giovedì 29 luglio 2010

Il concerto di canto: Renata Scotto alla Carnegie Hall (1972)

Il concerto di questo fine luglio, in attesa dell'agosto "caldo", è dedicato ad una paradigmantica dicitrice: RENATA SCOTTO.

Una Scotto del 1972, ossia la cantante reduce dall'avventura Vespri Siciliani scaligeri, che se da un lato le chiuderà per più di un decennio i rapporti con il teatro milanese, dall'altro la consacrerà regina del Met. Renata Scotto, infatti, tornerà in Scala solo nel 1985 a polemiche ben sopite (il concerto fu accompagnato da applausi ora sentiti, ora di stima) e carriera di fatto conclusa.
Fine dicitrice, maestra e regina di eloquenza sono le più pregnanti qualificazioni per questa cantante. Nel concerto ne fa amplissima mostra, magari piegando a questa propria peculiarità altre qualità, che legittimamente si potrebbero richiedere. L'esecuzione di Handel, la dolorosa lamentazione di Cleopatra, è struggente e patetica, ma la Scotto non si pone e non risolve problemi di stile e di prassi esecutiva, che erano le ragioni di scelta, prima, e di ammirazione da parte del pubblico, poi, di Joan Sutherland o di Lella Cuberli. Accenta splendidamente. Anche con queste limitazioni i rimpianti sono, però, giusti e, poi, in concerto il cantante deve in primo luogo dimostrare la propria arte e bravura.
A questo requisito rispondono le esecuzioni delle arie di Vestale, personaggio cantato nel 1970 dalla Scotto in uno dei suoi, tanti, passi più lunghi della gamba. L'accento è personale, eloquente, irresistibile, ma il peso vocale e l'ampleur di Giulia sono quelli, a 78 giri, di Rosa Ponselle o di Ester Mazzoleni. Qui Mimì è sempre un po' in agguato e la scrittura sul passaggio ogni tanto costringe la Scotto a suoni un poco striduli sul forte. Sul piano e sul mezzoforte la voce è veramente bellissima e di gran timbro.
La qualità emerge oltre che negli andanti anche nella vocalizzazione dell'arietta (si fa per dire) "Ne ornerà la bruna chioma" o della grande scena di Virginia di Mercadante. Era quello del terzo e quarto decennio dell'Ottocento il repertorio naturale di Renata Scotto. Non condivido l'opinione del mio carissimo amico Semolino, che la Scotto fosse verista in quel repertorio. Se mai era una cantante che talvolta, praticando sistematicamente "il passo più lungo della gamba", incorreva per conseguenza in forzature, che snaturavano il timbro prezioso. Quanto al colorire ogni parola ed ogni frase pare fosse caratteristica di Giuseppina Ronzi de Begnis, creatrice di Elisabetta Tudor del Devereux e, quindi, il fraseggio eloquente non è invenzione del cantante verista, come non è monopolio del cantante da Donizetti o Bellini emettere bei suoni. Ascoltate, poi, la grande aria di Isabella del Roberto il diavolo: non un brutto suono, ciascun suono calibrato e librato sul fiato, un gioco di colori e di dinamica da interprete di levatura storica. Grandezza e levatura dell'interprete in questo repertorio non dipendono dal numero dei piani e delle forcelle o dalle puntature inserite, ma dal senso drammatico che questi elementi assumono nell'esecuzione. Infatti è arte, non mestiere!


Renata Scotto - New York 1972


Georg Friederich Handel

Giulio Cesare

Atto III - Piangerò la sorte mia

Gaspare Spontini

La Vestale

Atto II - O Nume tutelar

Atto III - Caro oggetto

Gioachino Rossini

La partenza

L'invito

Gaetano Donizetti

Ne ornerà la bruna chioma

Saverio Mercadante

Virginia

Atto I - Scena, Aria & Cabaletta

Giuseppe Verdi

Il Mistero

Stornello

Brindisi

Hector Berlioz

Les nuits d'été op. 7

Villanelle

Le spectre de la rose

Claude Debussy

Les ariettes oubliées

C'est l'extase

Maurice Ravel

Chanson

Ildebrando Pizzetti

I pastori

Giacomo Meyerbeer

Robert le diable

Atto IV - Roberto, tu che adoro

Gaetano Donizetti

Voga, voga

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martedì 27 luglio 2010

Ultimo fandango a Siviglia: Don Giovanni dal Festival d'Aix-en-Provence

E' trascorso qualche giorno dalla diretta ARTE del Don Giovanni dal Festival d'Art Lyrique d'Aix-en-Provence. Produzione ovviamente prestigiosissima anche e soprattutto nella firma registica, requisito imprescindibile per l'opera e per il pubblico che "contano", oggi come oggi. Una diretta accolta, nel suo divenire e al termine, da imbarazzati silenzi e copiosi fischi della sceltissima platea, che ha replicato, con maggiore foga, il dissenso testimoniato l'anno scorso in occasione dell'Idomeneo, spettacolo parimenti "intelligente".
Anche noi brutti cattivi e ovviamente ignorantissimi del Corriere abbiamo seguito la diretta e avremmo alcune cose da osservare. Per evitare lungaggini, e anche per condividere con altri la "gioia" della rinnovata audiovisione e riflessione su quanto visto e ascoltato, ci siamo divisi i compiti. Cedo quindi la parola alle colleghe C. Marchisio (che ci parlerà del protagonista, del Commendatore e di Zerlina) e Brandt (che si occuperà invece di Leporello, Don Ottavio, Donn'Elvira e Masetto) e ritornerò in chiusura per dire due parole su Donn'Anna (anzi, facciamo tre, perché una la dico subito: spaventosa), nonché sulla direzione e la regia. - A.T.



Alcuni dei cantanti “in gara” rasentano i confini della parodia involontaria (d’altra parte il clima è quello del concorso…).
Il Don Giovanni di Bo Skovhus, “specialista” del repertorio dapontiano con qualche incursione nell’operetta, è una sorta di macchietta a metà strada tra la paranoia di un Kinski herzoghiano e l’immortale rimando al Paul di rue Jules Verne della Parigi di Bertolucci (pure la stessa illuminazione sembrerebbe richiamare le tonalità calde e pastose di Storaro). Ma, inutile dirlo, è un azzardo da fegato in piena forma. Perché Tcherniakov dimostra in questo modo non solo di farsi beffe di Da Ponte, ma di non aver compreso nulla nemmeno del capolavoro con Marlon Brando. Rimangono tuttavia quisquilie da tè delle cinque a confronto di quel che abbiamo sentito.
Skovhus vocia sporco, non c’è nulla che rimandi a una certa soavità d’emissione. Quando non si avvale del colpo di glottide, canta sempre aspirato, l’aria si impadronisce dell’apparato fonatorio e di conseguenza la riserva di fiato finisce per avere il volume di una spira di vento in una camera pressurizzata… Facile prevedere quali possano essere le conseguenze di una tale “maleducazione” al canto: una su tutte, l’obbligo ad inspirare a ogni sillaba. Debiti di fiato si riscontrano ovunque qua e là nel corso della rappresentazione, ma bastino i primi versi di sortita, quel «taci e trema al mio furore» ripetuti due volte su due ai limiti dell’apnea. Al centro il suono esce piuttosto aperto, come succede per buona parte del famoso duetto “Là ci darem la mano”, in cui quegl’«ANdiam - ANdiam» sono un re3 e un mi3 rispettivamente l’uno orchesco, l’altro stonato.
Una dizione approssimativa, causa di effetti acustici indistinti, si rileva nel pur celebre assolo “Finch’han del vin”, altrimenti noto come “aria dello champagne”. Qui addirittura le sillabe vengono pronunciate per due terzi, le parole farfugliate quando non direttamente inghiottite. Un inno all’ebbrezza? Sì, quanto qualche metro sul lungomare, maglioncino in spalla.
Davvero vergognosa infine la serenata in forma di canzonetta (“Deh, vieni alla finestra”) che Don Giovanni dedica alla cameriera di Donna Elvira (almeno nel libretto: qui, chi può dirlo?). La linearità della melodia, di tessitura medio-alta, tutta a cavallo del passaggio, nella fattispecie mai risolto, restituisce l’esperienza della guida di un pedalò con le onde alte: suoni fissi e calate d’intonazione in successione degne di un grafico gaussiano. A conti fatti, alle orecchie arriva un canto che fa quasi perdere i sensi: anestetico e ipnotico quanto l’assurda messinscena che lo incornicia.
Un disastro anche la Zerlina di Kerstin Avemo, che ha il suo limite più triste nella completa mancanza di legato (con tali “doti” diventa naturale per i teatri scritturarla come Gilda, mi pare chiaro…). Non parliamo poi del timbro infausto e dell’emissione dura e ruvida come carta vetrata, “qualità” che poco si addicono a momenti di provocante abbandono, come per esempio l’aria “Batti, batti, o bel Masetto”. Fin dal recitativo d’entrata, la signora Avemo tradisce da subito un suono senza proiezione, soffocato in bocca, mentre già sul secondo «batti» arriva sfiatata (ovvio, l’attacco è parlato), e la salita all’acuto («STArò lì», «Agnellina») rimane impiccata in gola (se possiamo parlare di acuti, considerato che si tratta di un fa4!) e quasi mai a fuoco («LE tua botte»). Si salva giusto il passaggio su «non hai core», ma l’invocazione “Gente, aiuto, aiuto gente!”, nella scena del ballo, è un urlo ferino. Nessuna nota distintiva da rilevare nella seconda aria (“Vedrai, carino”), che dovrebbe se non altro esibire, con la sua dichiarata semplicità, una linea seducente ed elegante. E invece…
Poco da dire pure sul Commendatore di Anatoli Kotscherga. Credo siano sufficienti i quattro la2 su «LASCIALA INdegno» del verso di sortita, emessi con derivazione stomacale e con un declamato vicino al parlato, per riconfermare un’altra volta la bontà del canto del basso ucraino. Forse per infondere una certa autorità (primo atto) e una dose di potenza ultraterrena (secondo atto), gli attacchi vengono ogni volta accentati con violenza e buttati lì con piglio più che grossolano (su tutti, il re3 su «BAttiti!»). Il breve terzetto che tratteggia la scena dell’uccisione del Commendatore è invece un amalgama di stonature e fissità di difficile sopportazione, mentre il rientro in pista come statua funebre va segnalato per l’accentuazione di suoni ancor più cavernosi e intubati della performance iniziale.
Carlotta Marchisio





Serate come quelle regalate con tanta solerzia da Aix-en-Provence sono destinate a marchiarsi indelebilmente nella memoria per essere in futuro utilizzate come metro di paragone per ulteriori avvenimenti epifanici che solo il teatro d’opera odierno sa regalarci con così tanta dovizia!
Quante forti emozioni hanno invaso le mie membra di fronte a sconvolgimenti musicali, canori e registici di tale potenza da ribaltare la storia dell’opera e del “Don Giovanni” in particolare!
Ancora mi devo riprendere…
E’ bello ad esempio vedere in scena un attore così fascinoso e disinvolto come Kyle Ketelsen vestire i panni di un Leporello emo e parassitario con il ciuffo piastrato, il gusto nel vestire così e moderno, che gli permette accostamenti arditi come scarpe da tennis e abiti eleganti, per poi muoversi con la carismatica vivacità della giovinezza. Ah, dimenticavo, il nostro Kyle possiede anche doti canore: ti rapiscono sicuramente la particolarità del timbro, virile e gradevole, più baritonale che da basso, nel registro centrale ed altrettanto la ruvidezza della voce poggiata solo sulle corde vocali, a disagio già con i Si, i Do, i Re sopra il rigo che risultano granulosi; ma come si può appoggiare la voce e cantare sul fiato quando c’è una immedesimazione totale come in questo caso?
C’è però il fraseggio, perdiana, che lo rende ancora più moderno!
Fraseggio concentrato sull’obiettivo di far apparire Leporello il più possibile sfacciato e briccone; dunque l’interminabile noia che si respira sia in “Notte e giorno faticar”, nell’aria del catalogo, che in tutto il II atto, compresi gli interventi con il Commendatore, sono in realtà “efficaci” strumenti espressivi… di cui però continuo ad ignorare l’efficacia! L’attore, poi è così travolgente e prevaricante che anche il canto viene dimenticato a favore della recitazione; abbiamo dunque dei recitativi parlati invece che cantarli o, se proprio è costretto a ricordarsi delle note, il buon Kyle trasforma la propria emissione attraverso un sapiente gioco di suoni gutturali.
Che colpo di genio registico poi farlo cantare con la bocca piena di cibo durante il terzetto delle maschere! Molto commovente!
Cosa dire del Don Ottavio di Colin Balzer? Sicuramente siamo un gradino al di sopra (o al di sotto; non fa differenza a questo livello) di Ketelsen: cosa importa se la pronuncia è discutibile, la voce linfatica ed ectoplasmatica che galleggia allegra e beata sul nulla nel registro centrale e che si schiarisce ancora di più stimbrandosi a partire dal passaggio di registro rigorosamente emesso di gola, tanto da trasformare in sbuffi d’aria note come i Mi, Fa, Sol? Cosa importa se la vocalizzazione legata lo trova a mal partito e particolarmente pasticciato nel duetto “Fuggi, crudele, fuggi” con Donna Anna oppure in “Dalla sua pace”? Cosa importa se il canto è improntato sui più frusti dettami della “tecnica baroccara”, ovvero: voce spoggiata, evanescente, fissa non appena la linea sale, e con falsetti scambiati per mezze voci? Quando si ha a che fare con un attore del genere che si spoglia, ha innumerevoli e tragici amplessi con Donna Anna, bacia Masetto con passione (una rivelazione da brividi eh) e sa sedersi a tavola, tutto il resto passa, vuoi o non vuoi, in secondo piano! Questa è “vera vita teatrale”, sveglia gente! Ah, ovviamente di accento nemmeno a parlarne…
Sublime, alle soglie del capolavoro la Donna Elvira di Kristina Opolais: la natura e la tecnica le hanno offerto uno strumento “formidabile”, una voce che sarebbe adatta ad essere una… discreta Zerlina si cimenta con Donna Elvira. Ma si, va bene tutto! Se oggi Zerlina canta Norma, perché farsi problemi con Donna Elvira? Quali emozioni suscita ascoltare un registro centrale sicuramente sonoro, ma emesso tra naso e gola! Quali rapimenti ascoltando le fissità o la fragilità delle note a partire dal Mi. Che immedesimazione di fronte alle due espressioni due riservate al fraseggio, e cioè: ridanciana per “Ah chi mi dice mai” e nervosa mestizia a partire da “Ah fuggi il traditor” fino alla fine. Quanta commozione si riversa nell’ascolto dei recitativi in cui la voce va giustamente indietro oppure nei duetti compitati perfettamente senza accento e senza chiarezza di dizione, con una elettrizzante vocalizzazione stentata. Nel “terzetto delle maschere” siamo vicini ad un coro sospeso tra Haendel e lo “Zecchino d’oro”. La sua Nedda scaligera spero mi convinca come questa sua magistrale interpretazione di Donna Elvira.
David Bizic, Masetto, usa con straordinaria perizia tecnica il suo poderoso registro di stomaco. Ed è tutto!
Marianne Brandt





Passatisti che altro non siamo, neppure riusciamo a concepire che si possa affidare Donn’Anna a una voce che non sia di soprano drammatico o almeno di lirico spinto. Questo non solo perché la figlia del Commendatore è figura tragica, animata dal furore della vendetta (che diviene oggi, mercé le paranoie del Régisseur di turno, ninfomania, frigidità, necrofilia, voyeurismo o quant’altro), ma perché questa è la tipologia vocale consegnataci dalla tradizione e immortalata fin dagli albori del disco. Le Anne “pesanti” in voga nel passato più o meno remoto (diciamo fino alla metà abbondante del secolo scorso) potevano accusare difficoltà in acuto (la salita al si bemolle nel terzetto delle maschere, che direttori abili e capaci potevano eventualmente assegnare, in alternativa, ad Elvira) e stentare nei passi di agilità (fino a giungere al doloroso taglio del rondò), ma certo non si facevano pregare quanto a potenza di suono, maestosità di fraseggio, accento di volta in volta terribile, sussiegoso e disperato, a seconda che fosse rivolto al seduttore, al fidanzato o alla memoria del padre. Peraltro è falso che queste Anne di grande calibro fossero tutte e indistintamente delle megere o, dio ne guardi, delle gelide matrone. Basti ascoltare il famoso live di Stoccarda del 1936, in cui Maria Reining tratteggia una figura certo imponente ma di voce dolcissima e suprema eleganza. Dolcezza ed eleganza sono per inciso appannaggio del suo Ottavio, Julius Patzak, non certo il prototipo del tenore di grazia nell’accezione e corriva corrente del termine.
Per tornare al mestissimo presente, Marlis Petersen, debuttante nella parte, ha voce adeguata a una Zerlina da cantarsi a Ludwigshafen o Brema (caratteristica che la accomuna peraltro alle sue colleghe in Aix) e una preparazione tecnica così scarsa, da renderle impossibile un canto degno di questo nome. I centri sono vuoti, gli acuti striduli e spoggiati, ma quel che è peggio è la transizione fra questi due registri: sul fa/sol4, nella zona in cui cadrebbe il secondo passaggio, ovvero di transizione fra centro e primi acuti, si odono suoni per i quali mancano gli aggettivi. Basti sentire, nel recitativo della scoperta del cadavere del Commendatore (che la regia trasforma in una sorta di prova generale di veglia funebre), gli attacchi “Ma qual MAI s’offre”, “MIO caro padre!””TINto e coperto del color di morte”. Tralasciando la velleità della puntatura al do acuto nella ripresa di “Ah! Vendicar quel sangue”, va segnalata la scarsa dimestichezza con la coloratura, che porta il soprano ad aspirare e pasticciare le quartine su “vammi ondeggiando il cor”. Difficoltà analoghe si riscontrano nella grande aria “Or sai chi l’onore” e soprattutto nel recitativo che la precede, affrontato con accento piagnucoloso e inerte, malgrado gli strilli generosamente profusi. L’assolo, complice un aborto di accoppiamento con Ottavio, prescritto dalla sceltissima regia, suscita nel pubblico parchi applausi e sonore riprovazioni. Crediamo sia un unicum nella storia esecutiva del pezzo, almeno per quanto documentato dal disco e dal video!
Quanto al rondò, che la sempre furbissima regia trasforma in una seduta di terapia di gruppo, modello “alcolisti anonimi”, siamo a un livello forse accettabile per una compagnia di dilettanti. Peccato che la signora canti non già in qualche salone parrocchiale, bensì al Metropolitan e, appunto, ad Aix-en-Provence.
A tenere le fila del tutto (e che fila, e che “tutto”!) Louis Langrée, che già si era illustrato nel titolo alla Scala qualche mese fa. Ma ovviamente la sua prova in questo contesto assume ben altra valenza, rispetto al "provinciale" contesto ambrosiano. In verità, non c'è nulla da aggiungere alla recensione di allora di Donzelli, se non che questa volta il direttore era scortato da un’orchestra baroccara d.o.c., la Freiburger Barockorchester. Più che a un intermezzo napoletano, viene da pensare stavolta a un masque di Purcell, vista anche la presenza, discreta, in tutti i sensi, del coro English Voices. Ovviamente non si contano gli attacchi sporchi, gli sfrigolii, le stecchette assortite (le tre orchestre del finale primo!), ma su tutto prevale una sensazione di noia ed esaurimento. C’è però da dire che un’orchestra del genere ha l’indiscusso pregio di non rischiare di soffocare le voci, e non si tratta, nel caso specifico, di impresa da poco.
E veniamo alla regia, intelligentissima, modernissima, sconvolgente, allucinante etc. Tcherniakov rilegge il Don Giovanni come una sorta di antesignano della Saga dei Forsyte o dei più moderni Dynasty e Beautiful, collegando i personaggi con rapporti di parentela più o meno balordi (Zerlina diventa la figlia di Anna) e collocando fra loro l’antieroe etilico Don Giovanni, marito di Elvira, nipote del Commendatore e quindi cugina di Anna. Forse il regista ignora che “sposo”, nel libretto di Da Ponte, designa semplicemente il fidanzato, e non già il marito, e comunque non appare ragionevole supporre che Giovanni abbia mai avuto serie intenzioni nei riguardi della dama di Burgos. Archiviata la morte del Commendatore come un episodio di violenza domestica (in cui assume un ruolo di primo piano la stessa Anna, vista come una sorta di Emma Bovary libidinosa e bipolare, o se si preferisce, come Brooke di Beautiful, tanto per restare in tema, o meglio, fuori tema), il regista prosegue nell’esplorazione di questo microcosmo alto borghese di sua invenzione, seguendo solo sporadicamente le indicazioni di Mozart e Da Ponte. Assistiamo così a scene madri (il quartetto in cui tutti si preoccupano della traumatizzata Zerlina), orgette in maschera in odore di Eyes wide shut, giochi di ruolo (i travestimenti di Don Giovanni e Leporello nel secondo atto, resi, più che incomprensibili, inutili dalla piena luce e dalla presenza costante di tutti i personaggi in scena), sino al finale, in cui Don Giovanni ha un infarto perché gli altri hanno noleggiato un attore travestito (maluccio) da Commendatore. Ovviamente non mancano e non mancheranno critici e commentatori capaci di indicare in questo spettacolo (peraltro gestito assai bene a livello teatrale, sia pure con i limiti derivanti dal décor unico: una stanza in casa del Commendatore, che diventa di volta in volta salotto, camera ardente, corridoio e sala da pranzo) una pagina cruciale nella storia degli allestimenti del Don Giovanni. Più modestamente riteniamo che, per vedere una brutta imitazione di Ibsen e Sartre, tanto valga assistere a una rappresentazione di Spettri o Huis clos. Riteniamo altresì simili allestimenti, prima ancora che offensivi della dignità di chi li subisce (i cantanti) e di chi vi assiste, indicativi di una fiducia così scarsa nelle potenzialità dei testi da allestire, e di un interesse così debole nei loro confronti, che viene spontaneo chiedersi perché mai questi eccelsi registi non si dedichino ad altri testi (e nei casi più gravi, ad altri mestieri).
Notevole anche il "backstage" proposto da ARTE, in cui si poteva assistere a una sfuriata del regista, indignato con i tecnici che avevano mal collocato le poltrone in iscena. Quando si dice la vocazione dell'arredatore d'interni!
Antonio Tamburini





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domenica 25 luglio 2010

Lohengrin: un borghese piccolo, piccolo

Il Festival di Bayreuth quest’anno si aprirà con un’attesissima nuova produzione di “Lohengrin” curata dal regista Hans Neuenfels e la direzione di Andriis Nelsons; ma la vera attrazione di questa inaugurazione sarà la presenza nel ruolo del titolo del “primo tenore del mondo”, ovvero quel Jonas Kaufmann che ultimamente abbiamo ascoltato come Werther, Don Carlo, Don José e Cavaradossi.
In attesa del suo debutto sulla Sacra Collina, che avverrà a minuti e sicuramente sarà sensazionale e di una portata tale da invertire, come minimo, i poli terrestri, prepariamoci all’invitante avvenimento, analizzando il suo primo approccio con il cavaliere del cigno contenuto in un DVD, tratto da uno spettacolo monacense del 2009, che la Decca ha prontamente immortalato.

Quando Richard Wagner nel 1848, due anni prima della messinscena a Weimar, terminò la composizione del “Lohengrin”, il libretto vergato dal compositore medesimo recitava nel sottotitolo: “Romantische Oper in drei Aufzügen”, Opera romantica in tre atti.
Un secco “No!” avranno pensato all’unisono Kent Nagano e soprattutto il regista Richard Jones quando sono stati chiamati ad allestire l’opera nel luglio 2009 a Monaco di Baviera. Una negazione scaturita dall’attenta analisi del libretto e della partitura, grazie alla quale i due hanno finalmente compreso il vero messaggio che Wagner voleva trasmettere ai posteri; una verità scomoda, che ovviamente in quella metà dell’800 non poteva essere colta dal pubblico e quindi opportunamente camuffata da “magico e favolistico medioevo romantico”. Grazie al cielo tale “menzogna”, attraverso i loro metafisici, sociologici e politici ragionamenti, oggi può essere smentita: “Lohengrin” non è affatto ciò che pensavamo, ma in realtà è la noiosa storia di una catatonica operaia ossessionata dall’edilizia, che, accusata ingiustamente dell’omicidio del proprio fratello, trova marito e viene da questi abbandonata, perché frigida!
Scherzi, ma non troppo, a parte, questa è in sintesi, la storia che il duo Nagano-Jones ci narra. Una lettura superficiale la mia, ma che approfondirò cercando di raccontare al meglio questa scottante verità in cui solo il buon Jones e pochi altri, vista la risposta burrascosa del pubblico, hanno fermamente creduto.

I punti di partenza del regista sono:
1) L’aspetto politico tedesco, attraverso l’analisi del “Lohengrin” andato in scena a Bayreuth nel 1936 (Völker, Müller, Prohaska, Klose, Furtwängler: altri tempi!), anno di grandi celebrazioni (le Olimpiadi in Germania, il millennio di Re Enrico l’Uccellatore, il sessantesimo anniversario di Bayreuth) in una Germania, ed in una Bayreuth, già nazionalsocialista e irreggimentata, che tanto entusiasmò Hitler e che il cancelliere propose al Covent Garden come regalo, rifiutato, per l’incoronazione di Re Edoardo VIII.
2) L’aspetto sociale del “self-made-man”, ovvero colui che attraverso le proprie forze riesce a guadagnarsi un posto nella borghesia, e dunque la sua accettazione da parte della comunità, avendo come fine la creazione di un nucleo familiare.

Ancora questi nazisti in un’opera di Wagner? Già, “avanguardia pura”!
Gli interessanti spunti affrontano addirittura le problematiche della Germania post-dittatura, decapitata e senza identità, in cui Elsa, invasata dal pensiero di costruire da sola la propria casa e quindi la propria posizione sociale, in realtà sta costruendo un nuovo ordine politico in contrapposizione con il vecchio rappresentato dal piccolo Gottfried e da Re Heinrich, trascinando in questo progetto sia Lohengrin, uomo qualunque, ma probabilmente soprannaturale, che vuole abbandonare la propria condizione di “superuomo” per farsi accettare dalla donna amata e dagli uomini, sia il popolo che condivide tali ideali nonostante l’iniziale diffidenza.
Che mal di testa eh, ma andiamo con ordine:
Sotto un pontile di ferro con doppia rampa di scale, Elsa, un’operaia edile, disegna con un tecnigrafo la propria casa, ovvero l’incarnazione del proprio sogno borghese e dunque della “Nuova Germania”.
Al termine del preludio la donna sparirà dietro un anonimo muro grigio; due porte ai lati e decorazioni araldiche sopra di esse, dovrebbero darci l’idea di un luogo destinato ad accogliere popolo e personalità di potere per proclami pubblici e discussioni politiche.
L’araldo, su una postazione simile a quella degli arbitri di pallavolo, pronuncia i suoi proclami da un microfono e viene ripreso da una telecamera che proietta la sua immagine in uno stretto cerchio in alto.
Mentre il Re avverte il popolo ed i soldati in divisa brabantina dell’imminente minaccia degli Ungari, Elsa attraversa più volte la scena trafficando con alcuni mattoni e creando un certo imbarazzo nel coro.
Inutilmente Telramund, durante la sua accusa, tenterà di bloccarle il cammino e sarà lui stesso a mostrare l’immagine dello scomparso Gottfried su un foglio in cui campeggia la scritta “Vermisst” (Scomparso), che ritroveremo più tardi tra le mani di Elsa, ma anche appeso sui muri laterali del palcoscenico, il tutto sotto lo sguardo della signora Telramund, una Ortrud beffarda e curiosa in elegante tailleur grigio e ridicola chioma bionda stile Raffaella Carrà anni ’80.
Elsa, invece di partecipare al processo, vorrebbe prendere altri mattoni; le verrà giustamente impedito e da questo momento in poi la povera Harteros attraverserà l’opera con il medesimo sguardo perso e contratto, completamente indifferente nella lentezza dei suoi gesti. Ve l’immaginate una imputata che durante la discussione di un processo per omicidio a suo carico sembra sempre sul punto di esclamare: “Scusi Vostro Onore, ma devo prendere la cazzuola”?
La narrazione del sogno di Elsa farà materializzare il cantiere della casa in costruzione che ben presto l’operaia raggiungerà per continuarne l’edificazione, mentre Telramund si limiterà a prendere a calci i mattoni del basamento senza che nemmeno un osso dei piedi si frantumi… Ah, già, “la caducità del sogno di Elsa”… certo, certo…
Al secondo proclama dell’Araldo, non giungendo alcun salvatore, Elsa verrà issata su un rogo formato da… mattoni e poche assi di legno bagnati di benzina; più che bruciarla sul rogo la si vuole cuocere! Ah già, perdonate, il rogo è simbolico… la condanna della società… certo, certo…
Lohengrin finalmente avanza tra bagliori accecanti percepiti solo in scena, Elsa si libera dalle ritorte e appare l’eroe: Kaufmann!
Un Lohengrin in jeans e maglietta azzurra, vagamente trasandato, che sostiene tra la mani il cigno; il povero pennuto, così come viene presentato, ricorda un tacchino pronto per essere spennato e farcito. A peggiorare le cose il particolare che Kaufmann per dare l’illusione che la testa del cigno si muova è costretto a praticargli un esame prostatico!
Una scena surreale!
Depositato il cigno (forse nelle mani di abili cuochi o direttamente nel forno), anche Lohengrin si dimostra degno sposo di Elsa quanto a espressività, così tutti i bei discorsi su amore, il nome e le lotte politiche risultano del tutto inconcludenti di fronte a due esseri perfettamente imbalsamati che addirittura accennano ad un casto bacio.
Lohengrin viene tosto assunto in cantiere! Che romanticona questa Elsa!
I tre nobili sassoni (che dovrebbero essere sei) con i sacchetti della spesa in testa e quelli per le patatine stile McDonald’s su ogni mano (giuro!) delimitano la scena della lotta e rappresentano un momento registico di rara e intensa comicità.
La lotta è risolta come una azione coreografica: Lohengrin danza letteralmente con la spada in pugno in puro stile anime d’azione giapponese o film del genere “Wuxiapian”, lasciando Telramund interdetto, e con un gesto della mano infiamma l’elsa del rivale sconfiggendolo.
A quel punto il popolo si schiera dalla parte di Elsa la quale è ben lieta di assumere altra mano d’opera visto che ormai anche i più scettici condividono il suo “sogno”.
Fine della crisi e della disoccupazione! Viva Elsa!

Il secondo atto si apre con Lohengrin intento ad imbiancare della legna, al suo fianco una culla, mentre la vita in cantiere avanza speditamente.
Le trombe che secondo Wagner testimoniano le feste a palazzo in realtà sono quelle della pausa per i lavoratori: ora tutto è chiaro!
Telramund (ignoro se per l’onore o perché non ne può più dell’allestimento) vorrebbe suicidarsi con un colpo di pistola; ma Ortrud con commiserazione glielo impedisce irridendolo… peccato!
Lo scellerato giuramento verrà pattuito sul ponte di ferro che sovrasta il cantiere e sarà da quella postazione che i due diabolici coniugi assisteranno al monologo di Elsa, che con la solita espressione, ammirerà il suo sogno che prende forma.
Durante l’invocazione agli dei Ortrud per apparire provata dalla sventura, macchierà il viso ed il tailleur con la calce della betoniera: inutile dire che anche Ortrud verrà assunta come operaia.
Annunciata da quattro voci bianche appare Elsa alla finestra vestita con un candido abito tradizionale, bavarese suppongo, che osserva vagamente soddisfatta la propria casa terminata. Un tavolo con una croce viene portato in scena per il contratto nuziale, un tappeto bianco srotolato, ed il popolo affolla il proscenio lentamente, mentre Elsa ovviamente con lo sguardo perso nell’infinito, seguita da Ortrud, vestita da massaia con tanto di tristissimo grembiulino, assistono alla consegna del cantiere, probabilmente la cosa migliore dell’allestimento, grazie al lavoro dei tecnici che terminano la costruzione della casa a vista: un plauso al loro lavoro.
Il confronto delle due è abbastanza scialbo e senza tensione: il coro non partecipa, le due a mala pena si guardano, Elsa inizia a camminare nervosamente intorno a Ortrud formando rettangoli, ed il duetto finisce per essere un fronteggiarsi tra le due donne occhi negli occhi.
Giunge Kaufmann, anch’egli in abiti tradizionali, ormai più borghese della borghesia; si sbarazza con noncuranza della povera Ortrud e degli sbraiti di Telramund apparso sul balconcino della casa (triste presagio) e sotto l’occhio vigile di una telecamera firma il contratto nuziale con Elsa (Elsa con il proprio nome, Lohengrin con il segno del “visto”).

Nel III atto il coro, che appoggia le idee di Lohengrin ed Elsa, veste con la stessa maglietta azzurra del cavaliere, cuce delle lenzuola per il talamo nuziale, regala alla coppia delle voliere ed una carrozzina e in una stupida coreografia tutta piroette sistema dei fiori fino a formare una frase che Wagner utilizzò per descrivere la sua “Wahnfried”: Hier, wo mein Wähnen Frieden fand, Wahnfried, sei dieses Haus von mir benannt, Qui, dove le mie illusioni trovarono pace, Wahnfried, così chiamo questa casa.
La coppia, a seguito di una serie di rituali propiziatori tradizionali (bere da due tazze insieme e a mani giunte, riempire un vaso di vetro con della sabbia etc.) finalmente può intonare il duetto d’amore.
Elsa ha già perso interesse verso Lohengrin presa com’è dal controllare l’aiuola, le lenzuola, gli infissi e, ci giurerei, i mattoni.
Così abbiamo un Lohengrin che le tenta tutte pur di sedurre la moglie, ed un Elsa catatonica che si nega perché troppo impegnata a compiere il collaudo dell’edificio.
Al termine Elsa salirà sul letto, calpestando il talamo nuziale, farà la domanda fatidica a Lohengrin (più per liberarsi del molestatore che per reale interesse), Telramund interverrà e cadrà esanime ad un gesto del eroe celeste. Scortata Elsa fuori dalla casa, Lohengrin appiccherà fuoco alla culla, il bel sogno borghese infranto, e piangendo nervosamente fuggirà via.
Il finale si svolge davanti al muro araldico. Sul proscenio verrà adagiato il cadavere di Telramund e rimarrà deposto nella stessa posizione fino alla fine come monito: il sogno di Elsa ha fatto un’altra vittima a parte la pazienza del pubblico.
Lohengrin si siederà su quella stessa sedia che accolse il sogno di Elsa per spiegare la propria origine, Elsa proverà a tappargli la bocca, inutilmente.
Torna il povero cigno, Lohengrin si congeda da Elsa, che finalmente piange, e va via non prima di essere stato insultato dalla signora Telramund resa isterica dalla vedovanza.
Lohengrin torna con un bambino vestito di tutto punto alla maniera di Telramund e del Re che rappresenta il vecchio ordine totalitario e abbandona Elsa definitivamente.
Il piccolo Gottfried dopo aver visto il cadavere di Telramund si pone ai suoi piedi di spalle, mentre il coro basito si siede su una distesa di panche o di brandine e compie un insensato suicidio di massa sparandosi in testa (Ortrud inclusa probabilmente visto che anche lei afferra una pistola) ripetendo il gesto che Telramund aveva tentato nel II atto, perché tutte le loro speranze nel futuro, tutto ciò in cui hanno creduto, tutto il sogno borghese e politico si sono infranti con l’abbandono del cavaliere.

Tutto è fastidioso, monotono, grigio, senza immedesimazione, senza emozione, in questo “Lohengrin” rigorosamente destrutturato, in cui la trama diventa un canovaccio scarnificato da rivestire con le gratuite idee registiche del tutto estranee, se non proprio capziose, all’opera romantica ottocentesca, alla tinta wagneriana, alla teatralità stessa della storia; insomma chi è andato a Monaco a vedere un’opera di Wagner si è ritrovato davanti un prodotto vittima della rilettura del signor Jones.
Uno spettacolo semplicemente sbagliato: costumi strampalati e anonimi, scene dal contenuto freddo e distaccato, recitazione monotona, il tutto attraversato da una freddezza di fondo e da una totale mancanza di eleganza che non entusiasmano e che lasciano basiti. Solo fuffa pseudo-intellettuale.

Non fa molto nemmeno la direzione di Nagano completamente simbiotica a ciò che avviene in scena! Il direttore ha tratto ispirazione per la sua lettura della partitura non soltanto da Jones, ma, presumo, dalla direzione dissennata che ne diede Herbert von Karajan, nella, forse, peggiore incisione dell’opera quanto a mancanza di teatralità e tensione narrativa.
Abbiamo, dunque, un suono splendido e avvolgente, ogni nota compitata con lo sforzo di farne una scintilla di bellezza ed allungata all’inverosimile, fraseggi ovunque di cristallina purezza, legati dalla linea pulita; ma che gelo interpretativo, che noia generale, che mancanza di tensione, che cinismo!
Al bel suono infatti non corrisponde alcuna partecipazione emotiva, nessuna emozione trasuda dalle note, tutte preoccupare di essere belle, condite da un’aria mortifera, così episodi capitali come la celebre Ouverture, il sogno di Elsa, i dialoghi tra i Telramund, lo scontro tra le due donne o tutto il terzo atto, non hanno alcuna differenza nella tavolozza di colori di Nagano; tutto grigio, tutto uniforme e monotono, tutto spianato in un Adagio continuo. L’orchestra risponde benissimo alla visione del direttore (e del regista) nonostante qualche palese sforzo e tensione negli ottoni e negli fiati che perdono elasticità nelle note acute.

Si è molto gridato allo sfarzo del cast, al fatto che dagli anni ’70 non si riusciva a mettere insieme un gruppo di cantanti di pari livello; sinceramente ho i miei forti dubbi.

Jonas Kaufmann, non è un Lohengrin eroico, non è sovrumano, non è umano: è solo un borghese piccolo, piccolo.
Possiede il pregio di sforzarsi nel rispettare i segni della partitura, soprattutto per quanto riguarda le forcelle che indicano un rafforzamento del suono, i piani ed i mezzi forti; mentre molto meno sono rispettati il legato, come nel duetto del III atto in cui le frasi che lo prevedono risultano spezzate, le forcelle che portano la voce ai piani vengono in molti casi spianate o “spostate” dal tenore in altri luoghi della frase o del pentagramma, le indicazioni espressive come con solennità, con ardore, allegro molto risultando dunque molto piatte sia quando allontana i due Telramund ed in un momento invece in cui l’erotismo dovrebbe essere presente come nel duetto con Elsa. Il registro centrale e quello basso sono indubbiamente robusti, sonori ed estremamente omogenei, dai colori baritonali e sono i registri in Kaufmann non presenta problemi, funestati però da una emissione tutta tubata e di gola; ma note acute come Sol e La sono sempre ghermite, molto spesso emesse in forte o fortissimo e dunque sforzate, con il vezzo che vengono accompagnate da uno “squittio” che probabilmente serve a mantenere l’intonazione. Gli attacchi poi ai momenti in cui deve dialogare con Elsa, in tutti e tre gli atti, sono tutti fastidiosamente in piano risolti in autentici sbadigli che ritroviamo identici nei due saluti al cigno; mentre “In fernem land” è compitata come se fosse un Lied cameristico senza mistero, senza solennità.

Robotica l’Elsa di Anja Harteros, che sembra abbia inghiottito la partitura ricavandone solo i suoni più o meno giusti per “suonarla” dopo aver premuto il tasto play.
Voce potente, dal solido registro centrale, in natura chiara, ma scurita a forza di artifici di gola, usati al solo scopo di trovare maggiore ampiezza nel passaggio al grave (I atto), o nei momenti di fatica (tutto il III), creando più di una tensione nei numerosi La e Si acuti che vibrano irrigidendosi come dimostra sia nei dialoghi con Ortrud, che in tutto il duetto finale con Lohengrin o che possono risultare fissi se non sostenuti a dovere. Le cose vanno meglio nel primo atto dove l’attenzione del soprano alla gestione della voce e del legato è maggiore e più prudente come dimostra sia in “Einsam in trüben Tagen”, sia nell’aria del secondo “Euch Lüften, die mein Klagen”, ma affossati dalla totale assenza della benché minima traccia di fraseggio, come d’altronde il suo sguardo, inerte come i mattoni con cui si trastulla. Si sforza anche lei di “fare” tutte le note, ma nulla tradisce la sua imperturbabilità. Questa Elsa è assolutamente aderente alla regia di Jones, ma bisogna cercare altrove per trovare la dubbiosa eroina wagneriana.

Wolfgang Koch si iscrive nella folta lista dei Telramund metà parlati e metà urlati, essendo l’ultimo rampollo della folta schiera dei Nimsgern, dei Roar, dei Wlashiha, degli Hillebrandt, dei Fox. La rozzezza dell’emissione, tutta aperta e ingolata, si ripercuote nel fraseggio brado e selvaggio, privando dunque Telramund, apostrofato dal re come “Io ti conosco come il fiore di tutte le virtù”, detentore della fiducia del defunto padre di Elsa, tanto da affidargli i figli, e del popolo brabantino, di quella nobiltà necessaria per farlo apparire credibile nell’accusa, ma anche nel riscatto come indomito condottiero. Le note in basso sono rigorosamente gutturali, risolve con improbabili note acute, fisse e stimbrate, rantoli e stonature di vario genere i momenti più concitati, limitandosi a parlare nel resto. Basta ascoltarlo nel primo intervento davanti al re, o peggio ancora nel delirio del II atto o della sua perorazione contro Lohengrin in cui la scrittura del personaggio viene riadattata ai “rumori” di Koch. Penoso che nel 2010 un personaggio dalle grandi possibilità come Telramund sia ancora visto come la parodia di un cattivo.

Per Ortrud era prevista Waltraud Meier, ritenuta però troppo “vecchia” per il ruolo, che è stato affidato con grande disinvoltura a Michaela Schuster. Probabilmente era meglio la prima opzione, che difatti prenderà, nella ripresa, il posto della Schuster!
Ora, la Schuster mi era piaciuta nella sua interpretazione di Kundry sotto la bacchetta di Barenboim nel 2005; dopo averla ascoltata in Venus (Torino e Vienna) ed Ortrud credo di aver preso un abbaglio.
Il timbro chiaro è facilmente confondibile con quello della Harteros, così tutti i loro duetti diventano quasi monologhi per soprano, quando insistono nel registro centrale. Se scenicamente potrebbe essere plausibile, nonostante una terribile parrucca bionda, il canto urlacchiato, gli acuti aspri e calanti, il parlato in cui si rifugia nel registro grave, l’instabilità complessiva, la rendono una scelta inadatta alla bisogna. A peggiorare le cose ci si mette anche la resa del personaggio interpretato con un fraseggio ad alto tasso di camomilla e calmanti tanta è la paciosità casalinga con cui vengono affrontati tutti i momenti più terribili. Nel duetto davanti alla “chiesa” (casa volevo dire! Mi scusi signor Jones) è talmente dimessa che anche un manichino non avrebbe avuto problemi a metterla a posto.

La parte dell’Araldo è acuta ed insiste sul passaggio, Evgeni Nikitin, che lo interpreta possiede una certa robustezza nel registro centrale ed un buon volume oltre che una maggiore compattezza, se paragonato a Koch ed a Fischesser, ma le note acute (il Mi, il Re, il Fa) si stimbrano irrimediabilmente perdendo elasticità e facendo andare la voce indietro, mentre l’emissione sembra viziata da una patina che rende il timbro come impastato. Sbrigativo, anche se con una parvenza di incisività, l’accento.

Christoph Fischesser, Re Heinrich, sembra più un baritono che vuole imitare un basso che un basso vero e proprio. Gonfia e sforza le note per trovare invano omogeneità e ampiezza, ma la voce si presenta granulosa e sfibrata oltre che totalmente priva di autorità.

Ottime, al contrario le voci del coro, che brilla sia in quelle maschili, ma soprattutto in quelle femminili, capaci di ammorbidire con perizia il suono e di partecipare agli eventi con estrema varietà di fraseggi.
Ovviamente avrebbe meritato una direzione ben diversa.


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venerdì 23 luglio 2010

Saggio di fine anno al Comunale di Bologna

Il Comunale di Bologna affida come di consueto ai propri cadetti l'onore e l'onere dello spettacolo estivo. Le passate stagioni i titoli prescelti erano stati L'Olimpiade di Leonardo Leo e Madama Butterfly. Quest'anno, modestia e prudenza hanno consigliato alla dirigenza felsinea di orientare gli allievi della locale Scuola dell'Opera verso titoli un poco più abbordabili: la Serva padrona e un'operetta di Offenbach, Pomme d'Api. Titoli peraltro deliziosi e degni di grande considerazione, e che esigono organici e abilità vocali ed espressive, che con maggiore facilità possono trovarsi in un "vivaio" ovvero conservatorio di livello almeno accettabile.

Certo i brutti cattivi e prevenuti compilatori del Corriere sono all'occasione sfiorati dal dubbio che la modestia e prudenza della scelta siano dettate dall'oggettiva impossibilità, da parte del teatro bolognese, di servirsi delle forze di spicco della Scuola, attualmente impegnate in quel di Martina Franca a infondere nuova vita a titoli dimenticati (in primo luogo da sovrintendenti e direttori artistici) del Belcanto.
Il dubbio cresce, si rafforza e si sostenta col leggere sul programma di sala che il dittico Pergolesi-Offenbach costituisce una produzione con svariati istituti teatrali di primo piano (Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi, dove peraltro l'opera del genius loci sarà presentata nella sua versione francese, Teatro Rossini di Lugo, Festival della Valle d'Itria, appunto, Fondazione Teatro Due di Parma, IUAV di Venezia) e che quindi accampa con qualche fondata ragione (specie economica) pretese di eccellenza, che esulano dall'ambito di normale competenza di una recita scolastica.
Come spesso accade il risultato in teatro confligge pesantemente con le ambizioni annunciate dal cartellone e induce ad alcune riflessioni.
La prima è che le voci gravi sono estinte o quasi, e non per insondabili misteri di natura, ma per schietti problemi tecnici. Nella Serva il prescelto Uberto, Davide Bartolucci (che approda al ruolo avendo già sostenuto nello stesso teatro parti ben più consistenti, non ultima quella del dottore Malatesta), ha voce non già di baritono Martin, ma di schietto tenore, di contenuto volume perché di insufficiente proiezione, bianca e 'tirata' in acuto (i fa dell'aria "Sempre in contrasti"), al limite dell'udibile in basso (aria "Sono imbrogliato io già"), sempre meno ferma e stabile con il passare dei minuti e l'aumentare della fatica. Inoltre, forse per scelta registica, spesso la linea vocale si piega ad effetti di semplice parlato, non solo nei recitativi ma anche nelle arie ("or questo basti, basti, BASTI!"). Peccati veniali, o quasi, di fronte alla performance di Mattia Campetti, che dopo essere stato un torvo e simpatico Vespone nella Serva passa al ruolo del celibatario incallito di Pomme d'Api, cantando l'elementare parte con voce ingolfata e cavernosa, traballante almeno quanto il francese esibito nei dialoghi parlati. La disinvoltura dell'attore non fa che sottolineare la scarsa tenuta del cantante.
La seconda riflessione riguarda la componente femminile dello spettacolo, che pur esibendo doti vocali più interessanti rispetto alla controparte maschile non è stata comunque all'altezza (non insormontabile) del compito. Lavinia Bini, in particolare, pur con uno strumento di tutto rispetto (nei duetti faceva scomparire il partner), ha emesso suoni poco o nulla appoggiati, in un'imitazione (non sappiamo dire se conscia o inconscia) di quello che oggi passa per modello vocale della categoria del soprano di coloratura, Diana Damrau. Il risultato è che nell'aria "Stizzoso mio stizzoso" basta un semplice la acuto (che per un soprano, che in natura sarebbe assoluto, è una nota centrale o quasi) per indurre la Bini a emettere suoni più vicini allo strilletto che al canto lirico. Quanto alla tenuta complessiva, dopo una prima parte affrontata con l'ausilio della vigorosa natura, il soprano ha cantato con voce molto meno sonora l'arietta patetica "A Serpina penserete", parodia della vocalità dell'opera pastorale, finendo per indebolire la scaltra seduzione attuata dalla servetta. Anna Maria Sarra, in Pomme d'Api, ha cinguettato graziosamente la parte di Catherine, di scrittura prevalentemente centrale e quindi poco o nulla udibile già dalla metà della non foltissima platea. Entrambe le signorine sono spigliate nella recitazione (pur con qualche incertezza da parte della Sarra nelle primissime scene dell'operetta), ma come per i signori, anche questa è lungi dall'essere una circostanza attenuante circa la tenuta del loro canto.
Un discorso a parte merita Francisco Brito, che canta la parte del tenore in Pomme d'Api con eleganza, ma anche con voce debolissima al centro, più sonora ma anche chévrotante e di dubbia intonazione nelle parche escursioni all'acuto (con un paio di puntature discutibili, per gusto ma soprattutto per risultato), legato poco o nulla consistente. Anche in questo approccio all'archetipo del tenore di grazia non si fatica a rintracciare un modello, quello di Juan Diego Florez. Del resto non è strano che un giovane cantante tenti di imitare il più quotato tenore belcantista del mondo. Sarebbe peraltro compito dei suoi tutori proporre al giovane cantante altri e diversi modelli di canto.
Alla testa dell'orchestra del Comunale in formazione da camera, Salvatore Percacciolo ha diretto con poca verve e qualche sbavatura (specie nell'intermezzo pergolesiano), senza rendere un grande servizio alla musica. Forse un direttore più navigato avrebbe saputo trarre maggiore partito dai virgulti della Scuola dell'Opera.
Allestimento anche questo "accademico" (scene di Giada Tiana Claudia Abiendi e Lucia Ceccoli, costumi di Massimo Carlotto, Manuel Pedretti, Vera Pierantoni Giua, luci di Daniele Naldi, regia di Stefania Panighini), decisamente cupo per la Serva, vista come un triangolo erotico fra il morbosetto e lo psicanalitico (Carsen?), ugualmente minimalista ma più scanzonato e ammiccante - e quindi ben più rispettoso del testo - per Pomme d'Api.
Pubblico poco folto (malgrado sconti e biglietti omaggi generosamente profusi su Facebook, erano pieni - ma lungi dall'essere esauriti - solo il primo ordine dei palchi e la platea) e successo di cortesia al termine della rappresentazione.



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mercoledì 21 luglio 2010

Norma A.D. 1910

Norma un secolo prima di Cecilia Bartoli. Confessiamo: era un pensiero che a prescindere dall’improvvido approdo della diva ci incuriosiva e proprio con quella data 1910, perché il 1910 sancisce la transizione fra canto ottocentesco e canto verista. Da quella data in poi il filone del canto ottocentesco sarà, anche se costante, sotterraneo, predominate quello verista.

Canto verista, che influenzerà Norma, senza, però, a differenza di altri titoli espellerla mai dal repertorio. I contrasti della sacerdotessa fedifraga, amante tradita e madre sono troppo per non attirare le prime donne di ogni epoca; con qualche patteggiamento la parte può anche stare a cantanti che con il belcanto hanno rapporti diciamo conflittuali, purchè interpreti nel senso completo del termine.
1910 perché l’anno prima aveva dato l’addio all’opera in teatro quella che può ritenersi, dalle testimonianze discografiche la Norma dell’800 per antonomasia, Lilli Lehmann. Tanto era stata la sua grandezza nel ruolo cantato sia in italiano che in tedesco che il teatro Metropolitan (dove la Lehmann fu protagonista del titolo nel 1895) attese ben trent’anni e Rosa Ponselle per riproporlo.
Le registrazioni della cantante di Wurzburg fanno i conti con due aspetti: i 58 annidi età e la tecnica di registrazione. Eppure sono straordinarie. Qui non vogliamo considerare l’esecuzione ma la tecnica di canto e la aderenza al momento musicale, che giustificano la frase “Maria Callas non ha inventato nulla, c’era stata Lilli Lehmann“ e che danno a chi ritiene la codificazione di Garcia la codificazione della tecnica di canto la prova irrefutabile che le Norme di rango e di levatura storica hanno sempre cantato come le censurate Callas e Sutherland.
Basta sentire la facilità e la saldezza con cui una cantante affronta il primo passaggio di registro nell’incipit della cavatina, piuttosto che la facilità con cui sale ai la ribattuti della seconda sezione dell’aria ed in generale il senso di liquidità del suono e di galleggiamento sul fiato che sono le caratteristiche del canto di scuola. All’epoca della Lehmann come a quella di Callas e più ancora di Sutherland. E l’effetto vocale ed interpretativo si ripete alla cadenza dove la voce tocca senza sforzo il si nat acuto e scende con una scala assolutamente perfetta perché il suono nella discesa non subisce incertezze o manomissioni di sorta.
Questa è la rappresentazione del cantante che canta con la tecnica ottocentesca e questa è, mi sia consentita la franchezza, la dimostrazione che tutto il resto sono chiacchiere e fanfaronate compre ed interessate e che in quanto tali fanno danno, e che danno, al mondo del canto.
Una Margarethe Siems, Adalgisa proprio con la Lehmann e poi, Norma aveva davanti un modello che le consentì di navigare per vent’anni fra Crisotemide e Lucia, Norma e Philine.
Oggi il modello della giovane cantante, che ascolta l’ultima diva nei panni di Norma, le consentirebbe se dotata in natura un paio di stagioni.
La Lehmann resta la più completa esemplificazione di quello che per un secolo si era indicato come soprano drammatico di agilità, categoria cui dovevano appartenere le titolari di Norma.
A questa categorie appartengono almeno due delle Norme che proprio nell’anno di grazia 1910 erano accreditate e considerate esecutrici della sacerdotessa di Irminsul ossia Giannina Russ e Celestina Boninsegna. Cantanti soprattutto di carriera italiana e quanto alla Russ discograficamente piuttosto limitata. Molto più numerose le registrazioni della Boninsegna perché la cantante reggiana era, a differenza di quasi tutti i soprani spinti, straordinariamente fonogenica.
Anche in questi due casi colpisce il controllo del suono e la posizione costantemente “alta” dello stesso. Le esecuzioni della Russ e della Boninsegna della cavatina hanno una purezza di suono ed una proiezione, che rendono chiaro un altro dei criteri che erano esemplificativi del giudicare le voci di qualità e di scuola ossia che a mano a mano che la voce sale, quando impostata, assume una ampiezza ed una espansione interdetta a chi canti male, indietro ed in bocca. Sentire la facilità particolarmente della Russ, che nell’esecuzione della fiorettature è precisissima, o la Boninsegna che si prende, pure il lusso di inserire alla ripetizione (omettendo, però, parte delle fiorettature) un paio di puntature al si bemolle che la tradizione vuole (le eseguirà anche Rosa Raisa, cantante di assoluta discendenza belcantistica, credo la vera allieva di Barbara Marchisio) derivare direttamente dalla Grisi.
Le stesse osservazioni valgono per l’esecuzione della cabaletta che è fluida e scorrevole. La Boninsegna ricorre ad un paio di varianti, che dovevano essere di larga diffusione in quanto le propone anche Marcella Sembrich, che mai cantò l’intero ruolo. Nei duetti con Virginia Guerrini si sente perfettamente la differenza fra una cantante la Russ di scuola ancora ottocentesca ed una invece che inclina già a gusto e tecnica di impianto verista.
L’impianto verista ossia la transizione verso un canto e soprattutto una idea interpretativa che sente i tempi nuovi è di una certa evidenza in Ester Mazzoleni, Tina Poli Randaccio e soprattutto Eugenia Burzio.
Secondo una certa idea è l’inizio del verismo ove con verismo si intenda una esecuzione sciatta e incline al facile effetto.
Siamo in un’epoca di revisione e di ripensamento soprattutto alla luce di quanto ci viene regolarmente servito nei nostri teatri e il giudizio su queste cantanti è per forza di cose modificato o rivisto.
Nessuna di loro può competere con una Russ o una Siems nell’esecuzione del canto di agilità. La cabaletta di Eugenia Burzio per comune giudizio la patronessa del Verismo non è quella della Sutherland, ma ci sono accorgimenti come il suono addolcito, alleggerito e l’accento castigato, che contraddicono o almeno pongono seri dubbi sul malcanto tout court di questa cantante. Evidentemente persino ad una Burzio, fra l’altro eloquente e misurata nel “Dormono entrambi” non sfuggiva che a Norma, pur al centro di una tragedia, non si addicevano gli accenti di Santuzza o di Gioconda E le stesse argomentazioni possono valere per Ester Mazzoleni nella sezione conclusiva del duetto con Zenatello ricorre anche a qualche compromesso, ma rende il senso del dramma della sacerdotessa alle prese con l'ultimo disperato ricatto dove “mette sul piatto” figli ed amante. Peccato veniale rispetto a quanto sentiamo oggi. Al nostro gusto creano più problemi certi suoni di petto e certi scarti fra suoni bassi e suoni centrali, che suonano piuttosto vuoti e che abbiamo codificato come paradigma e vizio capitale dei soprani veristi.
Inutile negarli ci sono anche se in Norma sia pur meno accentuati che nei titoli del tardo Verdi o Veristi. Non erano, se ascoltiamo la Lehmann, un’invenzione della signorina Burzio o della signora Poli Randaccio (che sia detto se non avesse saputo cantare difficilmente avrebbe avuto quasi trent’anni di carriera), erano anche messi in una posizione ben più alta della maschera di quanto non facciamo oggi certe cantanti che, tecnicamente insipienti, si sono messe a riproporli al pubblico senza l’accento irresistibile di una Burzio. Erano il gusto del tempo, ma la domanda che mi faccio e che faccio è meglio certi fastidiosi “scarti” e cattive saldature fra i registri di Eugenia Burzio o la Barbarina vestita da Norma?


Vincenzo Bellini

Norma

Atto I


Ite sul colle, o Druidi - Feodor Chaliapin (1905), José Mardones (1924)

Meco all'altar di Venere - Erik Schmedes (1905), Carlo Albani (1910)

Casta Diva...Ah! Bello a me ritorna - Celestina Boninsegna (1904), Giannina Russ (1906/1914), Lilli Lehmann (1907), Marcella Sembrich (1907), Eugenia Burzio (1912)

Sgombra è la sacra selva - Armida Parsi-Pettinella (1907)

Sola, furtiva al tempio - Giannina Russ & Virginia Guerrini (1914)

Ah! Sì, fa core, abbracciami - Lilli Lehmann (1907)

Atto II

Dormono entrambi - Ester Mazzoleni (1911)

Deh! Con te li prendi...Mira, o Norma...Sì fino all'ore estreme - Lilli Lehmann & Hedwig Helbig (1907), Elise Elizza & Grete Forst (1908), Margarethe Siems & Gertrud Forstel (1908), Giannina Russ & Virginia Guerrini (1914)

In mia man alfin tu sei - Ester Mazzoleni & Giovanni Zenatello (1911)

Qual cor tradisti - Eugenia Burzio (1912)

Deh! Non volerli vittime - Lilli Lehmann (1907), Eugenia Burzio (1912), Tina Poli-Randaccio (con R. Bosacacci & Ezio Pinza - 1923)


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lunedì 19 luglio 2010

Storia di una falsificazione: la scomparsa della Médée di Cherubini.

La seconda parte del nostro doveroso omaggio a Luigi Cherubini – nel 250° anniversario della nascita – non poteva che essere dedicato alla sua più celebre e celebrata composizione teatrale: Médée. L’opera, progettata fin dal 1792 (ma poi temporaneamente abbandonata, a favore di Eliza ou Le Mont Saint-Bernard), ebbe la sua prima rappresentazione il 13 marzo del 1797, al Théatre Feydeau di Parigi, con Julie-Angélique Scio nel ruolo della protagonista e Pierre Gaveaux in quello di Jason. L’accoglienza fu tiepida: del resto Cherubini si stava spingendo, forse, troppo “in là” rispetto alla sua epoca, richiedendo al pubblico un impegno, uno sfrzo e un'attenzione che non era ancora disposto a concedere. La Médée in effetti risultava essere, alle orecchie di un pubblico abituato a tutt'altro, una creazione del tutto nuova, sfuggente e sconosciuta, un ibrido inclassificabile nella rigida regolamentazione delle leggi francesi che presiedevano il teatro, codificandolo in generi chiusi e all'apperenza incomunicabili tra loro.

Il soggetto classico, com'era la storia di Medea, di solito veniva destinato alle sontuose sale dell’Académie de Musique (non più Royale), il luogo, cioè, della tragedia coturnata di stampo racininano: trapiantarlo nel più agile e sciolto ambiente dell’opéra-comique, oltre a costituire una specie di azzardo, comportava necessari cambiamenti. Se da un lato si perdevano tutti quegli orpelli che soffocavano la tragedie-lyrique, le lungaggini, i ballets, le parti di mero décor, dall’altro si consentiva all’autore, liberato dalle ferree prescrizioni iposte dal genere, di sperimentare e concentrarsi sulla tensione drammatica e sul tessuto sinfonico dell’opera, quale elemento unificante ed espressivo, attraverso soluzioni complesse ed elaborate, anche a scapito della fluidità e dell’invenzione melodica. Fu questa la vera causa della relativa sfortuna di Cherubini: l’estrema raffinatezza orchestrale e la profondità della concezione sinfonica, venne scambiata – e succede anche oggi – per mancanza di ispirazione e incapacità di scrivere una melodia cantabile, e gli fu sempre rinfacciata (all’indomani di Lodoiska, il Journal de Paris sicrisse che “se da questa musica v’è qualcosa da desiderare, è un po’ più di canto che possa alleviare un po’ il pubblico dagli effetti orchestrali tanto moltiplicati”), tanto che il pubblico gli preferì autori più facili e immediati (seppure assai meno ispirati e impacciati nell’uso dell’orchestra). Médée non concede nulla al canto inteso come mero esibizionismo: gli episodi solistici sono ridotti e rinunciano scientemente ad ogni edonismo vocale, a favore di una tensione drammatica costante in cui è il denso tessuto strumentale ad appropriarsi di un vero e proprio virtuosismo. Cherubini predilige i grandi ensembles “rubati” all’opera buffa e innestati nell’immobilismo aulico della musica francese di allora: i grandi finali d’atto, i cori, i concertati, i duetti. E pure, quale contrappasso alla maggiore libertà espressiva dell'opéra-comique, le regole ferree dettate per quel genere, che imponevano il dialogo parlato, frenarono, almeno in parte, l’ispirazione dell’autore, impedendogli di esprimersi in quel continuum sinfonico cui tendeva il suo linguaggio compositivo, mutuato dalla riforma gluckiana, ma arricchito di capacità e conoscenze (oltre che di ispirazione) incommensurabilmente maggiori rispetto al modello (basti confrontare la scarna ed elementare orchestra di Gluck: semidilettantesca a confronto dell'elaborazione cherubiniana). All’incompresione del pubblico, meglio disposto ad applaudire Grétry, Méhul, Spontini (che lo impegnavano molto meno), farà da contraltare l’unanime consenso dei più grandi compositori della sua epoca e di quella successiva (soprattutto di area tedesca: quella musicalmente più progredita): da Beethoven a Weber, Schumann, Wagner, Brahms (che la definì “vetta suprema della musica drammatica”). Anche se l’opera, così lontana dai gusti distratti di chi a teatro si accontentava dell’esibizione di effetti, rimase un mito di difficile comprensione, oggetto di ammirazione lontana e di fraintendimenti, forzature, tradimenti. Médée non ebbe vita facile e per tutto il XIX secolo, salvo sporadiche apparizioni, si può dire che sparì, per risorgere “italianizzata” e pesantemente rimaneggiata nei primi anni del ‘900, imponendosi in una versione spuria e del tutto arbitraria, con cui conobbe il successo (in virtù del culto riservato alla sua più importante interprete) e che ancora si pone come un ingombrante ostacolo ad una sua reale riscoperta. L’opera, dicevo, ebbe un percorso travagliato. Nel 1802 fu tradotta in italiano e, con ampi rimaneggiamenti, venne rappresentata a Vienna. Nel 1809, sempre nella capitale absburgica, Cherubini rimise mano alla partitura, e ne produsse una versione, sempre in italiano, accorciata di più di 500 battute. Nel 1855 Franz Lachner (compositore tedesco di importanza più che marginale, ma assai prolifico e piuttosto conosciuto ai suoi tempi) preparò per il teatro di Francoforte una versione in tedesco dell’opera, basata sulla Médée viennese del 1809, musicandone i recitativi in luogo dei dialoghi parlati. Nel 1865 a Londra venne predisposta una nuova edizione dell’opera: in italiano e con i recitativi scritti da Luigi Arditi. Nel 1909 l’opera ebbe la sua prima italiana, con la Mazzoleni nel ruolo di Medea: ma alla Scala fu scelta la versione ibrida di Lachner tradotta, in modo particolarmente infelice, da Zangarini. Questa fu la Medea cantata dalla Callas e per molti anni fu l’unica versione conosciuta. Dal 1976, tuttavia, è disponibile una nuova edizione dell’opera (a cura di Flavio Testi e pubblicata da Ricordi) che presenta la redazione originale del testo, alcune varianti d’autore e pure i recitativi musicati da Lachner. Sulla scorta di questa edizione, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, qualche teatro propose con coraggio la vera Médée. Ancora però manca una vera edizione critica dell'opera (dato che anche la partitura curata da Testi non rispecchia fedelmente quella della prima del 1797): in Italia, nel 1995, venne allestita nell’ambito del Festival della Valle D’Itria, una Médée del tutto corrispondente alla prima parigina - salvo alcune sforbiciate nei versi recitati - affidando al revisore, Angelo Inglese, l'incarico di correggere i diversi errori della nuova edizione Ricordi, e le sue divergenze dal manoscritto. Questo breve excursus mostra come la Medea oggi più conosciuta, sia un'opera assai diversa rispetto all’originale di Cherubini, e come essa sia in realtà il frutto di successive rielaborazioni e stratificazioni solo minimamente dovute alle revisioni dell’autore: tali modifiche, in particolare le più radicali, sono intervenute addirittura successivamente alla morte del compositore, in epoca che nulla ha a che fare, per linguaggio musicale e visione estetica, a quella in cui Médée fu scritta. Questi interventi hanno riguardato l’intera partitura e ne hanno in parte deturpato l’aspetto. Innanzitutto la forma: Cherubini scrisse un’opéra-comique prevedendo l’alternarsi di brani musicali a parti recitate, ciò ha comportato una determinata organizzazione del materiale musicale in un equilibrio non solo formale della struttura dell’opera. La tensione drammatica, il pesante trattamento vocale riservato alla protagonista, la densità orchestrale, trovavano – nella sua forma originale – momenti di pausa nei dialoghi recitati: questo consentiva al compositore di attribuire a ciascun episodio una sua identià, come i movimenti di una sinfonia o di un concerto, senza dover ricorrere agli orpelli della tradizionale tragedie-lyrique a fungere da collegamento tra l’uno e l’altro (anche per consentire agli interpreti di non affaticare troppo il mezzo vocale: la stessa Callas evidenziò il problema definendo “assassina” la musica di Médée). I recitativi, in sostanza, non si limitano a prendere il posto dei dialoghi, ma intervengono sulla struttura dell’opera: se Cherubini avesse dovuto scrivere una partitura per l’Opéra, probabilmente avrebbe organizzato diversamente il materiale musicale. Oggi, alle difficoltà già contenute nel lavoro, si aggiunge – nell’utilizzo della versione Lachner – il peso di un continuum posticcio, non voluto dall’autore (perchè non poteva) e dallo stesso non calibrato. Oltre a quelli formali, però, sono evidenti i tanti problemi linguistici: il passaggio dal francese all’italiano (che hanno due prosodie incompatibili tra loro: per accento, tono e metrica) è sempre difficile da rendere senza sacrifici – più o meno sofferti – soprattutto in un’opera come Médée, dove il rapporto tra il significato del testo e la sua trasfigurazione musicale è molto più stretto rispetto alla successiva stagione del melodramma rossiniano, donizettiano e verdiano (e che comunque non uscirono certo indenni dal disastro di certe traduzioni ritmiche: si pensi al Guillaume Tell, Favorite, Les Vépres Siciliennes, le cui strutture musicali sono state spesso stravolte e rovinate per consentire il forzoso passaggio all’idioma italico). Nel passaggio da Médée a Medea, a parte la bruttezza letteraria della traduzione (e l'irrimediabile sciatteria dei versi di Zangarini rispetto al modello raciniano dell'originale), si perdono certi effetti appositamente studiati dall’autore, e meditati in ogni dettaglio. Si pensi alla grande aria della protgonista nell’atto I (rubo l’esempio ad un bel saggio di Andrew Porter): “Vous voyez de vos fils la mére infortunée” diventa “Dei tuoi figli la madre tu vedi vinta e afflitta”, a parte le 11 sillabe che diventano 14 (da far stare nella medesima frase musicale), cambia l’accento che nella versione originale cade su voyez, mentre nella traduzione cade sulla parola figli, e cambia così anche il significato poiché nel primo caso pone in risalto il soggetto (Jason), nel secondo l’oggetto (i figli). Ovviamente la prospettiva cambia, anche se il senso della frase è rispettato. E di esempi del genere la partitura deborda. Ma accanto a tali aspetti, ancora più gravi si rivelano gli interventi apportati al tessuto dell’opera: tagli, modifiche, aggiunte. I primi solo in parte risalgono a Cherubini – che fu costretto ad operarli in occasione della riprese viennese del 1809 (e che furono dovuti a motivi extramusicali) – dato che molti di essi appartengono alla prassi novecentesca (che non è una tradizione sacra e intangibile, giacchè figlia di una visione opposta a quella originale e non preteso filo conduttore con il modus originario di intendere l'opera), quella dei Serafin e dei Gavazzeni, per intenderci, e che rispondono ad un incomprensione dovuta ad un differente orizzonte estetico e stilistico (oltre che per una oggettiva mancanza di fonti attendibili). Un esempio particolarmente sgradevole va ravvisato ancora nell'aria della protagonista nel primo atto, di fatto quasi dimezzata (in quanto privata della ripresa, probabilmente ritenuta un'inutile ripetizione: questo rende bene l'idea dello scarsissimo livello di conoscenza di tutto ciò che restava al di fuori del tardo Verdi e del verismo; i medesimi scempi furono riservati a Donizetti, Bellini, Rossini). Le modifiche sono conseguenza dei tagli: sono rattoppi fatti per non mostrare la grossolanità delle cuciture, anche se talvolta dipendono dal gusto dell’epoca (in particolare le riscritture strumentali o certi indebiti e arbitrari “arricchimenti” nell’orchestrazione). Le aggiunte riguardano, invece, i recitativi musicati da Lachner. Il compositore tedesco, la cui vasta produzione musicale è oggi provvidenzialmente dimenticata, certo non mostra – almeno a giudicare da questi recitativi – una grande ispirazione, né una debordante inventiva musicale: ma aldilà del giudizio estetico sul suo lavoro (taluni li ritengono splendidi…Callas compresa, che arrivò ad affermare in maniera più che avventata come “la forza dell’opera di Cherubini non stia nelle arie, ma nei recitativi”…che di Cherubini non sono: ma vaglielo a spiegare!), il problema più grosso riguarda lo stile. Essi vennero composti nel 1855, quasi 60 anni dopo la prima rappresentazione, e l’intervallo di tempo si sente eccome. I recitativi di Lachner, semplicemente non c’entrano nulla con la musica di Cherubini: sono pesanti e ingombranti e rivelano un’ispirazione che si rifà più a Wagner (allora in piena attività: in quegli anni stava iniziando la composizione del Ring e del Tristan) o all’opera romantica tedesca, che al classicismo post gluckiano. Médée, trasformata in Medea, diventa qualcosa di diverso, di spurio, di inesatto, che tradisce l’originale e che di esso è solo la pallida ombra: Medea, soprattutto nel trattamento callasiano, è opera che pare scritta per soddisfare un pubblico aduso al dramma verista, ignaro della bellezza dell’equilibrio originario (assai banalizzato nelle continue riscritture apocrife) e dalla fruizione molto più superficiale: Medea diviene veicolo e strumento per il trionfo della protagonista perdendo, di fatto, la dignità di opera d’arte. La Callas indubbiamente ha complicato ulteriormente le cose: se da un lato la sua grande interpretazione (pur basata su fonti scorrette e deteriorate, oltre che su di un fraintendimento stilistico) ha scongiurato il completo assorbimento ad una estetica del tutto verista e ad una effettistica strillata in favore di una complessa costruzione drammatica giocata sulla scolpitura della frase e sull’accento tragico, dall’altro ha legato così intimamente a sé il ruolo della maga della Colchide, che ne ha, di fatto, inibito l’esecuzione alle tante che vi si sono cimentate dopo di lei e che hanno cercato, più o meno di imitarla. Il fantasma della Callas, il mito della sua Medea, è da sempre un ingombro per chiunque voglia interpretare il ruolo: non tanto nel confronto, quanto nel tabù, che un culto vedovile, ma ancora oggi insuperato, rinnova di continuo, di fare diversamente “dalla Maria”. La Sig.ra Meneghini ha reso un buon servizio all’opera di Cherubini, è innegabile, e la sua interpretazione (mi riferisco alla prima) resta nell'Olimpo della storia dell'opera, così come è innegabile che si trattasse di un servizio falsato dalle circostanze. Oggi non ci si può fermare all’idolatria del santino, o alla cura della vestale da loggione, si dovrebbe superare la paura degli spettri e avere il coraggio di ripensare a Cherubini e alla sua Médée, liberata da “fantasmi greci” e restituita alla sua vera dimensione, alla sua tensione drammatica, al suo equilibrio classico, alla sua densità sinfonica…e non fare come recentemente a Torino (e prossimamente a Cremona e circuito lombardo) riproporre ancora (nel 2010!) la “Medea della Callas”…senza disporre, peraltro, della Callas: con il doppio effetto di tradire nuovamente Cherubini (con l’aggravante oggi, diversamente da allora, di poter disporre di fonti sicure e accurate) e offendere la memoria del grande soprano, che neppure quando affrontò l’opera nel ’62, ormai sfasciata vocalmente, si ridusse ai livelli delle sue più recenti emulatrici, non tanto in termine di corettezza o freschezza vocale, ma di tecnica e comprensione di quel che si canta!

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sabato 17 luglio 2010

Le cronache di Carlotta Marchisio - Il barbiere di Siviglia alla Scala, seconda recita... nessuna novità!

Credevamo di esserci perse per Milano, lunedì sera, la sottoscritta e un paio di amiche sue. Abbiamo inizialmente preso le distanze da ogni responsabilità personale e incolpato sull’unghia la topografia, tant’è che ci siamo da subito chieste se per beffa del caso via Marconi fosse stata trasferita in via Dante e la stessa Via Dante, con una rotazione improvvisa di novanta e passa gradi, avesse preso il posto di via Marconi; quasi che il “Piccolo Teatro”, in pausa estiva, avesse deciso di ospitare una tantum un’opera scaligera. In altre parole, ci siamo domandate se questo Rossini in cartellone fosse stato epurato dal canto e rappresentato in forma di prosa, un po’ come successe nel ’92 al “Teatro delle erbe”. Purtroppo, va da sé, non c’è stato alcuno sconvolgimento cartografico né tantomeno una perdita improvvisa d’orientamento da parte nostra. Eravamo alla Scala e abbiamo assistito alla seconda recita del Barbiere di Siviglia…
Partiamo dai cantanti al debutto in questa produzione.
Inutile dirlo, l’artista che più di ogni altro ha catalizzato e continua a catalizzare l’attenzione su questo Barbiere è Juan Diego Florez, che mancava dal Piermarini dal 2007, eccezion fatta per un recente recital di successo. Diciamo subito che la prova del tenore peruviano mi è parsa buona, di gran lunga al di sopra di quella dei colleghi, vuoi per doti d’interprete, vuoi per sostrato tecnico non indifferente. Se il volume non è certo torrenziale, la zona centro-acuta/acuta rimane senza dubbio terreno di elezione, ancora fertile, per muoversi con disinvoltura sul pentagramma, tanto che le due puntature (chiusa della cavatina e del rondò) sono state eseguite e tenute con sicurezza degna di nota. Il fraseggio, pur inficiato dal diffuso “belato” di tanti tenori rossiniani del momento (Brownlee, giusto per rimanere nella stessa produzione, ne esibisce uno ancora più marcato), che finisce per produrre qualche intoppo nella potenzialità di colorare i versi, più che variegato è credibile ed efficace, poiché ben si addice alla parte dell’innamorato d’alto lignaggio. Insomma, complice la già menzionata dote scenica, il personaggio del Conte iberico viene fuori bene. Resta però qualcosa da dire sui segni d’usura, tipici del procedere della perfida linea del tempo, che tuttavia nulla vanno a togliere ai meritati applausi ricevuti. Sia chiaro, la forma fisica non c’entra nulla (gli ammiratori di Juan Diego possono con buona pace risparmiarsi la mano al cuore…). Ciò che non mi ha convinto appieno riguarda, con ogni evidenza, il coté vocale. Innanzitutto la respirazione. Nella cavatina e in particolare appena più avanti, nella canzone “Se il mio nome saper voi bramate”, il tenore è stato più volte in debito di fiato («che fido v’adoro» - «che sposa vi bramo»). Nelle ascese legate (la salita su «aurORA» o su «lo stral»), invece, capita che la voce si smagli leggermente e appaia un po’ tirata (a differenza, come detto, degli acuti di forza e a piena voce, ineccepibili), mentre al centro non è esente da qualche lieve stimbratura e calo d’intonazione, poco rilevanti ma da mettere in ogni caso in cronaca. Nel complesso, una prova considerevole.
Ci si chiede poi quali siano i motivi che spingono una sovrintendenza a scritturare dall’Ucraina cantanti censurabili come il Don Basilio di Alexander Tsymbalyuk. La voce è da vero basso slavo, che tradotto in termini contemporanei significa cavernosa e intubata. In alto non è mai a fuoco e per arrivarci il passaggio di registro è brado e risolto alla carlona. Nell’”aria della calunnia” i pochi passaggi con un minimo di ritmo vengono risolti con una piattezza di fraseggio che agghiaccia, mentre la lunga salita fino a «l’aria rimbombar!» è una sinestesia che rimanda immediatamente all’elettroencefalogramma di un comatoso. Un brutto momento, complice la pesantissima direzione di Mariotti.
Altro discorso per il veterano Alessandro Corbelli. Da parte sua ha invidiabili qualità attoriali che rivelano alla base uno studio approfondito e personale della resa scenica del “buffo”. Che sia la volta di Don Bartolo o di Don Pasquale, quando sale sul palco Corbelli è Don Bartolo o Don Pasquale. La mimica facciale rigogliosa di espressioni, l’intelligenza con cui pone la frase e la leggerezza sorniona del gesto ne fanno uno dei massimi interpreti di personaggi operistici di questa tessitura vocale. E però… Però c’è poco altro. Ed è per questo motivo che la sensazione l’altra sera è stata più quella di assistere a uno spettacolo di prosa che a uno di lirica. Perché non è accettabile che i recitativi vengano portati avanti senza pienezza di suono, senza un canto sfumato e modulato a seconda delle esigenze drammaturgiche del momento. Una gag all’opera diventa efficace se sa giocare con la miriade di variazioni potenziali che una voce impostata al canto può produrre. Altrimenti tanto vale acquistare un biglietto per “Il Pantalone impazzito” o “Le burle d’Isabella”, o per qualsiasi altra pièce della “Commedia dell’Arte”. Nell’aria del primo atto l’emissione, in quasi ogni zona del pentagramma, è apertissima, dal suono traballante, in special modo in acuto (evidenti segni di senescenza), mentre i gravi sono sonori ma ahinoi ancora parlati. Lo stesso Vassallo, che sul versante prettamente vocale è un Figaro volgare (pacchiani quegl’ «uno alla VOLTAHH» ripetuti nell’aria di sortita), spesso sguaiato in alto, privo di cavata e rotondità al centro e in basso (incredibile il primo duetto con Almaviva – “All’idea di quel metallo” – con interi versi scarniti, quasi mimati, da richiamare l’”effetto acquario”), presenta gli stessi problemi di Corbelli, anche più accentuati, nelle parti di raccordo.
Sugli altri cantanti si è già espressa l’amica Giulia, di cui condivido le riflessioni. Rimane tuttavia paradossale, ma pur degno di nota, che un solido comprimario come Ernesto Panariello (l’ufficiale) abbia il doppio della voce dei due tenori titolari.
La direzione di Mariotti ci è parsa ancora più ruvida della sera della prima, aggravata da un’orchestra in debito di protagonismo considerate le sparacchiate improvvise e impazzite dei corni e di quei fiati smorti, esagui e fissi (da pelle d’oca la svirgolata in tandem del clarinetto e del flauto nell’introduzione alla cavatina di Almaviva!). Il concertato nel finale primo è un suono indistinto, pesantissimo, senza sfumature, soverchiante tutti i cantanti, tanto da richiamare l’immagine di un indifferenziato preparato per polpette. Gelido e stopposo.
Un teatro prudentemente popolato di “incondizionali” ha espresso vivo consenso a tutti gli artisti, evitando il rischio di una seconda débacle che puntualmente non si è poi verificata. Ma uno spettacolo che regge appeso ai calzoni di un solo cantante e di un allestimento sulla soglia dei quarant’anni ci auguriamo sia di poco vanto per la direzione di un teatro come la Scala. E basti questo scambio di battute con un vicino di posto per rendere il senso ultimo del successo di questa produzione: «E’ davvero un brutto Barbiere». «Ha ragione, è il miglior spettacolo di questa stagione».


Gli ascolti

Rossini - Il barbiere di Siviglia


Atto I

Ecco ridente in cielo - Dino Borgioli (1929)

Una voce poco fa - Alda Noni (1951)

A un dottor della mia sorte - Carlo Badioli (1958)

Atto II

Ah! qual colpo inaspettato - Renée Doria, Alain Vanzo & Robert Massard (1960)

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giovedì 15 luglio 2010

Scusi, dottor Celletti

Gentile dottor Celletti,
oggi inizia la trentaseiesima edizione del festival della Valle d’Itria, il Suo festival, il suo “gioco”. Quel gioco che tutti i melomani vorrebbero avere perché teatri e “bar Sport” sono uguali e nei primi noi italiani siamo tutti direttori artistici e soprintendenti mentre nei secondi allenatori della nazionale e della locale squadra.
Voglio immaginare che nella Sua attuale dimensione in cui si trova stia parlando di canto con Francesco Lamperti o discutendo sui suoni aperti al centro con Emma Carelli, che continuo ad immaginare, risponderà con la partenopea partecipazione e protervia, che conosciamo e dalle registrazioni e dalla aneddotica.

Se è ammissibile verso un coelicola una raccomandazione: eviti sguardi su questa terra e su alcuni luoghi in particolare. Che gli insulti nei suoi confronti fiocchino ora come allora, quando stava in viale Montenero, non La interessa. Questi insulti Le dicono e ci dicono che la Sua presenza era ed è ancora, detto alla latina tanta. Ingombrante insomma. E tutte le volte in cui si vogliono insultare i sopravvissuti alle campagne dei potenti, come noi del corriere, ancora muniti di apparato uditivo, i termini sono sempre gli stessi “cellettiani”, “cellettini” , “cellettismo”. Però devo dirle che hanno coniato altri due termini “grisini” e “grisalidi”. Radice differente significante medesimo.
Non guardi nei teatri perché oggi più di allora: imperano registi e scenografi ignoranti e presuntuosi, che si arrogano il diritto di audizionare cantanti anche per ruoli di comprimariato anteponendo alle doti vocali quelle del phisique, maschile in primis, sprecando citazioni di Jung e Freud; hanno luogo, sede e laute prebende direttori artistici, che novelli Godefroy de Bouillon, vogliono culturalizzare i patri pubblici infangando e misconoscendo, buona o cattiva che sia, la tradizione musicale del paese che, comunque, canto e melodramma ha creato, operano direttori d’orchestra che poco sanno dirigere e nulla concertare, circolano con consulenti filologici, che si sdegnano di suoni immascherati; taccio di agenti, critici e cantanti, all’esercizio quotidiano hanno tutti sostituito tante ore di feisbuk.
Tenga più lontano che mai lo sguardo da Martina Franca.
Lo sa che a Martina non tutto era perfetto, a partire da compagini orchestrali mediocri, da mezzi talvolta limitati ed anche da scelte vocali che avrebbero potuto essere migliori. Alcune, però, furono azzeccatissime come Mariella Devia Elvira dei Puritani, che ha dato alla signora un personaggio nel quale è stata interprete di riferimento oltre che, come sempre esimia cantante. Oggi, ossia quest’anno alla signora sarà conferito il premio Rodolfo Celletti e mi auguro che accanto al nome di Jolanda Magnoni venga fatto il Suo, dottor Celletti.
Altre volte mancò il coraggio di scelte che potevano essere ancor più estreme di quelle fatte come Pirata e Semiramide integrali, come nel Barbiere dinanzi al rinunciatario Raffanti sul rondò si sarebbe potuto affidarlo alla Rosina di turno, riproponendo la prassi della Righetti Giorgi nel 1817 a Bologna. Erano queste le scelte, che stimolavano i giovani di allora, e oggi attuali signore e signori di mezz’età, figli della Rossini renaissance. Erano queste le idee nel proporre l’opera che hanno, con sommo dispiacere dei critici a Lei successivi, formato un pubblico e contro le quali varie crociate sono state bandite e se ne bandiranno ancora.
Proprio per queste idee proseguiamo e persistiamo, anticipatamente le rappresentazioni, nel consiglio di non volgere lo sguardo verso Martina Franca. Perché a Martina Franca quando si propone Handel lo si deve fare per essere ancora Martina Franca, contro ogni stilema baroccaro ossia affidando Bertarido ad una voce femminile in assenza di castrati. Solo in questo modo si è ancora Martina Franca dove erano d’obbligo, contrariamente a quanto allora accadeva nei maggiori teatri e dai maggiori direttori esecuzioni integrali, inserimenti e varianti degli esecutori, rispetto o tentativo dello stile coevo alla nascita e rappresentazione del titolo. Insomma negli anni Suoi Rodelinda se la sarebbero disputata Lella Cuberli o Mariella Devia e Bertarido Martine Dupuy. Lo scrivo e lo ricordo così regalo a qualcuno la possibilità di tacciarmi di passatismo e di ricavarsi il proprio spazietto mal dicendo di quelle o di altri cantanti, come se la cosa potesse far dispetto ad un coelicola e ad un vecchio contadino bergamasco.

Suo affezionatissimo Donzelli


Gli ascolti

Bellini - Il pirata

Atto I


Ascolta! Nel furor delle tempeste - Giuseppe Morino (1987)

Bellini - I puritani

Atto II


Oh, rendetemi la speme...Qui la voce sua soave...Vien diletto - Mariella Devia (con Giorgio Surjan & Luigi De Corato - 1985)

Paisiello - Nina, o sia la pazza per amore

Atto I


Il mio ben quando verrà - Lella Cuberli (1978)

Rossini - Semiramide

Atto II


In sì barbara sciagura...Sì, vendicato il genitore - Martine Dupuy (1986)

Rossini - Stabat Mater

Inflammatus et accensus - Maria Dragoni (1987)

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