretta importazione francese, tradotto più volte in varie lingue, che inscenava in anticipo un tema destinato a divenire caro al romanticismo, la follia per amore.


La pazzia amorosa femminile non era ancora, nella Nina, quella tipica dell’Ottocento, ossia la follia frutto dello scatenarsi di forti ed incontrollabili passioni interiori, quanto, piuttosto, una forma di depressione e malinconico straniamento dalla realtà. Ogni forma di palpabile alterazione della psiche veniva classificata come follia ai tempi della prima “Nina, ou La folle par amour”, libretto scritto da Benoit Joseph Marsolliers e musicato da Nicolas Marie Dalayrac nel 1786, e per il pazzo non erano previsti né guarigione né ritorno ad una vita normale, nessuna riammissione “tra i viventi”. Pare che Dalayrac si fosse ispirato ad una storia realmente accaduta, “La nouvelle Clémentine” di F.T.M. Baculard d’Arnaud, pubblicata nel 1783 assieme ad altri racconti nel suo “Délassements de l’homme sensible.”
Le nostre chiavi di lettura di stampo romantico poco si adattano, dunque, all’originario soggetto francese, connotato anche da una non celata polemica sociale prerivoluzionaria e borghese, in quanto soggetto di argomento “sentimentale”: Nina pare quasi una depressa che precipita in una sorta di isolamento dal mondo che veniva percepito anche come metafora di quello sociale: il disturbo mentale affligge e stacca la protagonista dal proprio ambiente, dalla propria casata, dal mondo. La comprensione piena del soggetto è, dunque, assai difficile oggi, abituati come siamo ai “ritorni” alla vita della pazze Elvira, o Lucia, cui la stessa Amina di Sonnambula, per certi versi, era a quei tempi assimilata da un altro male oscuro, il sonnambulismo. La connotazione positiva che il romanticismo conferì a questi stati alterati della psiche ( positiva è anche la morte di Lucia perché redenzione dall’omicidio commesso ) ebbe le proprie radici nella Nina di Dalayrac, soggetto, dunque, di palpabile valenza innovativa per il pubblico del tempo ed oggi per la storia dell’opera.
La fortuna italiana della “Nina pazza per amore” di Dalayrac iniziò nel 1788 al Teatro Arciducale di Monza, quando l’opera venne rappresentata tradotta in italiano da Giuseppe Carpani, protagonista Anna Morichello Boselli, espressamente prescelta per le sue qualità di attrice cantante. La letteratura musicale non restituisce sempre il ruolo che, invece, spetta al traduttore e librettista della Nina, perché, di fatto, è grazie alla sua intuizione artistica ed al suo obbiettivo culturale che Nina è divenuta un’opera fondamentale nella storia del teatro musicale. Si trattava di un avvocato, intellettuale nato e cresciuto culturalmente nell’Aufklaerung milanese, legato alla corta austriaca, autore di piéces teatrali e libretti d’opera, nonché di saggi di argomento musicale, in particolare su Haydn e Rossini, in rapporto con intellettuali ed artisti del suo tempo. La traduzione della Nina, riferita alla prima fase dei lavori di Carpani per il teatro, si inquadrava in un obbiettivo ben preciso, quello della revisione del teatro musicale italiano sulla base delle avanguardie europee Nell’opera musicata da Dalyrac vi erano alcuni elementi di novità e di modernità per il giovane Carpani, cioè la formula dell’operà comìque di brani cantati alternati a brani parlati, senza recitativi,;il soggetto di target squisitamente borghese, il nuovo tema della pazzia amorosa. L’interesse per da parte di Carpani per “Nina, ou la folle par amour” fu tale che le manipolazioni al testo francese furono minime ed in questa aderenza all’originale gli storici della musica hanno potuto riscontrare il notevole interesse per un modello di teatro musicale del tutto estraneo alla tradizione italiana. La sostituzione dei recitativi con i parlati implicava la ricerca, intenzionale, di una nuova espressività da parte dei cantanti – attori protagonisti, espressività cui i cantanti italiani non erano abituati in quanto i dialoghi recitati nell’opera italiana spettavano ai soggetti comici, tipicamente dell’opera comica napoletana, e non certo ai generi sentimentali e larmoyant.
L’intento del Carpani era quello di superare la consolidata prevalenza del canto e della libertà virtuosistica dei cantanti italiani a favore di una maggiore intenzionalità espressiva delegata ai parlati-recitati che sostituivano i recitativi secchi della tradizione.
Quanto alla fortuna del soggetto, essa rimase viva sia in forza dell’interesse, che alcune grandi primedonne del belcanto italiano nutrirono per la versione di Paisiello, a cominciare, guarda caso, da una delle piu’ rinomate fraseggiatrici del tempo, Giuditta Pasta, ma già prima anche la stessa Colbran, sia perché venne da subito tradotta più volte ( stando alla testimonianza dello stesso Carpani in tedesco, russo e perfino svedese…, certamente piu’ volte in inglese etc..) e rimusicata da diversi compositori ( in Italia si conosce la riedizione realizzata dal duo Jacopo Ferretti - Pietro Antonio Coppola del 1835 ).
Fu l’illuminismo milanese ad importare un soggetto destinato a grande fortuna, ma fu solo con Giovanni Paisiello, grande esponente della scuola napoletana, che prese forma la versione più celebre nella storia dell’opera della Nina pazza per amore. Nel giugno del 1789 alla reggia di Caserta, esattamente presso il borgo di San Leucio nel parco della Villa Reale ove avevano sede le manifatture di seta, che Ferdinando di Borbone intendeva in quell’occasione pubblicizzare, l’opera andò in scena per al prima volta nella versione in un atto unico, sfruttando la traduzione del Carpani, minimamente modificata da Giambattista Lorenzi, autore di libretti per opere comiche napoletane. L’opera venne quindi portata al Teatro dè Fiorentini, teatro principale dell’opera buffa napoletana, a Napoli nel 1790 nella versione modificata in due atti, per la quale Paisiello compose un nuovo ensemble preceduto dalla famosa “canzone del pastore” ed una nuova aria per Giorgio ( versione nella quale l’opera è di fatto circolata nella maggior parte delle rappresentazioni ), quindi a Parma nel 1793, in una nuova versione, non autografa di Paisiello, in cui i parlati vennero sostituiti da recitativi accompagnati. Il trionfo fu completo ed indiscusso presso ogni genere di pubblico, aristocratico e borghese, nonostante l’evidente anomalia del soggetto ed la differenza di genere dalla tradizione dell’opera buffa napoletana.
Paisiello, al contrario, mise la propria cifra musicale ad un soggetto destinato ad essere tanto amato da costituire un vero e proprio prototipo drammaturgico e musicale anche per il teatro lirico posteriore.
Si affidò, come già per la prima sanpietroburghese del Barbiere di Siviglia, alle straordinarie e celebrate capacità liriche di Celeste Coltellini ( 1764-1829 ), soprano, che seppe dar voce alla vocalità essenzialmente patetica di Nina, in parte ancor prima di Rosina, scritture che, non presentando specifiche difficoltà di tipo acrobatico, impegnavano l’esecutrice sul piano del “dire”, del fraseggio intenso e commovente. La più famosa aria dell’opera “il mio ben quando verrà” rispecchia le caratteristiche vocali ed interpretative della prima esecutrice.
La misura di questo successo di portata europea è data dalle innumerevoli versioni documentate dell’opera, che includono inserimenti, tagli, remake di vario genere operati dagli impresari e dalle primedonne di mezza Europa che rappresentarono l’opera a cavallo tra il XVIII ed il XIX secolo. Vi misero mano persino celebrità come Da Ponte per una versione viennese rimaneggiata da J. Weigl, e Luigi Cherubini, per la versione parigina del 1791.
In particolare fu proprio il progetto culturale di Carpani, volto ad innestare nella tradizione italiana stilemi espressivi dell’operà comìque francese, a fallire sotto la spinta dei cantanti italiani, avvezzi al recitativo accompagnato ed ostili al parlato, tanto che l’opera finì per circolare, agli inizi del XIX secolo soprattutto, nella formula con i recitativi della versione non autentica di Parma.
L’opera sopravvisse nella prima metà del XIX secolo grazie ad alcune celebri primedonne, come le suddette Colbran, Malibran e Pasta, che continuarono a dar voce a Nina come prima di loro avevano fatto soprani rinomati come la Banti o la Grassini. Non sappiamo esattamente in che modo e cosa eseguissero primedonne che praticavano normalmente la prassi degli inserimenti da altre opere come pure la libera interpolazione del testo originario. L’affermazione del prototipo drammaturgico della Nina, che il ritratto del 1829 di Giuseppe Molteni di Giuditta Pasta nel title role da solo ben documenta a distanza di quasi due secoli, è stigmatizzato dalle vicende compositive dei Puritani. A Parigi Bellini avrebbe scientemente inteso riallacciare la sua nuova opera alla grande tradizione italiana, napoletana in particolare, che aveva trovato anche prima di Rossini grande fortuna nella capitale francese. La Nina di Paisiello, tra l’altro il compositore preferito da Napoleone Bonaparte, non era andata incontro all’oblìo, come la maggior parte delle opere del musicista pugliese, né in Italia né in Francia, anzi continuava ad essere rappresentata al des Italiéns con grande successo, in forza anche delle proprie radici francesi. La storiografia musicale più volte ha sottolineato la preoccupazione anche di Vincenzo Bellini come dei suoi colleghi di organizzare i propri obbiettivi musicali su precedenti autorevoli e graditi al pubblico, topoi di grande successo in questo caso presso il pubblico parigino. Il coro che introduce il canto di Giorgio nel secondo atto, prima della pazzia di Elvira, nonché l’aria con la quale il basso narra la pazzia della protagonista ricreano un clima del tutto analogo a quello che apre la Nina. Stando alla storiografia musicale, l’intera struttura della scena sarebbe stata imposta a Pepoli proprio da Bellini, nonostante l’azione dell’opera abbia luogo in una castello secentesco, ossia su uno sfondo ben diverso dal giardino domestico e dal clima arcadico in cui ha luogo il dramma di Nina. La scena di pazzia, quindi, completava l’analogia con il vecchio modello napoletano, cui apertis verbis, Bellini dichiara di rifarsi in una nota lettera a Florimo, scritta durante la stesura della versione napoletana dei Puritani. Bellini cercava in quel momento di garantirsi la presenza della diva Malibran, che sarebbe stata attratta certamente dal soggetto oltre che dalla musica “..poiché è appassionata come una Nina basterebbero le sole situazioni dette in prosa, ed agite da essa, perché ne ritragga un immenso interesse…”. Una grande scena di pazzia, dunque, costituiva una via sicura per interessare una diva celeberrima ad una nuova opera, perché vi avrebbe trovato il giusto spazio per esibire le proprie capacità espressive.
Alienazione e follia femminile ( non dimentichiamoci di quella maschile, dall’Orlando di Haendel, ancora venata da aspetti comici, a quelle tragiche rossiniane di D’Ordow ed Assur prima, quindi di Torquato Tasso di Donizetti ) grazie alla Nina di Dalayrac e di Paisiello fecero, dunque, il loro ufficiale ingresso nel teatro musicale prima che in ogni altro genere artistico, andando a costituire un topos del canto tragico per le primedonne del belcanto e, più tardi, del canto romantico, continuando ad ispirare dive e compositori per tutto il XIX secolo. L’opera di Paisiello tramontò sotto la spinta del cambiamento mosso delle mode musicali, mentre il nucleo essenziale del soggetto fu destinato a sopravvivere assai più a lungo.


Gli ascolti

Giovanni Paisiello

Nina, o sia la pazza per amore



Atto I

Il mio ben quando verrà - Teresa Berganza, Lella Cuberli (1977)























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venerdì 19 agosto 2011

Scendendo la collina: Elsa von Bayreuth

Lohengrin” a Bayreuth ebbe il suo battesimo nel 1894, cioè a quasi vent’anni dall’inaugurazione del Festival e ad un passo dal nuovo allestimento del nuovo “Ring” dopo l’apertura del 1876.
Fu Cosima Wagner a volere fortemente il nuovo allestimento e pose la “primadonna” scelta per Elsa grazie ai suggerimenti del direttore Hans Richter, ovvero Lillian Nordica, allora versatile soprano di prima grandezza, al centro di un cast internazionale, mossa strategica e pionieristica verso un’apertura del sacro tempio wagneriano a cantanti non solo tedeschi.


Lillian Nordica preparò il ruolo con Cosima e le prove non furono scevre da tensioni, anche emotive, che in parte minarono l’esito canoro della prima recita; eppure quelle recite, nel prosieguo, si risolsero in un grande trionfo, ripetuto successivamente nelle recite newyorkesi, nuovo teatro d’elezione che consacrò la cospicua fama della grande cantante.
La voce della Nordica, in effetti, rappresentava per l’epoca l’incarnazione ideale delle caratteristiche vocali di Elsa: accento aulico che sapeva diventare tenero e febbrile, robusto e chiaro il timbro, a proprio agio nell’emissione flautata, anche se con una punta di gutturalità, nelle note centrali comunque morbide nella loro costante sollecitazione, radiosi gli acuti, successivamente un po’ fissi tuttavia, utili soprattutto al II° e III° atto e segno di un passaggio di registro che risuciva a saldare le due ottave. Il legato da manuale e la respirazione le consentirono di affrontare le poche note gravi con naturalezza e senza ricorso al parlato.
Occorrerà attendere il 1908 per la ripresa dell’opera, per le cure stavolta di Siegfried Wagner, autore anche dei cambiamenti dell’allestimento materno, atti a rendere più essenziali e al passo col nuovo corso teatrale gli elementi ed i movimenti scenici.
Beniamina del Festival per ben tre edizioni, distinguendosi in ruoli come Elisabeth, Brangaene, Sieglinde, Gutrune, III Norna, Katharina Fleischer-Edel poteva vantare una femminilità più marcata e meno astratta, sempre nel merito del gusto dell’epoca, rispetto al modello rappresentato dalla Nordica: timbro anch’esso da lirico spinto, la Fleischer-Edel contava su una ottima musicalità e su un registro centro-acuto omogeneo anche se attraversato da un vibrato naturale molto suggestivo.
L’anno successivo ecco arrivare una delle creature più riuscite della gestione di Siegfried Wagner:
Lilly Hafgren-Waag (o Hafgren-Dinkela).
Giovanissima, ma dalla sensibilità spiccata e dalla personalità incandescente la Hafgren-Waag, possedeva voce argentea e robusta insieme, molto sicura e omogenea, dunque ideale per dipingere una Elsa fanciullesca capace di essere al contempo volitiva, in virtù della quale, oltre a Freia ed Eva, la spingerà con successo ad ampliare il suo repertorio verso ruoli wagneriani più drammatici e altri compositori a cavallo tra i due secoli.
Si alternava in quell’anno a Gertrude Rennyson, cantante dalla carriera breve, interrotta purtroppo a causa della Prima Guerra Mondiale quando stava per esordire al Met, ma che nel primo decennio del ‘900 riuscì a costruirsi una solida fama grazie al repertorio consueto, alla voce dai bagliori argentei e alla totale identificazione con il ruolo.

Maria Muller, titolare del ruolo nel biennio ’36-’37, è un miracolo di emissione sul fiato, di timbro di abbagliante lucentezza, di dolcezza incomparabile, di perfezione musicale e fraseggio irresistibile.
Nessuna frase, nessun accento, nessuna sillaba viene sprecata in un canto la cui perfezione stilistica non è solo fredda esibizione di note, ma è l’esempio preclaro che con la tecnica, la dizione ed il fraseggio si possono davvero raggiungere vette espressive.
Nel I° atto ad esempio il canto della Muller è tutto in crescendo; un crescendo impalpabile ed emozionante che la trasforma da creatura introversa e distante a donna viva e libera alla vittoria di Lohengrin su Telramund. Allora i piani della voce ammaliano e commuovono e ci portano dentro questa umanità femminile non più sola ed il secondo atto si ammanta di malinconia e mistero fino ad esplodere in un climax in cui la sensualità trattenuta della donna e le irate domande fatali diventano le due facce di un dubbio di difficile risoluzione. Tutto questo merito di una voce che non tradisce mai se stessa né l’autore e che vibra di spontaneità.
La Muller rappresenta, a ragione, una delle Else per antonomasia la cui eredità è stata accolta e fatta evolvere da artiste del calibro di Eleanor Steber, Elisabeth Grümmer, Leonie Rysanek, Cheryl Studer.
Più delicata Kathe Heidersbach, colonna del buon comprimariato del Festival negli anni ’20-’40 a cui venivano affidati anche dignitosi secondi cast (Elsa appunto, ma anche Eva e Gutrune).

Nel ’53 apparve il nuovo “Loehngrin” della “Nuova Bayreuth” che mancava dall’ormai lontano 1937 e vi brillava la stella incomparabile di Eleanor Steber: forse tra le pochissime che è riuscita a donare a Elsa quella patina di naturale sensualità ed eleganza rendendola unica nel panorama discografico.
Naturalmente merito di un timbro di argento vivissimo animato da musicalità e tecnica eccellenti: nessuna frase viene tralasciata, ma anzi detta e interpretata senza manierismi, ma solo fidandosi della partitura e delle proprie possibilità, che sono invero cospicue potendo contare su un controllo del fiato eccellente, un sostegno del suono robustissimo e che non compromette l’intrinseca bellezza timbrica, un registro acuto ampio e luminoso insieme che non teme stonature. L’Elsa della Steber è una donna vera, una donna che vive e conosce i turbamenti dei sensi e la fragilità umana.
Splendida creatura l’Elsa della Steber!
L’anno successivo debuttò sulla collina, per stabilirsi successivamente fino al 1970, Birgit Nilsson (impegnata quell’anno curiosamente oltre che in Elsa anche in una Ortlinde di “peso”); ma dopo aver detto che la Nilsson canta in modo sovrano, ha voce sicura in ogni registro, bellissima, torrenziale, sostenuta da canto sul fiato da manuale, perfetta nel legato e nell’intonazione, che rispetta tutte le indicazioni, c’è veramente poco altro da riferire: una Elsa in armatura, volitiva e sicura di se. Nulla la turba e niente la sfiora, così faccio fatica a immaginarmi “indifesa” questa principessa brabantina, ma piuttosto pronta con spada sguainata ad affrontare senza cavalier servente e senza richieste d’aiuto proprio Telramund.
Purtroppo il personaggio per quanto “inedito” è interpretato da una Giovanna d’Arco granitica nella propria fede, così poco credibile è tutto il duetto del III° atto la cui coerenza drammaturgica viene a crollare irreparabilmente.
Forse sarebbe stato più interessante, magari tra gli anni ’60 e ’70, ascoltare la Nilsson nei panni di Ortrud, magari sfruttando a proprio vantaggio una interpretazione fredda, raziocinante e tagliente insieme.

Recite leggendarie quelle allestite da Wieland Wagner tra il ’58 ed il ’62 attraverso un allestimento di rara potenza e suggestione rimasto emblematico per l’uso eccezionale della luce la quale dava al Cavaliere del Graal quelle tinte azzurre e argentate della tradizione, ma rivisitate in chiave simbolica.
Vellutato e spesso il timbro di Leonie Rysanek e nonostante l’intonazione non fosse il suo forte in quelle recite contenne gli sbandamenti della linea di canto ottenendo una morbidezza tutta femminile e molto morbida, sfoggiando piani e pianissimi di grande bellezza e pertinenza ed un buon legato anche se qualche acuto sotto sforzo e preso con cautela non tarda a farsi sentire.
Si ha come l’impressione che la Rysanek abbia preso a modello la Elsa interpretata al Met dalla sua “rivale” di quella sera, cioè quella Astrid Varnay che poi divenne Ortrud per antonomasia per almeno un ventennio: impressione resa tangibile dall’interpretazione che rifugge l’oca giuliva tremebonda, piagnucolosa e gemente, a fronte di una donna autentica, pugnace e sensuale insieme, ma attraversata da una vena di tragicità e nevrosi che incombono a minare tanta sicurezza, la quale esplode letteralmente nel III° atto in cui il duetto d’amore si trasforma in un duello vocale di personalità.
Non si può non restare incantati ascoltando il magnifico canto di Elisabeth Grümmer, che succedette alla Rysanek nel ’59 e nel ’60.
Cristallo puro ricchissimo di bagliori lucenti, ma affatto fragile, il timbro di questa grande artista che illumina il personaggio attraverso tinte cremose e sfuggenti priva di manierismi o inutili piagnistei bamboleggianti. Tecnica d’alta scuola, posizione alta del suono, respirazione perfetta, omogeneità dei registri, emissione naturale, voce strumento levigatissimo, che al contrario di una Janowitz, sapeva riempirsi di calore; che difatti questa Elsa possiede con dovizia dimostrando il trapasso dall’estasi onirica del primo atto, al risveglio tutto umanissimo, a tratti materno, degli atti successivi, come nello scontro con Ortrud in cui è palpabile il risentimento verso una fiducia tradita, oppure nel duetto con Lohengrin, in cui il pudore iniziale diventa nevrosi mai sopra le righe.
Tra le Else esemplari.
Poco da dire sul canto aspro, problematico nella tenuta della linea, poco idiomatico di Aase Nordmo-Loevberg, la quale interpretava nella stessa stagione (1960) non si sa bene per quali meriti, anche Sieglinde e la III Norna, con i medesimi mediocri risultati; mentre Annelies Kupper, presente per una recita e già ingaggiata per il ruolo di Eva a Bayreuth nel ’44, raffigura un’Elsa sognante e favolistica grazie ad un timbro pieno e caldo e ad una emissione elastica e beneducata.
Nella ripresa del ’62 ecco arrivare la giovanissima Anja Silja, già colonna portante del Festival da due anni e forte dei successi riportati in Senta e Elisabeth.
Voce Chiara, acidula, querula ovunque, problematica nel passaggio, la Silja, canta tuttavia un poco meglio che in altre occasioni nonostante la fatica del secondo duetto con Ortrud in cui la voce è schiacciata, come ingolfata, ed ha il pregio di vibrare però di giovinezza; eppure, e la cosa mi ha sempre meravigliata molto, dove risieda il carisma o la fantasia interpretativa, la tensione emotiva e psicologica, la fragilità umana, in questa incarnazione faccio realmente fatica ad identificarla, sostituiti piuttosto da una generica virginale mestizia. Per sentirla, finalmente, fraseggiare dobbiamo dunque ascoltare il duetto con Lohengrin in cui, era ora, si percepisce tale ansia nervosa, nonostante la voce sempre più bianca, aspra e con taluni sbandamenti nella linea di canto, la mancanza di legato e acuti vetrosi non aiutino molto le orecchie, ma perlomeno risulta coinvolgente a livello emotivo.
Hildegard Hillebrecht, cantante molto professionale che la sostituì in una recita, aveva voce un po’ dura nell’emissione, ma che riusciva ad essere alleggerita, come ovattata e sostenuta da accento dolcissimo e soave, molto seduttivo in certe inflessioni in piano e pianissimo.

Nella stagione del 1967 a un anno dalla morte di Wieland Wagner, il fratello Wolfgang mise in scena un nuovo allestimento di “Lohengrin” diretto da Rudolf Kempe.
Strana scelta quella che portò Wolfgang ad affidare il ruolo di Elsa ad un soprano singolare come Heather Harper inglese di nascita e carriera (dal 1954), ma non solo: interprete tra le favorite di Britten ad esempio che la vorrà in alcune importanti incisioni delle proprie opere, esperta nel repertorio mozartiano, passando con disinvoltura da Monteverdi a Purcell, da Strauss al contemporaneo Tippett.
Il timbro della Harper si presenta chiaro, da tipico soprano lirico, dotata un registro centrale di bel colore nonostante l’ombra di vibrato che non infastidisce. A volte l’emissione pecca in qualche ingolatura come nell’invocazione prima dell’arrivo del cigno oppure in suoni tirati soprattutto negli acuti del III° atto e l’interpretazione non è del tutto centrata nonostante un affascinante crescendo che permea il suo fraseggio. Molto timida e guardinga e senza slancio al primo atto, molto preoccupata più di cantar bene e del legato, comunque ragguardevole, l’aria al II° più che fraseggiarla, ma di fronte ai due duetti con Ortrud questa Elsa mostra al contempo calore e candore affatto banali, che diventano eloquenti durante il duetto con Lohengrin in cui il timbro radioso si sposa con l’interprete finalmente temperamentosa (in quell’anno dovrà affrontarne ben cinque di Lohengrin!). Verrà confermata anche l’anno successivo.
Hannelore Bode fu cantante di casa a Bayreuth per molti anni alternando piccoli ruoli (Fanciulla Fiore, Uccellino della foresta, Gerhilde, Freia, III Norna) a ruoli importanti (Elsa, Eva, Sieglinde, Gutrune). Sostituì Heather Harper con cui condivideva la voce da tipico soprano lirico gradevole all’ascolto, anche se emessa tra naso e gola, poco risonante in basso, mentre l’espressività latitava non poco. Non che cantasse male la Bode del ’71-’72: al centro ha una certa rotondità e robustezza, ma anche una fragilità del registro acuto che lo fa vibrare e l’interprete è semplicemente corretta e con una limitata tavolozza di colori.

Mancava dal ’72 “Lohengrin” sulla collina quando venne varato un nuovo allestimento ad opera di Goetz Friedrichs che poteva contare sulle bacchette, invero miserrime, di Edo de Waart prima e Woldemar Nelson poi.
Edizione stroncata all’unanimità da tutta la critica, a ben ragione aggiungerei.
Venne, casualmente (?), scelta come Elsa e confermata per ben quattro stagioni (!), la moglie del regista, Karan Armstrong e sinceramente, a parte la parentela, non se ne comprendono le ragioni!
Voce dal colore candeggiato, con parecchi problemi d’emissione, dall’intonazione ballerina e molte note prese da sotto, completamente vuota in basso, oscillante e corta in alto quando non riesce a inchiodare il suono in note fisse e sgradevoli; e non è granché nemmeno a livello interpretativo limitandosi a lamentarsi per tutta la durata dell’opera.

Voce sicuramente non eccezionale quella di Catarina Ligendza che sostituì in corsa Nadine Secunde, successivamente Sieglinde di eccezionale carnalità nel magistrale “Ring” di Barenboim, sempre a Bayreuth, indisposta nella serata d’ apertura del Festival di Bayreuth ’87.
Dicevo voce corta in alto prima di tutto, in cui il registro acuto risulta al limite dell’intonazione e della fissità, timbro non fascinoso e si sente nel suo canto qualche durezza, ma artista di spiccata sensibilità: fa una certa meraviglia ascoltare una voce spessa nella sostanza, ma che rimane lirica, piegarsi a piani e pianissimi in cui vibra oltre che il controllo della linea di canto anche una sotterranea nevrosi, una visionarietà sognante. Anche il legato, per quanto non irreprensibile ha modo di integrarsi splendidamente nell’interpretazione. L’aria del II° atto vibra di una serena pace interiore raggiunta, la voce addirittura si fa più chiara e leggera anche se minata da durezza e qualche fissità. Se il primo duetto con Ortrud è pienamente riuscito, il secondo denota fatica a sostenere il passaggio con conseguente appesantimento di acuti e fiati. Il terzo atto la vede invece concentratissima, impetuosa quasi come una seduttrice e cauta nella linea di canto che resta difatti robusta.
Cheryl Studer brilla invece per la bellezza del timbro d’argento, per un buon controllo dei propri mezzi sia al centro che in alto, in possesso di un vibrato che non risulta invadente e non lede la linea di canto che si assottiglia in morbidi piani e pianissimi di grande purezza nonostante una intonazione non sempre irreprensibile. Molto buono il legato, come interssente l’interpretazione personalissima che aveva già affrontato e approfondito con Abbado. Una Elsa radiosa e distante da tutto ciò che la circonda, estatica nel primo atto e via via più squilibrata e nervosa nel prosieguo. Nel secondo e terzo atto riesce a creare l’intimismo che traspare dalla preghiera ed è ammantato da una patina molto dolce di malinconia.
Eva Johansson successe alla Studer nelle ultime riprese: il pensiero va alla speranza che abbia contenuto le urla, l’isterismo e le disuguaglianze che ne hanno presto minato la voce.

Nel ’99 sotto la bacchetta di Pappano, fu scritturata Melanie Diener, la quale nonostante una certa gradevolezza timbrica è e rimane una voce senz’anima: monotona fino all’esasperazione, glaciale nel fraseggio, con qualche problema nella tenuta delle note di passaggio e acuti fibrosi più che proiettati con cura, dalla pronuncia non del tutto ben articolata, fissa in quello che potrebbero essere definiti “piani”.
Al contrario Emily Magee (vista e ascoltata più volte dal vivo e sorprendente in una recente Minnie a Zurigo), che la sostituì in una delle prime recite, e di cui resta bella testimonianza nell’incisione dell’opera a cura di Daniel Barenboim, dimostra di possedere grande professionalità e credibilità stilistica: non è interprete ricca di fantasia e dalla personalità bruciante, ma sa essere corretta e creare con una voce che in dieci anni è rimasta pressoché inalterata, una Elsa misteriosa e dalle tinte autunnali, robusta vocalmente parlando e a suo agio su tutta la linea di canto.
Meno sicura della Magee, ma molto più intonata ed espressiva della insipida Diener, Petra Maria Schnitzer, la terza Elsa di questo ciclo, si impone per l’impeto che ricorda per certi versi certi scatti passionali della Rysanek, come dimostrano il II° e III° atto di intensità e tensione spasmodici, incarnando con sensibilità personalissima una eroina efficacemente tutta scatti di nervosismo, riuscendo a piegare uno strumento dalle risonanze liriche, ma acidule, a piani e pianissimi di grande coinvolgimento emotivo.

Per l’ultima arrivata Annette Dasch preferisco autocitarmi direttamente dalla recensione che ne feci lo scorso anno:
“Annette Dasch, starlettina baroccar-mozartiana (micidiale il suo CD dedicato al personaggio di Armida), esordisce a Bayreuth nel ruolo di Elsa, con una vocina che con Wagner non avrebbe nulla da spartire a meno che non voglia cimentarsi in Freia o una Fanciulla Fiore.
La prima aria fa percepire una vocina sicuramente giovane, ma bianchiccia nel colore, appoggiata perfettamente alla gola, dal retrogusto acidulo, fissa in tutti gli attacchi e nemmeno tanto estesa in acuto, dimostrando in ogni momento quanto la tessitura le stia larga, mentre l’accento ritrae la solita bambolina bionda plastificata, che alterna inflessioni bambinesche e vezzosette a diffuso disinteresse espressivo. Non c’è mistero, non c’è ansia, non c’è dolcezza, non c’è la visionarietà onirica, non c’è un uso soave del legato e nemmeno l’isterismo nella voce della Dasch, la cui fragilità vocale la fa vibrare già sul passaggio fino a irrigidirsi e renderla stridula e stonata sui La e Si acuti. Nulla turba il suo canto trasformandola in breve nella versione lagnosa di Papagena, Zerlina, Despina, Barbarina, Serpina come dimostra l’accento dimesso e la prudenza dell’emissione nei due duetti con Ortrud, in cui è evidente la presenza di un eccesso di vibrato, di secchezza timbrica e di un non perfetto uso del fiato. Inadeguata.”

Oggi di buone “Else” se ne contano almeno tre: oltre alla Magee, citerei la Pieczonka e la Isokoski; le quali probabilmente cantano con uno standard troppo alto per la sfasciata vetrina wagneriana che è diventato il Festival di Bayreuth o probabilmente non entrano con disinvoltura negli abiti preparati per Annette Dasch o probabilmente non sono abbastanza carine, fotogeniche e telegeniche come lei o molto probabilmente sono abbastanza intelligenti da tenersi alla larga da tanto orrore.

Gli ascolti

Richard Wagner

Lohengrin



Atto II

Euch Lüften, die mein Klagen...Elsa! - Leonie Rysanek & Astrid Varnay (1958)


Atto III

Das süße Lied verhallt - Fritz Voegelstrom & Lily Hafgren (1910), Sandor Konya & Leonie Rysanek (1958, Jess Thomas & Anja Silja (1963)












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